1 Febbraio 1893 Trabia (PA). Ucciso Emanuele Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia

Foto da  mediterraneocronaca.it

1° febbraio 1893. In uno scompartimento di prima classe del treno che porta da Termini Imerese a Palermo, Emanuele Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia, ma anche ex sindaco di Palermo e senatore del Regno, viene ucciso con 27 pugnalate e scaraventato fuori dal finestrino. Chi è stato? E perché? C’entra la mafia, c’entra la politica, e naturalmente c’entrano i soldi. Un caso di fine Ottocento che fece discutere per molti anni l’Italia dell’epoca.

 

 

Articolo di Giuseppe Casarrubea
Tratto da “Il biennio nero: 1992-’93”

[…]

Il primo febbraio 1893 un signore ben vestito con la faccia di un galatuomo viaggia in una carrozza ferroviaria lungo la linea Termini Imerese-Trabia. E’ visibilmente preoccupato e anche se guarda fuori dal finestrino il paesaggio freddo e piovoso, è con la testa altrove, sovrappensiero. Forse ha dei presentimenti, forse sa che fare il direttore di una grossa banca come il Banco di Sicilia non è come fare un qualsiasi mestiere. Quello infatti non è solo un istituto di credito, è la cassa per operazioni politico-finanziarie cui attingono politici e membri del governo. Uno degli elementi distorti di quella rete bancaria nazionale di cui fa parte anche la Banca romana i cui illeciti sono denunciati, nel dicembre 1892, da Napoleone Colajanni.
Ma Palermo non è Roma e ciò che nella capitale d’Italia ha un senso, nell’isola ne acquista un altro, più insidioso, più violento. Ne avevano parlato diffusamente nella loro “Inchiesta in Sicilia” Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, due moderati toscanacci che per primi nel 1876 erano venuti a ficcare il naso nelle cose siciliane, di cui forse avevano sentito parlare attraverso i resoconti di alcuni viaggiatori stranieri. Avevano riferito di banditi e malandrini, baroni e servi della gleba, paesi condannati all’isolamento e alla miseria e sindaci corrotti, gabelloti e feudatari disposti a tutto pur di non perdere nulla delle loro proprietà abbandonate e delle loro abitudini.

Strani pensieri perciò si agitano nella testa di quel signore per bene. Si chiama Emanuele Notarbartolo e di mestiere fa proprio il direttore del Banco di Sicilia. E’ ancora preso dalle sue preoccupazioni quando due facce losche gli si avvicinano e, dopo avergli inferto ventisette pugnalate, scendono indisturbate alla prima fermata e se ne vanno a casa, come dopo una gita fuori porta, una scampagnata tra amici.
Un caso che ci ricorda il delitto Ambrosoli, i muri che separano ancora oggi il governo del malaffare dal rispetto delle regole, i criminali dalle persone per bene. Una storia vecchia e attuale. Di un uomo normale che muore perchè fa il suo dovere e non accetta i ricatti.

Il processo di questo primo caso eclatante di mafia italiana e siciliana richiama altre storie, l’atto di nascita dello Stato, del suo primo parlamento, dei suoi primi governi. Rinvia anche a un senso dell’etica ancora saldo nei pubblici amministratori, che come Notarbartolo si sono formati nella cultura europea, britannica e parigina, ma anche nell’infuocata epopea garibaldina, nel patriottismo onesto e disposto al sacrificio, nel senso autentico della Nazione e della Patria.

Del delitto è accusato, quale mandante, un deputato del parlamento, l’onorevole Raffaele Palizzolo. La Camera dei deputati autorizza lo svolgimento del processo e il deputato ha prima una condanna (1901) e poi un’assoluzione per insufficienza di prove (1905). Gattopardescamente le cose tornano come prima con i soliti cortigiani sempre pronti a leccare i piedi ai potenti, anche se criminali. In testa a tutti lo studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè, presidente del Comitato “Pro Palizzolo”. Questa è stata anche la Sicilia: una terra che ha dato i natali agli affossatori della sua libertà e del suo sviluppo.

[…]

 

 

Tratto da:  spazioamico.it 
Francesco Renda Storia della mafiaSigma 1997
Capitolo VI  I processi Notarbartolo Pag.150 -151

La storia non è un dramma che si recita a soggetto. Ma. nel caso Notarbartolo, ne ha quasi l’apparenza A introibo della vicenda, lo scandalo della Banca Romana è fatto esplodere da un siciliano, il Colaianni. La cosa in apparenza è puramente casuale. La determinazione di accendere quell’incendio viene da altre persone e da altre regioni. Il Colajanni ne è solo l’esecutore ovvero l’attore che recita sulla scena la parte assegnatagli dal regista. Poi, però, a trenta giorni dal suo discorso alla Camera, il 20 gennaio 1893. a Caltavuturo, in provincia di Palermo, i soldati sparano su un assembramento di contadini che manifestano per i beni demaniali del comune, uccidendone 13 e ferendone diverse decine. A provocare la strage non è una direttiva del governo impegnato in un audace esperimento liberale, ma la preoccupazione di chi vede in quell’esperimento un pericolo da scongiurare. L’assassinio del Notarbartolo, il 1° febbraio, trova quindi le autorità di governo, la polizia, la magistratura, l’opinione pubblica, la classe dirigente locale e nazionale alle prese non solo colle notizie drammatiche degli arresti connessi con gli scandali bancari, ma anche con le proteste e le inquietudini che derivano da quel grave eccidio popolare consumato sulle Madonie.

Quando si scopre il cadavere del Notarbartolo sul treno fra Termini e Trabia, gli ospedali di Palermo sono ancora pieni dei feriti di Caltavuturo. Alla Camera dei Deputati. tuona nuovamente la voce del Colajanni. e questa volta dietro di lui si proietta un insolito protagonista storico, che si chiama socialismo, ossia la questione sociale, la riscossa operaia e contadina, la minacciata o la temuta rivoluzione. Poiché il delitto Notarbartolo vede la classe padronale divisa parte con la vittima e parte con l’assassino o gli assassini, prevale la considerazione che, stando il nemico alle porte, è meglio mettere tutto a tacere.

Non passano, del resto, che alcune settimane, e il movimento dei Fasci dei lavoratori dilaga impetuoso come lava di vulcano irrefrenabile. A prendere fuoco è tutta l’isola, e al fine di spegnere l’incendio sul nascere c’è chi provvede a rappresentare ogni fascio dei lavoratori come un covo di facinorosi e di violenti associati alla mafia.

A muovere l’accusa sono coloro stessi che con la mafia sguazzano da mane a sera. Ma per loro la denuncia è solo un diversivo, volto a legittimare la richiesta, fatta al governo, di sciogliere con decreto ministeriale i fasci. L’obiettivo che si persegue non ha nulla a che vedere col delitto Notarbartolo. La falsa accusa diviene però subito un vero e proprio depistaggio delle indagini sulle cause e sugli esecutori e mandanti del delitto medesimo. In quel senso, non si sarebbe potuto inventare nulla di più appropriato. A seguito della denuncia contro i fasci il mafioso da mettere sotto vigilanza e processare non è più Palizzolo, presunto mandante in assassinio e in intime relazioni con i vari gruppi delinquenziali palermitani, ma Garibaldi Bosco. organizzatore delle decine e centinaia di migliaia di lavoratori,  indicati come futuri indubitabili assassini.

Tecnicamente, fra la denuncia contro i fasci accusati di mafia e la mancata denuncia contro il Palizzolo come mandante in assassinio non vi è alcun rapporto. Nella realtà. il legame è assai profondo. Intanto per le autorità. Il clima di tensione. che subito dopo l’assassinio del Notarbartolo si instaura a Palermo, è tale che politicamente ne nasce un turbinio di situazioni difficili da classificare per ordine di importanza, chiamando magistratura e polizia a indagare contemporaneamente sulla mafia «vera» che ha eseguito l’omicidio dell’ex direttore generale del Banco di Sicilia e sulla mafia «presunta» che dovrebbe mettere a ferro e fuoco la Sicilia. Cosa veniva prima, l’indagine giudiziaria o l’indagine sui fasci? In quale dei due settori profondere il maggiore impegno?

 

 

 

Fonte: ilportaledelsud.org
marzo 2009
Il caso Notarbartolo
di Fara Misuraca e Alfonso Grasso

Premessa Tra il 1889 ed il 1893 nell’ancor giovane Stato unitario, si assiste al fallimento di alcune importanti banche, che degenerò in una crisi della moralità politica su vasta scala, facendo cadere il primo Governo Crispi e mettendo a rischio l’ascesa politica di Giolitti. La corruzione era diffusa principalmente nel circuito perverso che legava insieme politica, affari e banche. Le premesse di questa grave crisi finanziaria sono da ricercare nella tumultuosa fase di urbanizzazione che ebbe luogo a seguito del trasferimento della capitale da Torino a Firenze (1866) e poi a Roma [1] (1870) e nell’eccesso di finanziamenti concessi al settore edilizio, un po’ in tutta Italia, che si sommavano a quanto concesso ai politici per le campagne elettorali. In tal modo, le banche non solo tradivano la sana logica economica di investire le risorse nei migliori progetti, ma commettevano abusi e si esponevano al rischio di fallimento.

Dopo la unificazione del Regno, il governo non aveva unificato gli istituti di emissione. Ben sei erano le banche autorizzate a stampare moneta: la Banca Nazionale, la Banca Romana, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito. Con una legge del 1874 si cercò di regolamentare le emissioni, ma le banche continuavano a farsi concorrenza tra loro e la vigilanza era completamente assente. La Banca Nazionale, ad esempio, avvalendosi dell’abolizione delle restrizioni sul credito, varate da Crispi nel 1883, aumentò la sua circolazione di carta-moneta, riducendo le sue riserve ad un terzo del totale. La cosa non poteva durare a lungo e già all’inizio del 1889 le banche cominciano a dare i primi segni di tracollo finanziario. Non furono più in grado di far fronte ai propri impegni ed alcune banche sospesero i pagamenti. Il presidente del Consiglio Crispi intervenne per salvare la Banca Tiberina, finanziatrice di diversi lavori pubblici, con un prestito di 45 milioni di lire: non fu l’unica azione di Crispi, che anzi intervenne ripetutamente, generando una spirale inflazionista.

Lo scandalo della Banca Romana Quando i primi fallimenti bancari del 1889 affiorarono, si sparse voce che nei conti della Banca Romana, erede dell’istituto di credito dell’ex Stato Pontificio, vi erano gravi irregolarità, il Ministro Miceli promosse una commissione d’inchiesta privata, presieduta dal senatore Giuseppe Alvisi, incaricata di stabilire se e quali banche avessero emesso una circolazione superiore a quella consentita per legge dalle loro riserve. La commissione riscontrò un disavanzo di nove milioni di lire, che fu “miracolosamente” reintegrato il giorno successivo e spiegato con l’ “imperizia” degli inquirenti. Il Governo Di Rudinì 1° tuttavia si oppose a che Alvisi riferisse in Senato i risultati dell’ispezione, “in nome dei supremi interessi del paese e della patria”. La relazione e le irregolarità rilevate, non furono perciò pubblicate e in sua vece venne diffusa una dichiarazione ufficiale rassicurante nel tentativo di spegnere le polemiche e tranquillizzare gli animi. In fondo si trattava solo di “birichinate”! [2]

Quello che si voleva insabbiare era l’operato del governatore della Banca Romana, Bernardo Tanlongo [3], una persona dal passato poco limpido che aveva già partecipato a diversi tentativi di corruzione verso il papato all’epoca di Cavour e che, sul finire degli anni 80, decise di coprire i vuoti di cassa emettendo biglietti falsi. Tali vuoti di cassa non erano frutto di cattiva amministrazione, ma di irregolarità come i prestiti concessi a deputati, ministri e costruttori, senza interessi ed a fondo perduto. Le banche esercitavano dunque una grandissima influenza sulla politica e la politica forniva loro copertura. Il banco di Napoli, ad esempio, aveva contratto debiti per circa venti milioni di lire molti dei quali a fronte di operazioni di corruzione politica.

Come accennato, la commissione Alvisi aveva scoperto che per la Banca Romana la circolazione eccedeva di 25 milioni quella autorizzata dalla legge e che la banca aveva fatto stampare clandestinamente 9 milioni di biglietti, in tagli da duecento lire, per coprire un vuoto di cassa ed un numero considerevole di crediti irrecuperabili. La relazione venne fatta sparire, ma sarebbe stato opportuno quanto meno aumentare la vigilanza e chiedere le dimissioni di Tanlongo. Che fece invece Giolitti, divenuto nel 1892 presidente del Consiglio? Nominò Tanlongo senatore![4] Perché? Il motivo più probabile è che Tanlongo avesse elargito prestiti e finanziamenti a una buona parte della classe politica, compresi Giolitti, Crispi e lo stesso re Umberto, e quindi fosse in grado di ricattarli.

Ma la bonaccia durò poco. La relazione Alvisi, alla morte di questo, finì nelle mani di un giovane economista romano, Maffeo Pantaleoni e di un deputato repubblicano siciliano, Napoleone Colajanni. Lo scandalo, da quel momento, sfuggì al controllo del governo e rivelò una situazione ancora più disastrosa: i biglietti clandestini ammontavano a settanta milioni di lire, e la Banca ne aveva ordinati altri quaranta a uno stampatore di Londra. Inoltre le casseforti erano piene di cambiali in sofferenza. Tanlongo e il suo tesoriere Cesare Lazzaroni (nomen omen) furono arrestati il 13 gennaio 1892 per peculato e falso in atto pubblico.[5] Anche il direttore del Banco di Napoli Vincenzo Cuccinello che era scappato lasciando un ammanco di cassa di 2.400.000 lire, una bazzecola a confronto, fu arrestato il 22 gennaio, ed emersero anche gravi irregolarità commesse dal Banco di Sicilia di Palermo, il cui direttore generale Giulio Benso Sammartino fu accusato di aver usato fondi per scopi privati.

Ad accusare il direttore in carica è l’ex direttore dello stesso Banco, il Senatore Emanuele Notarbartolo, che come vedremo, sarà assassinato pochi giorni dopo, il 1° di febbraio 1892.

Il Governo tuttavia riuscì a insabbiare nuovamente la questione, istituendo una commissione governativa, ma la sfiducia ormai era generale e si rifletteva nel cattivo andamento di industria ed edilizia o di banche, come il Credito Mobiliare, costretto a sospendere i pagamenti per carenza di capitali. Alla fine del 1893 Giolitti, obtorto collo, dovette consentire l’istituzione di una terza commissione, questa volta parlamentare, presieduta da Mordini ed incaricata di fare luce sulle implicazioni politiche che man mano erano emerse.

L’inchiesta del 1894 (come quelle di oggi) si concluse con il proscioglimento degli imputati. Per evitare che l’inchiesta travolgesse uomini di spicco della politica italiana, i giudici, nella sentenza, denunciarono la sparizione di importanti documenti, necessari a provare la colpevolezza degli imputati. Il procedimento penale venne quindi archiviato senza emettere alcuna condanna.

Francesco Crispi e Giovanni Giolitti, furono, per parecchi anni, oggetto di sospetti, inchieste parlamentari, indagini giudiziarie. Vi fu persino un momento, alla fine del 1894, che Giolitti, per sottrarsi a un possibile arresto, decise di rifugiarsi in Germania per un mese e mezzo. Nel bel mezzo della crisi, tuttavia, Giolitti aveva trovato la soluzione del problema. Nell’estate del 1893 fece approvare dalla Camera una legge che prevedeva la fusione delle principali banche di emissione e trasformava la Banca Nazionale, di fatto, in Istituto centrale [6]-[7].

Emanuele Notarbartolo E’ in questo clima che il 1° febbraio 1893, su un treno proveniente da Messina, in una galleria nel tratto fra Termini Imerese e Trabia, veniva brutalmente ucciso con ventisette coltellate Emanuele Notarbartolo.

Per cercare di capire questo fatto di sangue che, per la prima volta, aveva visto come protagonisti un uomo politico e la mafia, è necessario chiedersi chi fosse Notarbartolo e quale fosse il suo ruolo nel contesto storico politico siciliano e italiano.

Notarbartolo era un politico siciliano, della destra storica, uomo ritenuto eccellente per onestà e abilità amministrativa. Marchese di San Giovanni, discendente dei duchi di Villarosa, Emanuele Notarbartolo fu sindaco di Palermo dal 1873 al 1876 e durante il suo mandato trasformò la città in un grande cantiere completando il mercato degli Aragonesi, la copertura del Politeama, iniziando l’ammodernamento della rete viaria, collegando la stazione centrale con il porto, e posando la prima pietra per la realizzazione del teatro Massimo. Ma soprattutto durante il suo mandato e nonostante il fermento edilizio, combatté il fenomeno della corruzione e risanò le finanze comunali, attirandosi per questo molti nemici i quali cercarono in ogni modo di isolarlo. Alla fine del suo mandato, nel 1876, Notarbartolo viene nominato direttore del Banco di Sicilia, incarico che manterrà sino al 1890, dimostrando anche in questo ruolo onestà ed integrità morale e grandi competenze amministrative .

La situazione del Banco di Sicilia all’arrivo di Notarbartolo era disastrosa e l’istituto si trovava sull’orlo del fallimento per via di speculazioni azzardate e un’amministrazione spericolata, che aveva permesso l’utilizzo agli speculatori di un capitale di otto milioni e ottocento mila lire e di una riserva aurea di tredici milioni. Per risanare l’istituto, Notarbartolo introdusse un regime di austerità, invitando i direttori delle sedi a far rientrare i clienti scoperti e a consentire crediti solo ai titoli protetti da solide garanzie. Non solo, ma permise di denunciare i nomi degli speculatori all’allora Ministro dell’Agricoltura Miceli. Allo stesso tempo apportò modifiche allo statuto dell’istituto, in modo da allontanare le componenti politiche in favore di quelle essenzialmente commerciali. Questo inasprì ancora di più gli animi dei suoi nemici e soprattutto di don Raffaele Palizzolo. Chi era costui? Era un pezzo da novanta e un membro del Consiglio d’amministrazione del Banco di Sicilia, con cui il marchese Notarbartolo si era più volte scontrato in passato, per aver cercato di ostacolarne le spregiudicate operazioni finanziarie. Palizzolo, soprannominato “U cignu” (il cigno) era un politico ed uomo di spicco: consigliere comunale e provinciale, amministratore fiduciario di enti di beneficenza e di banche, direttore del fondo di assicurazione contro le malattie per la Marina Mercantile, capo della Sovrintendenza dell’amministrazione di un manicomio, nonché deputato da sempre fedele sostenitore di governi di qualsiasi raggruppamento. Passando indifferentemente da destra a sinistra come ben si conviene a chi ambisce al potere personale. Così facendo, da ricco proprietario ed affittuario di terre, si era ancor più arricchito ed aveva messo le mani in pasta in qualsiasi affare. Palizzolo era al tempo stesso amico di mafiosi e banditi, di poliziotti, magistrati e personaggi politici di grosso calibro. Come un antico senatore romano, era solito ricevere ogni mattina nella sua camera da letto tutti coloro che avessero richieste da fargli. [8]

Scrive Colajanni: “La sera del 1° Febbraio 1893 in un vagone di 1ª classe nel tratto della ferrovia Termini – Palermo – e precisamente nel tratto Termini – Trabia – Altavilla – venne barbaramente assassinato il Commendatore Notarbartolo.

Le eccezionali qualità morali dell’uomo – era notissima la sua rettitudine – la sua posizione sociale, le cariche elevate ch’egli aveva occupato; tutto contribuì a far sì che il doloroso avvenimento destasse una profonda impressione nel paese. Nell’intera Italia e specialmente in Sicilia si levò un grido d’indignazione, che ebbe anche la sua eco in Parlamento con alcune interrogazioni rivolte (dall’on. Di Trabia e da me) al Presidente del Consiglio e ministro dell’Interno del tempo: l’on. Giolitti.

Sin dal primo annunzio dell’assassinio efferato i magistrati, le autorità di pubblica sicurezza e la pubblica opinione su questo furono concordi: era da escludersi il furto come movente del delitto. Le circostanze nelle quali era stato commesso dimostravano una preparazione quale non potevano farla volgari malfattori; né il furto poteva essere movente proporzionato di un feroce reato, che poteva avere pei suoi autori conseguenze tremende. Si pensò alla vendetta; ed era logico pensarvi perché la grande severità del Notarbartolo nella sua qualità di amministratore della Casa S. Elia e di altre case patrizie e di Direttore del Banco di Sicilia aveva potuto riuscire a ferire molti interessi e molte suscettibilità.

Era il tempo dei grandi scandali bancari in seguito alla denunzia da me fatta il 20 Dicembre 1892 degli imbrogli colossali della Banca Romana; in Palermo e in tutto il regno, perciò, ad una voce si mise in rapporto l’assassinio del Notarbartolo con criminose responsabilità bancarie di vari uomini politici. Questa spiegazione del delitto trovava credito tanto più facilmente in quanto che si sapeva che l’antico Direttore del Banco di Sicilia aveva diretto al Ministro di Agricoltura e Commercio del primo ministero Crispi, on. Miceli, un rapporto in cui si denunziavano gl’intrighi e le male arti di alcuni membri del Consiglio di Amministrazione del Banco; e si sapeva del pari che quel rapporto segreto era stato misteriosamente sottratto dal gabinetto del Ministro ed era stato mostrato a Palermo in una riunione del Consiglio di amministrazione del Banco a coloro, che vi erano accusati. Poco dopo venne sciolta stoltamente l’amministrazione del Banco di Sicilia e mandato via il Notarbartolo – quasi a punizione della corretta e solerte sua gestione, ch’era riuscita a ristorare le sorti del Banco, ridotte a mal partito da una precedente amministrazione.” [9]

Le prime indagini si concentrarono subito sul conduttore del treno, Giuseppe Carollo e su un certo Giuseppe Fontana, killer professionista e capo della cosca di Villabate. In seguito alla testimonianza di un carabiniere, che dichiarò di essere venuto a conoscenza di un brindisi tenuto da un gruppo di mafiosi in una tenuta di proprietà dell’on. Palizzolo per festeggiare la morte di Notarbartolo, si sospettò subito che il mandante dell’omicidio fosse il deputato Raffaele Palizzolo che, come membro del consiglio di amministrazione del Banco di Sicilia, si era ripetutamente scontrato con Notarbartolo. Lo stesso Notarbartolo, inoltre, sospettava fondatamente che fosse stato lui il mandante del suo sequestro, avvenuto nel 1882 [10].

I numerosi indizi raccolti sugli esecutori materiali dell’omicidio, tutti collegati a Palizzolo, non furono però ritenuti sufficienti dal Tribunale di Palermo, che emise una sentenza di assoluzione nei confronti di tutti gli imputati, senza sentire neppure come teste il Palizzolo e, grazie alle molteplici protezioni di cui godeva il sospetto, il caso fu insabbiato.

Qualche tempo dopo un detenuto, Augusto Bartolani, dichiarò sotto giuramento che responsabili del delitto Notarbartolo erano i ferrovieri Carollo e Fontana. Tali dichiarazioni obbligarono la magistratura di Palermo a riaprire il caso, ma anche stavolta il Fontana fu assolto per insufficienza di prove, mentre Carollo e un certo Baruffi, anch’egli ferroviere, furono rinviati a giudizio. Il figlio della vittima, Leopoldo, che si era sempre battuto per ottenere giustizia, riuscì a mobilitare l’opinione pubblica, coadiuvato dai deputati Colajanni e De Felice Giuffrida, e, costituendosi parte civile, ottenne il rinvio del processo a Milano per legittima suspicione.

Appare la parola “mafia” Leopoldo Notarbartolo denunciò in tribunale la corruzione del Banco di Sicilia e i suoi sospetti su Raffaele Palizzolo, con cui il padre si era più volte scontrato. Le carte processuali dimostrano senza ombra di dubbio che la mano omicida fu mafiosa e che il Palizzolo aveva stretti legami con la malavita palermitana e trapanese, a favore della quale egli si era impegnato più volte per ottenere scarcerazioni e riduzioni delle pene, in cambio di voti. Il processo di Milano, inoltre, evidenziò un sistema di corruzione generale che coinvolgeva le istituzioni dello Stato. Divennero in tal senso imputati la mafia e le istituzioni statali presenti in Sicilia. Fu questa la prima volta che l’opinione pubblica sentì parlare di “mafia” come organizzazione malavitosa associata al territorio siciliano.[11]

Il processo di Milano si concluse con la condanna degli autori materiali del delitto. Gli eventuali mandanti non furono neanche presi in considerazione.

Il vero processo a carico di Palizzolo si poté svolgere dinnanzi alla Corte d’Assise di Bologna nell’autunno 1901, dopo che l’anno precedente era giunta l’autorizzazione a procedere da parte del Parlamento nazionale. Palizzolo era diventato “l’onorevole padrino”, il simbolo dei connubi fra mafia e politica. Dalla Corte bolognese Palizzolo fu condannato, insieme a Fontana, a trenta anni di carcere.

Intanto i processi Notarbartolo furono adoperati sapientemente e congiuntamente dai fautori della causa nordista e della causa dei latifondisti siciliani e servirono a tacciare di mafiosità il movimento dei fasci dei lavoratori che tanti proseliti stava facendo.

A muovere l’accusa furono proprio i grandi proprietari terrieri, quelli stessi che con la mafia vivevano a stretto contatto. La loro denuncia fu un diversivo, per legittimare la richiesta, fatta al governo, di sciogliere con decreto ministeriale i fasci dei lavoratori. L’obiettivo perseguito non aveva nulla a che vedere col delitto Notarbartolo, ma tornava utile alla classe politica sia del nord che del sud per depistare le indagini dalle cause (scandalo finanziario delle banche) e dai mandanti del delitto medesimo (mafia). A seguito della denuncia contro i fasci, il mafioso da mettere sotto vigilanza e processare non è più Palizzolo, presunto mandante in assassinio e in intime relazioni con i vari gruppi delinquenziali palermitani e truffatore finanziario, ma gli organizzatori delle decine e centinaia di migliaia di lavoratori in cerca di giustizia sociale, indicati come futuri assassini e accusati di associazione mafiosa.

Osserva Renda in Storia della mafia, pag. 154: “Quando si scopre il cadavere del Notarbartolo sul treno fra Termini e Trabia, gli ospedali di Palermo sono ancora pieni dei feriti di Caltavuturo. Non passano che alcune settimane, e il movimento dei Fasci dei lavoratori dilaga impetuoso” e più avanti: “Tecnicamente, fra la denuncia contro i fasci accusati di mafia e la mancata denuncia contro il Palizzolo come mandante in assassinio non vi è alcun rapporto. Nella realtà, il legame è assai profondo. Intanto per le autorità. Il clima di tensione. che subito dopo l’assassinio del Notarbartolo si instaura a Palermo, è tale che politicamente ne nasce un turbinio di situazioni difficili da classificare per ordine di importanza, chiamando magistratura e polizia a indagare contemporaneamente sulla mafia «vera» che ha eseguito l’omicidio dell’ex direttore generale del Banco di Sicilia e sulla mafia «presunta» che dovrebbe mettere a ferro e fuoco la Sicilia”.

Cosa era più importante per il potere, l’indagine giudiziaria o l’indagine sui fasci? In quale dei due settori profondere il maggiore impegno? Anche la classe padronale fa la sua scelta. Per i suoi interessi generali è prioritario proseguire unita la distruzione della mafia «inventata» che si raccoglie nei Fasci dei lavoratori o muoversi divisa pro e contro Palizzolo per accertare la mafia «vera» che ha ucciso il Notarbartolo? La necessità della scelta incombe pure sul governo. Pressato in parlamento e nel paese da chi gridava al pericolo dei fasci, il presidente del consiglio e ministro degli interni Giolitti lascia che la polizia trascuri le indagini sull’assassinio del Notarbartolo e si concentri sulla repressione dei fasci.

Il comitato pro Sicilia Intanto il clima di generale indignazione e di superficiale classificazione nei confronti della Sicilia [12], che si era instaurato nel nord Italia durante i processi portò all’esplosione di reazioni di protesta da parte dei siciliani, tra i quali anche intellettuali come Pitrè e De Roberto. Essi, infatti, costituirono un Comitato pro-Sicilia per riscattare l’isola da tali infamie. Renda (Storia della mafia, pag. 163) scrive: Il “Comitato pro Sicilia” non ebbe però gli sviluppi che i suoi promotori certamente si aspettavano. Sul piano organizzativo si estese in tutta l’isola, costituendo nelle varie province ben 60 sezioni e raccogliendo 200 mila adesioni. Sul piano politico il suo principale successo fu, invece, solo l’annullamento della condanna del Palizzolo”.

Il comitato Pro-Sicilia non aveva in realtà lo scopo dell’annullamento della condanna del Palizzolo ma, come si evince dalla dichiarazione dell’on Angelo Maiorana (op. cit. pag. 163): “Il movimento di opinione pubblica che, dopo il verdetto di Bologna, si è determinato in Sicilia, è uno dei più profondi e coscienti che da lunga pezza siensi manifestati nell’isola nostra Non giova dissimularsene né l’estensione né la intensità. Errano molti per ignoranza, taluno per malafede, quei giornali dell’Alta Italia che l’attribuiscono alla riscossa della mafia. Così dicendo, mostrano di disconoscere le più essenziali condizioni dello spirito pubblico siciliano e contribuiscono ad inasprire un dissidio che purtroppo ripete assai complesse e diverse cagioni E vero: altra cosa è Palizzolo, altra cosa è la Sicilia. Ma che perciò? Il fatto Palizzolo non è che l’indice o l’occasione o la goccia del vaso, per usare la frase volgare; ma la questione è molto più alta e complessa. Negarla vuol dire aggravarla; falsarla. significa invelenirla”.

Essi, in realtà, volevano riscattare la Sicilia da quel marchio di mafiosità che già fin dal processo di Milano era stato attribuito al nostro territorio, volevano evitare che il termine “mafia” potesse connotare tutti i siciliani, anche i siciliani onesti. Tali proteste, unite all’interessamento da parte di Cosa Nostra della vicenda Palizzolo, portarono alla inattivazione della sentenza bolognese. Sei mesi dopo infatti la Corte di Cassazione annullò la sentenza bolognese per un vizio di forma, fissando un nuovo processo presso la Corte di assise di Firenze. Qui il nuovo processo che cominciò il 5 Settembre 1903, oltre dieci anni dopo l’assassinio Notarbartolo e sentenziò la assoluzione di Don Raffaele e del coimputato Fontana per insufficienza di prove. Raffaele Palizzolo ritorna a Palermo su una nave, accolto trionfalmente, riprese le sue vecchie abitudini con le consuete udienze nella camera da letto e fu nuovamente candidato al parlamento nazionale alle elezioni del Novembre 1905. Ma fu il canto del cigno. Palizzolo non venne rieletto ed uscì per sempre di scena. Giuseppe Fontana,l’altro imputato, emigrò in America dove si arruolò nelle fila della nascente Cosa Nostra.

Per quanto riguarda il comitato “Pro-Sicilia”, Salvatore Lupo in Storia della mafia, a pag.156-157 scrive:

“Il «Pro-Sicilia» guadagnò forze e consensi ben oltre l’area palermitana, ma nel corso di questa espansìone geografica il riferimento allo specifico del caso Palizzolo si fece più tenue mentre prevalevano temi modellati sugli argomenti nittiani di Nord e Sud, sulle polemiche liberiste a proposito del «mercato coloniale», sulle altre ragioni della protesta meridionale.”

A questo proposito Renda (op. cit.) ci dice che “il processo al Palizzolo divenne un processo ai Siciliani, e se ne disse quel che Lombroso o Niceforo nei loro libri non osarono mai scrivere.”

Gli sviluppi e la conclusione del caso Notarbartolo sono ancora oggi esemplari di cosa siano gli equilibri politici che bisogna mantenere per curare gli interessi economici ed il potere in senso lato. Ne “Il ritorno del Principe”, Saverio Lodato e Roberto Scarpinato scrivono “un eventuale condanna definitiva di Palizzolo era, dunque, incompatibile con gli equilibri politici esistenti? Direi proprio di sì.” E ancora: “L’assoluzione del Palizzolo non era un’eccezione, ma un caso paradigmatico di quella che era la normalità” invece “La consegna di mafiosi dell’ala militare, (il Fontana, esecutore materiale del delitto) mediante patteggiamento all’interno della classe dirigente con gli esponenti dell’alta mafia è sempre rientrata, nelle tradizioni del sistema mafioso” (pag 207).

Depretis, alcuni anni prima, nell’ottica di questi equilibri politici, per mantenere un assetto di potere “che ripartisce le potestà sovrane dello Stato tra borghesia industriale del Nord e classe dirigente meridionale” (Il ritorno del Principe pag. 202), aveva rifiutato di emanare il decreto ministeriale necessario a dare esecuzione all’articolo 7 della legge di Pubblica Sicurezza, con il quale si disponeva che per esercitare la funzione di guardia campestre occorreva avere la fedina penale pulita. Una norma necessaria per contrastare la mafia. A questo proposito scrive Renda (Storia della mafia, pag 125): “Esisteva la legge , ma si faceva in modo che per legge non fosse impedito che il mafioso fosse campiere, curatolo o guardiano”. Caso emblematico del prevalere della logica degli equilibri politici era stato anche quello del procuratore generale Tajani, del mandato di cattura da lui fatto spiccare contro il questore Albanese e degli ostacoli e mancato sostegno che gli furono opposti dalle autorità governative locali e dallo stesso Ministero, delle sue dimissioni dalla magistratura in senso di protesta. (vedi ai nostri giorni De Magistris, Forleo, etc!) [Giuseppina Ficarra, http://www.ilpuntodue.it/?q=node/295]

Appena ieri, nel 2008, viene respinta a larghissima maggioranza la proposta di impedire che facciano parte della Commissione Parlamentare Antimafia soggetti inquisiti per mafia e di detta Commissione entrarono a fare parte soggetti condannati per fatti di corruzione con sentenza definitiva. (Il ritorno del Principe pag. 48)

Note
[1] Le due città furono investite da una travolgente febbre edilizia che non solo alterò in maniera significativa il panorama urbano ma servì a incrementare le truffe finanziarie senza che vi fosse un adeguato controllo da parte delle Istituzioni e le banche si lanciarono in operazioni assai poco trasparenti.

[2] Sono passati più di cento anni ma lo schema resta sempre lo stesso (vedi i furbetti del quartierino Fiorani, Consorte, Fazio e Ricucci) , un sistema economico finanziario privo di cultura della legalità e di mercato, e un comportamento della politica di tipo classistico e clientelare. Una stretta cerchia di clienti conniventi operano tramite una banca, utilizzando fondi che questa procura loro distogliendoli dai conti di altri clienti e falsificando i propri libri contabili con perizia e cura. Operazioni che, se vanno a buon fine, riversano i ricavi direttamente si conti correnti privilegiati, se falliscono le perdite vengono assorbite dalla banca. Un quadro nel quale i politici si inseriscono quali beneficiari corrotti e facilitatori, in cui controllori come il Governatore occultano documenti e favoriscono alcuni soggetti a discapito di altri, in cui finanzieri si arricchiscono in maniera tanto facile quanto era la loro spregiudicatezza ed in cui, infine, imprenditori orientano le loro scelte industriali all’interno di tale quadro.

[3] Nello Quilici così descrive il Tanlongo in un libro pubblicato cinquant’anni dopo: «Vecchio mercante di campagna di 73 anni, rozzo e frusto arnese dell’affarismo romano, semianalfabeta, arruffone, imbroglione, confusionario, con una situazione patrimoniale privata ingarbugliatissima, apparentemente florida, in realtà carica di debiti».

[4] Come si evince, il vezzo di premiare con un seggio senatoriale i collusi con la mafia, gli imbroglioni, i bancarottieri, anche condannati con sentenza definitiva, in Italia è un fatto storico!

[5] Dal carcere Tanlongo affermava di aver dato cospicue somme anche ai presidenti del consiglio Giolitti e Crispi. Giolitti, in risposta ad interrogazioni ed interpellanze parlamentari, negherà di conoscere la relazione Alvisi-Biagini e di aver ricevuto denaro dalla Banca. Nel marzo 1893 fu nominato un comitato di sette parlamentari che a novembre presentò al presidente della camera la relazione finale nella quale si affermava che fra i beneficiari dei prestiti vi erano 22 parlamentari, fra cui Crispi. Il processo del 1894 si concluse con l’assoluzione degli imputati: per evitare che l’inchiesta travolgesse uomini di spicco della politica italiana, i giudici, nella sentenza, denunciarono la sparizione di importanti documenti, necessari a provare la colpevolezza degli imputati. Il procedimento penale venne quindi archiviato.

[6] Il 10 agosto 1893 venne approvata la legge 449. Con questo testo, il Parlamento mise ordine nel settore bancario mettendo, tra l’altro, in liquidazione la Banca Romana e sancendo la nascita della Banca d’Italia che avvenne grazie alla fusione della Banca Nazionale del Regno, della Banca Toscana e della Banca Toscana di Credito. Il nuovo istituto, anch’esso privato, ebbe dallo Stato la possibilità di emettere carta moneta insieme al Banco di Napoli e la Banca di Sicilia che mantennero questo privilegio fino al 1926, quando con la legge 812 del 6 maggio la Banca d’Italia divenne l’unico istituto autorizzato alla stampa delle banconote.

[7] Tra le conseguenze dello scandalo della banca romana e del fallimento di altre banche abbiamo l’immiserimento ulteriore delle classi contadine e l’inizio del grande esodo di massa dall’Italia che si verificò durante l’epoca giolittiana. Il fenomeno dell’emigrazione interessò tutta l’Italia ma fu visto di buon occhio da Giolitti che, proprio grazie alle rimesse degli emigranti e al minor numero di bocche da sfamare, rimise in sesto le finanze nel primo decennio del novecento. L’emigrazione era un po’ come una valvola di sfogo perché serviva ad allentare la tensione sociale soprattutto dei disoccupati ed in più le “rimesse degli emigrati”, servivano per elevare i consumi e avere fondi da reinvestire. L’aspetto più clamoroso che caratterizzò l’età giolittiana è però il forte squilibrio tra nord e sud. Giolitti, in questo, ha enormi responsabilità: infatti, ha avvantaggiato solo gli industriali del nord e gli agrari del sud, che non ebbero interesse alcuno a cambiare la struttura economica e sociale del sud perché la volevano arretrata per meglio dominarla. Giolitti veniva eletto grazie anche alla corruzione dei Sindaci dei paesi. Questa forma di favori in cambio di voti viene ancora oggi chiamata clientelismo.

[8] Ricordiamo che la legge elettorale di allora, prevedeva il diritto di voto solamente per una ristretta fascia di popolazione, che rappresentava appena il due per cento del totale. In Sicilia gli aventi diritto al voto erano poco più di quarantamila unità. L’impossibilità di poter dimostrare un reddito legale e l’analfabetismo largamente diffuso tagliava il diritto al voto alla maggioranza. Divenne così indispensabile un tacito accordo tra borghesia urbana e piccola nobiltà terriera da una parte e la Mafia dall’altra. Alle prime due forze venne assegnato il potere legale e, attraverso le elezioni, le cariche pubbliche e la diplomazia, e alla seconda il controllo del potere economico e illegale. Queste due forze sociali trassero mutuo giovamento e favorirono la nascita di una “borghesia mafiosa”, che ha costituito a lungo un blocco sociale in Sicilia.

[9] Napoleone Colajanni, Nel regno della Mafia, Dai Borboni ai Sabaudi, 1900.

[10] Nel 1882 il Notarbartolo era stato rapito e costretto a pagare un riscatto di 50mila lire. Correva voce che vi fosse coinvolto il cavaliere Palizzolo per la lotta che Notarbartolo gli aveva fatto quando era direttore del banco e perché il sequestro era avvenuto a Caccamo, sede di una grossa clientela del Palizzolo, e i sequestratori erano personaggi vicini agli ambienti clientelari del deputato (S. Lupo, Storia della mafia)

[11] Colajanni, nel suo libro Nel regno della mafia, dà una notizia curiosa sull’ origine della parola “mafia”. Questa parola non era nemmeno inserita nel Dizionario siciliano-italiano del Mortillaro (1838) e venne inserita nella terza ristampa (1876) soltanto dopo l’ unità d’ Italia con la seguente spiegazione: “Voce piemontese introdotta nel resto d’ Italia ch’ equivale a camorra”. Può sembrare una cosa da poco ma non lo è. Le questioni di parole non sono mai questioni di poco conto e la storia della parola “mafia” è una storia mafiosa, come la realtà che sta dietro a quella parola e che ai tempi di Colajanni aveva da poco cambiato pelle e nome. Nel Regno delle due Sicilie, infatti, i mafiosi non si chiamavano mafiosi: si chiamavano “liuni” (leoni), erano gli onnipotenti custodi della grande proprietà feudale e appoggiarono l’impresa dei Mille perché anche l’aristocrazia feudale la appoggiò, e perché videro in Garibaldi uno di loro; un “mafiusu” (parola gergale d’origine araba che voleva dire “audace”, “intrepido”, “ribelle” e chissà che altro. Sebastiano Vassalli, Repubblica 7 agosto 1992, p. 29)

[12] Il dibattito processuale che porta alla incriminazione del Palizzolo si svolge in un clima che non si limita alla valutazione di quanto avviene nell’aula, ma trascende in animosità che riflettono ed esasperano le conflittualità esistenti fra Nord e Sud. Un esempio che va oltre il segno è quello di Alfredo Oriani. In un articolo titolato Le voci della fogna, apparso su Il Giorno dell’ 8 gennaio 1900, scrive che “l’isola è un paradiso abitato da demoni”, che “si rivela come un cancro al piede dell’Italia, come una provincia nella quale né costume né leggi civili sono possibili”. Napoleone Colajanni reagisce rimandando al mittente “l’insulto sanguinoso”, giacché “nella fogna hanno diguazzato allegramente e vi hanno portato un lurido e pestilenziale materiale i Balabbio, i Venturi, i Venturini, i Codronchi, i Sacchi, i Cellario, i Mirri… nati e cresciuti tutti al di la del Tronto”. Il Colajanni coglie anche l’occasione per rilevare e lamentare che “nella fogna ha voluto diguazzare un poco la magistratura di Milano”. Verso la stessa magistratura meneghina non manca neppure una qualche legittima censura anche sul piano strettamente processuale. Il procuratore generale di Palermo protesta col Guardasigilli per lo spazio che il tribunale milanese dà “all’ignobile e nauseabondo spettacolo di una …privata vendetta”. E ineffabilmente il procuratore generale milanese si giustifica con lo stesso Guardasigilli, argomentando che su certi episodi il giudizio va demandato “alla pubblica opinione, la quale spesso non falla e distribuisce a chi spetta. secondo giustizia, la lode e il biasimo”.

Altre fonti:

http://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Notarbartolo

 

 

Fonte:  cosavostra.it
Articolo del 26 gennaio 2017
Il caso dell’omicidio di Emanuele Notarbartolo
di Francesco Trotta
Il 1 febbraio del 1893 viene assassinato Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, esponente di una delle più importanti famiglie aristocratiche siciliane, già sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia fino al 1890.

Notarbartolo, che era stato vittima di un sequestro conclusosi con il pagamento del riscatto nel 1882, viene assassinato in treno, sulla tratta che collega Termini Imerese al capoluogo siciliano, da due individui. A gran voce prende piede, subito, che si tratti di un delitto di mafia, anzi, afferma il procuratore generale Sighele, di “alta mafia”. Ma mai prima i mafiosi avevano osato uccidere un appartenete alle alte sfere dirigenziali del Paese. Eppure in breve tempo gli indizi raccolti portano ad individuare come esecutori materiale dell’omicidio, due mafiosi della cosca di Villabate, in provincia di Palermo: Matteo Filippello e Giuseppe Fontana.

Il mandante di quel delitto, però, sarebbe stato da ricercare lontano negli ambienti della malavita e del crimine organizzato: si vociferava che ad ordinare l’assasinio sarebbe stato Raffaele Palizzolo, deputato al Parlamento nazionale e già collega all’interno del Banco di Sicilia della vittima. “Nei pubblici ritrovi, nelle vie, ovunque si diceva: la mano dev’essere stata di Palizzolo“. Così si sarebbe trattato del primo omicidio politico-mafioso del Regno d’Italia.

La morte di Notarbartolo – vuoi per l’importanza del personaggio, vuoi per le modalità dell’omicidio (i due mafiosi aggredirono la vittima mentre il treno percorreva una delle tante gallerie ferroviarie, pugnalandolo e gettando il corpo fuori dalla carrozza, nella speranza che terminasse in un torrente e da qui in mare) – finisce per diventare uno dei più importanti casi dell’epoca, nonostante le difficoltà nell’imbastire e proseguire le indagini, chiuse e poi riaperte due anni dopo l’omicidio, grazie all’insistenza del figlio di Notarbartolo, Leopoldo.

Esemplare è la vicenda che vede coinvolto l’allora ispettore della Polizia Cervis, il quale accusa il suo collega Di Blasi, vicino a Palizzolo, di aver depistato le indagini, trafugando prove e occultando relazioni accusatorie (finché Di Blasi viene arrestato in aula per falsa testimonianza). L’indignazione pubblica si trasforma presto in analisi dello status quo: è l’omertà la causa dell’impossibilità di accertare la verità? Oppure il caso Notarbartolo rappresenta l’ennesimo esempio di uno scenario di crisi istituzionale, inquadrato all’interno degli scandali politico-bancari dell’epoca?

Sarebbe questa un’ulteriore prova del generale stato di corruzione tipicamente italiano, un sottaciuto ma quanto mai indelebile tratto di continuità con la più recente attualità. Tutto farebbe propendere per questa ipotesi.

Tre anni dopo l’assassinio, il conte imolese Giovanni Codronchi, nominato Commissario della Regione Sicilia, che aveva inizialmente espresso la sua volontà di accertare chi fosse il mandante dell’omicidio Nortarbartolo – così si esprimeva:”Tutti sanno chi fu il mandatario, chi fu il mandante. La giustizia si è fermata davanti a qualche pezzo grosso amico di Crispi” – dovette arrestare la propria foga di giustizia di fronte alle dinamiche politiche. Palizzolo infatti restava uno dei punti cardini della Destra Storica nell’isola.

Nell’1898 inizia il processo a Milano e compaiono solo due imputati minori: i ferrovieri Garufi e Carollo, indicati come complici dell’omicidio; nessun addebito inizialmente viene mosso contro Palizzolo e Fontana mentre i sospetti contro Filippello cadevano già prima. Il processo va contestualizzato nella storia nazionale e politica dell’epoca: la violenta repressione dei moti siciliani del ’98 porta la Sinistra Storica ad affermare che il governo è duro verso i socialisti e arrendevole verso i mafiosi.

Uno scandalo che porta alle dimissioni del ministro della guerra Mirri, quando il procuratore generale Venturini, da lui violentemente attaccato a Milano, passa al giornale Il Tempo alcune lettere del 1894 in cui Mirri pretendeva la scarcerazione del mafioso Saladino, legato al partito di Crispi. È Leopoldo Notarbartolo, cinque giorni dopo l’inizio del processo, a chiamare in causa Palizzolo, accusandolo apertamente di essere il mandante dell’omicidio del padre. Questi, infatti, durante la dirigenza del Banco di Sicilia, si era opposto a Palizzolo, cercando di impedire che il Banco fosse utilizzato per elargire favori ad amici e persone poco raccomandabili fino alle dimissioni dello stesso Notarbartolo.

L’8 dicembre del 1898, mentre si diffondono voci su una possibile fuga all’estero di Palizzolo, allora ancora deputato, e quindi soggetto ad immunità parlamentare, il Parlamento vota l’autorizzazione al suo arresto. Cosa che avviene. In galera finisce anche Fontana, il presunto esecutore dell’omicidio.

Gioca un ruolo di primo piano l’allora Questore di Palermo, Ermanno Sangiorgi, passato alla storia per il suo rapporto omonimo sulla mafia palermitana, la prima analisi che mostrava e dimostrava l’esistenza di un’organizzazione criminale collegiale e segreta (attraverso il vincolo del giuramento di sangue), che guadagnava attraverso il racket dell’estorsione.

Sangiorgi è l’artefice dell’arresto di Fontana, che decide di consegnarsi a lui – non in questura ma direttamente nella sua abitazione – quando il questore minaccia il Principe di Mirto di arresto per favoreggiamento. Fontana infatti era il protetto del Principe e faceva il latitante nelle sue terre. Ed è lo stesso Sangiorgi a testimoniare contro Palizzolo sulla sua capacità di delinquere.

Ma se i mafiosi venivano arrestati, spesso la magistratura non li condannava. Molti processi dell’epoca infatti si concludevano con l’assoluzione per insufficienza di prove. Non così sembra andare il processo Nortabartolo, che in secondo grado di giudizio a Bologna, si conclude nel 1902 con la condanna a 30 anni di carcere per Palizzolo e Fontana.

Nel 1903 la Cassazione annulla la sentenza di condanna per un vizio di forma. Il processo, da rifare, inizia a Firenze dieci anni dopo l’omicidio di Notarbartolo. Ma il caso non è più “mediatico”, l’attenzione pubblica è scemata. Le prove “cascavano ad una ad una per terra come le pietruzze di un mosaico scomposto, e mancava l’anima tragica che aveva dato loro vita a Bologna“.

L’accusa chiama in causa un solo nuovo testimone, Filippello, l’altro presunto esecutore del delitto, il quale era stato abbandonato sia da Palizzolo sia da Fontana e per questo motivo non era mai stato chiamato in causa dalla difesa durante i precedenti processi. Filippello, però, sarebbe stato trovato morto qualche giorno prima della sua deposizione. L’inchiesta che seguì sentenziò che fosse un caso di suicidio. Cosa ci si sarebbe potuto aspettare allora? Un’assoluzione generale per insufficienza di prove. E così avvenne: il caso Notarbartolo fu dichiarato chiuso il 23 luglio 1904.

Palizzolo poté fare ritorno a casa. Su un piroscafo della Navigazione generale giunse a Palermo, dove venne accolto come un trionfatore. Mentre Leopoldo Notarbartolo cercò di trovare giustizia almeno nella Storia. Scrisse un libro sulla vita e la morte del padre, che fu pubblicato due anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1947.
Una raccomandazione è d’obbligo per chi si accinge a concludere la lettura di questo articolo: non serve trovare analogie con la storia attuale, piuttosto continuiamo a chiederci che cosa sia questa mafia.

 

 

 

Fonte: econopoly.ilsole24ore.com
Articolo del 28 ottobre 2018
Banchiere, burocrate, ucciso dalla mafia: l’importanza attuale del caso Notarbartolo
di Francesco Bruno

Lo scorso anno è stato pubblicato un lungo ed importante volume, “Storia del Banco di Sicilia”(1), opera di grande interesse che ripercorre pedissequamente i centoventiquattro anni di storia dell’istituto e, per le sue vicende, di un’intera Regione.

Luci e ombre di una banca pubblica, inizialmente anche istituto d’emissione, protagonista nella spinta alla crescita nel secondo dopoguerra, esauritasi insieme alla Prima Repubblica in compagnia di quasi tutto il sistema dell’intervento pubblico nell’economia, macellato da sprechi e scandali.

Tra gli episodi che ne hanno segnato la storia, rientra a pieno diritto l’omicidio di Emanuele Notarbartolo, prestigioso Direttore Generale del Banco dal 1876 al 1890. Avvenuto nel 1893, passato alle cronache come il primo vero omicidio eccellente di mafia, l’episodio contiene al suo interno un ingarbugliato intreccio tra banche, mafia e politica, in una stagione già segnata dallo scandalo della Banca Romana. Intrecci raccontati in un libro, ripubblicato nel 2018, scritto da Leopoldo Notarbartolo[2] per ripercorrere la vita di quel padre barbaramente trucidato con una serie di coltellate e gettato da un treno.

Due libri, dai quali fuoriesce la figura integerrima di Notarbartolo, contrapposta a quella del presunto mandante dell’assassinio, Raffaele Palizzolo, membro del Consiglio Generale del Banco e deputato. Presunto mandante, perché la vicenda giudiziaria lo vide infine assolto, insieme al presunto esecutore materiale (il mafioso Giuseppe Fontana), dopo un’iniziale condanna inflitta dalla Corte d’Assise di Bologna ed un annullamento con rinvio deciso dalla Corte di Cassazione, a causa di un vizio dibattimentale sull’escussione di un testimone del tutto inutile ai fini del processo.

Notarbartolo, che quando il Governo lo nominò Direttore Generale del Banco era ancora Sindaco di Palermo, si trovò -agli inizi del mandato- a dover risanare una crisi dovuta da ciò che oggi chiamiamo “non performing loans”, crediti facili concessi ed un’esposizione eccessiva soprattutto nei confronti della Trinacria (casa armatoriale) e della Genuardi (zolfo). «Come era emerso con la crisi della Trinacria, le forme di selezione dei debitori e allocazione del credito concretamente praticate dalle commissioni locali tendevano a costituire una variante di insider trading, come era emerso con il barone Genuardi, in cui i vantaggi informativi degli operatori locali presenti nelle commissioni di sconto non erano utilizzati per ridurre i costi e alzare l’efficienza, ma in cui invece il sistema catturava le risorse generate dal Banco per utilità particolari (…)». Per reagire ad una tale situazione, «Notarbartolo introdusse il “castelletto” quale strumento di concessione dei crediti da accordarsi sino a un massimo e impose una marcata riduzione degli effetti di comodo».[3]

Non fu solo un eccellente risanamento contabile, ma anche organizzativo e metodologico, con controlli interni e forgiatura del personale ad immagine e somiglianza del Direttore. Così scrive il figlio: «I suoi impiegati sapevano che vegliava su loro con senso inflessibile di giustizia, che non gli sfuggiva una negligenza; che non avrebbe tollerato uno scarto dall’onore (…) Sapevan anche che si preoccupava di ogni loro bisogno (…) che una volta ottenuta la sua stima, non sarebbero più stati trattati come inferiori, ma come collaboratori e compagni. (…) Vedevano il suo esempio: il disinteresse e l’abnegazione con cui dava tutto se stesso all’opera comune, e inconsciamente o no lo imitavano”[4].

Dopo esser stato rapito dai briganti nel 1882, liberato a seguito di pagamento di un riscatto, fu sempre in aspri rapporti con il Consiglio Generale, l’organo “politico” del Banco, formato da molti personaggi in conflitto d’interesse con altre banche o aziende private, contrariate dall’eccessiva rigidità del Direttore Generale. Notarbartolo tentò invano di intercedere con il Governo per la riforma dello Statuto, ma alla fine fu lui ad essere cacciato, nel 1890, per volere di un altro siciliano, Francesco Crispi, all’epoca Presidente del Consiglio.

Fu certamente una vittoria per il Consiglio e per Palizzolo. Negli anni successivi, il Banco divenne oggetto di attività speculative, sotto la guida di Giulio Benso duca della Verdura. L’intreccio affaristico venne fuori nel caso del rastrellamento delle azioni della Navigazione Generale Italiana (“NGI”), avvenuto con i soldi del Banco a vantaggio, tra gli altri, proprio di Palizzolo. Grazie anche a Notarbartolo, l’operazione venne smascherata e diede vita ad un’ispezione. Poteva essere il preludio per il necessario ritorno di Notarbartolo alla guida del Banco e, forse per tal movente, lo stesso venne assassinato.

Ma chi era Palizzolo? Per il grande politologo Gaetano Mosca, «Era popolarissimo se la popolarità consiste nell’essere facilmente accessibile a persone di ogni classe, di ogni ceto, di ogni moralità. La sua casa era indistintamente aperta ai galantuomini e ai bricconi. Egli accoglieva tutti, prometteva a tutti, stringeva a tutti la mano, chiacchierava infaticabilmente con tutti; a tutti leggeva i suoi versi, narrava i successi oratori riportati alla Camera e, con abili allusioni, faceva capire quante e quali aderenze potentissime avesse»[5]. Per lo storico Salvatore Lupo però, non basta questa “tenera” definizione, in quanto Palizzolo era protettore di diverse cosche mafiose, nonché manutengolo di briganti. Su tali relazioni, l’avvocato di parte civile Giuseppe Marchesano, nell’arringa finale del processo di Bologna -che durò quattro giorni e produsse un resoconto stenografico[6] di quasi settecento pagine– disse: «Chi si circonda di tali uomini lo fa per avvalersi di queste sue relazioni. Ordinariamente se ne avvarrà alle elezioni, ma quando si troverà in un caso più grave, quando la sua vita civile sarà in pericolo, e quando sarà necessario, perché questa vita civile non cessi, di sopprimere l’ostacolo che la minaccia, per l’uomo che ha tenuto intorno a sé per anni tutta questa gente, non è egli naturale, ineluttabile, che di essa si serva?».

La fase delle indagini e dell’istruttoria a Palermo mostra lo spaccato della Sicilia dell’epoca, dilaniata da depistaggi, omertà e collusioni talmente evidenti che finirono per indignare l’Italia. Ma il blocco politico mafioso resse l’urto, anzi accrebbe notevolmente la sua forza. Quando Fontana (uno dei presunti killer) decise di costituirsi, racconta Ciconte[7] che il principe di Mirto, suo protettore, «(…) lo fece accompagnare dal suo avvocato personale; fece di più: il latitante comodamente seduto nella carrozza con lo stemma di famiglia dei principi di Mirto fu portato nella casa del questore perché il questore, e non solo lui, sapesse da che parte stava il principe».

Durante il processo venne fuori un perverso orgoglio siciliano, teso a difendere l’indifendibile. Racconta ancora Lupo (op. cit. nelle note), che Ignazio Florio Jr., ricchissimo erede a capo della Società di Navigazione Italiana, sentito nella veste di testimone durante il processo di Bologna, così si espresse: «La maffia? Non l’ho mai sentita nominare», per poi scattar d’ira alle domande del Pubblico Ministero: «È incredibile come si calunnia la Sicilia! La maffia nelle elezioni! Mai! Mai!».Mai!».

L’argomento regionalista esplose dopo la condanna di Bologna, vista come un oltraggio ed un attacco del Nord contro la terra dei Vespri. Si formò persino il comitato Pro-Sicilia, a difesa di Palizzolo e dell’onore della Regione. Un clima quasi secessionista, che ebbe la sua rilevanza nel contesto in cui dovette operare la Corte di Cassazione e la successiva Corte di rinvio, quella di Firenze, che finì per assolvere gli imputati.

Palizzolo tornò a Palermo da trionfatore, come il Giusto della situazione. «Venne poi lo atteso trionfo di Palermo, Palizzolo, gettato il bastoncello dello artritico, s’indugio a Napoli, al Grand Hotel de Londres ove il “Pro Sicilia” venne a rendergli omaggio. Salito poi sopra un piroscafo appositamente noleggiato, fece a Palermo ingresso trionfale, degno della città madre del “Pro Sicilia”, a cui, se poteva rinfacciare di aver lesinato le sottoscrizioni in denaro, non potè certo rimproverare di aver risparmiato le grida»[8]. Così l’amaro racconto del figlio Leopoldo, mentre Mosca, racconta Lupo, «sentenziò che l’apoteosi di Palizzolo “offendeva il senso morale”: “Certo che contro l’imputato degli assassini Miceli e Notarbartolo poco o nulla si poté provare, ma l’uomo apparve nella sua luce peggiore, se non delinquente almeno protettore di delinquenti e sospetto persino di relazioni coi briganti”»[9].

Intrecci tra politica, banche e mafie che ritorneranno più volte nella storia d’Italia, come nei casi Sindona e Calvi. Così come non ci hanno mai del tutto abbandonato i crediti facili ed i conflitti d’interesse nell’erogazione degli stessi, che portarono al fallimento della Banca Italiana di Sconto ad esempio, ma che sono anche tra le cause delle sofferenze bancarie dei nostri tempi.

Ma la vicenda ha anche un altro aspetto di attualità, che risiede nella figura dei due protagonisti. Notarbartolo era aristocratico, banchiere, burocrate, rigido e inflessibile nei suoi doveri, nella logica dei numeri. Il contrario di Palizzolo, amante del compromesso, uomo del popolo che non risparmiava mai strette di mano e sorrisi, pronto a tutto per i suoi fini elettorali e per difendere la sua cerchia di potere.

Usando i termini tanto in voga oggi, Notarbartolo farebbe sicuramente parte dell’establishment non eletto che mette i bastoni tra le ruote al rappresentante del popolo. Una retorica che ci sta invadendo, che opera per categoria di appartenenza, seguendo l’onda di un sentimento di rabbia espresso a mezzo internet che non risparmia nessuno e svilisce diverse professionalità, dai banchieri ai dirigenti ministeriali, dai politici stessi ai magistrati, dagli avvocati ai giornalisti. Tutti immersi in unico calderone, dove non conta più il curriculum o l’integrità individuale, cosa si è fatto nella vita, ma solo l’appartenenza allo schieramento dei “buoni” o dei “cattivi”.

In tutto questo, fare semplicemente il proprio dovere, come faceva Notarbartolo, come hanno fatto tanti anni dopo Giorgio Ambrosoli o Giovanni Falcone, come fanno la maggioranza delle persone che mandano avanti il Paese, passa in secondo piano. Ma se nel caso di omicidi eccellenti l’opinione pubblica vira dalla parte della vittima, lo stesso non accade quando l’attacco è solo politico-mediatico e non fisico. E l’isolamento di quest’ultime vittime resta tale, non meritevole di alcun conforto.

Ecco perché riscoprire le storie di chi ha perso la vita semplicemente per fare il proprio dovere, potrebbe forse aiutarci ad avere maggiore rispetto delle persone e del lavoro altrui, qualunque esso sia.

 

[1] Asso P. (a cura di), “Storia del Banco di Sicilia”, Donzelli, 2017.

[2] Notarbartolo L., “Mio padre, Emanuele Notarbartolo”, Sollerio editore, 2018

[3] Piluso G., “La Sicilia come la Scozia? Il risanamento di Notarbartolo: riorganizzazione, deflazione e integrazione, 1876-1889”, in “Storia del Banco di Sicilia”, Parte prima–capitolo 4

[4] Notarbartolo L., op. cit., p. 169

[5] Lupo S., “Tra banca e politica: il delitto Notarbartolo”, in “Meridiana”, 1990, p. 133

[6] http://www.storiamediterranea.it/portfolio/processo-contro-raffaele-palizzolo-e-c-i-arringa/

[7] Ciconte E., “Borbonici, patrioti e criminali”, Salerno editrice, 2016, p. 137

[8] Notarbartolo L., op. cit., p. 422

[9] Lupo S., op. cit., p. 148

 

 

 

 

Chi ha ucciso Emanuele Notarbartolo?
Il primo omicidio politico-mafioso

di Enzo Ciconte

Salerno Editrice

Chi ha ucciso Emanuele Notarbartolo? E perché? Mafia, politica e magistratura s’intrecciano in una Italia divisa tra Nord e Sud. È il 1893, ma potrebbe essere oggi.

Sicilia, 1° febbraio 1893, sera. Un uomo rientra dal lavoro in treno. A casa lo aspettano. Con la complicità del buio e del frastuono di una galleria, qualcuno si avvicina e lo ferisce a morte con dodici coltellate. La vittima del feroce omicidio viene ritrovata riversa ai margini delle rotaie, senza documenti.

Si scoprirà presto la sua identità: si tratta di Emanuele Notarbartolo, ex direttore del Banco di Sicilia ed ex sindaco di Palermo, personalità incorruttibile in una Sicilia di fine Ottocento dove politica e potere, nobiltà, borghesia e magistratura, non sempre hanno comportamenti cristallini.

Chi ha ucciso Notarbartolo? Ma soprattutto, perché è stato ucciso? Enzo Ciconte ripercorre le indagini e i processi che seguirono a quel crimine, attraverso la ricostruzione del clima e del contesto politico di una Italia che, per certi aspetti, non appare cosí diversa da quella di oggi.

In primo piano troviamo Crispi, Giolitti, Rudiní, Zanardelli, Turati, i Florio, Codronchi, Mirri, Pelloux, Sangiorgi. Seguendo l’appassionante trama di un saggio storico scritto come un giallo giudiziario, l’autore scopre, tramite la lettura di documenti d’archivio inediti, risvolti poco noti, misfatti, depistaggi e moventi del primo omicidio politico-mafioso della storia italiana.

 

 

 

Mio padre Emanuele Notarbartolo di Leopoldo Notarbartolo – Sellerio Editrice

Mio padre Emanuele Notarbartolo
di Leopoldo Notarbartolo
A cura di Cristiano La Lumia
Nota di Antonio Calabrò

Sellerio Editrice

Tra memoria familiare e ricostruzione storica la bellissima biografia, scritta dal figlio Leopoldo, di Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo, ex direttore del Banco di Sicilia (allora tra i maggiori istituti bancari d’Italia), esponente di spicco della Destra storica, aristocratico, uomo con fama di onestà specchiata, e ucciso il 1° febbraio 1893 sul treno che lo riportava a casa dalle sue terre di Termini Imerese. Fu il primo cadavere eccellente di Cosa nostra.

Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo, ex direttore del Banco di Sicilia (allora tra i maggiori istituti bancari d’Italia), esponente di spicco della Destra storica, aristocratico, uomo con fama di onestà specchiata, fu ucciso il 1° febbraio 1893 sul treno che lo riportava a casa dalle sue terre di Termini Imerese. Fu il primo cadavere eccellente di Cosa nostra. Mandante, l’onorevole Raffaele Palizzolo, poi incredibilmente assolto, che il politologo Gaetano Mosca descriveva così: «Egli accoglieva tutti, prometteva a tutti, stringeva a tutti la mano, chiacchierava infaticabilmente con tutti», prototipo di tutti i futuri politici collusi.

Notarbartolo pagava con la vita l’essersi messo in mezzo negli affari della rampante borghesia mafiosa. Ma contemporaneamente la sua morte, fortemente simbolica, apriva una nuova fase nel potere mafioso che migliorava la sua posizione sociale e incrementava i rapporti con lo stato. Una sporca storia della Palermo Felicissima dei Florio, nella realtà assai meno immacolati che nel loro mito. In quella banca era stato un risanatore di crediti facili agli amici e di buchi di bilancio per speculazioni di potenti. Era quindi un bersaglio isolato, un elemento evidentemente anomalo nella storia fatale di una città e di un’isola destinate, sembra, a coniugare più o meno sempre lo sviluppo con l’affarismo politico criminale.

Il figlio Leopoldo scrisse questa memoria (finora inedita nella sua stesura integrale), poi stampata in pochi esemplari nel 1949, quando il ricordo del padre rischiava di spegnersi. Storia di un uomo onesto in un’Italia che lo diventava sempre meno, il libro ha soprattutto il merito di soffermarsi con forza drammatica sui due aspetti che fanno di quella prima vittima «d’alta mafia» una vicenda tremendamente attuale. Primo, l’eterna (come illustra Antonio Calabrò nella sua galleria degli scandali bancari italiani) lotta senza quartiere tra un banchiere custode del comune interesse in crescente isolamento, e i comitati d’affari politico criminali in ascesa. Secondo, la vicenda processuale di una famiglia sola che si scontra con i muri di gomma e i depistaggi di una malagiustizia a protezione dei potenti e con lo stuolo degli ipocriti complici intorno.

La precedente edizione, “Memorie della vita di mio padre Emanuele Notarbartolo di San Giovanni”, fatta stampare in duecento esemplari nel 1949 a Pistoia da Vittoria Beatrice Notarbartolo Gigliucci,  è scaricabile a questo link: storiamediterranea.it

 

 

 

 

Assassinio sull’omnibus 3
di Fernando Riccardi e Ornella Massaro
Arte Stampa Editore (2022)

Il libro ricostruisce il primo delitto di mafia dell’Italia unita.

Il commendatore Emanuele Notarbartolo, già sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia, viene ucciso sul treno da due misteriosi sicari mentre rientra a casa da una tenuta di campagna con ventisette coltellate: è il primo febbraio del 1893.

Per lunghi anni le indagini brancolano nel buio tra depistaggi, “deviazioni e traslochi”, connivenze e atteggiamenti omertosi, che coinvolgono anche le forze dell’ordine e la magistratura.

Il primo processo si tiene a Milano nel 1899, a sei anni dal delitto. Ne seguono poi altri due a Bologna e a Firenze.

Alla fine, dopo ben undici anni, gli imputati, tra i quali c’è anche un parlamentare del Regno d’Italia, l’onorevole Raffaele Palizzolo, accusato di essere il mandante dell’orrendo crimine, sono tutti assolti per insufficienza di prove, il verdetto tipico dei delitti di mafia.

 

 

 

 

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *