Tradì l’ordine della mafia: “Tacere è bene, parlare è male”, di Rino Giacalone
Tradì l’ordine della mafia: “Tacere è bene, parlare è male”
di Rino Giacalone
Fonte: Facebook.com
Il delitto di Mauro Rostagno 25 anni dopo
Mauro Rostagno non l’ho conosciuto, non ho mai lavorato con lui, non ho condiviso con lui esperienze politiche, di lotta sociale e nient’altro di tutto quello che lui ha saputo fare, non sono destinatario o possessore di qualsivoglia eredità su retroscena del suo omicidio, non faccio nemmeno parte di quella “fiera delle vanità” che ogni tanto si allestisce attorno al suo ricordo. Occupandomi della cronaca nera e giudiziaria della provincia di Trapani, la mia bellissima terra sporcata dalla mafia, sono tante le persone ho dovuto imparare a conoscere leggendo gli atti giudiziari riguardanti le loro morti violente. Purtroppo in questo “maledetto” elenco c’è anche Mauro Rostagno, ucciso a Lenzi di Valderice, provincia di Trapani, il 26 settembre del 1988. Venticinque anni addietro.
Una cosa che mi piace dire con assoluta fermezza, perché di questo sento di avere precisa certezza al di là della conoscenza e della frequentazione personale che non ci sono state, è quella che il 26 settembre del 1988 Mauro Rostagno è stato ucciso dalla mafia trapanese. Così sgombriamo subito il campo dalle miserabili storie di corna, di spacci di droga, di tradimenti politici all’ombra del delitto del commissario Calabresi, affermando a chiare lettere che la mafia esiste e non da ora, e questo tanto per ricordare anche che qualcuno andava sostenendo, anche tra i magistrati di quegli anni ‘80, che il delitto Rostagno non poteva essere di mafia perché a Trapani la mafia non c’era, e invece c’era nel 1988 e anche prima, è vissuta in questi 25 anni e oggi anche se la indicano come sommersa solo chi non la vuol vedere non la vede, è una mafia che si è trasformata e si è infiltrata dentro le nostre quotidiane vite, dopo essersi tolta di torno personaggi a lei scomodi come Rostagno. Dico subito un’altra cosa. Non sono tra quelli che vedono come scenario del delitto trame oscure, intrighi, gialli internazionali, spie, traffici di armi, speculazioni internazionali. Non ho titubanza a dire che in un determinato periodo sono stato giornalisticamente dietro a queste piste, ma il processo sul delitto Rostagno cominciato in Corte di Assise a Trapani il 2 febbraio del 2011 e tutt’ora in corso, prossima udienza a metà settembre, ha sgombrato il campo da queste ipotesi. O meglio tutto quello che sembrava certo anzi certissimo di colpo si è palesato profondamente incerto. Non si vedono in modo limpido questi scenari dietro l’omicidio Rostagno ma non dico che questi traffici e queste commistioni nel trapanese non sono esistite. Anzi probabilmente esistono ancora. Quello che nel processo si è sentito raccontare a chiare lettere è il fatto che Mauro Rostagno è stato ucciso perché non era a 100 passi alla mafia, come fu per Peppino Impastato a Cinisi, ma era a cinque passi dalla mafia, il suo editore, il proprietario della tv dove lavorava, Rtc, l’imprenditore edile Puccio Bulgarella, per dirne una, non campata in aria, era uno che mentre Rostagno leggeva i suoi editoriali nei tg, sedeva a tavola in quegli anni con Angelo Siino il ministro dei lavori pubblici di Toto’ Riina. E Puccio Bulgarella, pace all’anima sua, deceduto di recente, indagato anche lui nel delitto per false dichiarazioni al pm, più di una volta, assente Rostagno dalla redazione, andava a consigliare prudenza agli altri giornalisti, solo che questi certi ricordi non si sono accesi al momento opportuno, ma qualcuno degli ex collaboratori di Rostagno, se ne è ricordato in Tribunale quando oramai Bulgarella è scomparso e niente può più venire a dire.
A Trapani in quegli anni 80, quando Rostagno faceva i suoi interventi dagli schermi di Rtc, o mandava i suoi giovani giornalisti in giro con telecamera e microfono tra la gente, quando lui andava intervistando Paolo Borsellino, Sciascia, Cimino, le madri che avevano visto i loro figli morire per droga o perché colpiti dalla criminalità mafiosa, quando andava in Tribunale a fare le pulci al processo per il delitto del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, dove era imputato il capo mafia di Mazara Mariano Agate, che all’epoca aveva ordinato ai suoi scagnozzi liberi di dare completa ospitalità al super latitante Totò Riina, la mafia trapanese a quell’epoca era ben salda, c’erano liberi i suoi più pericolosi killer che costituivano i gruppi di fuoco di Cosa nostra. I mafiosi entravano nei salotti, frequentavano le segreterie politiche, riscuotevano la quota associativa consegnata a Cosa nostra dagli imprenditori senza bisogno di tante intimidazioni. Come ha spiegato l’ex dirigente della mobile di Trapani Giuseppe Linares durante la sua audizione in Corte di Assise, Rostagno era circondato dai lupi e i lupi lo hanno azzannato. In quel 1988 a Trapani la mafia si trasformava, i mafiosi diventavano loro stessi imprenditori, mafiosi riservati venivano eletti nei consigli comunali, entravano nei consigli d’amministrazione di società, riuscivano e riescono ancora oggi a garantire per le proprie imprese canali di pubblico finanziamento. La presenza di Rostagno a Trapani, il suo lavoro di giornalista, ovviamente suscitava preoccupazioni. Ai mafiosi non andava giù che qualcuno potesse certificare la loro esistenza. E Rostagno questo faceva. In Corte di Assise abbiamo ascoltato come lo appellava don Ciccio Messina Denaro, il patriarca della mafia del Belice, il boss di Castelvetrano che ha ceduto a suo figlio Matteo il bastone del comando. Rostagno per don Ciccio era una camurria, questo si diceva di lui, “sta mafia sta mafia sempre sta mafia” andava ripetendo scocciato. Lui, Rostagno, che come ha testimoniato sua figlia Maddalena al processo voleva fare solo il “terapeuta” di una città che preferiva non vedere non sentire e non parlare. Una città che doveva sapere custodire misteri e segreti, come quelli sulla massoneria deviata della Iside alla quale Rostagno aveva mostrato un certo interesse. A conoscere, a sapere molto di più. Iside 2 è una loggia concepita secondo gli schemi della P2 di Gelli.
Ci sono cose che accomunano tanti dei delitti di mafia: depistaggi, indagini sporcate (mascariate), il fatto che si trattava di persone oneste la cui coscienza civile è stata dopo la morte offesa, vilipesa; c’è stato un coro sociale costituito in maniera folta da quelli che pensano che tra mafia e antimafia possa esistere una posizione terza, super partes cosa che è risultata utile a fare nascondere meglio la mano degli assassini mafiosi e quindi a far stare una parte della società dalla parte dei mafiosi, altro che terzietà. Come accadeva in quegli anni in tutta la Sicilia indagare su un delitto di mafia significava dovere cercare in un pagliaio e spesso il pagliaio era così fitto che alcuni investigatori si trovavano ad un certo punto a dire che “era inutile indagare”. Dinanzi gli investigatori si trovavano piste aggrovigliate. Tutto questo è sempre avvenuto in uno scenario dove il potere mafioso era sostanzialmente accettato dalla società, un potere accettato quanto temuto. Tutto questo è successo tante volte a Trapani, per il magistrato Ciaccio Montalto, per il giudice Alberto Giacomelli, è successo per i morti del 2 aprile di Pizzolungo quando dinanzi ai morti straziati dal tritolo di Cosa nostra, a Trapani il sindaco andava dicendo che la mafia non esisteva. Nel caso del delitto di Mauro Rostagno pagliai e piste aggrovigliate non sono mancati certo, c’è stato anche quel coro sociale che è andato anche oltre, impedendo per anni di fare luce sull’omicidio, “ma quando mai, non è stata la mafia ad ucciderlo” disse anche il procuratore della Repubblica Coci. Mauro Rostagno non ha nemmeno conquistato l’aureola di eroe, perché non doveva essere un eroe, non doveva essere ricordato a Trapani come un eroe, doveva essere dimenticato, e più in fretta degli altri morti ammazzati, doveva risultare che era stato ucciso magari per qualche schifezza, la droga, le corna, i tradimenti, le gelosie, per il suo passato che non era nemmeno oscuro ma lo si fece diventare buio. Ecco perché sono trascorsi 22 anni per arrivare al processo, perché la sua morte celebrata con quei funerali affollati doveva sparire presto dalla memoria della gente, e nella memoria della gente doveva entrare altro sul conto di Rostagno, andava anche lui “mascariato”. Perché tutto questo? Perché Trapani ucciso Rostagno doveva riprendersi la sua normalità, perché Trapani doveva riprendere ad essere tranquillo crocevia di tante cose, come era stata, intrecci tra mafia, massoneria deviata, servizi segreti italiani e di mezzo mondo, traffici di droga, armi, d’altra parte stiamo parlando della terra che oggi risulta molto accogliente per Matteo Messina Denaro, qui è super protetto il super latitante che impersona la barbara violenza assassina e stragista, ma anche la capacità di fare impresa e di tenere i legami con la politica che conta. A Trapani ha detto qualche anno addietro il pentito Giuffrè c’erano i cani attaccati nel senso non si facevano tante indagini e sul delitto Rostagno fu così: il capo della Mobile Germanà che subito guardò alla mafia vide prevalere sulla sua tesi quella dei carabinieri cioè nulla. A leggere gli atti del processo è lungo l’elenco degli errori investigativi fatti dai carabinieri, in aula il generale Montanti all’epoca comandante del nucleo operativo è venuto a ripetere che le cartucce sovracaricate era una abitudine dei cacciatori, anche quella di Vito Mazzara il super killer della mafia trapanese imputato nel processo per il delitto Rostagno assieme al capo del mandamento Vincenzo Virga. A processo cominciato si sono scoperte carte che nessuno conosceva, come le deposizioni di Rostagno a proposito dei suoi contatti con soggetti della massoneria trapanese. Carte che erano negli armadi dell’arma e che lì chiusi erano rimaste. Trapani doveva restare ed è rimasta qualcosa di marginale nel panorama criminale, Trapani doveva riprendere la sua normalità in quel 1988 e oggi sappiamo il perché: oggi contro i mafiosi, anche contro i boss che restano latitanti, nei confronti di loro complici e prestanome, Procure e forze dell’ordine stanno infliggendo duri colpi, sequestri e confische di beni, si sono scoperte casseforti piene di denaro sporco di sangue, casseforti in mano ai super fidati del boss Messina Denaro. Soldi accumulati profittando del fatto che i poche che investigavano quando ci riuscivano dovevano occuparsi solo di delitti e non di altro. In questi 25 anni la mafia si è tolta di mezzo gli avversari, ieri li ammazzava oggi magari riesce a farli trasferire soprattutto se si tratta di investigatori bravi, e si è arricchita. Se proprio bisogna ricordare un passaggio del processo è quello quando a deporre è stato chiamato un ex esponente politico del Pci, l’avvocato Salvatore Maria Cusenza.
Cusenza ha raccontato della Trapani di quegli anni, che non si discosta molto dalla Trapani di questi anni, dove iniziavano a mischiarsi nelle dinamiche la mafia e la politica, tanto che oggi non si coglie nemmeno più una qualsiasi line di confine. Rostagno voleva “scuotere la città dal suo perbenismo”, “scardinare il sistema di potere antidemocratico che la governava”. “Si lavorava – ha ricordato Cusenza – ad un progetto politico preciso, l’Altra Trapani, pensavamo alle elezioni, non c’erano nomi pronti da candidare ma idee…Mauro Rostagno poteva essere il candidato sindaco…poteva diventare il sindaco di Trapani”. Allora come oggi il nodo a Trapani resta l’informazione. A Salvatore Cusenza è stata fatta anche la domanda su come l’informazione locale affrontava il tema della mafia: “La più coraggiosa era Rtc ma in quella stagione così tragica tutti si occupavano di mafia, il punto di differenza – ha detto – era determinato dal ragionamento su quanto accadeva che veniva fatto da Rtc e da Rostagno”.
Quando fu ucciso Mauro Rostagno stava preparando una nuova trasmissione “Avana “ doveva essere il titolo, aveva registrato già la sigla, aveva già un menabò pronto, nel processo in corso a Trapani è entrata per volontà della parte civile, attraverso l’avv Carmelo Miceli che rappresenta Chicca Roveri e Maddalena Rostagno, una mole di carte, appunti, fotocopie di articoli, gli argomenti evidenziati erano relativi alle mafie ed ai mafiosi, ai traffici di armi, agli intrighi della massoneria, in quelle carte Rostagno aveva scritto la mappa allora impronunciabile di Cosa nostra trapanese , c’erano nomi che già dicevano qualcosa o altri allora sconosciuti e che si scopriranno poi essere parte del gotha mafioso. Tra le carte reportage sul conto di Licio Gelli, gli articoli sullo scandalo della ricostruzione nel Belice dopo il terremoto, articoli su un faccendiere diventato famoso da quegli anni in poi, Aldo Anghessa, un soggetto trovato socio in traffici di armi con mafiosi trapanesi, con la famiglia mafiosa dei “Minore” che nella Trapani 2013 non è detto che non torni in auge, e su un imprenditore palermitano blasonato, il conte Cassina il cui cognome conduce al potente Vito Ciancimino, e poi sulle banche e sui “soldi della mafia”, a Trapani regnava la Banca Sicula dei D’Alì il sottosegretario all’interno nel 2001 e che aveva già in quel 1988 i Messina Denaro come propri campieri. C’era segnato il nome di un ministro, Vittorino Colombo con un trattino e poi scritto Castelvetrano. Ancora il nome di un altro ministro Aristide Gunnella, di massoni trapanesi e palermitani come Pino Mandalari il commercialista di Riina. Nomi, fatti circostanziati, rileggendo editoriali e appunti di Rostagno sembra leggere la cronaca di oggi sulla mafia di Matteo Messina Denaro. Non è un caso che l’ordine di morte partì proprio da Castelvetrano, da un giardino di aranci in un terreno di Francesco Messina Denaro dove si svolse il summit per decidere la morte di Rostagno.
Ecco il processo una cosa l’ha già assodata, questo patrimonio di conoscenza per 22 anni è stato ignorato e calpestato, si è perduto tempo nell’individuare matrice, mandanti ed esecutori del delitto Rostagno, cercandoe chiavi di casseforti, fax, ci si è chiesti perché Rostagno avrebbe dovuto avere dei dollari dentro la sua borsa al momento del delitto, i carabinieri questo andavano dicendo nelle ore del delitto ma i dollari non c’erano, non ci sono mai stati in quella borse, c’era invece una agenda che non si è più trovata. Ma di questo non si parla, hanno cercato per anni una vhs forse mai esistita.
Il processo in corso non è un processo che individua gli imputati per via del movente. Il movente non c’è a dibattimento, c’è su questo una indagine stralcio in corso. Ci sono imputazioni che derivano da circostanze precise. Contro Vincenzo Virga le accuse di collaboratori di giustizia che dicono che l’ordine di uccidere Rostagno arrivò a Virga da Francesco Messina Denaro. Contro Vito Mazzara la comparazione del modus operandi dei killer che a cominciare dall’uso di cartucce sovracaricate e prodotte in modo artigianale, si sovrappone alle scene di altri delitti di mafia per i quali Vito Mazzara sconta condanne definitive all’ergastolo.
Ma il movente si può scorgere lo stesso. Mauro Rostagno è morto perché dava fastidio a Cosa nostra hanno raccontato i pentiti. Perché in un modo o in un altro i suoi interventi dagli schermi della tv locale Rtc erano carichi di sfida contro la mafia, di ironia, ma non solo, anche disprezzo, irrideva un sistema politico che si faceva facilmente corrompere e che lasciava le città in abbandono. Veniva attaccata quella politica che parlava con la mafia e con la massoneria che funzionava da stanza di compensazione. Rostagno aveva spezzato tanti silenzi. Alla mafia non poteva certo andare bene se l’ordine diffuso era, e resta anche oggi, “tacere è bene, parlare è male”. Il delitto Rostagno per 22 anni è rimasto qualcosa di vago, la pista della mafia è finita «sbeffeggiata», gli interventi in tv di Rostagno contro mafia, massoneria, politici corrotti sono rimasti non considerati, i carabinieri che indagavano hanno detto che mai erano andati a sentirsi le registrazioni.
Come fu deciso di ucciderlo. Lo ha raccontato Angelo Siino il cosidetto ministro dei lavori pubblici di Totò Riina. Stiamo parlando di verbali del 1997. Don Ciccio Messina Denaro era parecchio arrabbiato: Puccio Bulgarella, imprenditore ed editore di Rtc, non solo era in «debito» nel pagamento del «pizzo» per alcuni lavori ottenuti in appalto, «la classica messa a posto» spiegò Siino, ma era pure il proprietario dell’emittente televisiva che «ospitava gli interventi di Rostagno. Siino ha detto di avere parlato a Bulgarella questi si era difeso dicendo che Rostagno era un cane sciolto, difficilmente controllabile. Quando il delitto fu commesso accadde che durante una riunione di mafia a Mazara qualcuno chiese a Mariano Agate perché Rostagno fosse stato ucciso, la risposta fu, questione di corna e da allora il movente per tutti doveva essere questo. Ed è stato questo. E ancora oggi in Corte di Assise la difesa degli imputati prova a fare rientrare nel dibattimento questo tam tam.
Altro che corna. In quel 1988 la mafia aveva fatto balzi in avanti enormi, nel processo questo è venuto a dirlo il capo della mobile Giuseppe Linares che nel 2008 riaprì le indagini fermando la richiesta di archiviazione che i pm a Palermo erano pronti a firmare. Nel 1988, ha ricordato Linares, era libero il gotha non solo trapanese ma anche siciliano di Cosa nostra, ed i gruppi di fuoco erano bene operativi. Mentre crescevano gli affari e le alleanze. La mafia diventava un tutt’uno con l’imprenditoria e la politica, il territorio veniva assalito dalle speculazioni che nessuno ostacolava, la gestione dei rifiuti, il mercato dell’acqua sono diventati e restano affari per fare grande lucro. A Trapani si parlava poco di mafia. Rostagno aveva rotto l’andazzo, “era un giornalista fuori dal coro” ha detto l’ex capo della Mobile. “Rostagno era circondato dai lupi e i lupi lo hanno azzannato”. Linares ha ricordato come già “nel rapporto della Mobile del 1988 venivano citati gli editoriali di Rostagno sui cavalieri del lavoro di Catania, interessati a lavori pubblici eseguiti a Trapani, lui ne parlava senza che ancora la magistratura avesse fatto nulla, i riscontri giudiziari arriveranno anni dopo il suo assassinio”. O ancora, si interessava di come venivano fatti certi smaltimenti di rifiuti, un affare che era nelle mani di Vincenzo Virga.
Tra gli editoriali finiti nel processo ce ne è uno emblematico, “qualche mio caro amico mi ha consigliato di abbassare i toni perchè questo lavoro rischia di fare male alla Sicilia e alla comunità, io continuo a pensare e a dire che la migliore pubblicità che si può fare alla Sicilia è quella di affermare che la mafia va abbattuta». Quando fu ucciso Rostagno ci furono sindaci che non ne volevano sapere di occuparsi dei funerali, la sera del 26 settembre 1988 il Consiglio comunale di Trapani era riunito e il delitto non fermò i lavori.
Ultimo atto del processo prima della pausa estiva è stato quello di far tornare a testimoniare Chicca Roveri la compagna di Mauro Rostagno. Poco prima il conferimento di una ulteriore perizia dopo che la super perizia balistica non ha sciolto i dubbi a proposito delle responsabilità del killer Vito Mazzara.
Questo processo non è diverso dagli altri perché la nostra normativa penale relativa alla celebrazione dei processi è una norma che con l’andar del tempo è stata condita da grandi “aggiustamenti” che hanno introdotto un garantismo per gli imputati che se corretto nelle sue basi originarie via via è diventato sempre di più esasperato ed esagerato, e oggi succede che le vittime del reato, i familiari che si costituiscono parte civile, finiscono quasi col diventare gli “imputati” per i quali è stata scritta una sentenza di condanna. Per le vittime oggi le norme processuali non riservano aspetti di garantismo. L’imputato senza risorse è difeso a spese dello Stato. La vittima parte civile senza risorse non ha alcuna forma di aiuto. Chicca Roveri si è ritrovata dinanzi i difensori degli imputati che le hanno fatto domande sui rapporti personali tra lei e il suo compagno. A Chicca Roveri è stata chiesta ragione degli assegni che firmava e consegnava agli addetti alla Saman, lei ha spiegato che erano assegni che servivano alla gestione della comunità, che venivano presi, portati in banca e monetizzati, e tra i beneficiari di quegli assegni sono usciti i nomi di coloro i quali nel tempo sono stati accusati di poter avere ucciso Rostagno, o che sono stati indicati come “amanti” della stessa Chicca, tanto amanti da meditare e compiere il delitto: “Con due milioni non si paga un sicario” ha risposto ad un certo punto, risentita Chicca Roveri, all’ennesima domanda delle difese…”.
“Oggi ho detto che Trapani è una città bruttissima, oggi ho detto che mi facevano domande stupide, oggi ho detto che Marrocco e Cammisa non sono morti e che le domande le potevano fare a loro, volevo dire che è sempre facile per i maschi infierire sulle donne. Oggi mi sono state rifatte le stesse domande sul mio rapporto d’amore con Mauro da persone così lontane da noi, dalla nostra visione del mondo, che pensano che avere 2 stanze vuol dire non amarsi. Oggi è stata una bruttissima pagina della nostra disgraziata Italia, fatta di persone che ci vengono a fare la morale e difendono mafiosi”. Questo lo sfogo finale che Chicca Roveri a fine udienza ha fatto fuori dall’aula.
Il 26 settembre del 1988 Mauro Rostagno è stato ucciso dalla mafia trapanese, 14 giorni prima ci fu l’omicidio a Trapani di un giudice, in pensione, il giudice Alberto Giacomelli che anni prima aveva confiscato una proprietà di Riina, Rostagno fu ucciso 24 ore dopo il delitto di un altro giudice a Caltanissetta, Antonio Saetta, che doveva presiedere il maxi processo di appello, Rostagno è stato ucciso mentre dinanzi a quelle e ad altre morti si diceva che la mafia non c’era.
Il protagonista di questa storia non è morto, è vivo, vive con noi, con chi vuole vedere la mafia battuta e l’emarginazione sociale sconfitta, le povertà annientate, l’informazione libera e la democrazia e la libertà restare inviolate.
Rino Giacalone
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