Trecento vittime innocenti in mezzo secolo. Nove omicidi su dieci sono senza colpevoli – di Giuseppe Baldessarro
Trecento vittime innocenti in mezzo secolo
Nove omicidi su dieci sono senza colpevoli
di Giuseppe Baldessarro
Fonte: inchieste.repubblica.it
Articolo del 2 maggio 2013
L’assenza di grandi collaboratori di giustizia, le difficoltà nelle indagini per la diffusa omertà, le pressioni delle n’drine, hanno reso la Calabria una terra dove è impossibile restituire verità e giustizia alle tante vittime di mafia di cui non si sa nemmeno l’esatto numero.
Un delitto si scopre solo nei primi due giorni, spiegano gli investigatori.
Nel 50 per cento dei casi sono riusciti a definire solo il contesto nel quale sono maturati.
REGGIO CALABRIA – “Un omicidio di ‘ndrangheta lo puoi risolvere soltanto nelle prime 24-48 ore. Altrimenti è impossibile. Se sei fortunato, se ne riparla dopo dieci anni, se salta fuori qualche pentito, altrimenti niente”. Nicola Gratteri sa bene come vanno le cose in Calabria, dalla sua parte ha l’esperienza di una vita passata nella magistratura inquirente reggina. E tanto gli basta per sapere che il lavoro investigativo delle prime ore è determinante. Non è detto che si possa arrivare all’assassino in maniera diretta. Ma è solo in determinati frangenti che si possono mettere assieme gli elementi necessari per avviare un’inchiesta che possa approdare a definire scenari, contesti, interessi o comunque a risultati apprezzabili. Non è semplice. Perché le variabili sono tante, compresa quella umana. Avere sul posto una buona polizia giudiziaria non è scontato, trovare collaborazioni immediate è ancora più difficile. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria sa bene che si gioca tutto sul tempo. Sul tempo e sugli uomini giusti.
Secondo i rapporti di “Libera”, in Calabria negli ultimi cinquant’anni ci sono state 291 vittime innocenti della ‘ndrangheta. Di queste almeno 200 negli ultimi 25 anni. Nel 90% dei casi i loro assassini non hanno un nome. E solo nel 50% di omicidi certamente mafiosi si è stati in grado di definire soltanto il contesto nel quale sono maturati, ma senza individuare killer e mandanti. Una strage. A cui vanno aggiunte tuttavia le “lupare bianche” di gente sparita nel nulla e poi tutti gli altri delitti, non riconducibili in maniera diretta alla criminalità organizzata. Una mattanza infinita di uomini e donne, di famiglie, destinate in larga misura a non avere giustizia.
Scorrendo l’elenco dei casi irrisolti, pubblicato sul libro “Dimenticati” (Castelvecchi) di Danilo Chirico e Alessio Magro, si trova di tutto. Donne e uomini, bambini e anziani. E poi ancora: studenti, imprenditori, esponenti delle forze dell’ordine, magistrati, gente comune. Spesso persone capitate al posto sbagliato nel momento sbagliato. In Calabria si è morti per una denuncia, per non essersi piegati, per ribellione o per caso. Senza soluzione di continuità. E tanti “casi” sono diventati numeri buoni solo per le statistiche, fascicoli che contengono soltanto i rilievi della scientifica, i referti del medico legale e i risultati delle autopsie.
Non è un caso che a distanza di 20 anni dalla seconda guerra di ‘ndrangheta, esplosa a Reggio Calabria tra il 1986 e il 1991, non sia possibile stabilire il numero esatti di morti ammazzati. Si discute di agguati costati la vita a diverse centinaia di morti, ma che in alcuni casi non sono stati inquadrati come vittime dello scontro a fuoco tra clan. Errori delle “squadre di fuoco”, presunti fiancheggiatori, parenti lontani di affiliati o anche solo conoscenti. Per anni si è ucciso sulla base di un sospetto, di un’intuizione criminale o, con le vendette trasversali, per infliggere dolore gratuito. Senza parlare poi di criminali comuni che approfittando delle faide mafiose e del caos per eliminare qualche concorrente scomodo o levarsi qualche sassolino dalla scarpa. In quegli anni le vittime della ‘ndrangheta sono state per alcune statistiche poco più di seicento, per altre fino a ottocento.
I processi che ne sono seguiti (da “Olimpia” a “Valanidi”) hanno ricostruito solo meno della metà dei delitti commessi nel quinquennio. Una mole di lavoro imponente da affrontare con forze insufficienti a discapito della qualità degli accertamenti. Lo stesso vale quando gli investigatori sono concentrati su inchieste particolarmente “delicate”. Indagini “scottanti” che catalizzano l’attenzione degli inquirenti a discapito di episodi catalogati come “minori”, e affidati a personale meno esperto. E’ un fatto, purtroppo. Che si traduce in richieste di archiviazione. Faldoni che nessuno, strangolato dalle contingenze di terre di frontiera come la Calabria, avrà più voglia di riaprire. Col rischio di scoprire insipienze, superficialità, sviste, talvolta macroscopiche.