1 Giugno 1989 San Luca D’Aspromonte (RC). Ucciso Don Giuseppe Giovinazzo, parroco di Moschetta di Locri. Forse si era prestato come mediatore del rapimento di Carlo Celadon.

Foto da: stopndrangheta.it

Il primo giugno del 1989 mentre sta facendo rientro a casa dopo aver trascorso il pomeriggio nel santuario di Polsi, don Giuseppe Giovinazzo (parroco di Moschetta, a Locri) viene trucidato a colpi di lupara. L’omicidio resterà impunito.

Fonte:  stopndrangheta.it

 

 

 

Fonte:  stopndrangheta.it

Don Giuseppe Giovinazzo, morte all’ombra di Polsi
Dietro l’omicidio dell’economo del santuario della Madonna della Montagna, assassinato il 1 giugno 1989, forse il sequestro di Cesare Casella. Nel 1966 a Cirella un altro parroco ammazzato.

Omicidio viceparroco: dieci anni fa un caso in Calabria
Il primo giugno del 1989 mentre sta facendo rientro a casa dopo aver trascorso il pomeriggio nel santuario di Polsi, don Giuseppe Giovinazzo (parroco di Moschetta, a Locri) viene trucidato a colpi di lupara. L’omicidio resterà impunito.

 

 

Articolo da L’Unità del 3 Giugno 1989
Calabria, delitto al santuario
di Aldo Varano
Sacerdote ucciso a lupara, conosceva troppi segreti

Il tesoriere del Santuario di Polsi è stato ucciso da un commando mafioso che ha aspettato il sacerdote sulla strada che che dalla chiesetta nel cuore dell’Aspromonte, dov’è custodita la “Madonna della Montagna”, porta a Locri. Il cadavere è stato scoperto il giorno dopo da una pattuglia impegnata nei rastrellamenti. Il pellegrinaggio al santuario è sempre stato occasione di summit della vecchia ‘ndrangheta.

LOCRI. Conosceva i più potenti boss della vecchia ‘ndrangheta delle campagne ed aveva visto crescere ed affermarsi la nuova mafia degli appalti e del traffico di droga. Forse perché custode do segreti scottanti qualcuno ha deciso di tappargli la bocca per sempre. Don Giuseppe Giovinazzo, 53 anni, tesoriere del Santuario di Polsi, più famoso come “La Madonna della montagna”, è stato ammazzato da un commando che lo ha stretto in un fuoco incrociato. Da un lato, un killer con un fucile caricato a pallettoni di lupara; dall’altro, una micidiale pistola parabellum: per il prete non c’è stato scampo. Don Giuseppe aveva lasciato da pochi minuti il Santuario che sorge nel cuore dell’Aspromonte per fare ritorno a Locri, dove insegnava nella scuola di Stato. Dopo meno di tre chilometri’di strada è scattato l’agguato. Da giovedì sera fino a ieri mattina nessuno si sarebbe accorto della vecchia 126 Fiat. Ieri mattina vi si è imbattuta una pattuglia impegnata nei rastrellamenti che vengono fatti continuamente in Aspromonte alla ricerca di latitanti e delle prigioni in cui l’Anonima sequestri nasconde le sue vittime. Per gli inquirenti non esistono dubbi: si tratta di un agguato mafioso e la vittima designata era proprio il tesoriere del Santuario della Madonna della montagna.
Il Santuario occupa un posto importante, nella storia della vecchia mafia delle campagne. La Madonna della montagna è sempre stata venerata dagli uomini dei clan mafiosi. Un sentimento religioso molto vicino al paganesimo, spesso nutrito di superstizioni e presunti miracoli, come quello degli animali che si inginocchiavano davanti al quadro della Vergine, in realtà grazie al colpi di bastone che spesso gli spezzavano le gambe. Un clima fanatico, con fenomeni di esaltazione collettiva dopo marce a piedi scalzi fatte intervallando alle preghiere la «Tarantella, un antichissimo ballo che mima una danza della morte.
A settembre ogni anno, ancora oggi, migliala di fedeli vanno in pelegrinaggio fino al santuario costruito nel 700 dai messinesi, per invocare la fine del colera che aveva attaccato la citta. In quella occasione, fino a quache anno fa, da tutti i paesi della provincia di Reggio arrivavano i capi delle famiglie della ‘ndrangheta; per venerare la Madonna, ma anche per il summit nel quale veniva eletto il capo dei capi di tutte le cosche. Il boss a cui sarebbe spettato
sciogliere tutte le controversie tra le famiglie.
Ma al di là delle vecchie usanze, la venerazione della Vergine è rimasta viva anche con l’affermarsi della nuova mafia.
Solo tre anni fa, dopo un furto al santuario, la refurtiva fu riconsegnata entro 48 ore. I soldi furono lasciati accantol portone con un biglietto «Perdonatelo – c’era scritto – Non sapeva quel che faceva. Un’offerta per la Madonna” ed attaccati al messaggio con uno spillo, c’erano tre fogli da diecimila lire. Si racconta che il giovane ladruncolo sia stato duramente punito e che lte cosche si siano immediatamente mobilitate per catturarlo.
Don Giuseppe era pane di questo mondo. A lui toccava la contabilità delle offerte e con i boss aveva stabilito rapporti di amicizia. Per questo aveva avuto qualche guaio ed aveva provocato imbarazzo alla curia di Locri. Il 31 ottobre dell’85 era stato proprio don Giuseppe a sposare Giuseppe Cataldo e la vedova Teresa Rodi nella suggestiva chiesetta di Moschetta, la frazione di Locri in cui don Giuseppe era titolare e diceva messa. Lei era in tailleur color crema, un modello sobrio ma elegante; lui, don Pepè in gessato: insomma una bella coppia non più giovanissima ma pur sempre in raffinato stile Palermo anni Trenta. C’era stata tanta commozione mentre le note dell’Ave Maria di Gounod avevano suggellato il matrimonio. Una bella cerimonia, se non fosse stato per quel piccolo dettaglio: lo sposo, 48 anni, era considerato il capo incontrastato di tutte le cosche della Locride, una delle zone a più alta densità mafiosa dell’intera Calabria. E quando a don Giuseppe si fece notare che don Pepè Cataldo era un superlatitante, lui smontò tutti rispondendo: “Non leggo giornali e non sono tenuto a chiedere il cartellino penale ed i carichi pendenti a chi si sposa».
Al matrimonio pare fossero presenti anche influenti uomini politici della zona: ma non si seppe mai nulla e di certo don Giuseppe, che partecipò anche al rinfresco offerto dagli sposi, non era uomo da non saper tenere gelosamente nascosto un segreto scottante.

 

 

Articolo da La Stampa del 9 Giugno 1989
«Pronta a morire per mio figlio rapito»
di Amedeo Lugaro
Intervista con la madre di Cesare Casella, il ragazzo da 17 mesi ostaggio della ‘ndrangheta

«Domani vado in Calabria» – «Non mangerò fino a quando non tornerà libero» – Il padre accusa lo Stato: «Non esiste» – «Ho girato l’Aspromonte in auto: non ho mai incontrato un posto di blocco di polizia o carabinieri»

PAVIA — «Domani andrò in Calabria a cercare mio figlio Cesare. E finché i rapitori non lo rilasceranno, digiunerò. Preferisco morire di fame laggiù, piuttosto che di angoscia qui a casa, nell’attesa di una liberazione che non arriva mai».
Angela Casella, madre dello studente di Pavia rapito 17 mesi fa e tenuto in ostaggio in una grotta dell’Aspromonte, è stanca di aspettare e ha deciso di manifestare pubblicamente la sua protesta per quella che lei e suo marito considerano una -latitanza dello Stato-. Domani, quando la coraggiosa donna partirà per il suo secondo viaggio in Calabria (era già stata nella Locride nell’ottobre dello scorso anno saranno 509 i giorni già trascorsi in prigionia da suo figlio Cesare.

Non meno clamorosa la forma di protesta scelta da suo marito Luigi, concessionario della Citroen a Pavia, che ha rispedito le schede elettorali di tutta la famiglia, compresa quella di Cesare, al presidente della Repubblica Francesco Cossiga e al segretari di tutti i partiti, accompagnandole con la frase: «Non ho per chi volare, per noi lo Stato non esiste». E’ un’impressione che ha ricavato percorrendo in auto le strade dell’Aspromonte. «E’ pazzesco — dice —. Non ho visto un poliziotto, ne un posto di blocco. Mi chiedo se dopo questi 17 mesi qualcuno stia ancora cercando mio figlio o se l’abbiano dimenticato. Le forze dell’ordine dicono che stanno facendo tutto il possibile, ma mi riesce difficile crederlo». Diciassette mesi di sequestro per Cesare, altrettanti di calvario per i suoi genitori «Nessuno può immaginare — dice Angela Casella — che cosa sia questo tormento che non fa dormire, ne pensare con lucidità. Speravo molto nell’ultima trattativa condotta in Calabria da mio marito, ma non c’e stato niente da fare: è ritornato a mani vuote e con più rabbia di prima».
«Qui a Pavia – aggiunge — l’attesa è infinita. Mi sento impotente C’e da impazzire. Quella gente deve rendersi conto che non abbiamo i miliardi che ci chiedono. Non possiamo andare a dormire sotto i ponti per dimostrare che non abbiamo più niente da vendere, che la casa e i capannoni non sono più nostri. I 500 milioni che mio marito ha portato con se nel viaggio in Aspromonte la settimana scorsa sono tutto quello che abbiamo potuto mettere insieme indebitandoti per tutta la vita. Perché farci tutto questo male?»
Malgrado gli occhi gonfi di lacrime, Angela Casella continua: «Non ci arrendiamo. Non stiamo mercanteggiando la vita di Cesare. Lo devono capire».

Non teme ritorsioni. Niente la spaventa, nemmeno la crudeltà di un’organizzazione criminosa che non ha esitato a uccidere a fucilate, in una stradina che porta al santuario della Madonna dei Polsi, un sacerdote, don Giuseppe Giovinazzo. «Non ho paura — afferma decisa —. E poi cosa potrebbero farmi? Una madre non può temere niente quando va alla ricerca del figlio. Al massimo potrebbero sequestrarmi come hanno fatto con Cesare e riservarmi lo stesso trattamento».
Quando Angela Casella si recò in Aspromonte, nell’ottobre dello scorso anno, lasciò un appello ai rapitori ai piedi del Crocifisso dello Zillaro, sulle montagne sopra Platì, un luogo che funziona come una specie di fermo posta dell’anonima sequestri. In quei giorni la donna bussò alle porte di molte chiese della Locride per cercare aiuto.
«Ricordo di avere incontrato un sacerdote di San Luca, don Giuseppe Strangio. Poi il vicario del vescovo, monsignor Antonino Sgrò. Per alcune domeniche molti sacerdoti avevano ripetuto dai pulpiti il nostro appello ai banditi affinchè liberassero Cesare. Non ricordo però di avere mai incontrato don Giuseppe Giovinazzo, anzi lo escludo assolutamente».
L’ultima trattativa si è arenata sullo scoglio di un’ulteriore richiesta di denaro che i Casella dicono di non potersi procurare. I banditi, che la notte del 14 agosto dello scorso anno incassarono un miliardo per liberare Cesare, ne vogliono altri tre. 1500 milioni che il padre di Cesare aveva racimolato sono stati rifiutati dai sequestratori, che lo hanno invitato a procurarsi l’intera somma, altrimenti Cesare «non tornerà più a casa».
«Vorrei proprio che i banditi verificassero una buona volta la mia posizione patrimoniale — dice Luigi Casella —. Si debbono rendere conto che siamo sul lastrico e che hanno ricevuto informazioni sbagliate. Non so più cosa fare per convincerli che ho già raschiato il fondo del barile».
«Non possiamo ricomprare nostro figlio — aggiunge la mamma di Cesare — perche le sue “quotazioni di mercato” sono inaccettabili. Può sembrare un linguaggio brutale, ma siamo ridotti ormai a questo punto. Cesare e diventato una merce di scambio. In pratica ha cessato di esistere come persona dal 18 gennaio del 1988-.

 

 

 

Articolo da La Stampa del 10 Giugno 1989
“Papà, paga il riscatto”
di Alessandro Mognon
Lettera di Carlo Celadon, il giovane sequestrato a Vicenza sedici mesi fa – La famiglia ha già versato cinque miliardi

VICENZA – Una lettera disperata scritta alla fidanzata, un sacerdote ucciso a fucilate e la proposta di uno scambio di ostaggio: è entrato in una fase decisiva il sequestro di Carlo Celadon, il ventenne di arzignano da 16 mesi nelle mani dell’Anonima.

Cinque miliardi pagati, altrettanti richiesti. Candido Celadon, industriale conciario da 3 settimane è in Calabria (dove una settimana fa era sceso da Vicenza anche il giudice istruttore Massimo Gerace per un incontro con i magistrati del posto). Una serie di viaggi e spostamenti improvvisi, dopo mesi di silenzio dei rapitori, probabilmente dopo l’arrivo di una lettera che il rapito ha spedito alla sua ragazza, Gabriella Sartori, 22 anni, di Chiampo. Indirizzata ad un amico ma destinata alla fidanzata, la lettera è stata probabilmente “dettata” dai sequestratori. L’ostaggio crede di essere abbandonato dalla famiglia e chiede, disperato, come mai il padre non ha ancora pagato il riscatto. Candido Celadon, invece, sta proseguendo la trattativa. Anche se, dopo un anno e mezzo di minacce e falsi allarmi vuole garanzie. Poche settimane fa quella che sembrava l’occasione giusta, il viaggio a Locri, i contatti con la banda, le prove che il figlio è vivo. Ma l’industriale di Arzignano rinuncia. Perché le condizioni per il rilascio del prigioniero sono inaccettabili: presentarsi da solo, di notte, soldi alla mano, in una zona sperduta dell’Aspromonte. Senza nessuna certezza di riavere il figlio, né di uscirne vivo.
Non bastasse, arriva l’omicidio di don Giuseppe Giovinazzo, parroco di contrada Moschetta a Locri. Quasi decapitato da una fucilata giovedi 1 giugno mentre si recava al santuario di Polsi. Don Giovinazzo era molto conosciuto. Quattro anni fa aveva celebrato il matrimonio di un boss latitante, Beppe Cataldo. Gli inquirenti credono che il sacerdote avesse offerto la sua mediazione per la liberazione di Carlo Celadon. E’ per questo (Sapeva troppo? Una mediazione poco gradita all’Anonima?) sarebbe stato eliminato.
Il dialogo con la banda che tiene prigioniero il giovane non è interrotto. La famiglia Celadon sta tentando la strada dello scambio di ostaggio. Trovato il candidato, si aspetta il si dai rapitori.

 

 

 

Fonte:  larivieraonline.com
Articolo del 9 ottobre 2017
Diocesi di Locri Gerace: il ricordo di Don Giuseppe Giovinazzo
da
Il Vescovo
✠ Francesco OLIVA

Desidero ravvivare nella Comunità credente il ricordo di Don Giuseppe Giovinazzo, il sacerdote trucidato in un agguato di stampo mafioso il 1° giugno 1989, intorno alle ore 18, sulla strada che da Montalto porta a Polsi. Come prega il salmo 111, “il giusto sarà sempre ricordato”. “Il giusto”, nel nostro caso, è un sacerdote che ha perso la vita nell’esercizio del suo ministero sacro nel Santuario di Polsi. Se ogni morte violenta non trova ragione, ancora di più questo vale per un sacerdote, che ha donato interamente la sua vita a Dio. Con tutte le fragilità di un’umanità ferita.

Don Giovinazzo era nato a Portigliola il 14 novembre 1936 da Saverio Pasquale e Maria Carmela Alfarone. Ordinato sacerdote in Moschetta il 29 giugno 1962, il 31 agosto 1962 gli fu affidata la parrocchia Maria SS. Immacolata in Moschetta, frazione di Locri. Il 1 luglio 1967 divenne parroco a Portigliola, e vicario parrocchiale a Moschetta. Insegnante di Religione presso la Scuola Media “Ferraris” di Locri, dal 1975 al 1977 fu revisore dei conti e assistente spirituale del Santuario di Polsi in collaborazione con il rettore don Giosafatto Trimboli.
Fu molto impegnato nell’Azione Cattolica e nella Caritas parrocchiale.

Assassinato il 1 giugno 1989, il suo corpo fu rinvenuto il giorno dopo, giovedì mattina, verso le ore 10, da un operaio forestale, che transitava sulla strada che conduce al Santuario diretto al suo lavoro. L’omicidio era avvenuto nella serata del mercoledì precedente, mentre il sacerdote rientrava a Locri. Le armi usate furono una lupara ed una pistola calibro 9. I funerali si svolsero domenica 4 giugno 1989. Erano presenti la comunità parrocchiale, il Clero diocesano, i sindaci di Locri e Portigliola, il preside della Scuola Ferraris di Locri e varie associazioni.

Il Vescovo Antonio Ciliberti, nella sua omelia, descrisse il sacerdote come uomo sereno, del quale tutti parlavano bene, umile e disponibile. La sera precedente al delitto aveva avuto un colloquio con don Giovinazzo: “Abbiamo parlato della nuova stagione dei pellegrinaggi a Polsi – raccontava il vescovo -, del lavoro da avviare per il rilancio del culto ma anche per un nuovo impulso e il nuovo significato da affidare alla nostra missione presso quel Santuario”. Nulla presagiva quanto sarebbe accaduto il giorno dopo. Nella sua omelia in occasione delle esequie (in Rivista Diocesana, pp. 62-63), il Vescovo, oltre ad esprimere il suo dolore, sottolineava il sacrificio di don Giuseppe come partecipazione al mistero pasquale di Cristo, morto e risorto per noi. Osservava come da quel sacrificio venisse un messaggio di amore e di speranza contro l’odio e la vendetta che insanguinavano il territorio aspromontano. Don Giovinazzo – diceva il Vescovo – è stato un apostolo”, latore di un messaggio di amore che porta a riconoscere ogni uomo come nostro fratello. “Durante 27 anni di ministero sacerdotale, – continuava – (don Giuseppe) con la parola e con la vita, ha affermato che l’unica verità è l’amore. La ricchezza di questo insegnamento è una lezione per tutti, ma lo è soprattutto per coloro che, disorientati dall’egoismo e dall’odio, diventano facili prede del maligno”. Questo insegnamento doveva continuare ad essere una lezione contro l’odio, l’egoismo e coloro che seminano la morte. A questi il Vescovo chiedeva il cambiamento di vita e la conversione.

Nella “Rivista Diocesana” (anno I 1989-90: pp. 61-64). In un Comunicato della Curia Vescovile, Mons. Antonino Sgrò, vicario generale, oltre ad esprimere sgomento per l’accaduto, manifestò il cordoglio di tutto il clero diocesano, affermando che don Giovinazzo si era sempre distinto per fedeltà ed impegno, competenza e disponibilità. Il suo impegno pastorale era stato rivolto particolarmente alla promozione della maturazione umana e cristiana.

In una solenne concelebrazione nella Cattedrale di Locri veniva offerta alla famiglia una medaglia d’oro con la scritta “A don Giuseppe Giovinazzo – Locri – 1.6.1989 – Il presbiterio diocesano in onore del suo olocausto.

Locri, 22 giugno 1989”. La FACI, delegazione regionale per la Calabria offriva una targa in memoria: “A grata memoria dell’indimenticabile don Peppino Giovinazzo falciato da mano sacrilega in zona Polsi. Memori del cuore generoso e animo nobile nel ministero pastorale e nel culto alla Vergine di Polsi, la FACI regionale in perenne ricordo come segno di solidarietà e di partecipazione del clero di Calabria verso la Chiesa che è in Locri, in piena comunione di cordoglio e di sicura fede. Nell’accoglienza del confratello vittima nell’eterna liturgia dei testimoni del Risorto. Offre il Presidente don Matteo Teotino.

Reggio Calabria, 15.6.1989”.
A distanza di oltre ventisette anni, restano ancora aspetti della sua vita che meriterebbero di essere chiariti. Un primo riferimento è all’accusa mossa nei suoi confronti per aver celebrato il 31 ottobre del 1985 le nozze di Giuseppe Cataldo. Un altro episodio sotto osservazione era avvenuto il 14 marzo del 1986, allorchè don Giuseppe fu protagonista, in qualità di assistente del Santuario di Polsi, di una vibrata protesta con esposto alla Procura della Repubblica nei confronti delle forze di polizia che avevano forzato la porta d’ingresso del Santuario, che fu sottoposto ad un’accurata perquisizione. Don Giovinazzo reagì con risolutezza, affermando che gli si potevano chiedere le chiavi che non avrebbe avuto alcuna riserva a consegnarle. Alla protesta si associò anche la Curia. Un altro fatto su cui scrissero i giornali riguarda il comportamento del sacerdote in occasione del sequestro di Cesare Casella.

I tempi di don Giovinazzo erano tempi molto difficili, gli anni di piombo, in cui la mafia uccideva ed imperversava con modalità feroci che col tempo le forze dell’ordine e la Magistratura terranno sotto controllo. Molte circostanze restavano ancora in ombra. Mancava ancora la maturazione di una vera coscienza civile sulla gravità del fenomeno mafioso. Oggi le cose stanno cambiando. Le istituzioni hanno compreso che la mafia e la ‘ndrangheta possono essere sconfitte solo attraverso un’azione sinergica sul piano del controllo del territorio e del suo sviluppo economico, sociale e culturale. Come Chiesa sentiamo di dover essere più presenti nel tessuto sociale e culturale della nostra società e desideriamo dare un contributo essenziale sul piano della formazione ad una fede più viva e partecipe alla realtà sociale, più capace di incarnare il Vangelo nella storia. Non una fede intimistica, che non scomoda nessuno, che si adatta a tutte le situazioni, accomodante e conciliante in ogni caso. Tutti, sacerdoti, fedeli laici e credenti sappiamo che il futuro della nostra terra dipende molto da noi. La stessa pietà popolare, liberata da incrostazioni devozionali tradizionali che addormentano le coscienze ed allontanano dai veri problemi della vita, dovrà dare un impulso importante in questa direzione.

Tornando al tema della giornata, una cosa è certa: don Giovinazzo è stato trucidato sulla strada per Polsi dopo una giornata di servizio pastorale nel Santuario. Non può di conseguenza essere trascurato il legame esistente tra la sua uccisione ed il ministero pastorale esercitato. A chi poteva dare fastidio? Quali iniziative pastorali del sacerdote potevano avere suscitato la reazione violenta che portò a decretarne la morte? Sono tutte circostanze che meritano di essere approfondite e chiarite.
Quello di don Giovinazzo è un tributo di sangue che la Chiesa di Locri-Gerace ha dovuto pagare all’arroganza e prepotenza di un’associazione criminale di stampo mafioso, che già nel 1989 esercitava un cruente potere criminale ed il controllo del territorio, seminando lacrime e sangue. Il delitto è rimasto impunito ed i suoi responsabili si sono dileguati. Ma il loro gesto assassino non può non turbare per sempre le loro coscienze. Come turba le nostre coscienze. Anche per loro preghiamo nella speranza che il nostro perdono cristiano susciti (o abbia suscitato) in loro un vero pentimento. Quello che più offende la nostra coscienza civile è il sapere che ci sono soggetti che operano indisturbati nell’anonimato, progettano morte e decidono le sorti del nostro popolo.

Oggi, con il busto che collochiamo all’interno dell’area sacra del Santuario di Polsi, desideriamo onorare la memoria di don Giovinazzo. Ci auguriamo che il suo sacrificio non sia caduto nel nulla. Vittima innocente, pone seri interrogativi a quanti, devoti e fedeli, entrano in Santuario per pregare. Un luogo dal quale chi passa deve solo raccogliere e portare con sé sentimenti di pace ed il proposito di un sincero cambiamento di vita. E ricordarsi che la fede non si concilia con la ‘ndrangheta, che nessun motivo può giustificare la violenza e l’odio, ma è fermento di vita nuova, di un’umanità redenta dal sangue di Cristo. Il Dio nel quale crediamo ci viene manifestato attraverso un Crocifisso ed una croce che qui a Polsi gode di una devozione radicata e forte. Possa essere la Croce di Polsi simbolo di un ritorno alla vera fede per quanti vengono al santuario.

Ci tengo a precisare ancora una volta che il Santuario della Madonna della Montagna di Polsi appartiene solo al popolo fedele e alla devozione della gente di questa martoriata terra. Nessun altro se ne può appropriare in alcun modo. Ai fedeli devoti di questo Santuario dico: Non lasciamoci rubare questo inestimabile tesoro!

Il sacrificio di don Giovinazzo tocca tutto il clero diocesano. Ci consegna un’eredità difficile ed importante: da una parte l’impegno concreto, coraggioso e profetico da portare avanti senza riserve contro ogni forma di associazione mafiosa, dall’altra l’indicazione di un percorso pastorale di formazione delle coscienze e di annuncio della gioia del Vangelo della riconciliazione e del perdono come percorso ineludibile di rinascita del nostro territorio.

Dal santuario di Polsi deve partire un messaggio importante per la nostra chiesa locale: l’urgenza dell’annuncio del Vangelo della gioia che suscita la ricerca di nuovi stili di vita, che mettono al centro Gesù, “la pietra che i costruttori hanno scartato diventata la pietra d’angolo”. Il Signore che ha pagato con la vita la violenza e l’ingiusta condanna ci apre alla gioia del perdono, della risurrezione e della vita nuova.

Alla Madonna di Polsi, che una lunga tradizione di devozione e di fede ci consegna come Madre del Divin Pastore, affidiamo il futuro delle nostre famiglie, le attese e le speranze dei giovani, il grido di aiuto dei malati e degli anziani. A Lei chiediamo di renderci sempre più vigilanti e impegnati nella costruzione di una società più giusta e solidale.

 

 

 

 

 

 

 

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