3 Settembre 2002 Palermo. Pone fine alla sua giovane vita Giuseppe Francese, 35 anni, figlio del giornalista Mario, ucciso dalla mafia il 26 Gennaio 1979.

Foto da fondazionefrancese.org
Pone fine alla sua giovane vita Giuseppe Francese, 35 anni, figlio di una vittima di mafia, del giornalista Mario ucciso il 26 gennaio 1979.
“Era ancora un bambino Giuseppe quella sera, aveva dodici anni. Era un bambino che cominciò presto a conoscere quella Sicilia feroce che aveva sconvolto lui e che avrebbe sconvolto poi tanti ragazzi come lui. Suo padre Mario, giornalista coraggioso che scriveva su un giornale troppo attento a non infastidire i potenti e anche i boss, Giuseppe lo conobbe davvero dopo. Dopo l’agguato. Cominciò a raccogliere tutti i suoi appunti e poi tutti i suoi articoli, cominciò a leggere e a rileggere tutte le sue inchieste, cominciò a «capire» chi e perché aveva voluto suo padre morto. Tutta la vita a ricostruire la morte di papà, tutta la vita a inseguire un incubo…..
Giuseppe, impiegato regionale agli Enti Locali, tre fratelli più grandi, una depressione che non l’ha mai abbandonato. Nemmeno quando si cominciarono a intuire le prime verità sull’omicidio di Mario, nemmeno quando investigatori e magistrati ricostruirono il «contesto» nel quale maturò il delitto, nemmeno quando il pentito Francesco Di Carlo indicò i nomi dei mandanti dell’assassinio di un giornalista. C’era Totò Riina come al solito, c’erano Francesco Madonia e Pippo Calò, c’erano anche un paio di altri boss che avevano paura degli scoop e delle inchieste di Mario. Non erano «minimi» i moventi di quell’omicidio come sussurravano certi personaggi della paludosa Palermo di quegli anni, non era un «regolamento di conti» come certi infami avevano messo in giro. Era alta mafia quella che aveva voluto morto Mario. Che era solo. Che era circondato da silenzi e da imbarazzi anche nel suo giornale dove le incrostazioni con certi ambienti di mafia erano forti. Ma lui aveva l’istinto del cronista da strada e l’orgoglio dei siciliani per bene. Non si piegò. E i sicari puntualmente arrivarono sotto la sua casa.
Quando il processo ai suoi assassini finalmente si celebrò – ma quanto tempo, ma quanta fatica, quanti depistaggi, quante lentezze nelle investigazioni – Giuseppe ogni mattina era là in aula. Seduto sul banchetto alle spalle del Pubblico ministero, chino sul suo taccuino a prendere appunti. Sembrava anche lui un giornalista, uno di quelli che non si poteva perdersi un solo momento dell’udienza. Così fino alla chiusura del dibattimento. Sette ergastoli per la Cupola, due assoluzioni. Ma ormai Giuseppe era spezzato. Inseguiva ancora le ombre. Le sue ombre e quelle di una Palermo che aveva inghiottito la sua vita.” (Attilio Bolzoni)
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Articolo del 3 Settembre 2007 da: fondazionefrancese.org
PER IL QUINTO ANNIVERSARIO DELLA DIPARTITA DI GIUSEPPE
di Nicola Marcello MonterossoStasera vi parlerò dell’esperienza lavorativa di Giuseppe Francese, del suo stile di vita amministrativo, ricordando al contempo il suo grande amore e il suo grande impegno per il padre Mario.Dopo aver conseguito il diploma di Ragioneria presso l’Istituto Tecnico Commerciale “Duca degli Abruzzi” di Palermo ed avere adempiuto agli obblighi di leva in polizia, scelta determinata da motivi ideali, nel 1986 iniziò la sua vita amministrativa di dipendente regionale presso l’Assessorato Enti Locali, utilizzando la possibilità offerta dalla normativa per i familiari delle vittime di mafia.Il suo percorso di dipendente regionale cominciò all’Ufficio del Personale con la qualifica di archivista che mantenne sino al 1993, anno in cui avvenne il passaggio di qualifica ad assistente, a seguito dell’approvazione della legge regionale che consentiva ai familiari delle vittime di mafia di essere collocati nel ruolo corrispondente al titolo di studio. Quello fu il periodo più sereno della sua vita amministrativa, a contatto con un dirigente, il dott. Pietro Messineo, il suo primo dirigente, anch’egli recentemente scomparso in analoghe tragiche circostanze, che fino a poco tempo fa nei nostri incontri occasionali lo ricordava per la sua condotta ineccepibile, quale individuo integerrimo, ossequioso della legalità e perseverante nel lavoro oltre che animato da un profondo senso di giustizia.Giuseppe non dimenticò mai il dott. Messineo e lo ricordò sempre con nostalgia, così come ebbe modo di apprezzare il dott. Dionisio che lo chiamò ad operare al gruppo CEE, un ufficio che doveva essere il fiore all’occhiello dell’Assessorato ma che, con grande frustrazione del giovane, per motivi rimasti misteriosi non decollò mai. Anche quel dirigente ricercava infatti nei funzionari, delle persone sulle quali potere contare per impegno, trasparenza e professionalità, doti senz’altro diverse da quelle di “soldato politico” e di “curatolo”, tanto estranee al firmamento d’idee di Giuseppe Francese.Dopo essersi tanto impegnato e aver cominciato a curare una serie di rapporti, dopo aver frequentato un corso di formazione organizzato dalla stessa Amministrazione, venne sostituito e trasferito al gruppo di lavoro che si occupava degli istituti Privati di Assistenza e Beneficenza. In questo ufficio gli assistenti, oltre ad avere l’incarico di commissari di IPAB, avevano la funzione di verificare ed esaminare le delibere degli stessi istituti: Giuseppe rifiutò sempre gli incarichi di commissario perché riteneva che la doppia funzione non garantisse sufficientemente la trasparenza dell’azione amministrativa. Qui l’esperienza di lavoro fu molto tormentata. Le sue segnalazioni, i suoi rilievi venivano spesso boicottati. Ho ancora ben presente la voce di Francese proferire queste parole: «Mi hanno detto più volte “Non sollevi problemi”. Mi hanno detto pure con fare candido perché devi rompere per forza i coglioni?». E ancora: «Ho ricevuto le attenzioni di un utente dall’accento catanese di cui non conosco neanche il nome, che rimanendo in silenzio e dopo un insistente e insolito fissarmi negli occhi mi ha chiesto «E’ lei Giuseppe Francese? Si sono io, ma lei chi è? Cosa desidera? Io? Niente. Volevo solo conoscerla fisicamente».

Continua la sua esistenza nomade da un gruppo di lavoro all’altro.

Nel 2001 viene trasferito al servizio che si occupava di interventi per l’area minorile e come al solito si mette al lavoro alacremente: in particolare si dedica all’esame dei progetti di cui alla legge 285/97, relativi alla promozione dei diritti e alla socializzazione dell’infanzia e dell’adolescenza e, contestualmente, si occupa dell’indagine sul lavoro minorile in Sicilia, dei minori immigrati e del fenomeno della pedofilia.

Comincia un’attenzione costante per le cronache riguardanti gli abusi ed i maltrattamenti sui minori. Non c’è colonna di giornale che riporti cronache relative allo sfruttamento del lavoro minorile che possa sfuggire alla sua attenzione. Ma anche stavolta le sue iniziative sono frustrate, anche stavolta ogni proposta, ogni progetto, ogni idealità vengono spezzate sul nascere. Si. Perché gli tolgono anche questo incarico e glielo tolgono nel modo più efficace e diplomatico, facendo rientrare un atto mirato nella “pura contingenza” di una ristrutturazione generale.

«Non riesco la notte nei pub a non guardare gli occhi profondi dei bambini di colore che cercano di vendere rose a chi con violenza li caccia. Ed io che mi occupo anche di minori immigrati, so di non potere fare un cazzo per loro, anzi per dirla tutta, da pochissimo mi hanno tolto il controllo sui minori immigrati e l’indagine del lavoro minorile in Sicilia. Tanto non avrei potuto fare un cazzo lo stesso perché non mi avrebbero fatto lavorare come avrei voluto. Perché lo sfruttamento dei minori fa comodo a tanti».

Siamo a dicembre del 2001: Giuseppe Francese scrive una lettera al Dirigente Generale e all’Assessore regionale di allora, una lettera che non vedrà mai la luce e che rimane sotto forma di minuta. L’originale fu consegnato da mani amiche, dopo la dipartita di Giuseppe, al nuovo Dirigente generale. Ne ho conservato copia fotostatica il cui contenuto ritengo opportuno leggervi.

«In Sicilia, come in altre realtà italiane e del mondo, i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza vengono spesso trascurati ed, in molti casi, addirittura negati.
Spesso, ma non è mai abbastanza, vengono scoperti casi di abusi e maltrattamenti sui minori.
Sporadicamente si scoprono situazioni di sfruttamento di lavoro minorile che celerebbe una realtà molto più ampia e quasi inesplorata.
L’avvento di nuove tecnologie come Internet è diventato sempre più veicolo per abusi su minori ed adolescenti.
Tutto ciò premesso, sembrerebbe che questo Assessorato, intenda procedere in senso quasi inverso alle tendenze e alle leggi nazionali che vorrebbero maggiori attenzioni nei confronti del “pianeta infanzia”.
Infatti, i funzionari facenti parte del gruppo XII/Interventi area minorile, che pur avevano lavorato con il massimo impegno per cercare di trovare soluzioni per creare situazioni di minore disagio per minori e adolescenti in Sicilia, apprendono oggi che il gruppo XII è stato praticamente smantellato, dando alla sola dottoressa Genduso tutte quelle competenze che svolgevano ben quattro funzionari, coadiuvati da due dattilografi.
Ciò premesso, si chiede alla S.V. di valutare la possibilità di rivedere quanto stabilito per le sorti del gruppo, ma vorremmo dire ancor di più per le sorti dei minori in Sicilia.
Non crediamo di essere paladini di giustizia o di avere bacchette magiche per garantire una migliore condizione dei minori e degli adolescenti, sappiamo soltanto che abbiamo dato, e se ce lo consentirete, continueremo a dare tutto il nostro contributo ed il massimo impegno.
Vogliamo solo ricordare che questo gruppo ha proposto:
§ un indagine al CIRM sulla pedofilia in Sicilia;
§ un contributo al Telefono Arcobaleno e al Telefono Azzurro.
Si occupa di Adozioni internazionali.
Sta creando un database sul lavoro minorile in Sicilia (a tal proposito si allega articolo di stampa, pubblicato sul Giornale di Sicilia in data 5.12.2001), promuovendo in tal senso la collaborazione con Prefetture, Ispettorato del Lavoro e INAIL, ecc..
Un data base sui minori immigrati.
Per non dimenticare i Piani Territoriali d’intervento di cui alla Legge 285/97 per il triennio 2000/2002 che prevede uno stanziamento di 77miliardi circa.
Per amore di verità, dobbiamo dire che troviamo alquanto strana la decisione appena presa ma crediamo che si sia trattato semplicemente di una decisione dettata più da una esigenza temporanea, che ha costretto le SS.VV. a dover procedere in termini brevissimi al riassetto dei gruppi di lavoro.
I funzionari del Gruppo XII/ Interventi area minorile, chiedono semplicemente alla S.V. di poter continuare a lavorare ed impegnarsi, oggi come ieri, per un lavoro a cui crediamo, che amiamo e che sosteniamo e sosterremo sempre.
Distinti saluti »

Gli anni della vita amministrativa di Giuseppe furono sempre contraddistinti da una condotta etica e professionale irreprensibile, improntata al rispetto e alla cultura della legalità, alla assoluta trasparenza dell’azione amministrativa, all’agire equo e solidale dentro un contesto in cui avere idee non conformi ai dettami della “famiglia politica” di turno è sinonimo di devianza. Un contesto in cui non di rado il confine tra il “pessimo” ed il “buono” impiegato è tracciato dall’adesione o meno ad un concetto di fedeltà all’insieme che si traduce in compiacenze, che si nutre di timori, che si avvale o che soggiace alle clientele, che fa propria l’apatia, che licenzia la riflessione, l’esercizio critico della ragione e che sposa un “pensiero unico” destinato a dissolvere ogni principio di eguaglianza, di giustizia e di libertà, di cui invece Giuseppe era latore, veicolando così una “qualità totale” senz’anima, dove il fine giustifica i mezzi. Logorio per chi non si adegua, privilegi e opportunità a chi obbedisce…

Allora noi amici e colleghi di Giuseppe scrivemmo che se il “refrattario” è un funzionario come colui che ci ha lasciati, per un contesto cinico e sottomesso si è di fronte a un vero e proprio “attentato di lesa maestà” e alla grave infrazione di un miserabile e meschino “spirito di corpo”. Scrivemmo pure e lo gridammo a squarcia gola che Giuseppe, così come nella sfera sociale, avversava nel lavoro l’arroganza e la deferenza, le discriminazioni e le parrocchie politiche e, insieme a queste, le prescrizioni quotidiane di un esercizio del potere sempre più antisociale e disumano che raramente risponde ai bisogni della comunità e che confonde la soddisfazione dei bis

ogni collettivi col perseguimento di obiettivi destinati ad estorcere il consenso. Aggiungemmo pure che la coscienza non è sempre cosa flessibile o negoziabile e che Giuseppe aveva certamente pagato un certo fio per non avere mai ceduto alle lusinghe del potere.

Il suo impegno professionale, i progetti che da questo impegno scaturivano, le sue tensioni, furono sempre frustrati dalla sfera istituzionale da lui frequentata.

Era un individuo molto sensibile ma capace di tenere saldi i suoi principi. Non vacillò mai davanti a compromessi o ad accattivanti vie di fuga dalle proprie responsabilità.

Dava al suo lavoro un carattere unitario che superava ogni rigida divisione in livelli e qualifiche. Seguiva l’atto amministrativo con attenzione ed interesse, non tollerava eccezioni, ed era sempre proteso verso il raggiungimento di obiettivi sociali.

Giuseppe, funzionario integerrimo, lavoratore solerte, creativo e al contempo scrittore brillante e versatile aveva il giornalismo nel sangue e lo dimostrò pubblicando negli anni una serie di articoli che non si occuparono soltanto della vicenda del padre ma che affrontarono altri casi relativi a delitti di mafia. Ma non c’è dubbio che Giuseppe dedicò tutte le sue energie e gran parte del suo tempo a ripercorrere la pista che lo avrebbe portato diritto agli assassini del padre. Quando il processo si è celebrato seguì tutte le udienze sino alla chiusura del dibattimento e alla formulazione della sentenza che assicurò alla giustizia i colpevoli dell’infame delitto che come voi tutti sapete avvenne il 26 gennaio del 1979.

Così dice di lui il giornalista Attilio Bolzoni in un articolo di Repubblica del 4 settembre 2002, all’indomani del tragico evento (del quale riporto solo alcuni stralci):
« A volte arrivava di mattino presto, quando il Tribunale era deserto e le stanze dei giovani sostituti procuratori erano ancora vuote. Lui si sedeva sulla panca di legno sotto la finestra anche per un’ora, fissava il muro, aspettava il magistrato che dopo vent’anni aveva riaperto il “caso”: l’inchiesta sull’uccisione di suo padre. Lo salutava, tirava fuori qualche carta dalla sua borsa, raccontava, suggeriva, chiedeva. Voleva sempre far sapere qualcosa. Così da quando era ragazzino. Così da quando gli avevano ammazzato il papà giornalista sotto casa in una sera d’inverno […].
Era ancora un bambino Giuseppe quella sera, aveva 12 anni. Era un bambino che cominciò presto a conoscere quella Sicilia feroce che aveva sconvolto lui e che avrebbe sconvolto poi tanti ragazzi come lui […].
Cominciò a raccogliere tutti i suoi appunti e poi tutti i suoi articoli, cominciò a leggere e a rileggere tutte le sue inchieste, cominciò a “capire” chi e perché aveva voluto suo padre morto. Tutta la vita a ricostruire la morte di papà, tutta la vita a inseguire un incubo. Fino alla fine […].
E’ un altro “omicidio” di quei macellai di Corleone quello di Giuseppe, trentasei anni impiegato regionale agli Enti Locali»

Papà «Ricordo bene le tue mani bellissime e i tuoi occhi scuri pieni di bontà», così cominciava a scrivere Giuseppe nel suo “Ricordo” che troverete nel libro che questa sera viene presentato.

Eppure come ho accennato l’impegno di Giuseppe non si esaurì nel ripercorrere la vicenda del padre.

L’8 ottobre 2002, esultando, apprendemmo dalle colonne del Giornale di Sicilia che:

«Il Consiglio dell’ordine dei giornalisti di Sicilia, riunito a Catania, ha deliberato l’iscrizione alla memoria nell’elenco dei pubblicisti, di Giuseppe Francese, figlio del cronista del Giornale di Sicilia Mario, ucciso dalla mafia il 26 gennaio del 1979. Giuseppe Francese è recentemente scomparso e il Consiglio ha preso atto della sua produzione pubblicistica che denota capacità di svolgere indagini con un taglio tipicamente giornalistico. Grazie a Giuseppe Francese fu riaperto il caso dell’omicidio del vicepretore onorario di Corleone Ugo Triolo, avvenuto nel 1978, e fu intitolata una piazza da parte del Comune di Termini Imerese al giornalista Cosimo Cristina, morto in circostanze misteriose 40 anni fa. Anche le indagini personali svolte da Giuseppe Francese sull’omicidio del padre convinsero la Procura di Palermo a riaprire il caso. Il processo che ne è derivato si è recentemente concluso con le condanne di quasi tutti gli imputati, boss mafiosi della Commissione».

Io e Antonella tappezzammo letteralmente le pareti dell’assessorato col ritaglio di questa notizia che suscitò la letizia accompagnata dal rimpianto di chi gli era stato amico, provocando, invece, lo sgomento di quanti avevano sperato di avvolgerlo nell’oblio.

Il 3 ottobre 2002 ricorreva il trigesimo di Giuseppe. Con Antonella, già all’indomani della scomparsa del nostro amico, avevamo deciso di preparare qualcosa per quel giorno, qualcosa che spezzasse il silenzio e l’indifferenza generale. Volevamo gridare al mondo intero chi era Giuseppe Francese. Cominciammo così a vederci ogni giorno, anche fuori, per strada, a volte in compagnia di Hegel il cane di Antonella e mentre iniziavamo a lavorare su un volantino poi distribuito davanti ai cancelli dell’Assessorato, ci informavamo sugli ultimi contatti di Giuseppe, sugli ultimi suoi interessi, riprendendo quegli scritti che già conoscevamo e ricercando quelli che eventualmente ancora non conoscevamo.

Era una esigenza rafforzata dal dolore per la perdita di un amico e galvanizzata altresì dal bisogno estremo di affrancarci da una dimensione aziendale che in quei giorni era fatta di silenzi, di distacco, di inspiegabili e immotivate reticenze, forse perchè io e Antonella essendo stati vicino a Giuseppe potevamo compromettere la quiete personale di chi ci stava attorno richiedendo una qualche semplice opinione, raccogliendo una “normale” e “disimpegnata” informazione o intrattenendo una semplice conversazione. A volte il silenzio si spezzava improvvisamente ad opera di chi intendeva acquisire indiscrezioni su una persona che aveva vissuto in quel posto di lavoro e di cui si conoscevano bene le vicissitudini e le vessazioni amministrative: un modo come un altro per parlarne poi in sordina, animare il tam tam della disinformazione o riferire a qualcuno.

Dedicammo così a Giuseppe un dattiloscritto dal titolo “Nel Trigesimo di Giuseppe, ricordando un combattente antimafia” in cui ci rivolgevamo direttamente a lui, sottolineandone le virtù e le idealità e facendo un ritratto sferzante e realistico delle perverse logiche amministrative che avevano incrociato la sua esistenza e che aveva subito.

Riuscimmo parzialmente nell’obiettivo, in quanto ciò fu prevalentemente motivo di scandalo ma riuscì pure a riscaldare gli animi, a promuovere un qualche dibattito, quantomeno dei capannelli, oltre a suscitare il fastidio di non pochi.

Poi, cominciò di nuovo il vuoto e ad un tratto mi sentì solo ed avvertì una strana sensazione, come se io fossi un marziano o meglio un clandestino in un ambiente, quello dell’istituzione, avverso e ostile. Di notte non dormivo, riflettevo, elaboravo, mille pensieri mi attraversavano la mente e accanto al mio computer scrivendo di Giuseppe ripercorrevo qualcuno dei suoi scritti. Man mano che saggiavo il suo impegno giornalistico, le sue indagini che avevano il sapore dell’inchiesta, mi assalivano dei dubbi atroci. Intanto, Antonella stava male, era sempre più in preda allo sconforto.

Una sera squillò il telefono: «Pronto, è lei il signor Monterosso? Sono Cernigliaro della Sicurezza, vorrei parlare con lei di Giuseppe Francese» – «Va bene, dove ci vediamo? Fuori?» – «No. ci vediamo in Assessorato» – «Va bene mi raggiunga nella mia stanza». Il cuore mi si infiammò, ero contento di aver richiamato l’attenzione di qualcuno e per un attimo credetti pure che fosse arrivata la polizia.

Era Totò Cernigliaro che lavorava all’Osservatorio sulla Criminalità Organizzata. Totò ebbe la pazienza di ascoltarmi perché io lo travolsi con fiumi di parole e dopo essere riuscito, almeno in parte, a razionalizzare la mia spinta emotiva, convenimmo di continuare a vederci. Ci fu un attimo di suspense, perché per vincere qualsiasi diffidenza volli assicurarmi che lavorava proprio lì, in Assessorato. Così gl

i proposi di accompagnarlo nel suo ufficio. Quando varcai la soglia di quell’indimenticabile 14° piano mi accorsi che le luci erano spente e per brevi attimi fummo avvolti entrambi dal buio. Poi quella luce si accese e con Totò si accese la speranza che Giuseppe non cadesse nell’oblio.

Fu Totò, a concepire quella prima pubblicazione de “Il giornalista e l’impiegato” che insieme ad Antonella Marino dedicammo nel febbraio del 2003 a Giuseppe Francese. Un omaggio che Giuseppe meritava. Quel testo raccoglieva appunto tutti gli articoli scritti da Giuseppe e pubblicati su Antimafia Duemila e sull’Inchiesta e la testimonianza diretta mia e di Antonella che raccontavamo l’impegno, le idee e le passioni di Giuseppe. I contenuti di quel lavoro, assieme ad alcuni racconti di Giuseppe sono stasera riproposti da Totò nel suo nuovo libro che tutti voi avrete la possibilità di leggere.

Nel frattempo, Antonella, grazie alla sua forza di volontà e alla sua rinnovata intraprendenza, aveva raccolto le firme per l’istituzione di un Centro di documentazione sull’infanzia e l’adolescenza che avrebbe dovuto portare il nome di Giuseppe Francese e che avrebbe dovuto avere sede proprio in quella che era stata l’ultima sua stanza.

Ebbene, sulla porta fu posta una targa dorata che riportava quella dizione. L’Assessore degli enti locali prese anche sulla stampa dei precisi impegni con la famiglia Francese.

Questi impegni non furono mai mantenuti. A due anni dalla sua scomparsa io, Antonella e Totò scrivemmo una lettera “a Giuseppe”, pubblicata su La Repubblica di Palermo, dove ribadivamo che l’impegno non era stato mantenuto, «se si esclude per la targa collocata in prossimità della tua stanza e successivamente coperta con un sacchetto di plastica. Un modo esteticamente discutibile, ma assai efficace e soprattutto economico, per nascondere l’inesistente “Centro Giuseppe Francese” e gli impegni che ne discendevano per l’Amministrazione».

In ultimo, la targa fu definitivamente tolta in quel IV piano che vide Giuseppe prestare il suo impegno di funzionario e di cittadino esemplare. E’ stato quindi cancellato un impegno pubblicamente assunto.

Voglio ricordare che l’incontro con Totò Cernigliaro rappresentò per me ed Antonella un occasione per estendere il nostro impegno sul versante della cultura antimafiosa e su quelle iniziative legislative che promosse da Totò ci videro impegnati con tenacia insieme ad uno sparuto drappello di colleghi di altri Assessorati. Questo impegno fu da noi vissuto intensamente, quasi fosse un testimone lasciato da Giuseppe. Quel 14° piano era infatti diventato il centro propulsore di mille iniziative.

Il 7 novembre 2002, a due mesi dalla scomparsa del collega, raccogliemmo le firme insieme a Massimo Francese, Giovanni Abbagnato, Anna Cappiello, Emanuele Catalano, Agostino Marrella, Luigi Pintus, Annibale Raineri, Giuseppe Tutone, Felicia Guastella e Vincenza Verro per l’approvazione di una norma che consentisse ai familiari di Giovanni Bonsignore e di Filippo Basile il riconoscimento degli stessi benefici dei familiari delle vittime innocenti della mafia, quale atto tangibile di solidarietà nei loro confronti.

GRAZIE GIUSEPPE PER AVERCI INSEGNATO TANTE COSE!

 

 

Giuseppe Francese: l’uomo, lo studioso, il suo impegno civile e culturale, i suoi ideali
di Nicola Monterosso

In 18 anni di servizio all’assessorato regionale degli enti locali, in quel palazzo augusto di via Trinacria 36, non ho mai conosciuto una persona come Giuseppe Francese, individuo davvero “dissonante” se consideriamo la Regione come un ambiente predisposto alle convenienze sociali, al pragmatismo opportunista, al consenso parrocchiale, brevemente scossi da una stagione sindacale che non è riuscita a incrinare pettorute vocazioni verticistiche e vecchi equilibri di potere né purtroppo a innescare nuove tensioni ideali in controtendenza al visibile intruppamento generale. In quei lunghi corridoi percorsi spesso dal grigiore, dal vuoto, dalla ipocrisia, dal chiacchiericcio, da una subordinazione tanto spiacevole quanto interessata dove Bonsignore trascorse in solitudine l’ultima fase della sua esistenza, Giuseppe era pieno di ideali e di tensioni innovative: un trasgressivo! E lui aborriva l’idea che la coscienza doveva essere amministrata, controllata, prescritta, omologata. Così poco ossequioso dei cerimoniali e delle plumbee e vacue convenzioni quanto delicato, schietto, fiero, vero, rispettoso dell’individualità altrui e orgoglioso della funzione che esercitava. Un orgoglio che andava ben al di là di qualsiasi autostima formale e burocratica. Sempre alla ricerca della giusta strada, con quel suo discernimento imparziale sul lavoro, con quelle sue qualità umane, ideali e professionali che facevano di lui un individuo speciale. Giuseppe era una persona sensibile e spontanea, ma anche capace di tenere saldi i suoi principi senza vacillare davanti a compromessi o accattivanti vie di fuga dalle proprie responsabilità, anche quando si sentiva dire “Per favore, non sollevi problemi”.
Considerava il suo posto di lavoro una trincea di legalità, di onestà e di creatività. Il suo ideale di amministrazione era lo stesso che fu di Bonsignore, della cui memoria aveva una devozione veneranda, di Basile, il cui assassinio gli fece intravedere dei retroscena ancora tutti da scoprire, con ovvie implicazioni di responsabilità politiche e istituzionali. In altri termini, il suo era l’ideale di quei funzionari che svolsero e che svolgono la loro attività all’insegna del dovere, della giustizia e della legalità. Giuseppe si ispirò sempre alla trasparenza e alla professionalità come un servizio da rendere alla società.
Giuseppe Francese aveva il giornalismo nel sangue: “il giornalismo mi scorre nelle vene” diceva, premendo con forza l’indice sul polso. E insieme all’instancabile impegno professionale si dedicava alle sue ricerche appassionate e alla stesura dei suoi articoli, che offrivano al lettore uno stile elegante, scorrevole, coinvolgente, incalzante.
Giuseppe agiva nel versante della giustizia. La sua era una antimafia sociale, non delegata, non affidata irresponsabilmente ad esponenti presunti di rottura dei passati equilibri politico sociali, che faceva chiarezza sulla natura del fenomeno e che a volte assumeva i contorni della controinchiesta e dell’indagine diretta.
Le sue iniziative, i suoi contributi in giornali selezionati su cui trovava spazio (“l’inchiesta”, “Antimafia2000”, soprattutto) ricostruivano fatti, delitti, percorsi e profili ideali di persone cadute nell’oblio. Un esempio, il giornalista Cosimo Cristina, trovato morto sui binari della galleria Fossola a Termini Imerese nel lontano 1960, passato alla cronaca come suicida, al quale in seguito all’impegno di Giuseppe fu intestata una piazza. La tesi di Giuseppe, dopo attenta e scrupolosa analisi degli elementi raccolti, fu “omicidio” e nel 1998 scrisse su “l’inchiesta” un notevole articolo corredato da una documentatissima cronologia, dal titolo “Suicidato” dalla mafia? Eccone un brevissimo stralcio:

La mattina del 3 maggio, alle 11 circa, Cosimo Cristina uscì di casa ben vestito, con il solito cravattino, rasato di fresco e accuratamente profumato. Strano, per chi decide di farla finita (…) Il pomeriggio del 5 maggio 1960, ad appena venticinque anni, Cosimo Cristina fu rinvenuto privo di vita nel tunnel ferroviario di contrada “Fossola” a Termini Imerese, “Si tratta di un palese suicidio”, sentenziarono sicuri gli inquirenti, intervenuti sul luogo del ritrovamento, tanto che non predisposero nemmeno l’autopsia. Eppure quel “presunto suicidio” lascia tutt’oggi aperti tanti dubbi(3).

È la storia di un giornalista scomodo che, con i propri articoli, seminava lo scompiglio tra i potenti di Termini, Cefalù e delle Madonie. “Oggi qualcuno ha chiesto timidamente la riapertura delle indagini” riferiva Giuseppe contento. Cosimo è stato scritto alla memoria all’albo dei giornalisti. E i suoi familiari continuavano a ringraziare Giuseppe che rispondeva loro così: “Voi non dovete ringraziare proprio nessuno. Semmai siamo noi tutti che dobbiamo ringraziare Cosimo per quello che ha fatto, indignarci per quello che ha patito, per come è stato dimenticato”. Soffriva maledettamente quando gli telefonava la Signora Josè (la sorella del giornalista, adesso in chemioterapia) dicendogli “Grazie per tutto quello che ha fatto, ma la prego ci aiuti ancora”. Lui le diceva di sì ma pensava in cuor suo che il giornalista non avrebbe avuto mai giustizia.
Così anche per un avvocato vice pretore, ucciso a Corleone e “posteggiato” per ventidue anni: Ugo Triolo. Giuseppe scrisse un altro articolo: l’inchiesta è stata riaperta. “Speriamo bene!” diceva “Speriamo che anche Ugo possa avere giustizia”.
Giuseppe si dedicò per tanti anni a ripercorrere la pista che portava diritto agli assassini del padre e con volontarismo febbrile, associato ad analisi e a intuizioni fondate, nonché alla ricerca e alla raccolta di elementi preziosi, alternava le visite in Procura ai suoi articoli penetranti, incisivi e quando il processo finalmente si celebrò non si perse un solo momento dell’udienza sino alla chiusura del dibattimento e alla formulazione della sentenza. Ma tanti casi, tante vicende, anche quelle con uno sfondo sociale e politico più ampio furono per lui oggetto di studio serio e attento, ricerca approfondita e meditata, confronto costruttivo, che testimoniano il suo andare oltre la vicenda personale del padre, grande giornalista di cronaca giudiziaria, investigativa e di denuncia sociale, per coltivare una vasta gamma di interessi, illuminati dalla ricerca costante della giustizia e della verità come valori impliciti ad idee ed azioni indirizzate a modificare una terribile realtà e proiettate su una complessità sempre in movimento.

Questa terra si sa, è la terra dei misteri: dall’arrivo del Prefetto Mori, allo sbarco degli americani in Sicilia, alle clamorose gesta del bandito Giuliano, alla strage di Portella delle Ginestre, all’uccisione di Giuliano, al tentato golpe Borghese, all’omicidio del colonnello Russo, ai grandi omicidi eccellenti degli anni ’79, ’80, ’81 (che poi non è altro che il golpe dei “corleonesi”) alla misteriosa scomparsa di Sindona in Sicilia, alla seconda guerra di mafia, alle grandi stragi, Ustica compresa. Qual’è la verità? E quante sono le verità? (…) A volte mi sembra che la verità sia come un immenso puzzle, ogni intanto incastoni un pezzo e cerchi l’altro per andare avanti. Ma il puzzle è infinito, e nonostante tutto l’impegno possibile, non sarà mai completato(4).

In seguito alle indagini giudiziarie legate alle indagini investigative sulla morte del padre, aveva inserito molti suoi articoli, che riteneva di particolare interesse, in un cd-rom che consegnò alla Procura. Caso volle che giusto in quel periodo si stava anche pubblicando un libro dedicato al padre(5). Gli fu richiesto il cd-rom con i suoi articoli che volentieri consegnò.
Con un occhio sempre vigile alla realtà presente e alle tristi “innovazioni” di un dispositivo politico che secondo noi calpestava la dignità umana producendo ininterrottamente tutto ciò che diventava congeniale e propedeutico alla ripresa del crimine mafioso, guardava con attenzione alla vicenda umana dei giornalisti “uccisi dalla Mafia e sepolti dall’indifferenza”(6): Mauro De Mauro, Giuseppe Fava, Mario Francese, Mauro Rostagno, Beppe Alfano, Cosimo Cristina, Peppino Impastato, Giovanni Spampinato. E Giuseppe metteva in relazione fatti, analogie, formulava ipotesi, tracciava linee di demarcazione e di continuità con il presente attraverso l’osservazione attenta di una filiera di eventi che hanno cambiato la storia d’Italia: La Guerra Fredda, il Piano Solo, Piazza Fontana, il golpe Borghese, Gladio, la P2 (il cui programma riteneva fosse diventato formula di governo), le bombe nelle piazze e sui vagoni, quella di piazza della Loggia a Brescia, e sul treno Italicus in San Benedetto val di Sambro, Gelli, Sogno, Cavallo, Berlusconi (tessera n. 1816, codice E1978, Gruppo 17, fascicolo 0625 della P2), la bomba alla stazione di Bologna, l’agguato che costò la vita ad Ilaria Alpi, “La Uno Bianca”, la “Falange Armata”, dalla strategia stragista degli anni ’90 sino alle propaggini attuali della strategia della tensione, in un intersecarsi fitto di connubi tra mafia, massoneria, servizi “deviati”, camorra, ‘ndrangheta, politica, affari, ambienti militari ed industriali.
Giuseppe aveva una capacità sorprendente di decodificare e di assembleare in una visione organica fatti, accadimenti sparsi nel tempo e nello spazio, risalendo dal particolare al generale e viceversa, confrontando date, raccogliendo indizi e avvenimenti riportati sulla stampa. La sua attenta e scrupolosa lettura della realtà si associava a una mobilitazione costante alla ricerca e si avvaleva di una vasta e seria documentazione. Sebbene ne avesse il talento, Giuseppe sarebbe stato molto più di un giornalista di cronaca giudiziaria e investigativa e guardando con ammirazione al giornalismo di denuncia sociale del padre analizzava i depistaggi, le reticenze, i silenzi su quanto pur rappresentando elemento determinante e di rilievo non veniva accolto da una macchina della giustizia lacunosa e contraddittoria.

Nell’articolo I bombaroli di Cosa nostra, pubblicato su “l’inchiesta” del 6-19 maggio 1998 offre una chiave di lettura degli attentati che si susseguirono a Palermo e in altre città d’Italia tra il 1977 e il 1978 (in due anni quattordici attentati dinamitardi), del ruolo della destra eversiva, della testimonianza del boss di Riesi, Giuseppe Di Cristina, ucciso in quel periodo. Ne ricava l’ascesa della mafia Corleonese. Ricostruisce la vicenda dei tre pastori immolati sull’altare di una “verità” che è crollata nel 1995. Riporta gli articoli dell’epoca de “L’Ora” e del “Giornale di Sicilia” ed evidenzia le inquietanti similitudini tra le bombe di quegli anni e gli attentati successivi alle stragi Falcone e Borsellino, riesaminando il caso degli omicidi del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo e del professore Filippo Costa, uccisi il 20 agosto 1977 nella piazza di Ficuzza:

La spettacolarità dei due delitti, la perfezione organizzativa, il luogo dove è avvenuto il duplice omicidio, dovevano lasciare “subito” intendere che l’eccidio, eseguito con il più ortodosso metodo mafioso fosse opera della mafia, o meglio ancora della mafia di Corleone. Vediamo di ricostruire i fatti. I carabinieri, il 25 ottobre 1977, presentano, sulla scia dell’inchiesta giornalistica sulla costruzione della diga Garcia, pubblicata sul “Giornale di Sicilia” dal 4/9/77 al 21/9/77, a firma del cronista giudiziario Mario Francese (ucciso dalla mafia il 26/1/1979), il primo rapporto sul “caso Russo”. I militari e prima ancora Mario Francese delineano come movente dell’omicidio Russo, il groviglio di interessi che ruotano intorno alla costruzione della faraonica diga Garcia, per la cui realizzazione sono stati stanziati qualcosa come 350 miliardi di lire. Per ben diciotto anni per quel duplice omicidio sono inc riminati e incarcerati tre sprovveduti pastori, uno dei quali privo di un braccio e claudicante. Avviene che, l’1 settembre 1978, un pastore Casimiro Russo, si autoaccusa del delitto, chiamando in causa altri due presunti complici, Salvatore Bonello e Rosario Mulè. Casimiro Russo, nel dichiarare di aver partecipato all’omicidio (dichiarazioni poi ritrattate in istruttoria), consegna ai carabinieri l’arma che avrebbe utilizzato per il duplice omicidio. Ma la perizia effettuata, stabilisce con certezza non solo che l’arma in questione non è la stessa che ha ucciso il colonnello Russo e il professore Luigi Costa, ma è un’arma del tutto inefficiente. Inoltre, il 30 maggio di quello stesso anno viene spietatamente trucidato il boss di Riesi, Giuseppe Di Cristina il quale, qualche tempo prima di morire, ha “confidato” ai carabinieri che l’omicidio Russo è opera dei “Corleonesi”. Nonostante le dichiarazioni di Di Cristina, nonostante l’arma consegnata da Casimiro Russo fosse in realtà un ferrovecchio, nonostante apparisse chiara la mancanza di personalità “criminale” dei presunti killer, i pastori vengono condannati all’ergastolo, ad eccezione del reo-confesso Casimiro Russo, che viene condannato alla pena di ventisette anni di carcere. Naturalmente a beneficiare della condanna dei tre ignari pastori sono i veri esecutori del delitto, e primo fra tutti Leoluca Bagarella, cognato del capomafia Salvatore Riina. Ma che cosa avviene realmente? Chi organizza e chi sta dietro quel depistaggio? Perché le confidenze del boss Giuseppe Di Cristina ai carabinieri non sono prese nella “dovuta” considerazione? Nei mesi in cui sono in corso di svolgimento le indagini sul duplice omicidio di Ficuzza, si registra una serie di attentati terroristici abbastanza strani (…)

Accade che, in coincidenza con la presentazione del primo rapporto dei carabinieri sul “caso Russo” (25/10/1977) a Palermo esplodono alcune bombe. Le prime tre scoppiano la notte del 26 ottobre1977, all’indomani della presentazione del rapporto. Gli ordigni vengono piazzati, rispettivamente, nella sede del Commissariato di Mondello, presso la centralina Sip di Tommaso Natale, mentre l’ultimo scoppio avviene all’1,30, presso il deposito Cirio di via Lancia di Brolo. Nel muro di cinta del Commissariato vengono rinvenute delle scritte con lo stemma di “Ordine Nuovo”. Le bombe della confusione, così vengono definite in quel periodo, non cessano. Il 30 ottobre un attentato dinamitardo devasta una cabina Enel lungo la circonvallazione. L’attentato viene rivendicato alle 22,15, con una telefonata al giornale “L’Ora”, dalla solita organizzazione estremistica di destra, “Ordine Nuovo”.
L’1 novembre, altro attentato: salta in aria una cabina di trasformazione dell’Enel, in via Fuxa (…). Sul giornale “L’Ora” del 7 novembre 1977 appare un grosso titolo “Altre bombe a Palermo. Chi le mette”?. Ed ancora, sempre sul giornale “L’Ora”, “Escalation di bombe a Palermo. Nella notte tra sabato e domenica quattro cariche di tritolo hanno distrutto altrettante cabine telefoniche in via Marconi (due), nei pressi dell’Orto Botanico e al Policlinico (…) Chi sono gli autori? Chi è il regista di questa strategia della paura? Chi sta dietro alle braccia facili da reclutare, che gettano le bombe? E cosa prepara questa successione di violenza?” Quello che avviene a Palermo è un fenomeno del tutto nuovo ed inusuale. Mai, infatti, è stato registrato un così frequente numero di attentati in successione, eccezion fatta per il 1968, con la vicenda del “Trocadero”, il gruppo di fascisti estremisti che si rende responsabile di una serie di attentati. Il decimo attentato registra il 16 novembre 1977, contro la sede centrale della Sip di Palermo. Viene utilizzato un candelotto al tritolo a combustione lenta, mentre nella notte precedente sono state lanciate quattro bottiglie incendiarie contro l’ingresso del cinema Dante. Il 21 novembre viene piazzato un ordigno in una cabina Icem, la società che ha in gestione la manutenzione della rete di illuminazione pubblica. Mezza città rimane al buio. C’è una strana coincidenza: quello stesso giorno anche la mafia “ufficiale” alza il tiro. Il boss Giuseppe Di Cristina scampa miracolosamente ad un agguato, eseguito a circa otto chilometri da Riesi. Muoiono due sue colleghi, impiegati della Sochimisi, che stavano recandosi al lavoro su una BMW. In quella automobile avrebbe dovuto trovarsi anche Di Cristina, che, però, per motivi di salute era rimasto improvvisamente a casa. Per gli attentati dinamitardi vengono messi sotto accusa alcuni personaggi che ruotano attorno agli ambienti della destra eversiva. Ma l’estrema destra non accetta le accuse. Replica dando fuoco al “Palazzo dei giornalisti”. Sul posto gli inquirenti trovano un volantino (…) “Basta con le montature di regime(..) Prendendo spunto da alcuni innocui pedardi lanciati contro due sezioni comuniste si sta cercando di coinvolgere i camerati palermitani nelle presunte trame di un fantomatico Fln (Fronte di liberazione nazionale) (…) I camerati Maselli e Scaglione sono innocenti e vittime di una trappola” (…)
Possibile che a Palermo scoppiano tante bombe senza la preventiva autorizzazione e il beneplacito di “Cosa nostra”, che ha il controllo del territorio?
Il giornale “L’Ora” dell’8 novembre 1977 così riporta: “Mafia, massoneria, malavita e fascisti: questi sono gli ingredienti e la miscela è esplosiva. La reazione è già iniziata, e i collegamenti inquietanti fra questi settori clandestini della società italiana emergono. Potevamo credere che la Sicilia restasse fuori da tanti intrighi? No, manco a pensarci. Da un rapporto del Sid consegnato il 19 settembre 1974 alla Procura della Repubblica di Roma … le attività violente del Fronte nazionale (il gruppo fascista fondato da Junio Valerio Borghese) si dovrebbero avvalere di esecutori che gravitano nel mondo dell’estrema destra e della mafia siciliana. L’interesse della mafia ad intervenire in un processo di destabilizzazione dello Stato, si può spiegare in base ad una considerazione: la mafia è sempre stata filogovernativa, ha cioè appoggiato il potere costituito perché garante del mantenimento di una situazione di fatto. Ma nel momento in cui le sinistre entrano nell’area di governo e si pongono in prospettiva di intervenire con maggior peso nell’amministrazione pubblica, l’interesse mafioso alla linea governativa viene meno (…)”. Intanto proseguono le indagini sull’omicidio del colonnello Russo. In data 25 agosto 1978 i carabinieri presentano il loro secondo rapporto sul “caso Russo”. Il rapporto contiene le dichiarazioni dell’ormai defunto boss Giuseppe Di Cristina che, ricordiamo ancora una volta, indica quali autori e mandanti del duplice omicidio i mafiosi del Corleonese. Esattamente sei giorni dopo la presentazione del rapporto, l’1 settembre 1978, ecco le strane confessioni di Casimiro Russo, che dichiara di aver partecipato all’omicidio tirando in ballo anche Salvatore Bonello e Rosario Mulè. La notizia dell’arresto dei due pastori viene data il 5 settembre. Ma in quello stesso giorno, ennesima strana coincidenza. Sul giornale “L’Ora” si legge: “Bomba per una strage. La strage è stata evitata per poco. Una potente carica di tritolo ha fatto saltare stanotte un metro di rotaia sulla direttissima Bologna-Firenze tra le stazioni di Vernio e di Vaiano. L’esplosione è avvenuta mentre transitava l’espresso “Conca d’oro” che collega Milano a Palermo. Se l’attentato è fallito si deve al fatto che il binario dispari, quello per intendersi che raccoglie il transito dei treni diretti a Firenze, era stato bloccato un’ora prima dei lavori sulla linea e quindi l’espresso era stato deviato sull’altro binario. L’esplosione (forse il tritolo era collegato ad un congegno a tempo) è avvenuta davanti al locomotore della “Conca d’oro”. Se tutto fosse andato secondo il piano stabilito, sarebbe stata una strage. Lo spettro dell’Italicus continua a vivere sulla direttissima”. A conti fatti, sembra che una sorta di “mano invisibile” manovri questo strano succedersi di depistaggi e attentati. Una somma di “casualità” che finirà con il favorire l’ascesa dei corleonesi ai vertici dell’organizzazione mafiosa.
Facciamo un grande balzo in avanti: dall’omicidio Russo passiamo agli attentati successivi alle stragi Falcone e Borsellino. Leggiamo il “Giornale di Sicilia” del 9 giugno 1995: “Il pentito Avola svela: c’era un patto scellerato con massoni deviati, terroristi neri e servizi segreti infedeli per scardina
re lo Stato. Cosa nostra intendeva sovvertire l’ordine in Italia in raccordo con vecchi protagonisti dell’eversione di destra, con la massoneria deviata, con esponenti infedeli dei servizi segreti e con disinformatori di professione: lo sostiene un dossier riservato della Dia, la Direzione investigativa antimafia, del 4 marzo 1994, trasmesso alle Procure della Repubblica di Caltanissetta e di Firenze, rispettivamente competenti per queste vicende terroristiche e mafiose. Di interessi convergenti tra la mafia e altri “poteri” nelle stragi Falcone e Borsellino da tempo parlano i magistrati della Procura di Caltanissetta: Cosa nostra ha agito con altre espressioni criminali seguendo un filo logico strategico che obbediva alla necessità di soddisfare gli interessi di tutti, verosimilmente convergenti, preventivando anche la possibilità di dover sopportare nell’immediato notevoli sacrifici”.
Con sentenza del 25 gennaio 1995, Casimiro Russo, Salvatore Bonello e Rosario Mulè dopo diciotto anni di ingiusto carcere, vengono scagionati dall’accusa di aver partecipato agli omicidi del colonnello Giuseppe Russo e del professore Filippo Costa. La sentenza condanna all’ergastolo Leoluca Bagarella, quale autore del delitto, e Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Michele Greco, quali mandanti.
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Giuseppe riteneva che erano fatti che riguardavano tutti e apertamente ne parlava, principalmente con chi aveva da tempo maturato una coscienza civile o con chi, essendo più avanti negli anni, portava il contributo di una maggiore memoria storica che tuttavia doveva misurarsi con la sua cultura enciclopedica. Le sue tematiche, il suo modo di argomentare, riuscivano talvolta a scalfire il silenzio e l’apatia di un ambiente impermeabile al confronto libero e diretto suscitando momenti di dibattito tra più soggetti.

La strategia che vede il dissimulato rapporto sinergico di mafia, politica, affari, massoneria, neofascismo e servizi segreti “deviati” avvalersi dei morti e delle bombe nel tentativo non sempre riuscito di diventare formula di governo (Piazza Fontana docet), continua con le stragi degli anni ’80 e ’90 e le attente analisi di Giuseppe Francese, che non erano rivolte solo agli anni ’70 e che si avvalevano di una ricca documentazione, rappresentata anche da una selezionatissima e specializzata pubblicistica in materia, dalla lettura attenta e appassionata di libri, giornali e riviste, erano argomenti seri di riflessione e restano argomenti di riflessione e di dibattito serrato in un contesto sociale infirmato da un governo che mette all’ordine del giorno attacchi inediti e spietati al mondo del lavoro.

Gli interessi di studio e di ricerca di Giuseppe si inoltravano in quel continuo riferimento all’intreccio di traffico di droga, di armi e grandi affari, collocato nell’Italia della mafia, delle trame eversive e della P2. La sua interpretazione degli esiti “politici” dell’ultima stagione stragista convergeva e può sintetizzarsi con quanto riportato in alcuni passi salienti dell’introduzione al libro di recente pubblicazione Falcone e Borsellino Mistero di Stato:

È ancora da percorrere l’itinerario dei misteri che circonda la fine di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Dieci anni dopo, i mafiosi che hanno deciso ed eseguito gli eccidi del 1992 sono in galera. Non lo sono i beneficiari di quella stagione di sangue e orrore. Se è ormai certo e ineluttabil e che Cosa nostra si occupò delle stragi di Palermo, e poi di Roma, Firenze e Milano, nel 1993, è abbastanza evidente che non Riina, vero artefice della scelta stragista, ha incassato un solo dividendo da tutta l’impresa. Eppure, quella che sembrava una scelta suicida, che avrebbe portato l’organizzazione mafiosa al tracollo, si è rivelata ugualmente fruttuosa. Dalle ceneri della stagione di sangue e orrore, una nuova mafia, più forte e silente, più abile e più subdola, si è fatta avanti. Detta legge negli affari, si è seduta a tavola più comodamente di prima, prospera nell’ombra e recluta adepti insospettabili. Non uccide, non spara ma ingrassa. E’ la mafia di Bernardo Provenzano. Non Riina, dunque, ma l’organizzazione ha guadagnato molto da quelle stragi. Ha scommesso su un passaggio obbligato meditando di ricavarne profitto sulla lunga distanza. E in questo tempo di rimozione si è sfiorata persino l’abolizione dell’ergastolo, si torna a parlare con insistenza di una soluzione quasi politica per quegli anni. La chiave per la svolta è in una parola “dissociazione”. E’ più di un progetto, viaggia in sotterranea, incontra molti favori e poggia pure su un paio di proposte di legge depositate in Parlamento. Il senso è pressappoco questo: ” dichiari di essere mafioso, ammetti le tue colpe, quelle che la giustizia ti ha già attribuito, e solo quelle. In cambio avrai misure più blande per la detenzione e la possibilità di scalare dagli anni della pena gli sconti previsti per le leggi premiali” Ciò che non è detto, ed è la parte più cospicua del contratto, riguarda i patrimoni. “Conservi i soldi, e quel che è stato è stato. Ma noi potremo dire di averti battuto”. (…) Solo chi meditava di giungere alla presa del potere poteva negoziarla (…) Dieci anni dopo sappiamo che Riina non fece tutto da solo. Consultò e incontrò persone importanti, discusse a lungo delle molte possibilità che un quadro politico in movimento gli offriva. Puntò a più tavoli. Si raccordò ad altre organizzazioni criminali. Entrò in contatto con tutti, massoni, neofascisti, esponenti dei servizi segreti, tenne un canale aperto perfino con alcuni ufficiali dei carabinieri (…) Così finiva la prima repubblica e se ne preparava un’altra. Riina inferse un colpo decisivo al crollo della Democrazia cristiana uccidendo Salvo Lima, subì il tracollo socialista quando molti dei suoi uomini facevano affari con i big dell’imprenditoria corsara prosperata all’ombra del garofano. Scrutò a lungo la Lega, si mosse abile tra mille sigle dell’arcipelago indipendentista del sud, si fece un partito tutto suo e poi ne decretò la fine quando era già nata Forza Italia. In Parlamento, ormai, sedevano uomini che forse don Totò non ha mai incontrato personalmente ma dei quali, certamente, molti gli avevano parlato benissimo. (8)

Il suo essere uomo, il significato profondo che dava alla coerenza, il suo richiamarsi alle responsabilità, erano autentici ed estranei a qualsiasi riflesso “d’ordine” e di “sovranità. Giuseppe non era un eterodiretto, non era affetto da nessuna peste clientelare e autoritaria. Non era afflitto da arrivismo e da competitività, non gli piaceva stare sotto le “palle del marchese” e confrontarsi con lui non si riduceva a parlare con un ruolo, con uno status, con una categoria, ma con un individuo sociale ricco di intelligenza e di umanità.

Il suo impegno recente alla Regione, in un servizio che si occupa di interventi per l’area minorile , era alacre, solerte, pieno di iniziativa e di interesse. In particolare si era dedicato all’indagine sul lavoro minorile in Sicilia e ai minori immigrati, quegli stessi poveri fanciulli, dagli occhi profondi, che sfuggiti alla morte in mare su imbarcazioni di fortuna, raggiungono le nostre spiagge nella sempre più improbabile speranza di un esistenza migliore. E talvolta nei pub, stringendo forte il bicchiere lo assalivano lo sdegno e la tristezza nel vedere scacciati crudelmente quei piccolini che tentavano di vendere rose per sbarcare il lunario. Non riesco la notte nei pub a non guardare gli occhi profondi dei bambini di colore che cercano di vendere rose a chi con violenza li caccia. Ed io che mi occupo anche di minori immigrati so di non potere fare un cazzo per loro (…) Perché lo sfruttamento dei minori fa comodo a tanti(9)

Giuseppe deplorava le politiche xenofobe e razziste del governo e criticava duramente, anche in ufficio, chi si faceva alfiere di queste pratiche autoritarie e disumane. Conosceva bene il vero significato della parola solidarietà.

Non era riuscito a non fermarsi nel vedere un giovane stramazzato al suolo in via Notarbartolo, tra l’indifferenza generale: telefonò alla polizia, che appena arrivata lo svegliò, gli controllò le braccia: “Vabbè è un tossico” Gli diedero una pacca e via, mentre Giuseppe si chiedeva “ma dove andrà adesso” e lo seguì per un po’, fin quando non lo perse di vista.
Non era riuscito a non fermarsi nel vedere un uomo a terra pieno di sangue perché era stato investito. Cercò di tamponargli la ferita alla testa mettendosi seduto sotto di lui premendogli con un fazzoletto la testa che zampillava sangue. Con il suo sangue addosso quella mattina andò a lavorare.

Era profondamente preoccupato dell’attuale stato di salute della “democrazia”, della “giustizia”, della “liberta” e di un potere che disprezzava i bisogni, che ratificava le illegalità, così informato agli imperativi della merce, del profitto, del denaro e riteneva che il potere criminale aveva posto termine alla strategia stragista, scegliendo quella dell’inabissamento “nel tentativo di riproporsi come principio di governo e di statalità” e che la differenza sostanziale, in termini di qualità, tra la Prima e la Seconda Repubblica, si basava sul passaggio dalle bombe nelle piazze alla strage di diritti sociali. Mentre la globalizzazione liberista rafforzava i poteri criminali spingendo al massimo la loro internazionalizzazione, a partire dalle lobby finanziarie che sono le grandi imprese di pulizia e di riuso dei proventi immensi di tutti i grandi traffici illegali del pianeta, il governo sottoponeva ad attacchi inediti e ad ulteriori vessazioni il mondo del lavoro, falcidiava la spesa sociale, attaccava la previdenza, le pensioni, rendeva precari e flessibili i diritti, legalizzava il falso in bilancio, andava verso l’abolizione del gratuito patrocinio, privatizzava e distruggeva l’istruzione e la sanità pubbliche attentando al diritto allo studio e alla salute di tutti e, in attesa di decretare definitivamente l’uso privato della giustizia e dello stato, sottoponeva ad attacchi a tutto campo, attraverso l’utilizzo spregiudicato della stampa asservita e dei media concentrati nelle mani del presidente del consiglio, quel drappello di magistrati che credono ancora nell’onesta e nell’equità delle proprie funzioni. E qui, pur partendo a volte da valutazioni diverse, le nostre analisi si incontravano.

Giuseppe era un comunista sui generis perché, intanto, era Giuseppe: un comunista indipendente che pur manifestando apertamente le sue convinzioni politiche in un contesto profondamente maccartista e adeguatamente destrorso si considerava un senza partito, nel senso che rifiutava tutte le forme di burocrazia, di centralismo, di funzionarismo. Non nutriva alcuna simpatia nei confronti di chi si poneva come ceto politico anche quando si presentava sotto le spoglie della sinistra più avanzata. Detestava le ampollosità, il machiavellismo e l’autocompiacimento dei politici di professione. Non era un “animale politico” nel senso classico della parola, bensì un uomo in rivolta contro l’ingiustizia e contro tutti i simulacri di giustizia, le cui idealità si deducevano direttamente dal modo di agire, di intrattenere i rapporti, di interpretare la realtà, più che da dogmatiche e astratte connotazioni ideologiche. Resta, comunque, assodato che profuse il suo impegno prevalente sul versante antimafioso e che questo impegno non si arenava nella centralità della giustizia penale ma si estendeva alla ricerca della giustizia sociale. Giuseppe riteneva che lo strumento più idoneo per abbattere i poteri criminali era senza dubbio la costruzione di una coscienza diffusa, di una mobilitazione generale dal basso, di cui non si intravedevano neanche i barlumi in un ambiente come la Regione, dove rare sono state sempre le voci fuori dal coro, ma che in attesa di un risveglio collettivo era importante agire in prima persona, impegnandosi civilmente e professionalmente, cosa che egli sempre fece.

Giuseppe apparteneva a quella che in certi ambienti regionali viene cinicamente definita “la schiera dei fortunati”, cioè di coloro che hanno avuto un posto di lavoro presso la pubblica amministrazione, in qualità di orfani di vittime di mafia. Giuseppe ribatteva con ironia: “Categoria fortunata: sì perché per entrare non abbiamo fatto nessun concorso, ma siamo stati assunti attraverso una legge nazionale. C’è da chiedersi allora: quanti hanno fatto un concorso alla Regione? Noi dobbiamo dire soltanto grazie ai nostri padri, morti semplicemente da uomini in mezzo a un mondo di quaquaraquà”.(10) Pensava che se gli altri erano invidiosi facevano bene ad esserlo, perché pochi avevano avuto la fortuna di avere padri come il suo e coloro che erano rimasti orfani, perché i loro padri non si erano fermati di fronte alle ingiunzioni della mafia, dovevano ardere di orgoglio.

La sua morte mi lascia sgomento, perplesso e sfioro ogni tanto con le dita quell’ultimo soffio di vita rimasto impresso per sempre nel libro dedicato al padre che un anno fa mi regalò: “Al mio amico Marcello, con la speranza che anche a noi non venga mai a mancare il coraggio della verità”.

Nella sua stanza rimane un piccolo frammento del suo mondo: il poster di Mario Francese giornalista, quello del Che in Bolivia e un r iquadro di colla rinsecchita. È ciò che rimane di una foto di Giovanni Bonsignore, i cui lembi, sino ad ieri, leggermente scollati, venivano delicatamente riaggiustati dalle mani affettuose di Giuseppe.
Il suo mondo ideale era fatto di gente giusta, onesta, solidale, fatto di amici, di compagni, di fratelli. Lo stesso mondo del padre che egli amò tanto.

Avevo quegli occhioni scuri quando bruscamente sei andato via. Ho ancora gli stessi occhi e con loro continuo a percorrere le impervie strade della vita. Senza di te, ma con te. Perché mi hai lasciato dentro quella indelebile impronta. E così, con te dentro me, continuo a vivere mentre mi incontro e mi scontro con la vita.(11)

Due vite stroncate dalla mafia e dai comitati d’affari, in una Palermo facile a dimenticare.

Arrivederci Giuseppe nella Sierra Maestra… Là, sui nostri monti ideali… Sono rimasto solo, qui in “Bolivia” ma ho per amiche le stelle…
Sirio mi illumina la strada e mi rende sicuro il cammino.

Palermo, 3 Ottobre 2002
Nicola Monterosso, lavoratore dell’assessorato regionale degli enti locali

 

 

 

Per non dimenticare Giuseppe Francese
di Cernigliaro Salvatore

Ed. Coppola

Il 3 settembre 2002 non era un giorno qualunque. Era il ventesimo anniversario della strage di via Carini in cui furono barbaramente trucidati il Generale Carlo Alberto DallaChiesa, Prefetto di Palermo, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Giuseppe scelse proprio quel giorno per troncare la sua giovane vita, segnata profondamente e irrimediabilmente dall’infame omicidio di suo padre Mario Francese, il giornalista di cronaca del Giornale di Sicilia ucciso in un agguato mafioso il 29 gennaio 1979. Giuseppe impegnò gran parte del suo tempo perché fosse fatta giustizia per quell’omicidio, per tanti anni rimasto insoluto, e ci riuscì. Ma, ricordare Giuseppe solo come orfano di vittima della mafia” significa non riconoscere tutto il valore di una persona eccezionale che ha saputo manifestare un intelligente impegno civile, una coerenza impermeabile ad ogni compromesso, un’umanità straordinaria.”
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Articolo del 4 settembre 2002 da  ricerca.repubblica.it
Il padre fu ucciso dai clan s’ impicca per il tormento

di Attilio Bolzoni

PALERMO – A volte arrivava di mattino presto, quando il Tribunale era deserto e le stanze dei giovani sostituti procuratori erano ancora vuote. Lui si sedeva sulla panca di legno sotto la finestra anche per un’ ora, fissava il muro, aspettava il magistrato che dopo vent’ anni aveva riaperto il «caso»: l’ inchiesta sull’ uccisione di suo padre. Lo salutava, tirava fuori qualche carta dalla sua borsa, raccontava, suggeriva, chiedeva. Voleva sempre far sapere qualcosa. Voleva sempre sapere qualcosa. Così da quando era ragazzino. Così da quando gli avevano ammazzato il papà giornalista sotto casa in una sera d’ inverno. Dopo quasi un quarto di secolo da quell’ omicidio che aprì la stagione più infame di Palermo, Giuseppe si è ucciso. Lì, proprio nella stessa casa dove era cresciuto con suo padre e i suoi tre fratelli. Lì in quell’ appartamento nella città nuova che lui, unico della famiglia, non aveva mai voluto lasciare. Così è morto Giuseppe Francese, figlio di Mario, il cronista del “Giornale di Sicilia” colpito dalle lupare di Corleone il 26 gennaio 1979. Un’ esistenza tormentata nel ricordo del padre che Giuseppe ha chiuso in silenzio, alla fine di un’ altra lunga estate di solitudine. Si è impiccato con il guinzaglio del suo cane agganciato a un lampadario. Non ha lasciato lettere. Non ha lasciato parole. Solo la sua disperazione dopo una vita segnata dal lutto, dopo una vita straziata da quel padre portato via dai sicari e che non aveva avuto il tempo di conoscere fino in fondo. Era ancora un bambino Giuseppe quella sera, aveva dodici anni. Era un bambino che cominciò presto a conoscere quella Sicilia feroce che aveva sconvolto lui e che avrebbe sconvolto poi tanti ragazzi come lui. Suo padre Mario, giornalista coraggioso che scriveva su un giornale troppo attento a non infastidire i potenti e anche i boss, Giuseppe lo conobbe davvero dopo. Dopo l’ agguato. Cominciò a raccogliere tutti i suoi appunti e poi tutti i suoi articoli, cominciò a leggere e a rileggere tutte le sue inchieste, cominciò a «capire» chi e perché aveva voluto suo padre morto. Tutta la vita a ricostruire la morte di papà, tutta la vita a inseguire un incubo. Fino alla fine. Fino a ieri mattina quando forse dalla sua stanza ha visto per l’ ultima volta la strada, viale Campania, dove avevano ucciso il padre e poi si è lasciato andare per sempre. E’ un altro «omicidio» di quei macellai di Corleone quello di Giuseppe, trentasei anni, impiegato regionale agli Enti Locali, tre fratelli più grandi, una depressione che non l’ ha mai abbandonato. Nemmeno quando si cominciarono a intuire le prime verità sull’ omicidio di Mario, nemmeno quando investigatori e magistrati ricostruirono il «contesto» nel quale maturò il delitto, nemmeno quando il pentito Francesco Di Carlo indicò i nomi dei mandanti dell’ assassinio di un giornalista. C’ era Totò Riina come al solito, c’ erano Francesco Madonia e Pippo Calò, c’ erano anche un paio di altri boss che avevano paura degli scoop e delle inchieste di Mario. Non erano «minimi» i moventi di quell’ omicidio come sussurravano certi personaggi della paludosa Palermo di quegli anni, non era un «regolamento di conti» come certi infami avevano messo in giro. Era alta mafia quella che aveva voluto morto Mario. Che era solo. Che era circondato da silenzi e da imbarazzi anche nel suo giornale dove le incrostazioni con certi ambienti di mafia erano forti. Ma lui aveva l’ istinto del cronista da strada e l’ orgoglio dei siciliani per bene. Non si piegò. E i sicari puntualmente arrivarono sotto la sua casa. Quando il processo ai suoi assassini finalmente si celebrò – ma quanto tempo, ma quanta fatica, quanti depistaggi, quante lentezze nelle investigazioni – Giuseppe ogni mattina era là in aula. Seduto sul banchetto alle spalle del Pubblico ministero, chino sul suo taccuino a prendere appunti. Sembrava anche lui un giornalista, uno di quelli che non si poteva perdersi un solo momento dell’ udienza. Così fino alla chiusura del dibattimento. Sette ergastoli per la Cupola, due assoluzioni. Ma ormai Giuseppe era spezzato. Inseguiva ancora le ombre. Le sue ombre e quelle di una Palermo che aveva inghiottito la sua vita.

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http://www.centroimpastato.it/publ/online/Giuseppe_Francese.php3

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