2 Aprile 1985 Trapani. Strage di Pizzolungo. Restano uccisi da un’auto bomba Barbara Rizzo e i suoi figli, Giuseppe e Salvatore Asta, gemelli di 6 anni.

Foto da No Mafie Biella

È il 2 aprile del 1985 e una giovane madre, Barbara Rizzo, sta accompagnando a scuola i suoi due gemellini di sei anni, Giuseppe e Salvatore Asta. Ogni mattina prende quella strada che da Valderice arriva a Trapani costeggiando il lungomare. È una bella mattinata, il sole brilla su quegli spicchi di mare azzurro e Barbara procede come sempre sulla sua Volkswagen Scirocco: i bambini giocano sul sedile posteriore e lei può godersi quella breve passeggiata guidando a velocità sostenuta.
C’è un’altra auto che quella mattina percorre lo stesso tratto di strada. È un Alfa 132 blindata che morde l’asfalto. La segue a ruota una Fiat Ritmo che tira le marce per stargli dietro: i passeggeri delle due auto infatti non hanno nessuna intenzione di godersi quel magnifico panorama. Devono percorrere quella strada in fretta, devono arrivare al Palazzo di Giustizia di Trapani il prima possibile; a bordo infatti hanno un quarantenne con i baffi e gli occhiali: si chiama Carlo Palermo, è campano ma viene da Trento, ed è arrivato in Sicilia da meno di 50 giorni per fare il suo lavoro, il magistrato.
Da quelle parti, dalle parti di Trapani, fare il magistrato può essere pericoloso. Due anni prima, proprio a Valderice, il magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto era stato ammazzato davanti casa proprio quando stava per andare a lavorare in Toscana. Lo sapevano tutti che quell’omicidio era un affare di mafia, ma nessuno lo diceva apertamente per il semplice fatto che a Trapani ufficialmente la mafia non esiste. E se la mafia a Trapani non esiste come si fa a dire che ammazza qualcuno? Ciaccio Montalto era morto per questioni di donne si era detto. O forse di gioco d’azzardo e di debiti. Tutto ma non la mafia.
L’autista dell’Alfa 132 però lo sa benissimo che a Trapani non solo la mafia esiste, ma gestisce i punti nevralgici del potere cittadino. E sa benissimo che il suo passeggero, Carlo Palermo, è uno che rischia di finire come Ciaccio Montalto. Palermo non è arrivato a Trapani per caso: a Trento ha indagato su traffici di armi e droga, sulla connivenza tra il Psi di Bettino Craxi e la criminalità organizzata, e spesso le sue inchieste si sono incrociate proprio con quelle di Ciaccio Montaldo.
È proprio per evitare d’imbattersi in qualche commando mafioso (che ufficialmente non dovrebbe esistere) che l’autista dell’Alfa accelera e all’altezza della curva di Pizzolungo supera la Volkswagen con Barbara e i gemellini. Solo che quel sorpasso l’Alfa 132 non avrà mai il tempo di completarlo: viene bloccata da un rumore sordo e fortissimo, un istante infinito di morte e terrore. Quando le lancette ricominceranno a correre di quella Volkswagen Scirocco si saranno quasi perse le tracce. Ancora meno rimarrà di Barbara. Giuseppe e Salvatore Asta, investiti dall’esplosione di un’altra auto, la quarta di questa storia, parcheggiata sul ciglio di quella curva dopo essere stata imbottita di tritolo. Doveva spazzare via il giudice Carlo Palermo, doveva farlo fuori, a pezzetti. Solo che in quell’ esecuzione si sono infilati per caso Barbara, Giuseppe e Salvatore.
Chi ha assistito a quella scena e l’ha trasformata in una strage ha voluto provare a far fuori il giudice nonostante quella Volkswagen inaspettata. Che invece ha fatto da scudo tra quella bomba a quattro ruote parcheggiata in curva e l’Alfa 132 di Palermo. Di Barbara, Giuseppe e Salvatore dopo quell’istante infinito rimarrà ben poco: una macchia rossa su un muro di una casa, qualche brandello a metri di distanza e una scarpa da bambino.
Tra i primi soccorritori del giudice Palermo c’era anche il padre e marito Nunzio Asta: non si è accorto che in quell’inferno c’era anche la sua famiglia e verrà avvisato della tragedia soltanto qualche ora più tardi, da un poliziotto che al telefono gli chiede il numero di targa di quella Volkswagen guidata dalla moglie. Nunzio morirà di crepacuore nel 1993.
Per la strage di Pizzolungo sono stati condannati i boss Totò Riina, Vincenzo Virga, Balduccio di Maggio e Nino Madonia. L’esplosivo che fece a pezzetti Barbara, Giuseppe e Salvatore dicono sia dello stesso tipo usato nella strage del Rapido 904, che il 23 dicembre 1984 fece 17 vittime. Un eccidio inspiegabile di cui è stato riconosciuto colpevole lo stesso Riina. E non è forse un caso che un altro uomo che collaborò al botto di Pizzolungo, Gioacchino Calabrò, sia lo stesso “esperto” d’esplosivo che diede il suo contributo alle stragi del 1993. (Articolo del 2 aprile 2012 di Giuseppe Pipitone – Ilfattoquotidiano.it)

 

 

Nota di No Mafie Biella
BARBARA RIZZO E LA STRAGE DI PIZZOLUNGO

A una curva della frazione balneare di Pizzolungo quel giorno i mafiosi avevano piazzato una autobomba destinata ad esplodere al passaggio della vettura blindata del sostituto procuratore Carlo Palermo. Nello stesso istante in cui veniva schiacciato il pulsante del detonatore, però, tra quell’autobomba e la Fiat Argenta di Palermo si trovò di mezzo una utilitaria con a bordo Barbara Rizzo Asta ed i suoi due gemelli di sei anni, Salvatore e Giuseppe. Furono loro tre le vittime di quell’esplosione, furono ridotti a brandelli, delle due auto non restò nulla, Carlo Palermo e la scorta restarono incolumi. Era il 2 aprile 1985.

La figlia maggiore di Barbara, Margherita Asta ricorda tutto di quel giorno. Far sì che non si dimentichi fa parte del suo impegno quotidiano, da quando con l’associazione Libera cerca di promuovere, specie tra gli studenti, la cultura della legalità e dell’antimafia.
La voce di Margherita Asta si incrina per l’emozione appena ripensa a quella mattina in cui, all’età di soli dieci anni, in un istante perse la madre e i fratelli. Tutti travolti e uccisi dalla violenza di Cosa Nostra, in quella che viene ricordata come “la strage di Pizzolungo”.Questo il suo ricordo: Mi salvai per una pura coincidenza. Invece di andare a scuola con mia madre come al solito fui accompagnata da una vicina di casa e passai sul luogo dell’attentato un quarto d’ora prima dell’esplosione. Dopo poco mi venne a prendere la segretaria di mio padre, senza spiegarmi il motivo. Non mi feci particolari domande, mi insospettì solo il fatto che per tornare a casa facemmo un giro molto lungo, e durante il percorso notai la presenza di molti posti di blocco.Giunta a casa la sorella di mia madre mi comunicò cosa era successo. Non realizzai in che modo fossero morti. Poi, andando ai funerali il giorno dopo, facemmo la strada che passa da Pizzolungo e passammo sul luogo dell’attentato. Andando in chiesa nel primo pomeriggio avevo notato solo il cratere in terra creato dall’autobomba. Ma al ritorno vidi un particolare che ancora adesso mi fa soffrire particolarmente. Una macchia di sangue sulla parete di una abitazione. Mio padre mi spiegò che era stato il corpo di uno dei due fratellini, scaraventato contro quella casa. Solo una parte del corpo, in realtà, perché i tre cadaveri furono dilaniati e ne rimase ben poco. Furono ricomposti per modo di dire, c’era ben poco da ricomporre.

Obiettivo dell’attentato era il sostituto procuratore di Trapani, Carlo Palermo: era per lui l’autobomba posizionata sul ciglio della strada che da Pizzolungo conduce a Trapani. Trasferitosi nel febbraio di quell’anno dalla Procura di Trento, dove si era distinto per alcune indagini importanti sul traffico d’armi e di stupefacenti, in poche settimane di lavoro si era guadagnato una condanna a morte dalla mafia. Una tragica fatalità, però, lo salvò: la sua auto incontrò lungo il tragitto l’utilitaria guidata da Barbara Rizzo e la superò proprio nel punto in cui i sicari avevano posizionato la vettura con l’esplosivo. La mamma e i bambini fecero da scudo e furono dilaniati.

 

 

 

Tratto da Wikipedia
L’inchiesta

Le indagini sull’attentato vengono condotti dal procuratore della Repubblica di Caltanissetta Sebastiano Patané.

Tra i sopravvissuti, Raffaele Di Mercurio, 36 anni all’epoca della strage, morì nel 1993 per una malattia cardiaca. Nello stesso anno morì Nunzio Asta per problemi cardiaci (al tempo dell’attentato aveva già subito un intervento di by-pass): della famiglia Asta rimase solo la figlia maggiore Margherita, 11 anni al momento dell’attentato, che si è successivamente dedicata alle attività dell’associazione antimafia Libera in provincia di Trapani.

Per quanto riguarda gli esecutori della strage, in primo e secondo grado sono stati condannati Gioacchino Calabrò, Vincenzo Milazzo, Filippo Melodia. Ma la sentenza è stata cassata nel ’91 perché gli imputati non avrebbero commesso il fatto. Tra quei giudici c’era Corrado Carnevale. Nel 2004, in primo grado sono stati condannati Balduccio Di Maggio, Vincenzo Virga e Totò Riina quali mandanti della strage.

 

 

 

 

2aprile85_Strage di Pizzolungo-Cantastorie_Sindoni.flv

 

 

 

 

La strage di Pizzolungo 2 Aprile 1985 – Intervista a Margherita Asta

di Rino Giacalone – 2 aprile 2011 Antimafia Duemila

Erice. «Non ti scordar di me, la vita ho dato senza un perchè non fare che però non serva a nulla poi tutto ciò, non ti scordar di me, lottare è un bene, soltanto se poi la giustizia, si, trionferà, la mafia perderà». «Bello sentire “cantare” queste frasi dai giovanissimi studenti di Erice – dice Margherita Asta – sono state dedicate ai miei fratellini volati in cielo con mia madre per quel terribile “botto” di Pizzolungo di 26 anni fa. E pensare che la città stava dimenticando».

Margherita è giovane anche se è dovuta crescere in fretta, a dieci anni è rimasta senza la mamma, i fratellini perduti con lei, sola con Nunzio, il padre che l’avrebbe lasciata alcuni anni dopo, ucciso dal crepacuore. Aveva tante ragioni per «odiare» forse questa terra che l’aveva martoriata personalmente psicologicamente, perchè lo scandalo dopo la strage in città non era quel sindaco che davanti ai corpi straziati andava attestando l’inesistenza della mafia, ma semmai il fatto che Nunzio Asta aveva pensato di potere dare una nuova mamma a Margherita, una donna, stupenda, che l’ha cresciuta come “mamma e come amica”, che l’ha seguita anche quando Nunzio non c’è stato più e che fra qualche giorno la seguirà salire all’altare. Margherita si sposa a fine aprile con un giovane di Parma, Enrico, il matrimonio lo celebrerà don Luigi Ciotti il fondatore di Libera, che prima però l’accompagnerà all’altare. La chiesa sarà quella dove furono battezzati i suoi fratellini, Salvatore e Giuseppe. L’1 aprile per le strade di Erice è passato un corteo di studenti partito dalla scuola elementare dedicata ai gemellini Asta, a loro modo con le loro voci, con le canzoni, hanno ricordato a tutti il sacrificio di quelli che oggi sarebbero stati adulti, cittadini completi di questa terra, ma che la loro vita per mano mafiosa e stragista si è fermata a sei anni. «È sempre una emozione vivere questi momenti – dice Margherita – è stato anche bello vedere sventolare le bandiere della Pace, un segnale preciso in questo momento».

Ma Trapani voleva davvero tutto questo? O qui si immaginava che dopo quella strage calasse il silenzio?
«Il mio impegno – risponde Margherita – è nato perché ad un certo punto mi sono resa conto che la memoria di mia madre, dei miei fratellini stava per scomparire, ho scelto di uscire da quel silenzio in cui mi ero rinchiusa, chissà forse era questo quello che si voleva da me, e invece eccomi qui….». Non è oggi la sua solo la sfida ai mafiosi a cominciare da quelli che non ci pensarono un attimo a premere il timer dell’autobomba proprio mentre l’auto del giudice Palermo sorpassava la Scirocco della signora Asta su quella curva di Pizzolungo. «Non è sfida – dice – è testimonianza perchè la memoria non può essere cancellata né dal ricordo si può essere schiacciati. Nella lotta alla mafia non mi ero mai impegnata. Finché nel 2002 mi sono trovata a dovere fronteggiare il processo contro gli autori della strage e allora ho scoperto Libera».

Esercizio continuo di memoria allora?
«Vedi – risponde – oggi a Erice, domani altrove, non sono occasioni per ricordare solo le vittime della violenza mafiosa che coincidono con questi anniversari, ma a cominciare da Erice si ricordano tutte le vittime innocenti, si creano collegamenti usando la memoria, ad Erice è significativo che questo 2 aprile è dedicato anche alle vittime della strage di Ustica, a quel coraggioso giovane che porta il nome di Nino Via, perchè non deve essere una memoria fine a se stessa».

Che significato personale dai a questo 2 aprile?
«Quello di sempre – risponde – è un punto di arrivo, qui gli studenti con i loro insegnanti presentano i lavori svolti durante l’anno scolastico; un punto di partenza per rinnovare e rinvigorire il nostro impegno che resta rivolto alla salvaguardia della democrazia e quest’anno ancora di più alla Pace». Tutto sempre fatto sotto l’insegna di Libera. «Libera – dice – è fatta da un gruppo di persone che stanno cercando attraverso la memoria di stimolare nuovo impegno nella società».

Ma senza di te Libera a Trapani ci sarebbe stata lo stesso?
«Il lavoro di Libera sarebbe arrivato ugualmente grazie all’impegno di altri cito per tutti  Giuseppe Gandolfo e Rino Marino».

Ma tornando a quello che dicevamo all’inizio, perché quella strage stava per essere dimenticata secondo te?
«Perchè rappresenta ancora oggi una memoria scomoda, non è emersa la verità, dunque ricordare può dare fastidio».
«Legalità è una parola così semplice ma rispettarla non è facile in questa società», hanno ricordato, ieri cantando gli studenti di Erice.

 

 

 

 

Fonte: custonaciweb.it 
Pizzolungo 1985: dalla strage una… Margherita

di Giuseppe Ingardia
(Erice, 2 Aprile 2010)

Le vidi quelle carni maciullate
sparse sui muri e sulla terra amica,
resti raccolti da pietà cristiana.

Respirai aria amarissima di lutto
tra tonachesimi e giacche di lusso!

E vidi ancora quel padre angosciato
stringere disperato al cuore rotto
figlia rimasta d’un amore immenso!

Grandi celebrazioni poi negli anni
e tornò qui Palermo, quel giudice
segnato rosso da un destino assurdo
che cancello’ al suo posto ed in un botto
madre e due gemellini, di buonora:
angioletti strappati al focolare

da quell’orribile stirpe mafiosa

che non conosce limiti all’orrore!

Poi la morte travolse anche papa’,
ma in cielo a forti tinte stava scritta
l’eredità pesante … Margherita
seminatrice di grande coraggio,
decisa a lottare tutte le mafie.

Papa’ e mamma, Pinuzzu e Turidduzzu
seguono sorridenti su nel cielo:
la loro Margherita sempre in giro,
ambasciatrice di legalità e amore.

“Non ti scordar di me”, è l’azzurro fiore
un coro attivo di viva speranza:
iniziativa che renderà onore
alla memoria di chi fu immolato!

 

 

 

Articolo da La Stampa del 13 Marzo 1990
Pizzolungo, tutti assolti
di Antonio Ravidà
Bomba al giudice, morirono una donna e i figli

CALTANISSETTA. Tutti assolti. Tre ergastoli annullati e cancellate anche le condanne per associazione mafiosa e produzione di stupefacenti. I boss conquistano un’altra volta l’impunità. A Caltanissetta, nel secondo processo per la strage avvenuta la mattina del 2 aprile del 1985 sul lungomare trapanese di Pizzolungo, la corte d’assise e d’appello ha concluso ieri 5 giorni di camera di consiglio assolvendo tutti gli imputati. Nella strage morirono una giovane donna, Barbara Rizzo Asta, di 31 anni, ed i suoi figli gemelli di 6 anni, Giuseppe e Salvatore: stava portandoli a scuola. Dopo il verdetto, immediato ed accorato il commento del marito e padre delle vittime Nunzio Asta, 42 anni: «Oggi c’è stata un’altra strage come quella del 2 aprile di cinque anni fa — si è sfogato —: sono di stucco. Devo convincermi che la magistratura è in condizione di condannare solo gli imputati che si dichiarano colpevoli o i ladri di polli». Livido, furente, Nunzio Asta ha aggiunto: «Non dico che queste persone dovessero essere condannate ad ogni costo. Ma se i giudici non sono stati in grado di condannare i colpevoli o i presunti tali arrestati nell’immediatezza del fatto, come faranno ora dopo cinque anni a risalire ai veri responsabili?».

Bersaglio della mafia era il giudice Carlo Palermo che recentemente ha lasciato la magistratura per gravi motivi di salute dopo essere stato «parcheggiato» per lungo tempo al ministero della Giustizia. A Trapani cinque anni fa il dottor Palermo fu trasferito da Trento dove aveva indagato sui traffici di armi e droga. Il giudice e le quattro guardie di finanza della scorta rimasero feriti nello scoppio di un’autobomba che dilaniò invece la madre ed i due bambini che passavano da Pizzolungo su una «Golf». All’ergastolo in primo grado il 19 novembre del 1988 furono condannati tre degli otto rinviati a giudizio per strage e gli altri cinque furono assolti. Anche i tre ora sono stati assolti: l’enotecnico Vincenzo Milazzo, 34 anni, ritenuto il gestore di una raffineria di eroina, scoperta ad Alcamo tre settimane dopo la strage e che in due anni aveva prodotto droga per 1500 miliardi (il padre di Milazzo fu assassinato nel 1981 al confino a Prato); l’autocarrozziere Gioacchino Calabro di 44 anni, accusato di aver azionato il congegno radiocomandato che fece esplodere l’autobomba; il latitante Filippo Melodia, 33 anni, cugino ed omonimo del rapitore e violentatore di Franca Viola, che è stato assassinato anni fa a colpi di lupara mentre era in soggiorno obbligato in Emilia-Romagna.

Il pg aveva chiesto l’ergastolo pure per Pietro Montalbano, 39 anni, uno dei cinque assolti in primo grado, ma anche per lui la corte non ha ritenuto validi gli indizi. Assoluzione anche per altri 4 imputati minori, processati per associazione mafiosa e traffico di eroina e condannati nel primo processo a varie pene. La corte d’assise e d’appello di Caltanissetta non si è pronunciata sulla parte del dibattimento relativa alla raffineria di eroina che la mafia temeva potesse essere scoperta grazie alle indagini immediatamente avviate da Carlo Palermo appena preso possesso dell’ufficio di sostituto procuratore della Repubblica di Trapani in sostituzione di Giangiacomo Ciaccio Montalto eliminato poco tempo prima dalle cosche. Secondo i giudici della raffineria dovrà occuparsi il tribunale di Trapani.

 

 

 

Articolo da L’Unità del 18 Settembre 1993
Strage di Pizzolungo – Morto il marito e padre delle vittime

PALERMO. Nunzio Asta, 45 anni, marito di Barbara Rizzo e padre dei gemellini di sei anni Giuseppe e Salvatore, dilaniati con la madre nell’attentato del 1985 al giudice Carlo Palermo (il magistrato rimase illeso), è morto in ospedale a Palermo per complicazioni cardiache.
L’uomo si era ammalato dopo la strage, avvenuta in località “Pizzolungo”: una “autobomba” fu fatta esplodere con un radiocomando al passaggio dell’automobile dell’allora sostituto procuratore di Trapani Carlo Palermo, da poco trasferito in Sicilia dall’ufficio istruzione di Tento. Al momento dello scoppio, davanti la macchina del magistrato si interpose però quella di Barbara Rizzo, centrata in pieno dalla deflagrazione.
Rimasto solo con la figlia Margherita, Nunzio Asta dopo qualche anno si era risposato (dal matrimonio nacque un bambino che oggi ha sei anni), continuando a gestire una piccola azienda artigiana copo aver rifiutato un posto offertogli dalla regione sicilia.
Nel tempo le sue condizioni di salute si erano progressivamente deteriorate, al punto da essersi dovuto sottoporre a due interventi al cuore.
La morte è sopraggiunta nell’ospedale “Cervello” del capoluogo siciliano dove si era recato per controlli.
Un’altra vittima di Cosa nostra.

 

 

Articolo da L’Unità del 30 Maggio 2004
Strage di Pizzolungo: ergastolo a Di Maggio

Alla fine è ergastolo per l’ex collaboratore di giustizia
Balduccio di Maggio e assoluzione per il presunto
boss Nino Madonia per la strage di Pizzolungo.
La sentenza è stata emessa dalla Corte d’Assise di
Caltanissetta. Si tratta di uno dei due tronconi del
processo per l’agguato avvenuto il 2 aprile 1985 a
Valderice (Trapani) nei confronti del giudice
Carlo Palermo, rimasto illeso, ma che provocò
la morte di Vita Barbara Asta e due figli gemelli di 8
anni, Giuseppe e Salvatore.

 

 

Articolo del 2 Aprile 2012 da ilfattoquotidiano.it
Pizzolungo, 27 anni fa
di Giuseppe Pipitone

Una strada che costeggia il mare, una mattinata di primavera in Sicilia, una curva e un’auto che sorpassa ad alta velocità. Poi un rumore sordo, fortissimo, di quelli che fermano il tempo per alcuni minuti.

È il 2 aprile del 1985 e una giovane madre, Barbara Rizzo, sta accompagnando a scuola i suoi due gemellini di sei anni, Giuseppe e Salvatore Asta. Ogni mattina prende quella strada che da Valderice arriva a Trapani costeggiando il lungomare. È una bella mattinata, il sole brilla su quegli spicchi di mare azzurro e Barbara procede come sempre sulla sua Volkswagen Scirocco: i bambini giocano sul sedile posteriore e lei può godersi quella breve passeggiata guidando a velocità sostenuta.

C’è un’altra auto che quella mattina percorre lo stesso tratto di strada. È un Alfa 132 blindata che morde l’asfalto. La segue a ruota una Fiat Ritmo che tira le marce per stargli dietro: i passeggeri delle due auto infatti non hanno nessuna intenzione di godersi quel magnifico panorama. Devono percorrere quella strada in fretta, devono arrivare al Palazzo di Giustizia di Trapani il prima possibile; a bordo infatti hanno un quarantenne con i baffi e  gli occhiali: si chiama Carlo Palermo, è campano ma viene da Trento, ed è arrivato in Sicilia da meno di 50 giorni per fare il suo lavoro, il magistrato.

Da quelle parti, dalle parti di Trapani, fare il magistrato può essere pericoloso. Due anni prima, proprio a Valderice, il magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto era stato ammazzato davanti casa proprio quando stava per andare a lavorare in Toscana. Lo sapevano tutti che quell’omicidio era un affare di mafia, ma nessuno lo diceva apertamente per il semplice fatto che a Trapani ufficialmente la mafia non esiste. E se la mafia a Trapani non esiste come si fa a dire che ammazza qualcuno? Ciaccio Montalto era morto per questioni di donne si era detto. O forse di gioco d’azzardo e di debiti. Tutto ma non la mafia.

L’autista dell’Alfa 132 però lo sa benissimo che a Trapani non solo la mafia esiste, ma gestisce i punti nevralgici del potere cittadino. E  sa benissimo che il suo passeggero, Carlo Palermo, è uno che rischia di finire come Ciaccio Montalto. Palermo non è arrivato a Trapani per caso: a Trento ha indagato su traffici di armi e droga, sulla connivenza tra il Psi di Bettino Craxi e la criminalità organizzata, e spesso le sue inchieste si sono incrociate proprio con quelle di Ciaccio Montaldo.

È  proprio per evitare d’imbattersi in qualche commando mafioso (che ufficialmente non dovrebbe esistere) che l’autista dell’Alfa accelera e all’altezza della curva di Pizzolungo supera la Volkswagen con Barbara e i gemellini. Solo che quel sorpasso l’Alfa 132 non avrà mai il tempo di completarlo: viene bloccata da un rumore sordo e fortissimo, un istante infinito di morte e terrore. Quando le lancette ricominceranno a correre di quella Volkswagen Scirocco si saranno quasi perse le tracce. Ancora meno rimarrà di Barbara. Giuseppe e Salvatore Asta, investiti dall’esplosione di un’altra auto, la quarta di questa storia, parcheggiata sul ciglio di quella curva dopo essere stata imbottita di tritolo. Doveva spazzare via il giudice Carlo Palermo, doveva farlo fuori, a pezzetti. Solo che in quell’ esecuzione si sono infilati per caso Barbara, Giuseppe e Salvatore.

Chi ha assistito a quella scena e l’ha trasformata in una strage ha voluto provare a far fuori il giudice nonostante quella Volkswagen inaspettata. Che invece ha fatto da scudo tra quella bomba a quattro ruote parcheggiata in curva e l’Alfa 132 di Palermo. Di Barbara, Giuseppe e Salvatore dopo quell’istante infinito rimarrà ben poco: una macchia rossa su un muro di una casa, qualche brandello a metri di distanza e una scarpa da bambino.

Tra i primi soccorritori del giudice Palermo c’era anche il padre e marito Nunzio Asta: non si è accorto che in quell’inferno c’era anche la sua famiglia e verrà avvisato della tragedia soltanto qualche ora più tardi, da un poliziotto che al telefono gli chiede il numero di targa di quella Volkswagen guidata dalla moglie. Nunzio morirà di crepacuore nel 1993.

Post Scriptum

Per la strage di Pizzolungo sono stati condannati i boss Totò Riina, Vincenzo Virga, Balduccio di Maggio e Nino Madonia. L’esplosivo che fece a pezzetti Barbara, Giuseppe e Salvatore dicono sia dello stesso tipo usato nella strage del Rapido 904, che  il 23 dicembre 1984 fece 17 vittime. Una eccidio inspiegabile di cui è stato riconosciuto colpevole lo stesso Riina. E non è forse un caso che un altro uomo che collaborò al botto di Pizzolungo, Gioacchino Calabrò, sia lo stesso “esperto” d’esplosivo che diede il suo contributo alle stragi del 1993.

Oggi Giuseppe e Salvatore Asta avrebbero 33 anni. La loro madre appena 57. A mantenerne viva la memoria è rimasta la sorella Margherita Asta, 11 anni all’ epoca della strage.

Nel 2008 ai due gemelli è stata finalmente intitolata la scuola di Erice. L’anno dopo qualcuno ha deciso di protestare dando alle fiamme l’edificio.

Se ai tempi di Ciaccio Montalto se ne negava l’esistenza, adesso non solo siamo certi che la mafia esiste, ma possiamo anche dire che spesso è stata un service che spara su input di livello superiore.

 

 

 

Articolo del 2 Aprile 2012 da  liberainformazione.org
Il “botto” di Pizzolungo, una ferita ancora aperta 
di Rino Giacalone

2 aprile, Cosa nostra uccideva Barbara, Salvatore e Giuseppe Rizzo Asta
Il pm Tarondo: a Trapani la politica non rispetta la distanza di sicurezza dalla mafia

Era il 2 aprile 1985. Una autobomba piazzata su una curva di Pizzolungo venne fatta deflagrare al passaggio del corteo di auto del sostituto procuratore Carlo Palermo. Fu una strage. Restarono incolumi il magistrato, i tre agenti di scorta, l’autista della blindata del pm, furono dilaniati una donna, Barbara Rizzo ed i suoi due gemellini, Salvatore e Giuseppe Asta, di 6 anni. Erano su un’altra auto che al momento dell’esplosione fece da “muro” proteggendo le auto del pm e della scorta, dell’auto di Barbara Rizzo non restò nulla, altrettanto dei corpi della donna e dei suoi figli. E’ un botto che oggi solo chi non vuole sentire non sente.

Quello che è accaduto in questi 27 anni è incredibile. Cominciamo con la storia di quel pm, Carlo Palermo, venuto a Trapani, “espulso” dalla Procura di Trento dove lavorava perché indagava sui conti illeciti della politica del Psi. Craxi era presidente del Consiglio, e Carlo Palermo indagando era finito con l’imbattersi nei conti del capo del Governo. Venne a Trapani per continuare quel lavoro, investigava sui canali della droga che dall’est europeo arrivava fino in Sicilia, su quelle stesse rotte venivano fatte viaggiare armi e componenti che servivano a fabbricare pericolose bombe. Il suo lavoro a Trento aveva trovato punto di riferimento a Trapani nel lavoro di un altro pm, Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Ciaccio Montalto fu ucciso dalla mafia il 25 gennaio 1983, Carlo Palermo arrivò a Trapani intendendo riprendere in mano quei fascicoli senza dimenticare i suoi. Solo 40 giorni resistette, poi il “botto” di Pizzolungo. Lo Stato anzicchè alzare la protezione attorno al magistrato sfuggito a quell’agguato dapprima gli propose una identità nuova e un rifugio dorato in Canada, poi dinanzi alle resistenze del pm fece in modo di farlo andare via per sempre, oggi Carlo Palermo oramai da tanto tempo non è più pm, ma fa l’avvocato. Lo Stato ha deciso che lui sopravissuto a Pizzolungo in realtà è come se fosse morto.

Lo Stato avrebbe potuto reagire diversamente già solo per onorare le vittime di quella strage, ma anche loro non hanno avuto sorte diversa se parliamo di oblio. La partecipazione al funerale di colpo svanì, fu Nunzio Asta, marito e padre delle vittime, a volere un cippo a ricordo dei suoi cari sul luogo della strage, lo pagò lui, e dovette anche “saldare” la tassa automobilistica per quell’auto distrutta dall’esplosione e per la quale lo Stato continuò per anni a chiedere il pagamento dell’imposta di circolazione. La città poi un giorno decise di dimenticare Nunzio e sua figlia, Margherita, che aveva 10 anni quando quel giorno di aprile restò orfana e senza i suoi fratellini. E questo accadde quando Nunzio volle darsi una nuova famiglia, un’altra mamma a Margherita, a restituirle quella compagnia che la mafia le aveva strappato via. Nella città dove si sosteneva che la mafia non esisteva non poteva accadere altrimenti che pietra dello scandalo divenisse Nunzio Asta e non i mafiosi che gli avevano strappato i suoi cari, stritolati e fatti a pezzi dal tritolo mafioso. Nunzio Asta è morto di crepacuore, e la città reagì ancora male quando un giorno decise di uscire dal silenzio Margherita Asta: forse i trapanesi l’avrebbero voluta silenziosa e stretta nel lutto perenne, quando decise di diventare testimone del male della mafia più che sostegno cominciò a raccogliere critiche.

Erano gli anni in cui i Tribunali assolvevano gli autori della strage, che poi si scoprì essere davvero gli autori ma per la nostra legge chi è assolto in via definitiva da un reato per lo stesso non può essere più processato, erano gli anni in cui del 2 aprile se ne ricordava solo quel giorno per permettere alla politica di fare passerella. Margherita Asta protestò contro questo stato di cose e fu indicata come persona capace solo a strumentalizzare, ancora un colpo a favore della mafia. Nel frattempo, ed è storia recente, c’è chi pensava a costruire uno stabilimento balneare sul luogo della strage, così per cancellare del tutto quella memoria. Per fortuna questo non è accaduto perché affianco ad una politica con la “p” minuscola ce ne è una con la “P” maiuscola, e l’attuale sindaco di Erice (Pizzolungo è frazione del Comune di Erice, Comune “attaccato” geograficamente a Trapani), Giacomo Tranchida, ha fatto si che il ricordo non finisse con il disperdersi. Margherita Asta oggi è una delle più attive dentro Libera, l’associazione fondata da don Luigi Ciotti, ma la sua storia è conosciuta in luoghi lontani da Trapani, in città è come se restasse scomoda testimone. C’è un filo rosso sangue che attraversa il nostro Paese, che parte dal 1984, e forse da prima ancora, dai 15 morti del treno «rapido 904», antivigilia di Natale del 1984, passa per la strage di Pizzolungo e l’attentato (1989) all’Addaura (fallito) contro Giovanni Falcone e arriva alle stragi del 1992, fino a quella di via D’Amelio dove furono uccisi il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Supera lo stesso 1992 e tocca le stragi del 1993 quelle che il sanguinario assassino capo mafia latitante Matteo Messina Denaro volle fare per lanciare terribili segnali, dare la spallaata a quella prima Repubblica che alla fine non aveva garantito i mafiosi che cercavano le assoluzioni in Cassazione.

E’ un fatto il coinvolgimento di Totò Riina, il capo dei capi della mafia siciliana, nella strage del treno 904 (dove è stato già condannato il cassiere della mafia siciliana Pippo Calò, lo stesso che doveva avvicinare i giudici di Caltanissetta che stavano processando gli esecutori della strage di Pizzolungo, quelli poi assolti). L’attentato al treno 904 avvenne l’antivigilia di Natale del 1984. Riina oggi risulta anche condannato (in via definitiva) anche per il “botto” di Pizzolungo, assieme al capo mafia di Trapani, Vincenzo Virga, nonchè ai palermitani Balduccio Di Maggio e Nino Madonia: le sentenze hanno «sancito» che il tritolo usato a Pizzolungo nel 1985 era lo stesso di quello usato nel 1984 per la strage del treno 904 e da Nino Madonia per confezionare la bomba dell’Addaura nel 1989. Madonia è stato condannato sia per Pizzolungo quanto per l’Addaura. L’autobomba di Pizzolungo fu preparata invece nella officina di Castellammare del Golfo di Gino Calabrò, l’uomo delle stragi del 1993 e che doveva fare scoppiare una autobomba in via dei Gladiatori, vicino lo stadio Olimpico di Roma, una domenica di quel 1993, per fare strage di poliziotti e carabinieri. Oggi Madonia e Calabrò sono in carcere, ma tra i detenuti comuni, per loro niente 41 bis. Attorno a questi gravissimi fatti criminali si muove un panorama che è fatto di mafiosi, massoni, uomini dei servizi segreti, deviati o non deviati. E però a Trapani è più facile parlare dell’antimafia che non dei mafiosi e delle loro malefatte. “Qui – dice Salvatore Inguì, coordinatore provinciale a Trapani di Libera – restano evidenti segni di cedimento e di debolezza, c’è chi pensa davvero che la mafia viva attorniata da un certo romanticismo”. “Qui – commenta il pm Andrea Tarondo, magistrato della Procura di Trapani – siamo ancora ad attendere risposte ai perché di tanti delitti, Ciaccio Montalto, la strage di Pizzolungo, l’omicidio di Mauro Rostagno, il tentato omicidio del dottore Rino Germanà. Abbiamo sconfitto l’oblio ma dobbiamo fare impegno perché si risponda a questi perché, è questo il debito che abbiamo con le vittime della mafia e con i loro familiari”.

Ristabilire una stagione. Per esempio quella che nel 2006 portò alla cattura del cosidetto fantasma di Corleone, Bernardo Provenzano. Artefice di quell’arresto fu Giuseppe Gualtieri allora capo della Mobile a Palermo, oggi a capo della direzione nazionale della Polizia Scientifica (a Gualtieri il Comune di Erice ha appena consegnato la cittadinanza onoraria): “Quella cattura fu permessa da una semplice circostanza, e cioè che in quello scenario ognuno faceva la sua parte, i magistrati, le forze dell’ordine, la società civile, i cittadini, tutti impegnati sul fronte del rispetto dei diritti e dei doveri, convinti che il primo dovere è quello di far prevalere i propri diritti, smontammo così la cortina che pretendeva di continuare a proteggere il boss”.

Oggi le cose sono cambiate. Si mette in forse addirittura l’esistenza del concorso esterno alla mafia. “Oggi chi lo mette in dubbio – aggiunge il pm Andrea Tarondo – dimentica che per proteggere la zona grigia dove vive il concorso esterno, la mafia non ha avuto titubanze nell’alzare di torno la sua violenza, la mafia ha messo in campo le autobombe ogni qual volta c’era qualcuno che si avvicinava alla zona grigia delle collusioni tanto da scoprirla”. La realtà di oggi. “Oggi si sa benissimo chi sono i mafiosi e il potere va a braccetto con questi soggetti, il potere politico che per primo dovrebbe dire che “con queste persone non ci voglio avere a che fare” eccolo invece frequentarlo e dividere momenti di vita, c’è un numero spropositato di politici trapanesi che oggi hanno contatto con i mafiosi, ed è anche questo che oggi rende difficoltoso il nostro lavoro di magistrati per fornire risposte ai perché di tante stragi e di tanti delitti, oggi cominciando da Trapani non c’è desiderio da parte della politica di mantenere una distanza dalla mafia”.

 

 

Fonte antimafiaduemila.com
Articolo del 1 aprile 2015
Dietro la strage di Pizzolungo

di Giorgio Bongiovanni e Monica Centofante*

Per comprendere i “fuori scena” della strage di Pizzolungo basta rimettere insieme i pezzi di un mosaico volutamente smembrato da quei “sistemi criminali” che le indagini di Carlo Palermo avevano lambito.
Da Trento a Trapani, da Trapani alla Russia, al Libano, alla Turchia, agli Stati Uniti seguendo un filo sottile che collega molti misteri irrisolti ai traffici internazionali di armi e stupefacenti. È il 1979 quando Assim Akkaia racconta al dirigente della Mobile di Milano Enzo Portaccio che la città di Trento costituisce il punto di congiunzione tra la mafia turca e quella siciliana. Gli alberghi Karinall e Romagna, appartenenti al trentino di origine altoatesina Karl Koefler, fungerebbero da centro di smistamento di morfina base ed eroina pura destinati a raffinerie siciliane e quindi al mercato italiano e statunitense. Le indagini, che iniziano l’anno seguente, conducono alla scoperta di 200 chilogrammi di tali sostanze nelle zone di Trento, Bolzano e Verona importate da una organizzazione che in due anni ha portato in Italia almeno 4000 chilogrammi di sostanze stupefacenti. Il fascicolo che viene consegnato al giudice istruttore Carlo Palermo contiene circa trenta pagine comprendenti un rapporto della polizia e un grafico raffigurante quasi tutti i paesi del mondo. Al centro: Trento collegata alla Sicilia.

Ben presto le indagini, svolte in contemporanea con quelle del giudice Giovanni Falcone che avevano smascherato le raffinerie di Trabia e Carini fornite dalla stessa organizzazione trentina, portano in Austria, in Germania, in Svizzera, in Jugoslavia, in Turchia, in Bulgaria e ancora all’individuazione di traffici occulti di armi e petrolio tra il nostro paese e la Libia e al collegamento tra i servizi segreti italiani, americani e orientali nella compravendita di armamenti. Nel 1983 le indagini condotte da Palermo sulle connessioni tra i nostri servizi di sicurezza e l’attentato al Papa approdano a documenti riguardanti Bettino Craxi, da poco presidente del Consiglio, in rapporto a forniture militari all’Argentina in cambio dell’appalto per i lavori della metropolitana di Buenos Aires. E’ del giugno del 1984 la richiesta del giudice trentino di aprire un processo contro lo stesso Craxi ed altri ministri ed esponenti del Psi (vedi ad es. Lagorio, De Michelis, Pillitteri, Mach di Palmstein, Rezzonico, Larini). Il successivo 20 novembre le Sezioni Unite della Cassazione, accusando il giudice Palermo ed alcuni colleghi che avevano pubblicamente espresso solidarietà nei suoi confronti di non essere più “attendibili” ed “imparziali”, spostano a Venezia tutte le inchieste condotte dallo stesso Palermo: tre anni di intenso lavoro racchiuso in oltre trecentomila carte processuali.

Il 17 febbraio del 1985, su sua specifica richiesta, il giudice prende servizio presso la Procura della Repubblica di Trapani e il suo primo atto in quella sede è la trasmissione di documenti riguardanti la fornitura alla Libia di tre containers contenenti materiale elettronico rigenerato collegati a tale Antony Gabriel Tannoury, un libanese residente a Parigi considerato il braccio destro di Gheddafi. Anche lui inserito nella stessa inchiesta di Trento nella quale figura Bettino Craxi. Il 2 aprile di quell’anno, mentre la Commissione inquirente è chiamata a decidere sulla richiesta di archiviazione della denuncia mossa al Presidente del Consiglio, a Pizzolungo un’autobomba destinata al giudice Palermo uccide due gemellini di sei anni e la loro madre. Circa un mese più tardi viene scoperto ad Alcamo, in provincia di Trapani, il più grande laboratorio di morfina base d’Europa, appartenente a Cosa Nostra e rifornito sempre dalla stessa organizzazione operante a Trento.

Nel 1986, poco dopo il trasferimento del giudice Palermo a Roma (come funzionario del Ministero di Grazia a Giustizia), viene scoperta a Trapani, nascosta dietro la facciata del Centro studi “Scontrino”, una serie di logge massoniche coperte. Sede di incontri tra massoni, templari, politici, mafiosi – tra cui quelli indiziati di aver partecipato all’attentato di Pizzolungo – e dell’Associazione musulmani d’Italia presieduta dal sostituto in Sicilia di Gheddafi. Solo nel 1992, l’anno dell’assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con l’arresto di Mario Chiesa che da il via agli scandali di “Mani Pulite” vengono confermate le teorie formulate nell’inchiesta di Trento in merito al caso Craxi. Nel dicembre dello stesso anno Carlo Palermo, in qualità di deputato de “La Rete”, presenta insieme a tutti i componenti del movimento un’interrogazione parlamentare riferita a vari quesiti emersi nel corso delle indagini di Trento e Trapani. Tra questi il caso Calvi, la P2, lo scandalo della Bcci (Banca di Credito e Commercio Internazionale) e i suoi collegamenti con la svizzera Ubs e altri importanti istituti bancari, le collusioni tra la mafia siciliana e quella pachistana, le forniture militari all’Iraq, la causa delle uccisioni di Falcone e Borsellino, l’attentato al Papa.

La reazione dell’allora ministro Martelli è durissima in particolare per le richieste di chiarimenti relative al Conto Protezione.craxi-bettino-2 Ma l’arresto, avvenuto pochi giorni dopo, del socialista Silvano Larini successivamente alle sue ammissioni proprio su tale argomento lo spingeranno alle dimissioni. “D’un colpo – spiega il giudice Palermo nel suo libro Il quarto livello – quei misteri che si erano accumulati per tanti anni – che in vario modo riguardavano personaggi diversi, da Fiorini a Gelli, da Larini a Craxi – andavano chiarendosi. Anche se si intuiva che altri ne sarebbero rimasti, e forse quelli più oscuri, che riguardavano l’impiego dei fondi occulti, dei proventi dei vari traffici, di quelle ingentissime somme, cioè, che, in modi talvolta rocamboleschi, dopo infiniti giri, potevano rimanere depositati su conti bancari di qualche istituto più o meno sconosciuto, per venire impiegati al momento opportuno da ignoti utilizzatori.” L’occasione per meglio comprendere alcuni di tali e tanti misteri irrisolti si presenta al giudice Palermo a Washington, nel corso di alcuni incontri politici con deputati e senatori del Congresso statunitense. Siamo nell’ottobre del 1993 quando un ufficiale di collegamento, stretto collaboratore di un congressista del Partito Repubblicano, chiede di parlare con lui.

L’appuntamento
“L’incontro è cordiale e, da parte sua, accuratamente preparato. Conosce l’italiano e …  le indagini di cui mi sono occupato in passato. Conosce anche i miei “chiodi fissi”, specialmente quelli relativi alla Bcci, la Banca di Credito e Commercio Internazionale, la Kriminal bank. Mi consegna alcune relazioni segrete redatte su carta intestata ad una certa Task Force on Terrorism & Unconventional Warfare. Anche se scritte in inglese, non mi è difficile, scorrendone il testo (un centinaio di pagine), apprezzarne il contenuto: descrivono i traffici internazionali di stupefacenti ed armi ed il ruolo svolto dall’integralismo islamico, in particolare attraverso la Bcci. Contengono riferimenti precisi su fatti ed episodi degli ultimi dieci anni. L’ultima di queste relazioni è datata 13 luglio 1993. E’ composta da una trentina di pagine. Ricca di nomi è dedicata ai più recenti legami della mafia italiana con quella russa, sino alle stragi di Roma e Firenze di quest’estate! E’ la stessa “pista” su cui mi ero imbattuto dieci anni fa. Allora, come giudice, ero stato fermato da politici e dalla mafia, mentre si verificava una quasi incredibile sovrapposizione di indagini: da una parte, sui legami politici ed economici del Psi a livello interno ed internazionale; dall’altra, sulla mafia, sui commerci di armi, sui servizi segreti, su Gheddafi e sulla Bcci. Nel lontano 1983, in un rapporto della Finanza di Milano, erano stati descritti i ruoli svolti da questo istituto bancario. Erano delineati alcuni elementi di contatto con i ‘nostri’ misteri, quello della P2, dell’Ambrosiano, dell’attentato al Papa, della morte di Calvi, del Supersismi. Tutto risultava collegato ai commerci internazionali di armi, al terrorismo e al ruolo svolto dai servizi segreti americani. Questi ultimi venivano indicati come gli occulti direttori e controllori del nostro paese, considerato territorio in stato di guerra permanente in relazione al conflitto sotterraneo con il comunismo e l’Unione Sovietica.  Oggi, dopo dieci anni, e pur non essendo più un giudice, vengo, per motivi che ignoro, “scelto” per entrare in possesso di delicati documenti. Mi si forniscono importanti indicazioni, tratte da fonti completamente diverse da quelle notoriamente conosciute, utili a comprendere misteri del passato e connivenze del presente: sino alle attuali stragi italiane. Ricorrono sempre le forniture di armamenti attraverso organizzazioni islamiche: le più recenti provengono direttamente dagli arsenali ex sovietici. Mi sembra quasi impossibile: tra Mosca e Washington chiudo un cerchio. E’ come un gioco, in cui non mi è dato di conoscere chi muove gli impercettibili fili e quale sia l’obbiettivo finale”.

Trapani, Falcone e gli americani
Nel 1989 il giudice Giovanni Falcone stava investigando sul Centro Scorpione, creato dalla VII divisione del Sismi (la stessa da cui dipendeva “Gladio”) collegata a Craxi; quando venne trovata la dinamite sugli scogli dell’Addaura  il magistrato si stava occupando di connessioni bancarie svizzere dei narcotrafficanti siculo-americani. E, spiega Carlo Palermo nel suo libro “Il giudice”, dall’esame degli incontri che Falcone ha avuto in America “potrebbe emergere la traccia dei mandanti occulti dell’attentato (di Capaci ndr.)… forse su coloro che, nel ’92, dall’esterno, avrebbero potuto avere interesse a ‘confondere’ le acque in Italia in un delicato momento vissuto dal nostro paese: quello del passaggio alla seconda Repubblica. Con quell’attentato, si sarebbe eliminato il ‘testimone’ della prima Repubblica… colui che avrebbe potuto, pericolosamente, comprendere e decifrare fatti decisivi dei mutamenti in atto. In questo passaggio, forse, alcuni personaggi della prima Repubblica avrebbero dovuto essere bruciati, ‘scaricati’ dagli americani. Nello stesso tempo, l’esecuzione militare siciliana dell’attentato, avrebbe dirottato sulla mafia ogni responsabilità ed ogni reazione investigativa. Avrebbe annullato ogni possibilità di scoprire le più occulte chiavi di lettura, più difficili da individuare, ma forse più reali”.

Il “gioco grande”
Seguendo le indagini di Carlo Palermo viene da chiedersi se nei primi cinquant’anni della nostra Repubblica non abbiano secret-service-agent-effgovernato in Italia componenti americane e, se così fosse, chi le avrebbe dirette. “Qualcuno probabilmente risponderebbe: il presidente degli Stati Uniti – scrive il giudice -. Sarebbe una risposta sciocca e superficiale. A chi in America gli poneva la stessa domanda William Cloen Skousen, professore della Brigham Young University rispondeva: chi comanda realmente è il Council on Foreign Relations (Cfr), il Consiglio per le relazioni internazionali, una associazione costituita a Parigi nel lontano 1919 da Edward Mandell House (il ‘colonnello’ House), un influente uomo d’affari texano, eminenza grigia che accompagnò il presidente Wilson alla Conferenza per la pace, quando nella capitale francese le nazioni vincitrici del primo conflitto mondiale si spartivano il globo. Oggi, questa associazione ha il suo quartier generale ad Harold Pratt House, in un edificio donato dai Rockefeller, sull’elegante Park Avenue: è qui che vengono ‘formati’ i funzionari e i consiglieri governativi degli Stati Uniti, come Henry Kissinger e Zbignew Brzezinski, per citare i più noti. Il Cfr è la filiazione di una società segreta che, affondando le proprie radici nell’Inghilterra vittoriana e nei gruppi della Round Table, si propone di indirizzare la politica estera del governo statunitense nel senso di una affermazione planetaria della razza anglosassone”. E’ solo un’ipotesi, un’analisi che non pretende di ergersi a verità assoluta ma che è sicuramente supportata, come in parte abbiamo visto, da vari elementi concreti. Mafia, terrorismo, massoneria, integralismo islamico (e bin Laden? E l’attentato alle Torri Gemelle e al Pentagono?), servizi segreti, sistemi bancari sembrano essere soltanto le pedine di quel gioco grande di cui parlava Falcone per mano del quale lo stesso Falcone, e chiunque ne abbia compreso le regole, è stato eliminato. “Per quanto mi riguarda – conclude Carlo Palermo – ho sempre preferito non pensare in termini fisici ai mostri che un giorno pigiarono un tasto per eseguire una sentenza di morte. E tantomeno a chi la pronunciò e a chi vi concorse. Mi sono sempre rifugiato in immagini confuse di corpi senza volto, di fantasmi che vorrei dimenticare. Anche se, purtroppo, queste ombre continuano a inseguirmi, pronte a materializzarsi di nuovo all’improvviso, ricordandomi che vale comunque la pena di continuare a cercare… forse per scrivere un altro capitolo di questa storia senza fine… forse solo per tentare di comprendere perché, a Pizzolungo, quel 2 aprile, giorno del mio attentato, morirono dilaniati due gemelli di sei anni, Giuseppe e Salvatore Asta, e la loro madre, Barbara. Il padre, Nunzio, morì d’infarto qualche tempo dopo. Il caposcorta, Raffaele Di Mercurio, di quarant’anni, morì due anni fa, anche lui d’infarto. Il mio autista Rosario Maggio e agli altri due agenti di scorta, Antonio Ruggirello e Salvatore La Porta, lasciarono il servizio per le lesioni riportate. Io non sono più un giudice”.

* Da una rielaborazione de “Oltre il quarto livello”

Bibliografia: “Il quarto livello” (Editori Riuniti, 1996) – “Il Papa nel mirino” (Editori Riuniti, 1998) – “Il giudice” (Reverdito ed., 1997) – “L’attentato” (Publiprint ed., 1993).

 

 

“Sola con te in un futuro aprile” di Margherita Asta e Michela Gargiulo

Articolo del 26 Marzo 2015 da ilfattoquotidiano.it

Salvatore e Giuseppe, bambini uccisi dalla mafia: la vittima doveva essere Carlo Palermo. La storia in un libro
di Valeria Gandus
Era il 2 aprile 1985 e i due gemelli stavano andando a scuola con la mamma, la giovane Barbara Rizzo: una bomba e di loro non è rimasto più nulla. L’attentato avrebbe dovuto colpire il Sostituto procuratore della Repubblica appena trasferito a Trapani. In ‘Sola con te in un futuro aprile’ Margherita Asta, sorella miracolosamente scampata alla strage, racconta il suo progressivo e doloroso avvicinamento alla verità di questo dramma.

Salvatore era biondo, riccioluto e pestifero; Giuseppe moro, testardo e puntiglioso. Erano gemelli e avevano sei anni. La loro mamma, Barbara Rizzo, era bella come tutte le mamme. E giovane, 31 anni appena. Quella mattina del 2 aprile 1985 uscirono dalla loro casa di Pizzolungo, non lontano da Trapani, per andare a scuola, accompagnati in auto dalla mamma. Tre chilometri e pochi minuti dopo, di loro tre non restava quasi più nulla: una bomba, fatta esplodere da un’automobile parcheggiata lungo la strada, aveva disintegrato i loro corpi e la loro famiglia. Quella bomba non era destinata ai tre ignari passeggeri ma all’uomo che in quell’istante viaggiava sull’auto che, al momento dello scoppio, li stava superando: Carlo Palermo, Sostituto Procuratore della Repubblica appena trasferito a Trapani da Trento, dove aveva condotto un’indagine difficile e scomoda su traffico d’armi e droga arrivata a toccare poteri forti (servizi segreti, loggia P2) e a lambire Bettino Craxi. Che aveva chiesto (e ottenuto) la sua estromissione dall’inchiesta.

Ora Palermo è sulle tracce di una grande raffineria di droga nel trapanese, e per quello deve morire. Invece, Carlo Palermo miracolosamente si salva. E alla morte sfugge, per caso, anche Margherita, l’altra figlia di Barbara, 11 anni, che quella fatale mattina ha preso un passaggio per la scuola dalla mamma di una compagna. Due vite salvate, ma irrimediabilmente segnate dall’evento. Due vite che si sono rincorse e scansate per decenni: la ragazzina, poi giovane donna, che inizialmente odia l’uomo nel quale vede la causa della distruzione della sua famiglia. Il magistrato che sopravviva a stento, ferito nel corpo e nell’anima, con un insopportabile senso di colpa per la tragedia che ha involontariamente causato. Lei che cerca invano di incontrarlo. Lui che non ce la fa ad affrontarla.

La storia di quella ragazzina e di quell’uomo sono raccontate oggi in un libro, Sola con te in un futuro aprile (Fandango) scritto da Margherita Asta con Michela Gargiulo. Un mémoir in prima persona dove uno dei due protagonisti, Margherita, ricostruisce il suo progressivo e doloroso avvicinamento alla verità di questo doppio dramma. E insieme racconta e omaggia il co-protgonista Palermo: non più odiato ma, al contrario, celebrato come l’acuto investigatore che fin dalle sue prime indagini trentine aveva intuito i legami fra criminalità e politica. Una verità suggerita dalla sentenza finale per la strage di Pizzolungo dove si legge: “L’attentato diretto contro il dottor Carlo Palermo costituisce l’ennesima azione terroristica di Cosa nostra contro un magistrato che osava sfidarla così come aveva sfidato in precedenza i poteri forti, subendone pesanti ritorsioni. Non è escluso che con la soppressione di Carlo Palermo il vertice siciliano di Cosa nostra pensasse di rendere un favore non solo a se stesso”.

Il libro è il racconto di una ragazza determinata e di un uomo (lasciato) solo. Ma anche la cronaca ragionata di vent’anni di mafia: attentati e processi, morti eccellenti (Giangiacomo Ciaccio Montalto, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Mauro Rostagno), maxi processi, sentenze non sempre esemplari. Nomi di mafiosi che ricorrono da una strage all’altra, da un processo all’altro. Alcuni catturati (Totò Riina), altri pentiti (Giovanni Brusca). Tutti, in qualche modo, collegati a quella lontana strage e a quel giudice scomodo. Anzi, ex giudice, perché dopo un breve e difficile periodo al Ministero della Giustizia, Carlo Palermo lasciò la magistratura. Margherita, che da anni collabora con l’associazione Libera, grazie a Don Luigi Ciotti è riuscita finalmente a incontrarlo solo pochi anni fa, a Trento. E l’ha ritrovato inaspettatamente al suo fianco a Trapani a una manifestazione contro la realizzazione di uno stabilimento balneare nel luogo della strage. “Quando arriva il momento del silenzio per onorare il vostro ricordo” scrive Margherita rivolgendosi idealmente ai suoi cari “sento una mano che cerca la mia. Nell’istante esatto in cui torno bambina a cercare mia madre, dentro quelle stanze piene di gente, questa volta ho trovato la mano del giudice Carlo Palermo”. Lui stretto nel suo impermeabile e lo sguardo triste, lei con gli occhiali da sole per nascondere le lacrime. “Un pezzo che ritorna al suo posto dopo tanto tempo”.

 

 

 

Stragi di mafia – PIF – RayPlay
La strage di Pizzolungo – Caro Marziano
Come si spiega a un marziano cos’è la mafia? Purtroppo è meno difficile di quanto si pensi: basta lasciar parlare chi ha visto la propria vita stravolta dalla violenza bestiale del crimine organizzato siciliano. Ed è quello che fa Pif raccontando la storia di Margherita Asta, dell’attentato mancato al giudice Carlo Palermo e della strage che ha questo ha causato nella sua famiglia.

 

 

 

Borrometi, italiane contro le mafie: Margherita Asta
Tv2000it
Paolo Borrometi è con Margherita Asta, una donna che combatte le mafie dal 1985, quando perse la madre e i due fratelli nell’attentato rivolto al magistrato Carlo Palermo, in quella che è conosciuta come la strage di Pizzolungo.

 

 

 

Fonte: alqamah.it
Articolo del 6 gennaio 2019
Pizzolungo, per la strage nuovo processo
di Rino Giacalone
La Procura antimafia di Caltanissetta ha chiesto di processare quale mandante il boss dell’Acquasanta di Palermo, Vincenzo Galatolo

La strage mafiosa di Pizzolungo del 2 aprile 1985 fu decisa in un summit di mafia che si svolse a Castelvetrano, alla presenza dei capi assoluti di Cosa nostra trapanese, Ciccio e Matteo Messina Denaro, padre e figlio. Lo ha messo a verbale Santino Di Matteo, il pentito al quale la mafia per vendetta uccise il figlio, Giuseppe. Don Ciccio, il “patriarca” della mafia belicina, morto nel 1998 durante la sua latitanza, e il suo successore, Matteo, il capo della mafia trapanese , ricercato dal 1993, custode di mille segreti e di tante trattative. In quella strage morirono una mamma con i suoi due figlioletti, Barbara Rizzo di 30 anni, Salvatore e Giuseppe Asta, gemellini di sei anni. Barbara stava accompagnando in auto i figli a scuola; fecero da scudo, al momento dell’esplosione dell’auto imbottita di tritolo e lasciata ferma sul ciglio della strada, alla blindata dove viaggiava il pm trapanese Carlo Palermo, rimasto vivo: lui restò ferito, più gravi le condizioni degli agenti della sua scorta, ma nessuno di loro morì. Per la strage sono stati condannati all’ergastolo quali mandanti i capi mafia di Palermo e Trapani, Totò Riina e Vincenzo Virga, quali soggetti che portarono a Trapani il tritolo usato per l’autobomba, i mafiosi palermitani Nino Madonia e Balduccio Di Maggio.

Adesso per questa strage sta per aprirsi un nuovo processo. La Procura di Caltanissetta ha infatti chiesto al gip il rinvio a giudizio del boss mafioso palermitano del rione Acquasanta, Vincenzo Galatolo, quale mandante della strage. L’udienza preliminare è fissata per il prossimo 12 febbraio. Ad accusare Galatolo sono la figlia “ribelle” Giovanna Galatolo e il pentito Francesco Onorato. La strage di Pizzolungo è attraversata da tantissime trame, i traffici di droga e di armi, la corruzione politica, l’attacco mosso da Cosa nostra allo Stato in quella terribile stagione degli anni ’80 fino ad arrivare alle stragi del 1992 e del 1993. Il tritolo usato a Pizzolungo è lo stesso usato in altre stragi: dicembre 1984 attentato treno rapido 904 (per il quale è stato condannato il cassiere della mafia siciliana Pippo Calò), il tentativo di attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone nel 1989, lo si è trovato in via D’Amelio il 19 luglio 1992, dove furono uccisi Borsellino e gli agenti della sua scorta. Tutti fatti attraversati dal filo di una possibile trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, mediati da poteri occulti, servizi deviati, e massoneria segreta. Nel fascicolo del nuovo processo ci sono le dichiarazioni di Onorato che collocano Pizzolungo dentro una possibile “trattativa” che lui ha spiegato in questo modo:”Non è mai esistita una trattativa fra mafia e Stato, c’è sempre stata una convivenza fra la mafia e lo Stato”, chi non faceva parte di quella convivenza o chi la poteva ostacolare è ovvio che doveva essere eliminato.

La verità su questa strage, così come per altri fatti criminosi,resta nascosta dai depistaggi. E’ certo che gli esecutori della strage furono i boss di Alcamo e Castellammare, Nino Melodia, Vincenzo Milazzo (ucciso però nel 1992) e Gioacchino Calabrò: furono condannati in primo grado ma poi assolti in appello e in Cassazione. Il pentito Giovanni Brusca ha svelato che Riina diede ordine al capo mafia di Caltanissetta, Piddu Madonia, di “avvicinare” i giudici del processo di Pizzolungo. I pentiti, e le indagini successive, hanno indicato Calabrò, Milazzo e Melodia come gli esecutori. Fu Nino Melodia a schiacciare il tasto del telecomando della strage. Ma non possono essere riprocessati, per loro è scattato il ne bis in idem , non possono tornare imputati per un reato per il quale esiste sentenza definitiva di assoluzione. E’ stata Giovanna, la figlia ribelle ad accusare il padre mafioso, Vincenzo Galatolo, di avere commesso la strage. «Non appena il telegiornale diede la notizia — ha messo a verbale Giovanna Galatolo — mia madre iniziò a urlare: ” I bambini non si toccano”. Mio padre le saltò addosso, cominciò a picchiarla, voleva dare fuoco alla casa». «Avevo vent’anni – ha raccontato Giovanna – a casa sentivo mio padre che diceva: “Quel giudice è un cornuto”. Poi, si verificò l’attentato. E mi resi conto, anche mia madre capì. Non si dava pace ». Giovanna Galatolo non conosce il movente che portò i boss di Cosa nostra ad agire con tanta fretta.

Una pista del possibile movente è indicata nella sentenza con la quale sono stati condannati Totò Riina, Vincenzo Virga e Balduccio Di Maggio. Il giudice Carlo Palermo, all’epoca arrivato da appena 40 giorni a Trapani da Trento, era sulle tracce di un intreccio che legava mafia, trafficanti d’armi e massoni. C’è anche un verbale del defunto pentito di Campobello di Mazara, Rosario Spatola. Lui chiamava in causa un altro potente boss mafioso. Spatola riferì di una confidenza fatta dall’avvocato mafioso Antonio Messina: “il giudice Palermo – gli disse Messina secondo la sua testimonianza –costituiva una minaccia assai grave sia per la mafia che per i politici”. Spatola ha anche ricordato in quel verbale che settimane prima della strage l’avvocato Messina più volte si era visto con il boss Pippo Calò, “era Calò che teneva i contatti con i politici a Roma”. Per Francesco Di Carlo, altro pentito, palermitano, «la mafia doveva dimostrare di essere più forte dello Stato, si era fatto un gran parlare di questo magistrato che arrivava da Trento a Trapani, divenne obiettivo per questa ragione». Giovan Battista Ferrante, altro ex «picciotto» di Palermo, ha ricordato quando qualche giorno dopo la strage fu testimone di un incontro, in un magazzino di proprietà di Mariano Tullio Troja, boss di San Lorenzo a Palermo, anche lui deceduto, tra il capo mandamento di San Lorenzo, Pippo Gambino, con il mazarese Calcedonio Bruno, l’ architetto affiliato alla potente cosca di Mazara: «Gambino lo accolse facendogli un gesto, del genere per chiedergli “che cosa avete fatto”, Calcedonio aprì le braccia per dire “è successo”, per quella donna e quei bimbi morti.

Oggi Calcedonio Bruno è libero, nonostante un ergastolo ha riacquistato la libertà, con se tiene alcuni segreti sulla potente cosca di Mazara del Vallo, strage di Pizzolungo compresa. A Mazara all’epoca della strage si nascondevano i peggiori mafiosi latitanti, da Riina ai Madonia. Dietro il botto del 2 aprile 1985 si vede benissimo che c’è la mafia potente, quella che sopravvive con gli intrecci storici e le alleanze con pezzi dello Stato, i servizi e la massoneria deviati, le banche e i banchieri spregiudicati, i traffici di droga e di armi, le rotte internazionali del crimine. E’ la mafia che lega le organizzazioni criminali italiane con quelle turche per esempio, o ancora la mafia che gestisce le «casseforti» del riciclaggio, dei denari di Cosa Nostra e una serie di investimenti illeciti. Dentro i fascicoli giudiziari che raccolgono la complessa istruttoria sulla strage di Pizzolungo, ci sono nomi che tornano in altre inchieste, quelle sul crimine internazionale, sulle alleanze tra mafia e borghesia. Il «movente» sull’ attentato di Pizzolungo bisogna andare a cercarlo dentro ciò che ruota attorno a Gino Calabrò, lattoniere e capo mafia di Castellammare, l’uomo che “imbottì” di tritolo la vettura usata per compiere la strage di Pizzolungo, e in quei momenti nell’officina di Calabrò ci sarebbero stati altri boss palermitani come Nino Madonia, Pippo Gambino e Nicola Di Trapani, come ha raccontato il pentito Giovan Battista Ferrante. Calabrò è uomo di stragi, affiancò il latitante capo mafia di Castelvetrano Matteo Messina Denaro nelle stragi del ’93, e per questo sconta l’ ergastolo, mentre per Pizzolungo assolto per la strage è stato condannato solo per la ricettazione dell’auto rubata usata per fare l’attentato. Il l lattoniere di Castellammare è uno che risulta avere stretto mani importanti, massoni come quelli della Iside 2 di Trapani, non tutti andati «ancora in sonno», alcuni ancora «in sella»; e di massoni e servizi deviati nell’attentato di Pizzolungo si ha percezione della loro presenza.

 

 

 

Fonte:  antimafiaduemila.com
Articolo del 6 gennaio 2019
Strage di Pizzolungo, chiesto il rinvio a giudizio del boss Galatolo

Il boss palermitano Vincenzo Galatolo, capo mafia del rione Acquasanta di Palermo, deve essere processato quale mandante della strage del 2 aprile 1985, anche nota come strage di Pizzolungo, in cui morirono una donna, Barbara Rizzo, ed i suoi due figlioletti di sei anni, i gemellini Salvatore e Giuseppe Asta.

A chiedere il rinvio a giudizio al gip del tribunale nisseno è la Procura di Caltanissetta rappresentata dal Procuratore Capo Amedeo Bertone, il procuratore aggiunto Gabriele Paci e il pm Pasquale Pacifico. Obiettivo di quell’attentato doveva essere il magistrato Carlo Palermo, già giudice istruttore nella città di Trento, giunto a Trapani da appena 40 giorni per sostituire Giangiacomo Ciaccio Montalto, ucciso da Cosa nostra. Al momento dell’esplosione dell’auto imbottita di tritolo, lasciata sul lato della strada, l’auto blindata del giudice fu “protetta” da quella della giovane donna che fu completamente investita dallo scoppio. Palermo rimase ferito, mentre più gravi furono le condizioni degli agenti della sua scorta, ma nessuno di loro morì.

Ad accusare Vincenzo Galatolo sono la figlia Giovanna e il pentito Francesco Onorato. La donna ha riferito ai magistrati alcune reazioni avute dal padre in famiglia, proprio nei giorni del delitto: “No appena il telegiornale diede la notizia mia madre iniziò a urlare, i bambini non si toccano. Mio padre le saltò addosso, cominciò a picchiarla, voleva dare fuoco alla casa”. “Avevo vent’anni – ha aggiunto ancora la collaboratrice di giustizia – a casa sentivo mio padre che diceva ‘quel giudice è un cornuto. Poi si verificò l’attentato. E mi resi conto, anche mia madre capì. Non si dava pace”.

I magistrati nisseni stanno rileggendo gli atti di altre indagini e verbali rimasti dimenticati proprio su Pizzolungo. E vi sarebbe un interrogatorio del pentito Mario Santo Di Matteo in cui si accusa anche la famiglia trapanese dei Messina Denaro (“A deliberare la strage fu una riunione alla quale presero parte Ciccio e Matteo Messina Denaro”).

Per la strage sono stati condannati all’ergastolo quali mandanti i capi mafia di Palermo e Trapani, Totò Riina e Vincenzo Virga, quali soggetti che portarono a Trapani il tritolo usato per l’autobomba, i mafiosi palermitani Nino Madonia e Balduccio Di Maggio.
Nella sentenza che ha condannato Riina e Virga c’è scritto che gli imputati del primo processo, quelli che la Polizia arrestò pochi mesi dopo la strage, erano davvero gli esecutori del delitto. In quel dibattimento erano imputati i boss di Alcamo e Castellammare, Nino Melodia, Vincenzo Milazzo (ucciso tragicamente nel 1992) e Gioacchino Calabrò: furono condannati in primo grado ma poi assolti in appello e in Cassazione.

E’ stato il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca a svelare che Riina diede ordine al capo mafia di Caltanissetta, Piddu Madonia, di “avvicinare” i giudici del processo di Pizzolungo. I pentiti, e le indagini successive, hanno indicato Calabrò, Milazzo e Melodia come gli esecutori.

Nonostante la celebrazione di tre processi (quello previsto con l’udienza preliminare fissata al 12 febbraio sarebbe il quarto), sono ancora diversi gli elementi rimasti oscuri. Nessun pentito, infatti, ha mai rivelato le ragioni che indussero Cosa nostra a compiere quell’attentato. Carlo Palermo, di fatto, si era appena insediato eppure la mafia decise di colpire duramente.
Dietro la strage di Pizzolungo si intravedono, però, diverse piste: dalle inchieste sul traffico di droga ed armi alla corruzione politica ed anche l’attacco allo Stato di Cosa nostra che dagli anni Ottanta giungerà fino alle stragi dei primi anni Novanta.
Cosa nota è che Palermo era sulle tracce di un intreccio che legava mafia, trafficanti d’armi e massoni.

Il pentito Rosario Spatola, oggi deceduto, riferì di una confidenza fatta dall’avvocato mafioso Antonio Messina: “Il giudice Palermo – gli disse Messina secondo la sua testimonianza – costituiva una minaccia assai grave sia per la mafia che per i politici”. Spatola raccontò ai giudici anche che settimane prima della strage l’avvocato Messina più volte si era visto con il boss Pippo Calò, “era Calò che teneva i contatti con i politici a Roma”. Per il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo “La mafia doveva dimostrare di essere più forte dello Stato, si era fatto un gran parlare di questo magistrato che arrivava da Trento a Trapani, divenne obiettivo per questa ragione”.
Per mettere in fila tutti i pezzi e ricercare la verità una traccia importante può arrivare dal tritolo utilizzato per riempire l’auto di esplosivo che è lo stesso usato in altre stragi: quella del rapido 904 (dicembre 1984) per cui fu condannato il cassiere della mafia siciliana Pippo Calò), il tentativo di attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone (1989), ed anche nella strage di via d’Amelio (19 luglio 1992), dove furono uccisi Borsellino e gli agenti della sua scorta.

C’è un soggetto che potrebbe svelare la verità su quel delitto. Quel Gino Calabrò nella cui officina fu preparata l’autobomba. Un soggetto che ha avuto un ruolo nelle stragi del ’93, e per questo sconta l’ ergastolo, mentre per Pizzolungo fu condannato solo per la ricettazione dell’auto rubata usata per fare l’attentato. Un nome, il suo, che risulta vicino anche alla massoneria Iside 2 di Trapani. Per questo si può dire che, come scrive il giornalista Rino Giacalone “dietro il botto del 2 aprile 1985 si vede benissimo che c’è la mafia potente, quella che sopravvive con gli intrecci storici e le alleanze con pezzi dello Stato, i servizi e la massoneria deviati, le banche e i banchieri spregiudicati, i traffici di droga e di armi, le rotte internazionali del crimine. E’ la mafia che lega le organizzazioni criminali italiane con quelle turche per esempio, o ancora la mafia che gestisce le ‘casseforti’ del riciclaggio, dei denari di Cosa Nostra e una serie di investimenti illeciti”.

 

 

 

Fonte: antimafiaduemila.com
Articolo del 18 Settembre 2019
Strage Pizzolungo: chiesti 30 anni per il boss Galatolo
Terminata la requisitoria del pm Paci

30 anni. È questa la richiesta di pena chiesta dal procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci, al termine della requisitoria del quarto processo sulla strage di Pizzolungo, nei confronti del boss mafioso Vincenzo Galatolo. Il capomafia del rione Acquasanta di Palermo è accusato di essere stato il mandante della strage del 2 aprile 1985, anche nota come strage di Pizzolungo, in cui morirono una donna, Barbara Rizzo, ed i suoi due figlioletti di sei anni, i gemellini Salvatore e Giuseppe Asta. Quel giorno la vittima prescelta era il giudice Carlo Palermo, ma per errore morirono la donna insieme ai suoi figli.

Ad accusare Vincenzo Galatolo sono la figlia Giovanna e il pentito Francesco Onorato. La donna ha riferito ai magistrati alcune reazioni avute dal padre in famiglia, proprio nei giorni del delitto: “No appena il telegiornale diede la notizia mia madre iniziò a urlare, i bambini non si toccano. Mio padre le saltò addosso, cominciò a picchiarla, voleva dare fuoco alla casa”. “Avevo vent’anni – ha aggiunto ancora la collaboratrice di giustizia – a casa sentivo mio padre che diceva ‘quel giudice è un cornuto. Poi si verificò l’attentato. E mi resi conto, anche mia madre capì. Non si dava pace”. Parole confermate anche dal collaboratore di giustizia Onorato.

L’ex pm è stato riconosciuto tra le parti civili del processo, con gli agenti della sua scorta (Salvatore La Porta e Nino Ruggirello). All’epoca dei fatti, Palermo si era appena trasferito a Trapani da circa 40 giorni. Il magistrato aveva avviato indagini sulle connessioni tra mafia e colletti bianchi.

 

 

 

Fonte:  antimafiaduemila.com
Articolo del 10 Dicembre 2019
“Dal quarto processo sulla strage di Pizzolungo un nuovo tassello di verità”
Intervista a Margherita Asta
di Aaron Pettinari
Oggi previste le discussioni delle parti civili. Il pm ha già chiesto la condanna per il boss Vincenzo Galatolo

Dieci mesi fa, a Caltanissetta, davanti al gup giudice Baldo, si è aperto il processo “Pizzolungo quater”, nuovo procedimento penale per la strage mafiosa del 2 aprile 1985 in cui persero la vita la giovane mamma Barbara Rizzo, 31 anni, e i gemellini di 6 anni, Salvatore e Giuseppe Asta. Vero obiettivo di quell’attentato era il giudice Carlo Palermo ma morirono la donna e i suoi figli che passavano di lì con la loro auto mentre andavano a scuola.

Una strage su cui, nonostante i 34 anni trascorsi e i ben tre processi effettuati, ancora non ha consegnato una completa verità, in particolare sui motivi che portarono Cosa nostra a colpire un magistrato che solo da quaranta giorni si era trasferito in Sicilia, a Trapani, dopo essere stato protagonista di delicatissime indagini presso il Tribunale di Trento.

Per la strage sono stati condannati all’ergastolo quali mandanti i capi mafia di Palermo e Trapani, Totò Riina e Vincenzo Virga, quali soggetti che portarono a Trapani il tritolo usato per l’autobomba, i mafiosi palermitani Nino Madonia e Balduccio Di Maggio.
Imputato nel processo, che si celebra con il rito abbreviato, è Vincenzo Galatolo, già condannato all’ergastolo per l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, accusato di essere stato non solo il mandante del delitto ma anche di aver per primo pensato ed ideato l’attentato al magistrato Carlo Palermo.
Una figura, quella del boss palermitano, che è al vertice di una famiglia, quella dell’Acquasanta, particolarmente vicina ad ambienti “deviati” dei servizi segreti.
Nel 1989, erano stati proprio i Galatolo ad aver organizzato il fallito attentato all’Addaura a Giovanni Falcone. Quell’attentato che lo stesso giudice aveva attribuito a “menti raffinatissime”.

E la strage di Pizzolungo, nel suo contorno, presenta le medesime trame oscure.
Il nuovo processo si è aperto grazie alle dichiarazioni della figlia “ribelle” Giovanna Galatolo e del pentito Francesco Onorato.
Lo scorso settembre il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, al termine della sua requisitoria, ha chiesto una pena a 30 anni di carcere per il capomafia.
Oggi, dopo tre mesi, si tornerà in aula con le discussioni delle parti civili del processo, ovvero i sopravvissuti all’attentato, il giudice Carlo Palermo, l’autista Rosario Maggio, e gli agenti di scorta, Raffaele Di Mercurio, Antonio Ruggirello e Salvatore La Porta.

Difesa dall’avvocato di Enza Rando, parte civile è anche Margherita Asta, la figlia più grande di Barbara Rizzo e sorella maggiore di Giuseppe e Salvatore, che da quel lontano 1985 continua a chiedere verità e giustizia. L’abbiamo raggiunta telefonicamente per condividere quelle che sono le sue sensazioni per questo processo.

Margherita Asta, è in via di conclusione il quarto processo sulla strage, segno delle difficoltà che vi sono state fin qui per raggiungere la verità. Cosa si aspetta?
Dopo quasi trentacinque anni dalla strage sappiamo che il percorso per raggiungere la verità completa è ancora lungo. La speranza è che sia scritto un altro tassello di verità.
Così come è avvenuto nel processo contro Riina e Virga come mandanti. Lì è scritto nero su bianco il cortocircuito che c’è stato sui veri esecutori materiali della strage e che il processo argomentativo che fu sviluppato era totalmente errato.

Si riferisce alle responsabilità dei boss di Alcamo e Castellammare, Nino Madonia, Vincenzo Milazzo (ucciso però nel 1992) e Gioacchino Calabrò?
Esattamente. Loro, individuati già nel 1987, furono condannati in primo grado ma poi assolti in appello e in Cassazione. Il pentito Giovanni Brusca ha svelato che Riina diede ordine al capo mafia di Caltanissetta, Piddu Madonia, di “avvicinare” i giudici del processo di Pizzolungo. I pentiti, e le indagini successive, hanno indicato Calabrò, Milazzo e Melodia come gli esecutori. Ma non possono essere riprocessati, per via del “ne bis in idem” per cui non possono tornare imputati per un reato per il quale esiste sentenza definitiva di assoluzione.

Il processo contro Galatolo perché diventa importante?
Perché un’eventuale sua condanna collegherebbe ancor di più la strage di Pizzolungo a tutto un apparato di processi che si sono celebrati e che ci stanno celebrando anche a Caltanissetta. Da questo punto di vista ho grandissimo rispetto per i magistrati di Caltanissetta che hanno riaperto questo segmento e che hanno sostenuto un’accusa contro Galatolo ormai 35 anni dopo i fatti. Non è facile ma io ho piena fiducia nel percorso della magistratura.
Tornando al percorso verso la verità ricordiamo che il tritolo usato a Pizzolungo è lo stesso usato in altre stragi come quella al treno rapido 904, il tentativo di attentato all’Addaura e la strage di via d’Amelio. Può esserci un filo conduttore tra le varie stragi. E poi è importante questo processo perché può trovare una conferma l’esistenza di quelle strutturali collusioni di cui si parla nella sentenza contro Madonia.
In quella sentenza si dice che “il movente, plurimo e articolato, ha comunque alla base la sfida di Cosa nostra alle istituzioni dello stato e in particolare a quegli uomini che manifestavano la precisa volontà di svolgere fino in fondo e senza tentennamenti il proprio ruolo istituzionale di contrasto e repressione nei confronti dell’organizzazione mafiosa, la cui ragione d’essere storica sta nella strutturale collusione con settori importanti dello stato ed in definitiva nella garanzia di poter lucrare comunque attraverso manovre, contatti, alleanze e scambi ‘latu sensu’ politici l’assoluta impunità”.

A suo modo di vedere può essere questo il motivo per cui si parla così poco di questo processo?
Sinceramente temo che il motivo per cui non si parla di questo processo è perché la strage di Pizzolungo viene considerata come una strage di serie C o Z dal mondo dell’informazione. E questo solo per il fatto che a morire non fu un magistrato ma dei cittadini, ovvero mia madre ed i miei fratellini. Questo lo dico con grandissima amarezza e dolore e non è giusto per molteplici aspetti. Non vi è rispetto per il dolore, né il mio o della mia famiglia, né quello del giudice Carlo Palermo che era obiettivo dell’attentato e che, seppur non è stato ucciso fisicamente, è stato profondamente segnato sul piano psicologico e personale. Così come la sua scorta.
La prima volta che ci incontrammo affrontammo il tema della verità mancata e del fatto che forse ci sarebbero dovute passare più generazioni prima che la stessa potesse essere veramente scritta. Io credo che questo ultimo processo potrà portare un tassello in più e sono ben contenta.

Qual è il suo rapporto con Carlo Palermo?
Se nei primi anni, da bambina, mi sono trovata a dare a lui la colpa per quanto era avvenuto, crescendo ho capito che quella responsabilità non poteva essere certo attribuita al giudice Palermo. Purtroppo il dolore che si prova non ti permette sempre di essere lucido nell’analisi. Successivamente, da adulta, quando ci siamo conosciuti ho scoperto la figura di un uomo che è vittima sia a livello professionale che emotivo.
In una lettera, pubblicata nel libro che ho scritto assieme alla giornalista Michela Gargiulo, Palermo scrisse che era “morto nel suo essere sopravvissuto”.
Queste parole testimoniano il suo profondo dolore. Io continuo a sentirlo e a stargli vicino. Mi auguro che grazie a questa vicinanza resa a superare il senso di colpa che prova per quanto avvenuto. Non è colpa sua. E questo lo dico anche con tanta ammirazione per quella che è la sua vita.

Come ricorda sua madre ed i suoi fratellini?
Mamma aveva 31 anni ed era un’insegnante che aveva deciso di dedicarsi alla famiglia a cui poi non hanno permesso di fare quel che aveva scelto. Lei era orfana. A due anni aveva perso sua madre a causa di una malattia. Ricordo che aveva questo sguardo velato che oggi rivedo in alcune mie foto. E’ il dolore della perdita vissuta. Lei per un motivo, io per un altro che mi ha proiettata velocemente nel mondo degli adulti. Un dolore che va affrontato e che cresce se penso ai miei fratellini di appena 6 anni.
Giuseppe e Salvatore erano gemelli ma profondamente diversi. Il primo bruno con i capelli lisci, il secondo biondo con i capelli ricci. Anche caratterialmente erano differenti. Giuseppe, più testardo e puntiglioso. Ricordo che prima di andare a scuola, in prima elementare, lui già voleva leggere, anche poche righe. Lui lo faceva sempre. Salvatore era più estroverso e giocherellone.

Se fossero sopravvissuti cosa immagini che avrebbero fatto?
Sarebbero due uomini di 40 anni. Non so dire cosa avrebbero fatto o quali sarebbero state le loro passioni perché non hanno avuto il tempo di sceglierle. Però guardando al loro carattere potrei immaginare che Giuseppe sarebbe stato un commercialista o un avvocato. Salvatore, più estroso, sarebbe stato un professionista nel mondo dell’arte.

Lei riesce a superare il dolore?
Il tempo trascorre velocemente. Le ferite che si sono create nel 1985 con la morte di mia madre e dei miei fratelli restano e il dolore è ancora uguale. Riesco a convivere di più con questo dolore perché ho trovato la forza, impegnandomi con Libera, per affrontarlo nel quotidiano. E l’aver incontrato tante persone, soprattutto giovani, in questi anni è stato fondamentale.

Ultimamente sia la Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) che la Corte costituzionale si sono espresse sull’ergastolo ostativo affermando che anche ai condannati per mafia deve essere riconosciuta la concessione dei permessi premio e che la collaborazione con la giustizia non può essere l’unico vincolo su cui stabilire il criterio. Da familiare vittima di mafia come vede una tale determinazione?
Io ritengo che vi sia un forte rischio di un passo indietro. Io credo nella funzione rieducativa della detenzione e comprendo i principi che hanno mosso l’Europa ma ugualmente credo che vada stabilito un criterio chiaro perché il mafioso non è un criminale comune.
Quando mi chiedono se io posso perdonare rispondo che prima voglio comprendere quello che è accaduto. Voglio sapere perché hanno cercato di uccidere Carlo Palermo e quindi, di riflesso, perché sono morti mia madre ed i miei fratelli. Mi conforta che nelle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale si stabilisce che non è sufficiente la “buona condotta” o la partecipazione al percorso rieducativo, né una semplice dichiarazione di dissociazione.

Cosa direbbe ai tanti ragazzi che si avvicinano a certi temi?
Di non perdere mai la speranza, perché è quella linfa necessaria per andare avanti ogni giorno. Sicuramente c’è da combattere affinché la verità venga scritta, ma non si deve mai perdere la fiducia nelle istituzioni. Non si deve perdere perché altrimenti la si darebbe vinta a quel sistema criminale che attanaglia il nostro Paese. Abbiamo il dovere di pretendere che le nostre istituzioni siano credibili. Forse la mafia non uccide più come un tempo ma con il suo agire colpisce la società e nega i diritti di ognuno di noi. E quindi è necessario che ognuno faccia la propria parte, stando vicini anche a quella magistratura che oggi è tornata ad essere colpita e delegittimata. E non dimentichiamo che ci sono magistrati, uomini delle forze dell’ordine che vanno avanti con impegno, sacrificando anche le loro famiglie, nel tentativo di salvaguardare il bene comune, per lo Stato ed i cittadini.

 

 

 

Fonte: articolo21.org
Articolo del 1 aprile 2020
Quei 35 anni di misteri su Pizzolungo
di Rino Giacalone
Trapani 2 Aprile 1985: la mafia fa strage di una famiglia per tentare di uccidere il pm Carlo Palermo, e si attende ancora verità e giustizia per Barbara, Salvatore e Giuseppe.

Il tritolo. L’esplosivo che Cosa nostra usò per riempire un’auto fermandola su una semi curva della frazione di Pizzolungo, lungo una strada litoranea che collega a Trapani una zona di villeggiatura sul mare, era un esplosivo per così dire marcato, riconoscibile. Quando il 2 Aprile 1985 Cosa nostra tentò di uccidere il magistrato Carlo Palermo, innescando la scintilla al passaggio della blindata, una Fiat Argenta, seguita dalla scorta che viaggiava su una normalissima Fiat Ritmo, lo stesso esplosivo aveva fatto già la sua comparsa appena pochi mesi prima, il 23 dicembre 1984, quando fu utilizzato per dilaniare i vagoni del treno rapido 904 Napoli-Milano.

L’esplosione avvenne nella galleria dell’Appennino, ci furono 16 morti e 267 feriti. A Pizzolungo ci furono tre morti e una immane devastazione di case. Al momento del “botto” tra l’auto imbottita di tritolo e l’auto con a bordo il magistrato si trovò un’altra vettura, la guidava una donna, Barbara Rizzo, 31 anni, stava portando a scuola i suoi gemellini, Salvatore e Giuseppe Asta, avevano sei anni. Loro fecero da scudo alle vite del magistrato, dell’autista Rosario Maggio e degli agenti di scorta Totò La Porta, Nino Ruggirello, Raffaele Mercurio. Il commando era appostato pochi metri più avanti, sul tetto di una villetta, chi premette il telecomando non potè non vedere che c’era un’altra auto che percorreva quella strada ma agì ugualmente. Passarono pochi giorni da quel 2 aprile, e la sera del 20 aprile 1985 lo stesso tritolo venne usato per distruggere una villetta a Piana degli Albanesi, di proprietà della prof. Elda Pucci, che all’epoca si affacciava alla politica, chiamata nella Dc palermitana che l’odierno Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, stava ricostruendo dopo il commissariamento ordinato dal segretario De Mita.

Quattro anni dopo 21 giugno 1989, un borsone, di quelli solitamente usati da pescatori subacquei, riempito sempre dello stesso tritolo, viene abbandonato sulla scogliera del mare dell’Addaura a Palermo: davanti la casa al mare del giudice Giovanni Falcone. Fu quello il primo tentativo di Cosa nostra di uccidere il magistrato siciliano. Ecco fermiamoci un attimo prima di andare avanti, per ricordare ciò che disse Falcone rispondendo alle domande di un giornalista, disse che quell’attentato era opera di menti raffinatissime, e disse questo mentre c’era chi, anche personaggi altolocati, anche colleghi di Falcone, andava dicendo che Falcone quell’attentato se lo era fatto da solo. Tornando a Trapani, era quasi la stessa cosa che si diceva di Carlo Palermo. Per il sindaco della città, Erasmo Garuccio, la mafia a Trapani non c’era, ed era come se Carlo Palermo trasferitosi alla Procura di Trapani da poco meno di 50 giorni, provenendo dall’ufficio istruzione del Tribunale di Trento, si fosse portato appresso i suoi attentatori. Riprendiamo il filo del tritolo.

Lo ritroveremo il 19 luglio del 1992 dentro quella Fiat 126 fatta esplodere in via D’Amelio a Palermo per uccidere il procuratore Paolo Borsellino ed i suoi cinque agenti di scorta, Emanuela Loi, Walter Cusina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Sempre lo stesso tritolo, “pentrite” oppure detto T4 o ancora “sentex”. Un esplosivo fornito alle Forze armate cecoslovacche di produzione italiana. Basta solo questa traccia, questa prova , per aver subito chiaro che Pizzolungo come gli altri attentati con lo stesso esplosivo, non furono solo malefatte mafiose, ma in queste tragiche trame c’era anche altro, ciò che oggi per tutti i processi che hanno riguardato questi fatti, Pizzolungo compreso, è rimasto fuori, indenne: mafia, massoneria, poteri occulti, apparati istituzionali compromessi con Cosa nostra, anzi no compromessi ma complici.

Per la strage di Pizzolungo dopo anni di processi, ci furono quattro condannati al carcere a vita, ritenuti mandanti della strage: Totò Riina, il feroce mafioso di Corleone, Vincenzo Virga, capo mafia di Trapani, i boss palermitani Balduccio Di Maggio e Nino Madonia. Gli esecutori della strage li conosciamo benissimo, Nino Melodia, Vincenzo Milazzo, Gino Calabrò, Filippo Melodia, sono stati condannati in primo grado e con altri assolti in appello e in Cassazione. Ma in una delle sentenze di condanna dei mandanti c’è scritto che loro erano i componenti del commando, e che furono assolti in appello da giudici che presero uno svarione, non considerarono alcune prove. Qualcuno di loro è morto, altri sono in cella per altri reati, qualcun altro è tornato libero, ma per Pizzolungo non potranno più essere processati. In questi mesi a Caltanissetta si sta celebrando un altro processo, quello che vede alla sbarra il capo mafia palermitano Vincenzo Galatolo, imputato di essere stato il mandante. Lo accusa la figlia, Giovanna Galatolo.

E proprio guardando a Galatolo prendono forma quei contorni, quello scenario di trame e contatti tra mafia e poteri occulti, servizi segreti deviati. Galatolo è il boss di altre carneficine, la strage di via Pipitone Federico a Palermo dove fu ucciso il giudice Rocco Chinnici, l’omicidio di Pio La Torre, segretario Pci siciliano e del suo autista Rosario Di Salvo, l’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa, l’assassinio del capo della Squadra Mobile di Palermo Ninni Cassarà, l’attentato all’Addaura a Falcone. Tutti delitti di Cosa nostra, ma che non furono voluti solo da Cosa nostra. In un’altra aula del Tribunale a Caltanissetta mentre si processo Galatolo, lì si sta processando il latitante Matteo Messina Denaro, imputato per la strage di via D’Amelio, fu lui qualche giorno prima di quel 19 luglio 1992, a ordinare al capo mafia Vincenzo Virga di consegnare a due suoi emissari palermitani ciò che “era rimasto del tritolo di Pizzolungo”.

Margherita Asta è la figlia di Barbara Rizzo e la sorella di Salvatore e Giuseppe. Aveva 10 anni quando le dissero che a causa di un incidente i suoi familiari erano volati in cielo. Nel 1993 perderà anche il padre, Nunzio Asta. E’ cresciuta con Antonina, che divenne e resta sua mamma, le ha dato un fratello, Salvatore Giuseppe si chiama. Quel 2 Aprile doveva esserci anche lei su quell’auto con la mamma e i fratellini, per puro caso scelse di andare col passaggio di una vicina di casa. Oggi lei, che vive a Parma, si è sposata ed ha un figlio, Dilan, continua, con forza e una energia che presta con generosità anche ad altri, a raccontare Pizzolungo, la violenza della mafia, la storia di una terra dove la mafia te la trovi dentro casa d’improvviso, non solo perché provoca lutti, ma può anche accadere, ma non è il suo caso, perché c’è chi con la mafia da queste parti della Sicilia fa affari, stringe alleanze, e poi questi personaggi te li ritrovi in prima fila ieri a negare l’esistenza di Cosa nostra, oggi magari gli stessi dicono che Cosa nostra è stata smantellata. “Sono rimasta – dice Margherita – per raccontare la storia di Barbara, Salvatore e Giuseppe”. Una storia che a Trapani passata l’emozione del momento in pochi volevano ricordare. “Loro tre – riprende Margherita – legati da un incredibile destino, nati lo stesso giorno, il 22 Febbraio, morti tutti e tre il 2 Aprile”. Margherita lo dice sempre e ce lo ricorda sempre: “Per Pizzolungo attendiamo ancora verità e giustizia, e non è vero che la verità non si possa trovare, perché gira per le strade della mia città, ancora oggi. Attendiamo verità e giustizia per Barbara, Salvatore e Giuseppe e nello stesso tempo vogliamo sapere, lo pretendiamo, perché Carlo Palermo doveva essere ucciso. Con Carlo Palermo siamo sullo stesso fronte, ognuno di noi ha perso qualcosa di importante, io i miei familiari, lui il suo lavoro, la sua serenità”. In questa Italia che talvolta ci fa vergognare d’essere italiani, è accaduto che Carlo Palermo è come se fosse morto quel 2 aprile a Pizzolungo, costretto come è stato a lasciare la magistratura, lui che in quegli anni ’80 indagando su traffici di armi e droga a Trento prima e a Trapani dopo, si era imbattuto nei soldi riciclati nelle casse di un partito politico, il Psi, e in quel 1985 a stoppargli l’inchiesta a Trento era stato proprio il leader di quel partito, Bettino Craxi che sedeva da premier a Palazzo Chigi.

Ad accompagnare Margherita Asta nel nuovo processo a Caltanissetta è l’avv. Enza Rando, che la assiste nella parte civile. Ci ha “regalato” una sorta di diario di viaggio, più volte con Margherita ha raggiunto Caltanissetta per poi fare ritorno in Emilia Romagna dove tutte e due siciliane oramai abitano. Con un altro titolo lo pubblichiamo, qui ci piace riprenderne un pezzo, la discussione fatta nell’aula della Corte di Assise: “Dovevo parlare della strage, del corpo dei fratelli e della sua mamma, della atrocità di quanto era successo il 2 aprile del 1985, ma c’era sempre Margherita in quella aula di udienza. Pensavo alle ferite profonde di Margherita, al suo dolore nell’ascoltare le mie parole. Ho iniziato a parlare con voce “spezzata”, ma ho scelto di scavare, di raccontare il “dolore” di quella terribile strage, ho voluto parlare di Carlo Palermo, magistrato perbene con un fiuto investigativo enorme, ho voluto parlare delle mafie, delle collusioni e connivenze che le mafie hanno intrecciato con uomini infedeli delle istituzioni, delle loro condotte terroristiche e mafiose, del dolore che ha provocato alla famiglia di Margherita, al Giudice Carlo Palermo, ma anche al Paese, alle speranze di una terra nelle quale le mafie si sono radicate ed hanno danneggiato le comunità. Margherita era sempre accanto a me ed io cercavo di trovare sempre la parola giusta per rispettare il suo dolore, per me è stato difficile ed era visibile, e alla fine Margherita alla fine mi ha detto “ma eri emozionata”. La mia discussione è stata interrotta dall’imputato Galatolo Vincenzo, presente in aula in videoconferenza, il quale appena ho iniziato a parlare delle dichiarazioni della figlia Galatolo Giovanna, ha rinunciato a partecipare all’udienza. Anche questo è un segnale”. Già un segnale, tanti ce ne sono stati in questi 35 anni, molti fanno finta di non vedere!

 

 

 

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Articolo del 13 novembre 2020
Strage di Pizzolungo, Margherita Asta: “Dobbiamo impegnarci per tutte le vittime e i sopravvissuti”
di Rino Giacalone
Il boss Vincenzo Galatolo condannato a 30 anni per la strage di Pizzolungo: la mafia voleva uccidere il giudice Carlo Palermo, ma morirono una madre coi due figli. Margherita, scampata all’attentato, racconta la sua esperienza

 

agi.it
Articolo del 13 novembre 2020
Strage di Pizzolungo, dopo 35 anni condannato il boss Galatolo
di D. Calabrese e M.Bova
Trent’anni al mandante che aveva dato l’ordine di uccidere il pm Carlo Palermo. Trucidati Barbara Rizzo e i suoi due gemellini. La procura: “Eccidio misterioso. Le indagini non si fermano”

 

vivi.libera.it
Barbara Rizzo Asta – 2 aprile 1985 – Pizzolungo – Erice (TP)
Era nel pieno della sua vita Barbara. Quando una mattina come tante stava accompagnando i suoi figli a scuola. Un gesto come tanti, un gesto quotidiano. Un attentato spezzò di colpo la sua vita e quella dei suoi due bambini. Cambiando per sempre quella del marito e di sua figlia Margherita.

 

 

 

 

 

 

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