Giorgio Boris Giuliano. Un uomo fra uomini di Stato di Francesco Trotta

Giorgio Boris Giuliano. Un uomo fra uomini di Stato
di Francesco Trotta

Articolo del 21 Luglio 2014 da artspecialday.com

di Francesco Trotta per 9ArtCorsoComo9

Quello che era giusto fare. Questo faceva il poliziotto Boris Giuliano. Non credeva di fare nulla di eccezionale. Per questo era bravo. Nonostante la mafia ammazzasse a volto scoperto. E puntasse il grilletto al cuore dello Stato. Era nato in provincia di Enna, in un altro cuore, quello della Sicilia. E da onesto siciliano aveva scelto subito da che parte stare.

Arrivò a Palermo, dopo la strage di Ciaculli, nel 1963. Aveva deciso così. Fu nominato capo della squadra Mobile. Era un “segugio”, con un fiuto particolare per i fatti di mafia. Era soprannominato “lo sceriffo”. Uomo colto, aveva un’ottima conoscenza dell’inglese e fu l’unico poliziotto italiano scelto per la scuola dell’FBI a Quantico, in Virginia. Aveva dei baffoni neri spioventi che lo rendevano riconoscibilissimo e gli davano quell’aria familiare tipica di un uomo buono. Lo era veramente. Racconta suo figlio Alessandro al giornalista Saverio Lodato: “Mio padre, prima che essere poliziotto, fu un uomo. Ricordo che quando l’equipaggio di qualche volante di pattuglia nei quartieri diseredati di Palermo si imbatteva in un bambino che si era perduto, mio padre, mentre erano in corso le ricerche, spesso assai difficoltose, dei genitori, anziché tenerlo in un ufficio di polizia, lo portava a casa nostra e lo faceva giocare con noi che eravamo suoi coetanei”. Casi eccellenti avevano occupato la sua scrivania: dall’uccisione del procuratore Pietro Scaglione fino ai cugini Nino e Ignazio Salvo, passando per la scomparsa del giornalista de “L’Ora” Mauro De Mauro, l’uccisione del giornalista Mario Francese, l’assassinio del carabiniere Ninni Russo o dell’esponente Dc Michele Reina. Poi l’indagine su alcuni assegni ritrovati nelle tasche del cadavere del capomafia Di Cristina, collegati a Michele Sindona, il banchiere criminale che si divideva fra Italia e Stati Uniti. Giuliano aveva deciso allora di incontrare Giorgio Ambrosoli, il liquidatore che stava seguendo il caso Sindona e della sua banca. Pochi giorni dopo, l’11 luglio del 1979, Ambrosoli veniva ucciso.

Boris Giuliano viene spesso descritto come l’ultimo dei poliziotti all’antica, duro con i più forti, giusto con i più deboli. Ma al tempo stesso, un funzionario di Stato moderno. Erano ancora lontani i tempi del pool antimafia, delle indagini bancarie e dei pentiti. Eppure Giuliano comprese come stesse cambiando Cosa Nostra e quali fossero i suoi affari. Palermo alla fine degli anni ’70 stava diventando punto nevralgico nello scacchiere del narcotraffico. Cosa Nostra faceva i miliardi con l’eroina. L’oppio arrivava dalla Thailandia, dal Laos e dalla Birmania, e veniva raffinato proprio nel capoluogo siciliano per poi prendere il volo verso gli States. Era questo il “Teorema Giuliano”. Teorema che fu confermato dai fatti. Prima il ritrovamento di due valigette contenti mezzo milione di dollari all’aeroporto di Palermo. Poi, lavorando in sinergia con la DEA, il sequestro di una partita di eroina all’aeroporto J.F. Kennedy di New York. Denaro e droga che facevano parte dello stesso disegno criminale di Cosa Nostra. Infine la scoperta sul lungomare di Romagnolo, in via Pecori Giradi, di un appartamento in cui c’erano quattro chili di eroina, un arsenale militare e la patente contraffatta con la foto di Leoluca Bagarella.

La strada di Boris Giuliano aveva appena incrociato quella di uno dei più pericolosi capi e killer di Cosa Nostra, nonché cognato di Totò Riina. Dopo quell’episodio al 113 arrivarono numerose telefonate anonime: “Giuliano morirà”. Non serviva avere chissà quale tipo di intelligenza per intuire che il poliziotto aveva intralciato i piani di Cosa Nostra. Eppure fu lasciato solo. In quella situazione di solitudine tipica degli uomini bravi, coraggiosi e destinati ad essere eliminati. Giuliano lo capì, come lo capirono o lo avrebbero capito gli altri condannati a morte dalla mafia. Portò la sua famiglia ad Enna, dicendo che l’avrebbe raggiunta una settimana dopo.giuliano3_300bord

La mattina del 21 luglio 1979 Giuliano uscì dal portone di casa qualche minuto prima delle otto. Si recò al bar dove ordinò un caffè. Le comunicazioni registrate alla centrale di Polizia raccontano: “Attenzione, sparatoria in Via Di Blasi, Bar Lux”. “Trattasi di un omicidio, la vittima è un avventore”. Poi la volante 25 conferma: “Centrale, la vittima era armata. Un attimo, un attimo… Pronto centrale… è il dottor Giuliano. Ripeto: hanno ammazzato Boris Giuliano”.

Sette colpi di pistola. Tutti sparati mentre era di spalle. Solo così si poteva colpire un bravo poliziotto abile con la pistola. Un atto di codardia da parte di Leoluca Bagarella, che verrà condannato come esecutore materiale dell’omicidio Giuliano.

Nell’ordinanza di rinvio a giudizio per il maxiprocesso, il giudice Paolo Borsellino scrisse: “Senza che ciò voglia suonare come critica ad alcuno, se altri organismi dello Stato avessero assecondato l’intelligente opera investigativa di Boris Giuliano […] l’organizzazione criminale mafiosa non si sarebbe sviluppata sino a questo punto, e molti omicidi, compreso quello dello stesso Giuliano non sarebbero stati commessi”.

Se tutti avessero fatto quello che era giusto fare…

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