27 Gennaio 1991 Messina. Ucciso Ignazio Aloisi, un testimone ucciso per vendetta, calunniato dal suo assassino con l’inatteso avallo di una corte di giustizia. La difficile battaglia della sua famiglia per ristabilire la verità.

Foto da Facebook: Ignazio Aloisi vittima di mafia dimenticata dallo Stato

Ignazio Aloisi, guardia giurata di Messina, fu ucciso il 27 gennaio 1991 mentre, con la figlia Donatella di appena 14 anni, stava tornando a casa dopo aver assistito alla partita della squadra della città. Fu ucciso per vendetta perché dodici anni prima aveva riconosciuto uno dei rapinatori che avevano assaltato il suo furgone portavalori e aveva testimoniato contro di lui, che fu condannato ad otto anni di carcere. Dopo le indagini ed un nuovo processo, questa volta per l’omicidio di Ignazio, il killer fu condannato a 26 anni di carcere. A questo punto pensiamo che tutto sia finito, che la famiglia abbia ricevuto la dovuta giustizia ma la storia continua. Dopo due anni il colpevole da killer diventa pentito. Riempie verbali di confessioni di altri reati. Esce di galera protetto da una nuova vita. Ma non si scorda la sua vendetta. E questa volta dichiara che la vittima di quell’antico omicidio era suo complice: era il basista della rapina e lo aveva denunciato solo perché era insoddisfatto di come era stato diviso il bottino. Così dopo averlo ucciso fisicamente voleva infangarne anche la memoria. Fortunatamente gli altri membri della banda lo scagionano.

 

 

Articolo di Narcomafie del 3 Ottobre 2008
Se questo è un complice
di Marco Nebiolo

La storia di un testimone ucciso per vendetta, calunniato dal suo assassino con l’inatteso avallo di una corte di giustizia. La difficile battaglia della sua famiglia per ristabilire la verità

Un uomo subisce una rapina a mano armata. Vede in viso uno degli aggressori e decide di collaborare con i carabinieri. Il suo contributo risulta determinante per l’identificazione e la condanna in giudizio del malvivente. Altri (probabilmente i più) al posto suo si sarebbero accontentati di esserne usciti vivi e per evitare ulteriori complicazioni si sarebbero trincerati dietro la consueta sfilza di “non ho visto”, “non ricordo”, “arrangiatevi”. Invece lui testimonia. Peccato che il rapinatore sia un mafioso e una volta uscito dal carcere gli presenti il conto: tre pallottole a bruciapelo e tanti saluti. Ma non è tutto, c’è un risvolto che fa assumere alla tragedia i contorni del paradosso: il ministero dell’Interno nega al coraggioso testimone lo status di vittima innocente di mafia. Il motivo? La sentenza passata in giudicato che ha condannato il suo assassino lo considera complice dei rapinatori.

La radice della vendetta. L’uomo in questione è Ignazio Aloisi, messinese, classe 1946. La sua incredibile vicenda inizia quasi trent’anni fa, il 3 settembre 1979. Siamo nella Sicilia dei Riina e dei Bontade, quella della cupola che discute alla pari con i vertici della politica nazionale. Falcone e Borsellino sono magistrati come tanti, sconosciuti al grande pubblico. Aloisi ha 33 anni, è sposato e ha una bambina piccola, Donatella. È una guardia giurata alle dipendenze dell’Istituto di vigilanza città di Messina. Da otto mesi la sua azienda ha ricevuto dal Banco di Sicilia l’incarico di ritirare l’incasso in giacenza presso i caselli autostradali dell’autostrada Palermo-Messina nel tratto tra la città dello Stretto e Rocca di Capri Leone. Alle 12,30 di quel lunedì mattina, mentre con i suoi colleghi sta caricando gli ultimi sacchi di iuta colmi di banconote presso il casello Messina-Gazzi, scatta il blitz dei rapinatori. Sono in quattro, urlano di non muoversi, altrimenti li ammazzano. Il colpo va a segno, ma, mentre i rapinatori scappano, Aloisi e i suoi colleghi riescono a prendere il numero di targa della loro auto. Non è l’unico indizio utile per gli inquirenti. Aloisi ha visto bene in faccia uno dei rapinatori, quello che gli ha sottratto la sua 357 magnum e lo ha fatto sdraiare pancia a terra con una pistola alla tempia. È un individuo alto circa un metro e settanta, corporatura robusta, viso rotondo con labbra prominenti, sopracciglia nere, un filo di barba. Ne fornisce la descrizione ai carabinieri del Reparto operativo di Messina il giorno dopo, il 4 settembre. In una terra dove l’omertà è la regola, Aloisi è l’eccezione. Prima riconosce il suo aggressore attraverso una foto segnaletica, poi conferma le sue accuse durante un confronto con il presunto colpevole. Si tratta di Pasquale Castorina, un giovane mafioso affiliato al clan Costa. Il 24 ottobre 1979, il giorno in cui verbalizza le sue accuse davanti al giudice istruttore, sono già arrivate le prime telefonate minacciose che gli intimano di rimangiarsi tutto. Si è fatta avanti anche la madre di Castorina per chiedergli esplicitamente di ritrattare. E man mano che si avvicina il processo, la tensione sale: il 7 novembre 1980, data prevista per la prima deposizione in tribunale di Aloisi, alle 6.30 del mattino un uomo a bordo di una vespa color verde esplode un colpo di pistola che lo manca di poco mentre sta rientrando a casa dopo una nottata di lavoro. Aloisi non riesce a vederlo ma sua moglie, dalla finestra della loro abitazione, scorge il presunto attentatore dileguarsi nella penombra.

La mafia chiede il conto. Aloisi va avanti nonostante tutto. Castorina viene condannato a 8 anni di carcere. E da buon mafioso giura che gliela farà pagare. Quando esce il clan Costa è ormai disgregato così si ricicla nel clan Sparacio, per il quale diventa capozona. Non agisce subito, sa che la vendetta è un pasto che va servito freddo e più il tempo passa più sarà difficile collegarlo al delitto. Aspetta fino al 27 gennaio 1991. Alle 4,30 del pomeriggio, il signor Aloisi sta tornando a casa in compagnia di sua figlia Donatella ormai quattordicenne e di alcuni amici, dopo aver passato un paio d’ore allo stadio a vedere la partita di serie B Messina-Verona. La squadra del cuore ha vinto 3-1, un bel pomeriggio per una passeggiata di un paio di chilometri fino a casa, nel rione dei Condottieri del quartiere Minissale. All’improvviso dal nulla sbuca un uomo, con il volto mascherato, tira fuori una pistola fa fuoco tre volte davanti alla figlia terrorizzata e ad altri testimoni: due proiettili colpiscono Aloisi al capo e uno al torace, uccidendolo sul colpo.
Per due anni le indagini non conducono a nulla finché tre collaboratori di giustizia (Umberto Santacaterina, Marcello Arnone e Ignazio Aliquò) fanno luce sul delitto con autonome e concordanti dichiarazioni. Il 15 aprile 1994 la Corte di assise di Messina condanna a 26 anni di carcere Pasquale Castorina e Pasquale Pietropaolo (nipote della moglie di Castorina), considerati rispettivamente mandante ed esecutore materiale del delitto. Il movente dell’omicidio indicato dai collaboratori è proprio la testimonianza di Aloisi nel processo per rapina subito da Castorina 15 anni prima. Gli imputati si proclamano innocenti e impugnano la sentenza. Davanti alla Corte di appello di assise, però, succede un fatto nuovo. Improvvisamente, a dibattimento iniziato, Castorina e Pietropaolo cambiano strategia processuale, rinunciano a proclamarsi innocenti e decidono di collaborare, dichiarandosi colpevoli. Detto così sembra un lieto fine. Invece per la famiglia Aloisi dopo il sangue sta arrivando il fango.

Dalle pallottole alla calunnia. La deposizione di Castorina differisce da quella fornita dai collaboratori di giustizia su due punti: la ricostruzione della dinamica dell’omicidio e il movente. Sul primo punto Castorina tenta di assumersi l’intera responsabilità del delitto, dichiarando di essere l’uomo mascherato che ha premuto il grilletto e di essere stato aiutato dal Pietropaolo solo nella fuga e nel reperimento dell’arma. Ma la vera novità della sua confessione sta nella diversa lettura del ruolo Aloisi e nella differente declinazione del movente che ne consegue: non un’innocente vittima di reato, ma un complice della rapina al casello, il quinto uomo della banda. Il quale avrebbe poi tradito i suoi sodali perché insoddisfatto della parte di bottino ricevuta. Un infame, insomma, della cui morte c’è poco da rammaricarsi. E, incredibile a dirsi, nonostante l’assoluta mancanza di prove a sostegno di queste accuse gravissime e l’impossibilità di Aloisi di difendersi, i giudici della Corte di Assise (giudici togati Bruno D’Arrigo, estensore e presidente della corte, e Benito Romano De Grazia) gli hanno dato credito. In base a un sillogismo che di cartesiano ha ben poco. Secondo il collegio giudicante la specificazione del movente sarebbe “credibile”, poiché «visto che Castorina e Aloisi si conoscevano certamente, in quanto coetanei e abitanti nel rione Condottieri del quartiere Minissale, non poteva trovare giustificazione il fatto che lo Aloisi, avendo visto bene in viso il rapinatore Castorina, da lui già conosciuto, non ne avesse indicato subito agli inquirenti il nome e cognome e si fosse invece limitato a riconoscerlo, in un tempo successivo, in sede di confronto». I giudici escludono che Aloisi possa non conoscere il Castorina. Lo considerano un dato evidente, aprioristico. La figlia Donatella contesta recisamente questo punto, affermando che la madre ha sempre dichiarato di non aver mai sentito parlare di tale persona fino al processo per rapina, mentre conosceva tutti gli amici del padre. Tuttavia partendo da tale assunto giudicano sospetta la tempistica della deposizione di Aloisi, al punto da elevarla a prova inconfutabile del suo status di rapinatore-traditore. Ma anche ammettendo (ripetiamo, dato niente affatto scontato) la conoscenza, almeno di vista, del suo futuro carnefice, i giudici non hanno tenuto conto del fatto che Aloisi, prima di farne il nome, abbia potuto esitare, specie di fronte alla consapevolezza (a questo punto è necessario dare per scontata anche questa) della pericolosità del Castorina, uomo d’onore di notevole spessore criminale inserito nelle file di Cosa nostra. I giudici sembrano dividere l’umanità in due categorie: da una parte il cittadino perfetto che con indomito coraggio e sprezzo del pericolo collabora con le forze dell’ordine senza preoccuparsi delle conseguenze; dall’altra il criminale, il traditore. In mezzo nulla. Non considerano ammissibile che il padre di una bambina piccola, in una terra di mafia che qualche anno più tardi sarà significativamente ribattezzata dai media “verminaio”, abbia potuto ponderare la decisione di denunciare un pericoloso delinquente. E sulla base di un argomentare così arbitrario, hanno “mascariato” un uomo che, pur pesantemente intimidito, ha invece dimostrato generosità, responsabilità e un senso civico fuori del comune.

Una collaborazione sospetta. C’è qualcosa, poi, che non torna nella condotta processuale di Castorina, qualcosa che avrebbe dovuto consigliare ai giudici d’appello maggiore prudenza nella valutazione del suo contributo. Ha atteso 16 anni prima di denunciare il presunto complice-traditore. Non lo ha fatto durante l’inchiesta relativa alla rapina. Non lo ha fatto durante il confronto del 24 ottobre 1979 davanti al pm in cui Aloisi lo ha definitivamente riconosciuto. Non lo ha fatto in aula durante il processo che lo ha visto soccombere. Non lo ha fatto durante il processo di primo grado del 1994 in Corte di Assise per il delitto Aloisi. Anzi, in quell’occasione i giudici di primo grado hanno disinnescato un rozzo tentativo di depistaggio dell’istruttoria dibattimentale, messo in atto tramite un falso testimone, il quale tentò di declassare il delitto come l’esito sanguinoso a una storia di corna. Tecnica tipicamente mafiosa per sporcare la memoria delle vittime e sviare le indagini.
A questo signore i giudici hanno creduto sulla parola, senza cercare riscontri. Ma la cosa più incredibile è che non si sono bevuti proprio tutto: nelle motivazioni della sentenza hanno definito la parte della confessione di Castorina relativa alla dinamica dell’omicidio «tendenzialmente fuorviante» e «non utile all’accertamento della verità». Ma con un salto mortale logico, due righe dopo hanno affermato che la confessione rappresenta «per quanto tardiva e imperfetta (…) una concreta manifestazione di pentimento e una promessa di ravvedimento». E per premiarlo gli hanno concesso uno sconto di pena di 4 anni.

L’onore del padre. Donatella Aloisi, la figlia oggi trentenne, è impegnata da anni in una difficile battaglia per difendere l’onore del padre. Accompagnata dall’associazione Rita Atria, che per prima si è presa a cuore il caso della sua famiglia, e con il supporto del legale di fiducia, Fabio Repici. La strada, però, si presenta in salita. Una sentenza definitiva è uno scoglio difficile da aggirare. L’avvocato Repici, tramite la Prefettura, ha recentemente ripresentato istanza al ministero dell’Interno per il riconoscimento dello status di famigliare di vittima di mafia, allegando gli atti relativi al processo per rapina che dimostrano l’assoluta genuinità della collaborazione di Aloisi. Gli stessi atti sono stati inviati, per conoscenza, alla procura della Repubblica, che è stata sollecitata all’apertura di un procedimento per calunnia contro Castorina, oggi collaboratore di giustizia, sulla cui completa attendibilità più di un magistrato nutre fondati motivi di riserbo. L’apertura di un procedimento per calunnia consentirebbe al pm titolare del fascicolo di ascoltare nuovamente i collaboratori di giustizia che hanno accusato Castorina senza mai menzionare le presunte complicità di Aloisi e sentirne anche altri, in particolare i tre che, dopo alcuni interventi televisivi della signora Donatella, si sarebbero resi disponibili a smentire le tesi di Castorina. La strettoia giuridica è angusta: la calunnia è chiaramente estinta per prescrizione (il reato risale al 1995), inoltre il delitto ipotizzato consiste nell’attribuzione di reato (concorso in rapina) a sua volta già estinto nel 1991 per morte del presunto reo (cioè Aloisi). I tecnicismi del procedimento penale consentono però al pubblico ministero dei margini per aprire un fascicolo (destinato senz’altro all’archiviazione) nell’ambito del quale ascoltare nuovamente i pentiti. La famiglia Aloisi è in attesa di un segnale positivo dalla Procura della Repubblica, oggi guidata dal dottor Guido lo Forte. Nella speranza di porre fine all’incredibile storia di un testimone ucciso da un mafioso e infangato dalla sentenza che avrebbe dovuto fare giustizia.

 

 

Messina, Ignazio Aloisi: Ucciso da mafia, dimenticato da stato

 

 

Mi manda Raitre Andato in onda:08/05/2009
Vittima due volte
Un uomo coraggioso indica il suo rapinatore e lo fa arrestare. Il malvivente è un picciotto di “Cosa nostra” e quando esce dal carcere fa uccidere il suo accusatore. Ma alla famiglia lo Stato, fino ad ora, non ha concesso i benefici di legge per le vittime di mafia.

 

 

 

Leggere anche:

 wordnews.it
Articolo del 27 gennaio 2020
Ignazio Aloisi, infangato dalla mafia
di Paolo De chiara
“Ignazio Aloisi è stato lasciato solo, è stato abbandonato dallo Stato, che non ha fatto il suo dovere e continua a non farlo, perseverando nella sua condotta. Chiediamo che venga riconosciuto il sacrificio fatto da mio padre, che ha sacrificato la sua vita per la verità e la giustizia”.

 

 vivi.libera.it
Ignazio Aloisi – 27 gennaio 1991 – Messina (ME)
Testimoniare invece di farsi i fatti propri, credere nella giustizia al punto di perdere la propria vita. Questo era Ignazio Aloisi, un uomo che credeva nella verità, quella stessa idea che ha trasmesso alle sue figlie e per la quale è stato ucciso.

 

vivi.libera.it
Articolo del 26 gennaio 2022
Libera Messina, l’impegno e la memoria per Ignazio Aloisi

 

 

 

 

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