10 dicembre del 1976 a Cittanova (RC) ucciso Francesco Vinci, 18 anni, per un errore, in un episodio legato alla faida di Cittanova.
Francesco Vinci “Ciccio” aveva 18 anni e viveva a Cittanova (RC). Era un leader studentesco, un attivista politico della Fgci; non molto tempo prima di morire, era intervenuto in un’assemblea studentesca, a nome del liceo scientifico che frequentava, nella sala del consiglio comunale. Il suo era stato un discorso contro la ndrangheta, frasi rivoluzionare per l’epoca, per il luogo e per l’età di chi le pronunciava. Per questo in un primo tempo si pensò che l’omicidio fosse una punizione per le sue attività. Le indagini e il successivo processo fecero chiarezza.
Quel 10 dicembre del 1976 Francesco Vinci fu vittima di faida. Una faida iniziata a Cittanova nel ’64, come narrano le cronache, per prolungarsi e trascinarsi fino al ’92, con circa cento caduti. A morire anche i bambini, come Domenico e Michele Facchineri di 11 e 9 anni, ammazzati a sangue freddo durante un agguato (il 13 aprile 1975, lunedì di Pasqua, la strage di Cittanova).
Articolo da Stop ‘ndrangheta
La storia di Ciccio Vinci
Era un ragazzo del liceo, un leader studentesco, un attivista politico. È caduto per la dura logica della faida. È morto innocente. Una morte per errore, un regalo alla ‘ndrangheta. Perché Francesco Vinci, per tutti Ciccio, era già un fiero oppositore delle cosche di Cittanova. La sua era una presa di posizione forte, in un paese dove nessuno poteva chiamarsi fuori. Da un lato la cosca dei Facchineri, dall’altro quella dei Raso-Albanese, una guerra per la supremazia criminale.
Ciccio aveva 18 anni. Quel 10 dicembre del 1976 si era alzato presto, poi in viaggio verso Reggio per presentare in caserma i documenti del rinvio del servizio militare. Al rientro era rimasto a casa, stanco. Tutto il pomeriggio a giocare con il nipotino. Poi una decisione fatale: accompagnare la zia a prendere il marito, Girolamo Guerrisi, che si trovava in campagna. Ciccio sale sull’auto del cugino Rocco Guerrisi, una Fiat Campagnola. Sono le sei del pomeriggio ed è già buio. All’altezza del cimitero scatta l’agguato. Sono in tre, sparano in due con un fucile e una pistola. L’altro fa il palo. Quasi una premonizione. Il ragazzo morirà in ospedale. La zia se la cava con poco.L’impatto dell’assassinio fu enorme. Quella morte sembrò a tutti una reazione delle cosche, un segnale a chi osava sfidarle. Ciccio Vinci era un leader della Fgci, la giovanile del Partito comunista, faceva parte anche nella Lega dei disoccupati, era uno degli attivisti più carismatici tra i giovani della Piana di Gioia Tauro. Ciccio Vinci era soprattutto un ragazzo onesto, brillante e amato da tutti. Nato in una famiglia di democristiani, aveva deciso di seguire le sue idee. Non molto tempo prima di morire, Ciccio era intervenuto in un’assemblea studentesca partecipatissima a nome del liceo scientifico che frequentava, nella sala del consiglio comunale di Cittanova. Il suo era un discorso contro la ndrangheta, frasi rivoluzionare per l’epoca, per il luogo e per l’età di chi le pronunciava. “Bisogna spezzare questa ragnatela che ci opprime”. Interrompere quella faida che era iniziata nel ’64, come narrano le cronache, per prolungarsi e trascinarsi fino al ’92, con circa cento caduti. A morire anche i bambini, come Domenico e Michele Facchineri di 11 e 9 anni, ammazzati a sangue freddo durante un agguato (il 13 aprile 1975, lunedì di Pasqua, la strage di Cittanova).
Ecco perché per il funerale scesero in piazza in migliaia, accorrendo da tutta la provincia. Studenti, organizzazioni politiche, movimenti, la gente del paese. Accadde una cosa impensabile: decine di ragazzi circondarono la casa di uno dei boss della zona, urlando slogan rabbiosi. Accadde anche che, poco tempo dopo, cinquemila studenti della provincia reggina marciarono a Cittanova contro la ndrangheta. È stata probabilmente la prima manifestazione giovanile contro le mafie che si è svolta in Italia. I compagni di scuola onorarono la memoria di Ciccio con un gesto simbolico molto forte: lo elessero a rappresentante studentesco (era l’anno dei decreti delegati e delle prime votazioni nelle scuole, e Ciccio era in corsa) nonostante fosse morto.
Ad un anno dalla scomparsa, Ciccio Vinci fu ricordato con una cerimonia e i versi del poeta Emilio Argiroffi. Le istituzioni locali non parteciparono. Grazie all’impegno dei giovani militanti, l’attenzione salì. E l’anno successivo furono in duemila a sfilare, coi gonfaloni e i rappresentanti della politica e della società civile. Mentre in Parlamento il gruppo comunista (Alinovi, Ambrogio, Villari, Marchi, Dascola, Monteleone e Martorelli) depositò una interrogazione sul caso. Arrivò una prima conferma ufficiale alla pista della faida.
Oltre alla matrice politica, gli inquirenti pensarono subito al sanguinoso scontro in atto a Cittanova. Ma nelle indagini furono coinvolti i boss Luigi e Vincenzo Facchineri (poi prosciolti in istruttoria). E l’omicidio restò di difficile interpretazione. Ciccio Vinci era un giovane e scomodo attivista. Nel clima della faida sarebbe potuto bastare per morire. Ma la faida ha una logica assoluta: nessuno può chiamarsi fuori. Come in ogni piccolo paese, la ragnatela delle parentele lega mondi lontani. Legami di sangue tra i Guerrisi e i Vinci, legami di sangue tra i Guerrisi e i Facchineri. Nella logica della faida sarebbe potuto accadere che – e così sembrò ad alcuni – una non risposta alla chiamata alle armi avesse come conseguenza una vendetta trasversale.
Le indagini e il successivo processo fecero chiarezza. Ciccio aveva preso la macchina del cugino solo per un caso. Non era lui il bersaglio prescelto. Nel marzo del ’79 vennero arrestati i fratelli Vincenzo e Romeo Marvaso, Francesco Trimarchi e Gerardo Galluccio (all’epoca di 23, 28, 22 e 21 anni). Nel febbraio del 1981 il rinvio a giudizio da parte dei giudice istruttore di Palmi, Totaro. In quella ragnatela era caduto anche Vincenzo Marvaso: compagno di classe, Ciccio lo aiutava spesso nei compiti. Fu proprio Vincenzo a sparare, col fucile, mentre Trimarchi usò la pistola, il terzo era Galluccio. Nel giugno dell’82 la sentenza di primo grado della Corte d’assise di Palmi, presieduta dal giudice Saverio Mannino, con pm Salvo Boemi: 30 anni ai tre, assoluzione con formula dubitativa per Romeo Marvaso. In appello, nel febbraio ’84, le pene vennero ridotte a 24 anni.
Un monumento funebre ricorda Ciccio Vinci, nel cimitero di Cittanova. Simboleggia quella ragnatela opprimente che intrappola le idee e le speranze, rappresentate da un garofano rosso, una ragnatela che può essere spezzata con l’impegno e la volontà.
Ringraziamo gli AmiciDiLiberaCaravaggio (amicidilibera.blogspot.it) per la segnalazione
Articolo da L’Unità del 25 Marzo 1979
Presi i killer mafiosi che uccisero studente comunista
di Enzo La Caria
Francesco Vinci assassinato in Calabria per le sue coraggiose denunce
Tra gli arrestati, un suo ex compagno di scuola – Sulle tracce dei mandanti «Top secret» sulle prove: qualcuno ha parlato – Implicati boss di Cittanova?
CITTANOVA (RC) – Gli assassini di Francesco Vinci, lo studente liceale comunista barbaramente ucciso la sera del 10 dicembre 1976 in un agguato mafioso, hanno finalmente un nome: al termine di lunghe, pazienti indagini, i carabinieri hanno raccolto inconfutabili prove di colpevolezza contro il gruppo di killers che ebbe l’incarico di trucidarlo.
Romeo Marvaso , di 28 anni, diffidato senza un mestiere; Vincenzo Cesare Marvaso, 23 anni, universitario al secondo anno di medicina; Francesco Grimaschi. 22 anni, già noto per tentativi di estorsione, danneggiamenti, spari in luogo pubblico e Gerardo Galluccio, 21 anni, coinvolto col Grimaschi in episodi di violenza, sono stati tratti in arresto e accusati dell’efferato delitto.
La svolta decisiva alle indagini è stata impressa da un «fatto nuovo» sul quale le autorità inquirenti preferiscono, per adesso, mantenere un giustificato riserbo; la spessa coltre di omertà, che ha, fin qui, protetto i giovani assassini, è stata spazzata via consentendo alla magistratura ed ai carabinieri di acquisire punti fermi nella identificazione degli assassini. Qualcuno ha testimoniato, ha rivelato fatti e circostanze che per due anni erano rimasti nascosti.
Tra gli arrestati (particolare estremamente raccapricciante) c’è un ex compagno di banco di Francesco Vinci; si tratta dell’universitario Vincenzo Cesare , l’unico di tutti gli studenti a non avere partecipato ai funerali del giovane compagno, ed al lutto della famiglia, nonostante i vincoli di amicizia che lo legavano a Vinci.
Questo suo strano comportamento aveva spinto i carabinieri a sentirlo tra i primi; con lucidità e freddezza — ma, soprattutto, fidando sull’omertà — aveva respinto ogni addebito nonostante la voce pubblica lo indicasse come uno degli assassini.
Le indagini sono, ora, rivolte a scoprire gli eventuali mandanti e i collegamenti del barbaro episodio con il torbido mondo della mafia locale, con l’agghiacciante catena di omicidi tra i clan mafiosi dei Facchineri e degli Albanese-Raco (28 morti e 16 feriti dal primo tragico agguato dell’aprile 1975). La personalità dei quattro giovani arrestati, il loro passato, escludono qualsiasi ipotesi di delitto politico: si tratta, come hanno sempre sostenuto i compagni di scuola di Francesco Vinci ed i tremila giovani che scesero in piazza per gridare il loro sdegno contro l’uccisione del giovane studente comunista, di un omicidio maturato negli ambienti mafiosi e realizzato spietatamente con la tecnica (l’agguato) e le armi (lupara) di cui si serve la mafia per mettere a tacere testimonianze o voci coraggiose.
Francesco Vinci, otto mesi prima dell’agguato mortale, era scampato ad un attentato; aveva detto ai suoi amici di ritenerlo un «avvertimento» . Quell’episodio non lo aveva eccessivamente turbato: l’entusiasmo della sua giovane età, la milizia nel Partito comunista italiano, il suo forte impegno sociale nella costruzione delle prime leghe dei giovani disoccupati, la sua fiducia negli ideali di rinnovamento e, soprattutto nella conquista quotidiana di altri giovani alla battaglia per la crescita sociale ed economica, gli avevano fatto dimenticare il minaccioso avvertimento.
Due mesi prima che qualcuno decidesse la sua uccisione, Francesco Vinci, in un convegno pubblico, accusò la mafia di essere responsabile non soltanto dei disordini, della paura, dei ricatti, ma soprattutto di essere strumento di arretratezza economica, culturale e sociale. Pagò con la vita: ma la sua morte ebbe fra i suoi coetanei, fra i giovani e le ragazze, un effetto dirompente.
A tre anni dal suo sacrificio, centinaia di giovani hanno rotto la gabbia delle antiche tradizioni, si sono dati strutture democratiche di lotta, di studio, di lavoro aprendo un ampio dibattito politico ed ideale.
A Cittanova, antico centro bracciantile, di raccoglitrici di olive, di piccola e media borghesia agraria e professionale, l’omertà non ha retto a lungo: il pellegrinaggio di giovani e ragazze alla tomba di Francesco Vinci è stato, in questi due anni, una muta testimonianza di sfida alla prepotenza mafiosa.
Senza il notevole e crescente impegno popolare contro la mafia (che trova, com’è largamente emerso anche al recente processo contro i 60 mafiosi, i comunisti di Reggio Calabria e provincia coerentemente impegnati) quasi certamente lo sforzo delle autorità inquirenti si sarebbe arenato dinanzi all’ostacolo degli indizi, della mancanza di prove, in una parola dell’omertà.
Ora è lecito attendersi che sia resa al più presto giustizia, non solo per sfatare il mito dell’impunità mafiosa colpendo anche gli eventuali mandanti, ma per ridare certezza e fiducia nella capacità dello Stato di intervenire col necessario vigore, per tutelare le popolazioni oppresse dalle violenze e dal peso parassitario della mafia.
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Antonino Russo
Togliere la vita ad un giovane calabrese, vicino e in difesa delle esigenze dei napolitani calabresi, con l’assoluta violenza è un delitto molto grave e infligge tale ingiustizia non solo ai calabresi ma a tutti i napolitani che non sono affatto “protetti dallo Stato”. Ammiro la denuncia di Francesco contro le cosche dei Facchineri e degli Albanese-Raco che si scontravano per prendere il controllo a Cittanova, come le attuali élite politiche sul potere politico e istituzionale, ma ammazzare un ragazzo di quell’età mi fa ripensare alle brutali repressioni dei piemontesi compiute non solo sugli adulti ma sui ragazzi e giovani accusati di brigantaggio, con la colpa di essersi opposti ad un regime di occupazione coloniale. Tale gesto di crudeltà porta solo tristezza e momenti di rabbia al popolo napolitano attualmente sottomesso dallo Stato italiano che tutela la Mafia anziché restaurare la legalità dei duosiciliani. Però ho notato che Francesco aveva le sue libere idee del comunismo, nonostante che facesse parte dell’organizzazione giovanile di un partito legato ai modelli padani di lotta operaia, che lo avrebbe spinto a prendere le difese dei cittanovesi contro la tutelata ndrangheta. Onore al giovane martire della legalità della Calabria e del popolo napolitano.