11 Febbraio 2004 Viterbo. Muore, in circostanze ancora da chiarire, l’urologo Attilio Manca
Attilio Manca, giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (ME), fu trovato morto nella sua abitazione di Viterbo il 12 febbraio del 2004; fu rinvenuto seminudo sul letto, riverso in una pozza di sangue, il setto nasale deviato, il corpo pieno di macchie emostatiche.
Attilio lavorava nell’Ospedale Belcolle di Viterbo dove, uno dei primi in Italia, eseguiva interventi di prostatectomia radicale per via laparoscopica.
La vicenda trova contrapposti la procura di Viterbo da una parte, che nel 2011 archivia il caso come “disgrazia di droga”, come dichiarò lo stesso procuratore capo Alberto Pazienti alla conferenza stampa indetta dopo la chiusura delle indagini, e la famiglia che sostiene da sempre l’impossibilità di questa tesi. Attilio non era un drogato. Attilio era un ragazzo “pieno di vita, stimato dai suoi colleghi, con alcuni di questi era legato da un profondo rapporto di amicizia. Era un uomo credente, legatissimo alla sua famiglia, soprattutto con sua madre a cui confidava i suoi pensieri, le sue speranze, le sue disillusioni e in alcuni casi anche le sue premonizioni, come quando nell’estate del 2003 le aveva raccontato che durante la sua permanenza a Parigi un’indovina gli aveva pronosticato che sarebbe morto a 35 anni. Attilio però non gli aveva dato peso e aveva continuato a vivere intensamente la propria vita, amante della natura, delle passeggiate in montagna, del mare e delle gite in moto”.
La tesi della famiglia è che Attilio sarebbe stato ucciso perché “testimone scomodo, dopo aver operato il capo di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano. Lo direbbero quei due buchi sul braccio sinistro, quando Attilio era un mancino puro. Le siringhe, analizzate dopo otto anni, senza neanche le impronte di Attilio e sigillate col tappo salva-ago subito dopo l’uso. E poi i tabulati e la telefonata introvabile dalla Francia: risalente all’ottobre 2003. Proprio quando Attilio, a detta della madre, era in Costa Azzurra per un intervento, contemporaneamente all’operazione del boss alla prostata. La madre Angela Manca ricorda distintamente di aver parlato al telefono col figlio dall’estero, ma dai tabulati non risulta. Per tutti questi motivi, tramite indagini difensive, sperano di poter far riaprire il caso dalla procura nazionale antimafia”.
Articolo da: antimafiaduemila.com
La storia di Attilio Manca
di Lorenzo Baldo
Attilio Manca nasce a San Donà di Piave (VE) il 20 febbraio 1969 da genitori siciliani, Angelina Gentile e Gino Manca; suo fratello Luca nasce anch’egli a San Donà del Piave il 5 maggio 1972. Il padre di Attilio è un insegnante che risiede dal 1968 a Caorle (VE) in quanto gli è stata assegnata la cattedra nella cittadina veneta. Nel 1974 la famiglia Manca torna in Sicilia nella città natale: Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Attilio è un bambino sensibile, molto vivace e particolarmente intelligente, tutti i professori che nel corso degli anni hanno modo di insegnargli testimoniano la sua grande curiosità per tutto ciò che lo circondava.
Nel 1987 Attilio si diploma al Liceo Classico con 60/60, successivamente supera la prova selettiva per l’ammissione alla facoltà di medicina dell’Università Cattolica di Roma. Nel 1995 si laurea con 110 e lode. Quello stesso anno entra nella scuola di specializzazione di urologia diretta dal prof. Gerardo Ronzoni. Il professore, essendo a conoscenza delle sue grandi qualità, lo fa subito lavorare nel suo studio privato e nel contempo lo avvia immediatamente alla chirurgia, facendogli eseguire anche interventi chirurgici. Il rapporto tra Attilio e il prof. Ronzoni rimarrà sempre saldo fino alla fine, basato sulla stima e sul rispetto reciproco, ma anche su una reale componente affettiva.
Nel 1998, durante il servizio militare, Attilio scrive una lettera al prof. Ronzoni. La lettera non verrà mai spedita, la ritroveranno i genitori solamente alcuni anni dopo. “Ricordo quanto fui colpito dalla Sua persona quando La conobbi – scrive Attilio nella missiva – e con quale forza le sue parole dissodavano il fertile terreno della mia mente. Molte volte tornando a casa ripensavo a quelle parole, ai suoi gesti, alla filosofia di vita che attraverso questi si manifestavano e da cui mi sentivo rischiarato. Spesso avrei desiderato ringraziarla per questo, ma nel naturale rapporto tra “maestro” e allievo non sono contemplate fervide dichiarazioni di stima e di affetto, tanto più perché potrebbero dare adito in chi le ascolta a sterili illazioni di adulazione, in verità molto diffusa negli ambienti universitari. Ho deciso così di esprimerle la mia gratitudine e la mia ammirazione a distanza, per iscritto, sia per la circoscritta univocità dell’epistola, sia perché sentivo come un dovere manifestarle quanto scrivo: ogni lavoratore ha il diritto di conoscere cosa e quanto germoglia di ciò che semina”. “Il suo modo consapevolmente sereno di affrontare i problemi medici e non – sottolinea Attilio – la garbata compostezza nel trattare con gli inferiori, saldo nelle decisioni ma sempre e comunque disposto al dialogo per farsi seguire non per imposizione, ma per convinzione. L’incorruttibile solidità nei rapporti con i superiori, sempre pronto a difendere le sue idee senza mai venire a compromessi, anche a scapito di interessi personali. E sopra a tutto ciò, causa e conseguenza, linea conduttrice, la serafica tranquillità nel porsi di fronte alla vita stessa, caratteristica che si può trovare solo in quelle personalità in cui alla fiducia in se stessi è associata una grande consapevolezza di sé, delle proprie forze e delle proprie debolezze per trarne sicurezza dalle une e combattività dalle altre”. “Le sono grato di tutto ciò – conclude Attilio – perché mi ha permesso di affrontare con serenità la vita militare e mi sono di prezioso aiuto in quella trasformazione da “homo” a “vir” a cui tanti anelano, ma che soltanto pochi hanno la fortuna di conseguire. Riverenti saluti Attilio”.
Nel 1999, con il benestare del prof. Ronzoni, Attilio parte per Parigi dove vi rimane un anno per seguire proprio uno stage finalizzato all’apprendimento dell’intervento di prostatectomia radicale per via laparoscopica.
Nei primi sei mesi, presso il Servizio di Urologia del Prof. Richard dell’Università La Pitiè – Salpetriere, Attilio approfondisce lo studio delle tecniche chirurgiche nelle patologie tumorali di pertinenza urologica della chirurgia mini-invasiva per l’incontinenza urinaria femminile.
Nei mesi successivi si reca presso il Servizio di Urologia del Prof. Vallencien Institut Mutualiste Montsouris per apprendere le basi della tecnica laparoscopica e della prostatectomia radicale laparoscopica. In quel periodo partecipa come aiuto a decine di prostatectomie radicali laparoscopiche, a nefrectomie, tumorectomie renali, promontofissazioni, per via laparoscopica, nonché ad interventi chirurgici a cielo aperto e a procedimenti endoscopici e percutanei. Mentre presso il Servizio di Urologia del Prof. Botto – Hospital Foche approfondisce le tecniche di ricostruzione vescicale dopo cistectomia.
Agli inizi del 2001 Attilio si specializza sulla prostatectomia radicale laparoscopica con il massimo dei voti (50/50 e lode). Nel mese di marzo del 2001, con il prof. Ronzoni, esegue il primo intervento di prostatectomia radicale per via laparoscopica in Italia. Da quel momento insieme al suo professore (che nel frattempo gli fa avere un dottorato di ricerca) Attilio tiene corsi al Policlinico Gemelli di Roma per insegnare questo nuovo tipo di intervento a urologi provenienti da tutta Italia. Corsi che successivamente si terranno anche presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
Contemporaneamente Attilio partecipa ad alcuni congressi medici in Italia e in Francia insieme a eminenti luminari a livello internazionale. L’anno successivo Attilio si reca negli Stati Uniti, precisamente a Cleveland (Ohio), dove rimarrà alcune settimane per realizzare uno stage presso il Cleveland Clinic Urological Institute.
Nel 2002 vince il concorso presso l’ospedale Belcolle di Viterbo; ed è al Belcolle che l’undici novembre dello stesso anno intraprenderà la sua attività di urologo nel reparto diretto dal prof. Antonio Rizzotto.
Attilio è pieno di vita, stimato dai suoi colleghi, con alcuni di questi è legato da un profondo rapporto di amicizia, ed è anche amato e corteggiato da tante ragazze. Ma poche sono le storie d’amore che Attilio vive in quanto è alla ricerca della compagna ideale e non intende accontentarsi di rapporti occasionali.
È un uomo credente, legatissimo alla sua famiglia. Soprattutto con sua madre. Angelina è la “custode” di tanti momenti nei quali Attilio le confida i suoi pensieri, le sue speranze, le sue disillusioni e in alcuni casi anche le sue premonizioni, come quando nell’estate del 2003 le accenna che durante la sua permanenza a Parigi un’indovina gli aveva pronosticato che sarebbe morto a 35 anni.
Attilio però non gli aveva dato peso e aveva continuato a vivere intensamente la propria vita, amante della natura, delle passeggiate in montagna, del mare e delle gite in moto.
A febbraio del 2004, due giorni prima di morire, nel suo insopprimibile desiderio di vita, Attilio preannuncia ai suoi genitori la volontà di accendere un mutuo per acquistare una casa. Pochi giorni dopo la sua morte Angelina, prostrata dal dolore, chiede interiormente al figlio di darle un segno della sua presenza. Angelina è una donna fortemente credente ma è soprattutto una madre segnata dalla sofferenza. Entra nella stanza di Attilio, prende un libro dalla sua libreria e apre una pagina a caso. È il Manuale di Epitteto: “Non dir mai di nessuna cosa: «l’ho perduta», ma: «l’ho restituita». È morto tuo figlio? È stato restituito. È morta tua moglie? È stata restituita. «Mi è stato tolto il podere»: ebbene, anche questo è stato restituito. «Ma chi me l’ha portato via è un malfattore». E a te cosa importa attraverso chi ne abbia chiesto la restituzione colui che te lo aveva dato? finché ti concede di tenerlo, abbine cura come di un bene che non è tuo, come i viaggiatori della locanda”.
Attilio le ha risposto.
Un anno dopo la morte di Attilio, al liceo ginnasio Luigi Valli di Barcellona P.G. (frequentato da Attilio negli anni ’80), viene istituita una Borsa di Studio a suo nome. Nelle parole del prof. Gerardo Ronzoni è racchiusa tutta l’essenza del ricordo per un allievo che lui sentiva come un figlio. “Ho conosciuto il Dott. Attilio Manca – esordisce il prof. Ronzoni – quando era ancora studente in medicina al 5° anno del Corso di Laurea. Mi fu presentato dal Professore di Chimica come l’unico studente nella storia della Facoltà con una conoscenza della chimica dello stesso livello del docente esaminante”. “Grazie al suo aiuto – evidenzia il professore – ho potuto iniziare ad operare per via laparoscopica il cancro della prostata, grazie al suo impegno ed alle sue capacità è stato possibile organizzare dei corsi di laparoscopia per chirurghi. Il suo contributo è stato sempre utile per risolvere complessi casi clinici ed interventi ad alto rischio. Il Dott. Manca si è sempre dimostrato disponibile ed umano verso ogni paziente, capace e collaborativo, preciso e sicuro al tavolo operatorio”. “La sua precoce scomparsa – termina il professore – rappresenta una grave perdita per la medicina italiana, per me la perdita di un amico, di un figlio e del miglior allievo che abbia mai avuto. L’istituzione a suo nome di una Borsa di Studio rende onore a lui ed alla sua famiglia che lo ricorda nel modo più giusto e concreto. In fede prof. Gerardo Ronzoni”.
L.B.
Aggiornamento del 12/02/2011
Articolo del 3 Luglio 2006 – Fonte: terrelibere.org
L’omicidio dell’urologo Attilio Manca. L’asse Corleone-Messina
di Antonio Mazzeo
C`è più di un legame tra l`operazione alla prostata a Marsiglia del boss Bernardo Provenzano (allora latitante) e la morte a Viterbo dell`urologo barcellonese Attilio Manca. Nello sfondo i traffici di morte di una delle cosche di mafia più potenti di tutta la Sicilia.
Si nasconde a Barcellona Pozzo di Gotto la chiave per svelare due dei misteri di mafia più inquietanti degli ultimi anni. Primo mistero: l’intervento chirurgico a cui si sottopose in Francia il superlatitante Bernardo Provenzano nell`ottobre del 2003. Secondo mistero: l’omicidio in un appartamento di Viterbo – il 12 febbraio 2004 – dell’urologo barcellonese Attilio Manca. Il suo cadavere fu rinvenuto seminudo sul letto, riverso in una pozza di sangue, il setto nasale deviato, il corpo pieno di macchie emostatiche. Stando agli inquirenti, Manca – mancino – si sarebbe iniettato due volte nel polso sinistro una miscela letale di “eroina, tranquillanti e alcol”. E il caso archiviato.
Personaggi differenti, mondi distanti, ma un’unica storia, forse coincidente. Provenzano giunse in Francia l’1 ottobre 2003. Dopo aver trascorso una ventina di giorni in un appartamento di Marsiglia, il 24 ottobre venne ricoverato nella clinica Casamance di Aubagne, sotto il nome di Gaspare Troia. Provenzano subì una delicata operazione alla prostata e la degenza si protrasse sino al 31. Poi rientrò a Marsiglia e il successivo 4 novembre era già in Sicilia.
Attilio Manca è uno dei primi urologi in Italia ad eseguire un intervento alla prostata per via laparoscopica, una tecnica appresa nell`ospedale Montsouris di Parigi e che si realizza insufflando anidride carbonica nell`addome attraverso l`ombelico. Secondo i genitori, mai rassegnatisi agli esiti delle indagini sin troppo superficiali, potrebbe essere stato Attilio a visitare e assistere il boss in quella trasferta d’oltralpe e successivamente. L’ipotesi dei Manca è rafforzata anche sulla scorta di segnalazioni fatte loro in ambiente barcellonese. All’insaputa dei colleghi, il giovane urologo aveva effettuato un viaggio in Costa Azzurra proprio nell’ottobre 2003. In una telefonata egli aveva spiegato al padre che si trattava di un “viaggio di lavoro finalizzato ad effettuare una visita per un intervento chirurgico”. In una successiva comunicazione telefonica, il medico aveva detto ai genitori di trovarsi “dalle parti di Marsiglia”.
Una missione volutamente tenuta nell’ombra. Come misterioso il comportamento dell’urologo negli ultimi giorni prima della sua morte. L’11 febbraio 2004 aveva fissato una cena con il professore Gerardo Ronzoni, primario di Urochirurgia al Policlinico di Roma, alla quale però non si era presentato. La mattina aveva chiamato i genitori, chiedendo loro di riparare una moto tenuta a Terme Vigliatore. “Attilio ci parve preoccupato”, raccontano i coniugi Manca. “Altre volte ci aveva fatto intendere di avere preoccupazioni legate alla professione. Ma quel colloquio ci parve strano. Dopo la sua morte portammo in un’officina la moto. Funzionava regolarmente”.
Preoccupato dunque, non depresso al punto di decidere il suicidio, come ipotizzato in un primo momento dagli inquirenti che non avevano notato l’ineliminabile contraddizione con l’uso della mano destra, per lui innaturale. Attilio Manca aveva in programma un periodo di volontariato in Bolivia con Medici senza Frontiere, a cui sarebbe seguito un training a Cleveland (Stati Uniti), presso un istituto altamente specializzato. Il problema è però che di quella telefonata non c’è traccia nei tabulati in mano agli inquirenti. “C’è un’altra telefonata abbastanza lunga che non compare nei tabulati, fatta dalla madre al figlio l’8 febbraio”, dichiara l’avv. Fabio Repici, legale dei coniugi Manca. Misteri nel mistero di una morte violenta.
Ugo Manca è cugino di primo grado di Attilio e abita accanto alla casa dei genitori. È stato recentemente condannato dal Tribunale di Barcellona a nove anni di reclusione per traffico di stupefacenti nel procedimento Mare Nostrum. È sua l’unica impronta presente nella casa di Viterbo in cui venne ritrovato il corpo dell’urologo. Così lo descrive l’ex collaboratore di giustizia Maurizio Bonaceto: “è il braccio destro di Giulio Calderone e si occupa del ritiro della droga e degli eventuali trattamenti della stessa. Gli ordinativi, il prezzo e la ripartizione delle zone di spaccio sono gestite da Giulio in accordo con Manca e con il fratello Mario Calderone, elemento indispensabile per le frequentazioni che ha a Barcellona. Mario Calderone è il factotum dell’avvocato Giuseppe Santalco”. Quest’ultimo è figlio dello scomparso sen. Carmelo, ex sindaco Dc della città del Longano. Imputato per mafia al processo Mare Nostrum, il legale è tra gli esponenti di punta della locale Margherita. A Barcellona – secondo la Questura di Messina – Giulio Calderone avrebbe militato nell’organizzazione di estrema destra “Terza Posizione”, per poi candidarsi alle elezioni comunali del 1985 per l’MSI-DN insieme al boss mafioso Giuseppe Gullotti, all’odierno sindaco Candeloro Nania ed a Giuseppe Buzzanca, segretario provinciale di An. Tra i neofascisti del Longano in odor di mafia, Rosario Cattafi, legato da lunga amicizia ad Ugo Manca e sottoposto sino al 2005 alla misura antimafia della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno “per la pericolosità dei suoi contatti, particolarmente intensi proprio nella stagione delle stragi” con Benedetto Santapaola, Giuseppe Gullotti e Pietro Rampulla. Secondo Giovanni Brusca, fu Gullotti a consegnargli il telecomando per l’attentato di Capaci, mentre Rampulla, artificiere ‘nero’ di Cosa nostra, allestì l’ordigno.
Il patto di sangue Corleone-Barcellona si sviluppò sotto l’ala protettiva di Provenzano, latitante tra Bagheria e il messinese. Sin dalla fine degli anni ’70 in questa provincia si insediarono vere e proprie “cellule” corleonesi. Per la gestione dei traffici di droga e degli appalti, fu inviato a Messina Michelangelo Alfano, imprenditore vicino a Leonardo Greco, capomandamento di Bagheria. Le cosche della vicina Milazzo sono tra le più fedeli alleate dei clan nisseni diretti da Giuseppe Madonia: il cugino Luigi Ilardo fu incaricato direttamente da Provenzano di contattare i colletti bianchi del triangolo Bagheria-Messina-Barcellona. “Ricordo che i fratelli Sebastiano e Pietro Rampulla si nascosero in una masseria di Antonio Ferro, tra Gela e Butera”, raccontò Luigi Ilardo al tenente colonnello Riccio dei Ros, qualche giorno prima di essere assassinato. Il mafioso Antonio Ferro era uno dei pochi a conoscere l’identità del “ragioniere” che incontrava periodicamente a Bagheria nella fabbrica di Leonardo Greco. Dal “ragioniere” si recava pure Santapaola, già latitante nel barcellonese, arrestato nel ’93 a Caltagirone a due passi da una tenuta dei Rampulla. Quel “ragioniere” era Provenzano…
Articolo di La Repubblica del 27 Settembre 2008
Barcellona e la sua gemella unite dalla morte di Manca
di Gian Mauro Costa
«Limpia, esplenderosa»~ Con questo enfatico sfoggio di aggettivi Jaime Torrents de Pando, direttore di Radio Barcelona Eaj descrive al suo sindaco nell’aprile 1957 la cittadina siciliana che ha appena visitato su incarico dello stesso alcalde e che porta l’identico nome della metropoli spagnola: Barcellona, appunto, col fardello aggiuntivo di Pozzo di Gotto, il comune a cui fu unificata nei primi dell’Ottocento su decreto regio. Torrents de Pando, che ha svolto il compito di invitare la “omonima” ai festeggiamenti in terra catalana della Vergine della Mercede, si spinge oltre, in ossequio alla retorica dell’epoca: crede di identificare col Montjuic – che sovrasta Barcellona – il promontorio che si erge vicino al mare della cittadina tirrenica.
A distanza di mezzo secolo, il bilancio dell’improponibile e azzardato gemellaggio è sotto gli occhi di tutti. Ma adesso, in questi giorni, nelle vetrine della Casa del Llibre di Paseig de Gracia, un volume, che reca in copertina il “promettente” sfondo del Trionfo della Morte di palazzo Abatellis, rievoca, ai catalani di passaggio, l esistenza della sorellastra dimenticata. Il contenuto del libro, nonostante si legga anche qui nella premessa che “la Sicilia sia bella, straordinariamente bella”, si dispiega a partire dall’immediato, successivo, “però”. Un “però” che non spinge certo a motivi di orgoglio o di rivendicazione di quel ceppo comune che pare sia il retroscena storico della nascita della Barcellona siciliana, nel sedicesimo secolo, a opera di un nucleo trapiantato di catalani.
Il libro in questione è stato scritto da un giornalista, Joan Queralt ed è frutto di un lavoro puntiglioso da cronista raccontato con il respiro del narratore. Il titolo è “El enigma siciliano de Attilio Manca”, sottotitolo “verdad y justicia en la isla de Cosa Nostra”. E subito la prima sorpresa: chi ricorda Attilio Manca? Chi è a conoscenza di questo Carneade tra le vittime della mafia tra l’altro ancora non riconosciute ufficialmente come tale? Eppure la sua storia fa capire dei fatti e misfatti di Cosa Nostra molto più della grandi inchieste giudiziarie, dimostra, in modo angoscioso, come la vita di un giovane brillante possa bruscamente essere posta sotto sequestro dagli interessi delle cosche e precipitare verso la catastrofe.
«Me l’hanno ammazzato due volte» ripete affranta Angela Gentile, insegnante in pensione, la madre di Attilio che, insieme col marito e grazie all’aiuto di un giovane e tenace avvocato, ha testardamente lottato in questi anni per impedire frettolose archiviazioni e far emergere la verità sulla fine di suo figlio. Ammazzato due volte perché oltre a ucciderlo fisicamente, la mafia ha cercato di segnarne la morte con un marchio che ne sporca l’immagine di «bravo ragazzo, legato alla sua famiglia, alla sua città, appassionato al suo lavoro».
Attilio Manca viene trovato cadavere nella mattina del 12 febbraio del 2004 nel suo appartamento di Viterbo. Nella città laziale lavora come medico urologo nel locale ospedale e, già a 34 anni, ha conquistato la stima incondizionata del suo primario e le premesse di una carriera prestigiosa. Si è specializzato a Parigi nella tecnica non invasiva degli interventi chirurgici per i tumori alla prostata. E questo, Attilio non lo sa, segnerà incredibilmente la sua condanna. Nel polso sinistro del giovane medico gli investigatori scorgono due buchi. A terra, accanto al corpo una siringa con tracce di un miscuglio micidiale di droghe. Poco conta che Attilio, a detta di tutti coloro che l’hanno conosciuto, amici colleghi e parenti, non abbia mai fatto uso di stupefacenti. Poco conta che fosse tra l’altro mancino e quindi nell’impossibilità di iniettarsi nel braccio sinistro la sostanza che l’ha ucciso. La macabra messinscena convince gli investigatori di Viterbo e il caso viene rubricato come il decesso di un tossicodipendente.
Le incongruenze, le contraddizioni, gli episodi misteriosi si ammucchiano uno dopo l’altro ma per i genitori sono soltanto di misero conforto alla loro certezza: Attilio è stato ucciso. Ma da chi? E per quale motivo? Il mistero della sua morte, all’inizio, provoca una vera e propria mobilitazione tra i suoi amici che si affiancano alla famiglia alla ricerca di una verità. Si viene a sapere che nei giorni precedenti alla sua scomparsa, Attilio aveva perso la sua abituale serenità, appariva turbato, timoroso. Ma neanche alle persone a lui più vicine riusciva a confidare cosa lo tormentasse. Solo qualche frase sibillina: «Se non fossi un medico, non mi troverei in questa situazione». Affiorano episodi, si passano al setaccio particolari considerati, prima della disgrazia, insignificanti.
Il giorno precedente alla sua morte, Attilio telefona a sua madre: le chiede, con urgenza, di far revisionare la sua motocicletta che si trova a Barcellona, nella villa a mare. Perché questa impellenza in un giorno di febbraio, distante mesi dal suo prossimo rientro a casa per le vacanze estive? Forse un messaggio, forse l’indicazione criptata che si trovasse da quelle parti e non a Viterbo? Un vero e proprio doloroso rompicapo per questo drappello improvvisato di detective che si sostituisce agli investigatori ufficiali. E c’è anche una figura ambigua, per molti versi inquietante, che emerge dalla ricostruzione dell’ ultimo periodo della vita di Attilio: un cugino, una persona alla quale era molto legato negli anni dell’infanzia, ricompare con frequenza accanto al giovane medico. Un cugino che ha avuto guai con la giustizia, e non di ordinaria amministrazione se nei presunti capi d’imputazione figurano riferimenti a mafia e traffici di droga. Un cugino che si è affidato ad Attilio, a Viterbo, per un intervento di tipo urologico.
Le nebbie cominciano a diradarsi un anno dopo, nel febbraio del 2005, quando i genitori leggono sui giornali un passo delle dichiarazioni di un pentito, Francesco Pastoia, poi suicidatosi in carcere, secondo il quale il boss dei boss Bernardo Provenzano, malato e operato di prostata, fu assistito da un urologo in uno dei suoi covi. è una specie di illuminazione: da quel momento ogni tassello può essere ricomposto in un unico mosaico. Un mosaico che, secondo i genitori, disegna questo scenario: Attilio viene contattato dalla cosca di Barcellona Pozzo di Gotto, alleata del superboss Provenzano, per curare il grande latitante. Attilio non conosce l’ identità di quello strano paziente costretto a ricorrere a cure clandestine. O forse sa ma è costretto a tacere. Sta di fatto che a un certo punto viene a sapere o forse si ribella. E la sua fine è segnata.
A suffragare quella che non appare come una semplice ipotesi c’è anche la constatazione della coincidenza tra quelle che si scopriranno essere le date dell’operazione a Marsiglia di Provenzano e i giorni che Attilio trascorse in Costa Azzurra per una improvvisa vacanza. La tenacia sempre più solitaria dei coniugi Manca alla fine viene premiata: il magistrato di Viterbo respinge più volte la richiesta di archiviazione e ordina indagini suppletive che adesso sono in corso con ritmo finalmente più serrato. A partire dall’analisi su impronte e tracce trovate nell’ appartamento di Attilio e che potrebbero confermare la presenza, nei giorni della sua morte, di esponenti della cosca barcellonese.
Queralt oltre che ricostruire con intensità la vicenda Manca, inquadra, con abilità da consumato mafiologo, anche la storia e l’ascesa del clan barcellonese nelle gerarchie di Cosa Nostra. Alleati di Provenzano da una parte e dei Santapaola dall’altra, i mafiosi di Barcellona, anche grazie a una rete di potenti collusioni col mondo imprenditoriale e politico, acquistano peso specifico e assoluto sempre più ingombrante. Secondo Queralt oggi Barcellona può considerarsi la Corleone del 2000, spietata, agguerrita, pronta a espandersi come un cancro rapido e micidiale grazie alla ormai vicina Madre di tutti gli Appalti: la costruzione del Ponte sullo Stretto. Barcellona, insomma: limpia, esplenderosa~ y terrible.
L’enigma di Attilio Manca
Verità e giustizia nell’isola di Cosa Nostra
di Joan Queralt
Sullo sfondo di una terra dove la mafia ammazza e umilia, la lotta per la verità e la giustizia fa emergere un segreto inconfessabile, legato alla latitanza di Bernardo Provenzano. Una rete di complicità. Un intervento chirurgico che non esige testimoni.>
“L`Enigma di Attilio Manca” 23 ottobre 2010 – Presentazione del libro a Milazzo (Me) parte 1/7
L’enigma di Attilio Manca – Intervista con la mamma Angelina
Gennaio 2012 – Fonte: isiciliani.it
“Mio figlio ucciso dalla mafia. E non solo”
di Luciano Mirone
Angela Manca da otto anni lotta per ottenere verità e giustizia per la morte del figlio Attilio
Angela Manca chiede che si indaghi a trecentosessanta gradi su quello strano viaggio che Bernardo Provenzano – sotto il falso nome di Gaspare Troia – compì a Marsiglia fra la primavera e l’autunno del 2003 per operarsi di cancro alla prostata. Vuole che si sveli quella fitta rete di complicità che ha protetto il boss corleonese soprattutto a Barcellona Pozzo di Gotto,nel periodo in cui, travestito da frate, si nascondeva in un convento della zona.
Perché lei, Angela Manca, assieme al marito Gino e all’altro figlio Gianluca, è convinta che la morte di Attilio sia legata proprio a quell’intervento alla prostata effettuato in gran segreto durante la latitanza di “Binnu” Provenzano: o attraverso un intervento per via laparoscopica che Attilio e pochi altri medici in Italia, a quel tempo, erano in grado di fare, o attraverso un’assistenza post operatoria che potrebbe essere avvenuta tra la Sicilia e il Lazio, auspice quella mafia di Barcellonache avrebbe indotto l’urologo a prestare la sua opera per quel signore con l’accento palermitano di cui Attilio avrebbe sconosciuto la vera identità.
Da otto anni il Pubblico ministero di Viterbo, Renzo Petroselli, sostiene che Attilio Manca, trentaquattrenne urologo di fama,all’epoca in servizio all’ospedale “Belcolle” di Viterbo, si sia suicidato con una micidiale overdose di eroina, alcol e tranquillanti. Ma non ha prove. Anzi no, ha due buchi e due siringhe da esibire.
Per ben tre volte ha chiesto l’archiviazione del caso, puntualmente respinta dal Gip, che l’ultima volta – fatto alquanto singolare per un “suicidio” – si è preso un anno e mezzo per decidere. Segno che qualcosa non quadra neanche fra gli stessi magistrati laziali.
Nello scorso gennaio, finalmente, il Giudice per le indagini preliminari, Salvatore Fanti,ha stabilito che le investigazioni devono continuare, da ora in poi non più concentrate sulla parola suicidio, ma sulla parola overdose. Dunque, otto anni dopo, Attilio Manca non è più un suicida-drogato, ma un drogato e basta.
Adesso però ci sono sei indagati. Che secondo i magistrati viterbesi, avrebbero fatto il semplice lavoro di un pusher. Cinque (fra cui Ugo Manca, cugino di Attilio) sono di Barcellona Pozzo di Gotto, una di Roma. Sarebbero stati loro a fornire l’eroina per l’overdose fatale.
Peccato che non ci siano prove neanche sulla tossicodipendenza del giovane medico: dagli esami, dalla ricognizione cadaverica, dall’autopsia e dalle numerose testimonianze rilasciate da colleghi, infermieri, amici e parenti è emerso con chiarezza che Attilio non era un tossicodipendente né frequente né occasionale. E allora?
Per capire le battaglie di questa madre che somiglia tanto ad altre madri eroiche della storia dell’antimafia, bisogna raccontare la scena della morte e le grossolane omissioni che ne sono seguite.
Bisogna riportarsi alla mattina del 12 febbraio 2004, quando nell’appartamento di Viterbo viene trovato morto Attilio Manca. È adagiato sul piumone del letto matrimoniale, per terra c’è una larga chiazza di sangue, una parte del parquet è divelta.
Il giovane urologo – che dorme abitualmente in pigiama – indossa soltanto una maglietta, per il resto è nudo. Non sono mai state ritrovate le mutande e i calzini (neanche nel box adibito alla raccolta degli indumenti sporchi). Appesi a qualche metro di distanza una giacca, una camicia e una cravatta. Su un tavolo – fatto assolutamente inusuale, secondo i familiari– sono riposti alcuni strumenti per fare le operazioni. In cucina vengono trovate due siringhe con il tappo riposto negli aghi.
Ma la scena raccapricciante riguarda il corpo pieno di sangue. Il medico ha il setto nasale deviato, il volto tumefatto, le labbra gonfie e presenta due buchi al braccio sinistro.
Il dottore del 118 fa un esame esterno sul cadavere e scrive che il cadavere è pieno di lividi, soprattutto gli arti superiori ed inferiori, come se qualcosa (una corda? dei lacci?) avesse fatto pressione su essi.
Prima contraddizione. Nel referto dell’autopsia, eseguito dalla dottoressa Ranaletta, moglie del prof. Rizzotto, primario del reparto di Urologia dell’ospedale di Viterbo, di ecchimosi non si parla. Contrariamente a quanto documentato perfino dalle foto, non si parla neanche di setto nasale deviato e di volto tumefatto.
Seconda contraddizione. Attilio Manca era un mancino puro, eseguiva qualsiasi cosa con la mano sinistra. Perché quei due buchi sul braccio sinistro?
Terza contraddizione. Quei buchi se è fatti lui? E quelle siringhe le ha utilizzate lui? Perché gli investigatori scartano fin dalle prime ore la tesi dell’omicidio camuffato da suicidio? Perché non fanno rilevare le eventuali impronte digitali lasciate sulle siringhe, malgrado l’insistenza dell’avvocato Fabio Repici, legale dei Manca? Da otto anni quelle siringhe sono sigillate dentro una busta di cellophane e soltanto adesso il Gip ha disposto una perizia.
Quinta contraddizione. Perché non si trovano le mutande e i calzini di Attilio?
Sesta contraddizione. Nell’appartamento dell’urologo, la Polizia scientifica rileva cinque impronte digitali. Quattro “anonime” (dunque appartenenti a gente estranea alle amicizie di Attilio), ed una appartenente al cugino Ugo Manca. Quest’ultima viene trovata su una mattonella del bagno, in un posto dove, per via del vapore acqueo, secondo pareri di autorevoli esperti, le impronte si distruggono dopo qualche ora. La madre di Attilio giura di avere pulito con cura soprattutto il bagno poche settimane prima della morte del figlio, durante le vacanze di Natale.
Ugo invece spiega che è stato in quell’abitazione oltre un mese prima – ospite del cugino –per un intervento di varicocele. Dopodiché, sostiene, non è più entrato nella casa di Attilio. Delle due l’una: o l’impronta è vecchia di oltre un mese o è recentissima.
Settima contraddizione. Perché, dopo il ritrovamento del cadavere, Ugo si precipita a Viterbo? Perché si reca immediatamente dal Pubblico ministero Petroselli per chiedergli il dissequestro dell’appartamento? Lui dice che deve prendere gli abiti con i quali bisogna vestire la salma. Chi l’ha incaricato? Nessuno, dicono i genitori di Attilio. Gianluca addirittura lo redarguisce con durezza dal prendere iniziative del genere.
Nelle stesse ore, anche da Barcellona, qualcuno si affretta a chiedere il dissequestro dell’appartamento. A telefonare ad un alto magistrato di Roma è la madre di Ugo Manca. A che titolo? Chi l’ha incaricata? Anche in questo caso i genitori di Attilio smentiscono. Chi ha consigliato alla donna il nome del magistrato romano? Alla fine Gianluca evita il dissequestro dell’appartamento e compra gli abiti per rivestire la salma.
Ottava contraddizione. La presenza a Viterbo, nei giorni che precedono la morte di Attilio, di un altro affiliato alla mafia barcellonese, Angelo Porcino.Secondo il pentito Carmelo Bisognano, Porcino è un boss di primo piano della cosca barcellonese. Perché è andato nella città laziale poco tempo prima della morte dell’urologo? Attilio Manca incontra Porcino? Non si sa neanche questo. Ufficialmente risulta che Porcino – titolare di una sala di video giochi – non possiede un telefono, né fisso né cellulare.
Nona contraddizione. “Ci sono episodi incredibili”, dice la madre dell’urologo, “non tenuti assolutamente in considerazione: mentre Ugo Manca, nel periodo della morte di Attilio, si trova ufficialmente a Bologna, il suo cellulare risulta a Bagheria. Anche su questo gli inquirenti non hanno fornito spiegazioni”.
Fin dalle prime ore, dunque, emergono delle situazioni particolarmente anomale, non proprio semplici coincidenze.
“Una volta mi sono arrabbiata col Pubblico ministero. Gli ho gridato: ‘Ma lei si rende conto che sta insabbiando le indagini?’. Ha detto che mi avrebbe querelato, non l’ha fatto”.
Ma per capire meglio questa storia, bisogna recarsi nel luogo dove la famiglia di Attilio Manca vive da sempre, Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, grosso crocevia del traffico di armi e di droga, punto di coagulo tra Cosa nostra, politica, massoneria e servizi segreti deviati.
Angela Manca è una donna dolcissima. Vive col marito Gino in un palazzetto tardo ottocentesco ubicato nel cuore di questo paesone di cinquantamila abitanti, al centro di in triangolo urbano che comprende il circolo “Corda fratres”, il municipio e l’abitazione del boss Giuseppe Gullotti.
La “Corda fratres” non è il classico circolo di paese dove si gioca a carte e ogni tanto si organizza una conferenza. È un sodalizio esclusivo che “serve” a un sacco di gente per fare carriera. E fin qui normale amministrazione, o quasi.
La cosa diventa paradossale se all’interno dell’associazione ci trovi iscritto un potente capomafia come Gullotti e un personaggio inquietante come Rosario Cattafi, accusato di essere il mandante esterno della strage di Capaci, poi prosciolto, assieme a Berlusconi e Dell’Utri, ma sottoposto a misure di sicurezza per cinque anni con l’obbligo di soggiorno a Barcellona. Due tipiche hanno diviso quelle stanze con l’ex ministro Domenico Nania, con il cugino Candeloro Nania, sindaco di Barcellona; con il presidente della Provincia Giuseppe Buzzanca, e con il Procuratore generale di Messina Franco Cassata, vero animatore della “Corda”, da sempre residente a Barcellona, e attualmente sotto inchiesta presso la Procura di Reggio Calabria per concorso esterno in associazione mafiosa e per avere scritto e diffuso un dossier anonimo pieno di veleni contro il professore universitario Adolfo Parmaliana, suicidatosi per disperazione dopo aver denunciato il verminaio che da anni infesta Barcellona.
Il municipio si affaccia sul torrente Longano, un corso d’acqua che i politici locali, alcuni anni fa, hanno pensato bene a coprire con una striscia d’asfalto. Nello scorso novembre il torrente è esondato con conseguenze devastanti. Ma questo edificio è famoso, secondo una relazione della Commissione prefettizia, “per le collusioni fra alcuni assessori e consiglieri comunali del Pdl con Cosa nostra”. Eppure né il governo di centrodestra né quello di centrosinistra si sono permessi di sciogliere il Consiglio comunale e la Giunta, specie dopo che è stata approvata all’unanimità la costruzione di un mega Parco commerciale proprio sui terreni di Saro Cattafi.
Anche la casa del boss Gullotti è a pochi metri dall’appartamento dei Manca. Qui il capomafia ha ospitato Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano, qui assieme ai boss corleonesi ha disegnato la strategia eversiva più devastante del dopoguerra: la strage di Capaci eil delitto del giornalista Beppe Alfano.
Si trovano proprio a due passi dalla casa dei Manca le “centrali” del potere barcellonese, non cose di poco conto, ma entità collegate fra loro in maniera spudoratamente chiara, con ramificazioni lontane. Come a dimostrare che in Sicilia bene e male coesistono nel giro di pochi metri, di pochi centimetri addirittura.
Il palazzetto ospita due rami della dinastia Manca: in un appartamento vive la famiglia di Gino, in un altro la famiglia del fratello Gaetano.
Dal 2004 queste due famiglie, da sempre ai ferri corti, sono in guerra: da quando Ugo Manca, figlio di Gaetano,è implicato nella morte dell’urologo.
Non è uno qualsiasi Ugo Manca: temperamento piuttosto violento, in gioventù è stato vicino ai gruppi di estrema destra, risulta organico alla cosca barcellonese. Condannato in primo grado al processo “Mare nostrum” per traffico di droga, è stato assolto in appello.
Anche lui, dicono i bene informati, è amico di famiglia del Procuratore Cassata. “Il quale”, secondo l’avvocato Repici, “dopo l’assoluzione di Ugo in appello, per un banale vizio di forma non ha presentato neanche ricorso in Cassazione”.
Angela Manca è seduta nelsalotto di casa. Ha sessantasette anni ed è una docente di biologia in pensione, il marito, dieci anni più grande di lei,è un ex insegnante di lingue. Gianluca fa l’avvocato e di anni ne ha quaranta. Una famiglia della media borghesia siciliana che prima della morte di Attilio viveva una vita tranquilla, senza sapere cosa fosse la mafia.
Dal 12 febbraio 2004 è cambiato tutto.
È una donna dolce e perbene, lucida anche. Determinata ad andare fino in fondo. Anche se è pervasa da un dolore indicibile, pesa le parole e non va mai sopra le righe. Adesso lei, Gino e Gianluca vivono solo per ottenere verità e giustizia.
Da quando accusa la mafia, la famiglia Manca è rimasta sola. Angela e Gianluca appaiono i più energici, Gino il più sensibile, ma quando c’è da organizzare qualcosa diventano una cosa sola.
In certi ambienti li considerano dei pazzi, dei visionari, dei calunniatori. Loro vanno avanti lo stesso, anche perché nel frattempo attorno a loro si è creato un movimento spontaneo che chiede, anche mediante facebook, che non vengano chiuse le indagini sulla morte di Attilio. “Una cosa bellissima che ci fa sentire meno soli. Forse è stato grazie a queste pressioni che il Gip ha deciso di respingere l’ultima richiesta di archiviazione”.
Da alcuni mesi i genitori dell’urologo sono alle prese con l’ennesimo problema: un gas urticante e nocivo (secondo i carabinieri e i Vigili del fuoco), che qualcuno immette nella loro abitazione durante le ore notturne. “Evidentemente qualcuno vuole che scappiamo, ma si sbaglia: resteremo qui perché questa è la casa di Attilio”.
Tanti i ricordi che si concentrano, tante le sensazioni, tante le emozioni. Per un po’ tocchiamo la corda dei sentimenti. Attilio che primeggia a scuola. Attilio che traduce senza vocabolario le versioni di latino e di greco. Attilio che a quindici anni è un campioncino di basket. Attilio che vuole fare informatica. Attilio che si iscrive in Medicina all’Università cattolica del Sacro cuore di Roma. Attilio che racconta le barzellette su Totti. Attilio che, concluso il tirocinio con il prof. Gerardo Ronzoni, un luminare nel campo dell’urologia, vuole trasferirsi a Messina.
“Intorno al 2002 aveva saputo che c’era un posto. Aveva presentato la domanda. Bonariamente gli dissero: ‘E’ inutile, c’è il cugino di un senatore barcellonese, il posto è suo’. A quel punto optò per Viterbo”.
Poi Angela mette insieme i fatti, li ordina e li elabora.
“La morte di Attilio”, dice, “è avvenuta in una regione dove la mafia è sbarcata da alcuni anni e la massoneria comanda indisturbata grazie ai potenti collegamenti di cui dispone”.
“All’inizio non ci fecero vedere neanche il cadavere. È meglio che lo ricordiate com’era, spiegarono garbatamente il prof. Rizzotto e mio nipote Ugo Manca. All’inizio ci dissero che era morto per un aneurisma. Quando ci parlarono di suicidio, capii che lo avevano ammazzato. Addirittura sostennero che il setto nasale era stato deviato dal telecomando poggiato sul letto, dopo che Attilio, stordito dall’overdose, c’era andato a finire con la faccia. Dalle foto, invece, si vede il telecomando sotto il braccio. E poi, come può un telecomando poggiato su un piumone, fracassare la faccia di un uomo?”.
“Attilio non voleva neanche il vino a tavola durante la settimana: ‘Devo essere sobrio, quando vado in sala operatoria devo essere tranquillo. Come si poteva fare l’eroina e a quei livelli?”.
“Mi chiedo perché è stata chiamata la moglie del prof. Rizzotto a fare l’autopsia. Non era la persona adatta: conosceva bene Attilio,ci sono delle foto di una festa da ballo in cui addirittura ballano insieme. E poi era la moglie di un primario alle cui dipendenze lavorava mio figlio. Il prof. Rizzotto era stato interrogato come testimone, non era giusto che fosse proprio sua moglie a fare l’autopsia. Un’autopsia condotta in modo veloce, sommario e approssimativo. I miei tre fratelli, che aspettavano l’esito dell’esame autoptico, possono testimoniare: il professorRizzotto passeggiava dietro la porta dove la moglie faceva l’autopsia, Ugo Manca pure. Dicevano di fare presto perché si doveva trasferire la salma in Sicilia. Manoi non avevamo fatto alcuna pressione”.
Perché insistete sulla pista che porta a Provenzano? “Una settimana dopo, mentre siamo al cimitero, si presenta un signore, Vittorio Coppolino, papà di Lelio Coppolino, un intimo amico di Attilio. Ci ferma e ci dice: ‘Siete sicuri che vostro figlio non sia stato ammazzato perché ha visitato Bernardo Provenzano?’. Non avevo idea di chi fosse Provenzano, e pensai: ‘Ma questo che dice?’”.
“L’ultimo Natale (quello del 2003, un mese prima della sua morte) Attilio lo aveva passato con Lelio. Sono convinta che in quel periodo Attilio avesse confidato alcuni segreti su Provenzano, comprese le complicità barcellonesi, a Lelio Coppolino e a qualche amico vicino a Ugo Manca”.
“Dopo un anno incontro nuovamente il papà di Lelio: ‘Hai visto che avevo ragione? La Gazzetta del Sud parla dell’operazione di Provenzano’. Mi porta il giornale, ma stranamente manca la pagina che mi interessa. Gli telefono: ‘Vittorio, perché mi hai dato il giornale con un foglio mancante?’. E lui: ‘L’ho portato a Lelio, l’avrà strappata per accendere il fuoco’. Recupero il quotidiano e leggo: il pentito Francesco Pastoia, ex braccio destro di Provenzano, dichiara: ‘Un urologo siciliano ha visitato Bernardo Provenzano nel suo rifugio’. Da quel momento mi si sono aperti scenari del tutto nuovi”.
“Nei giorni che precedono la sua morte, Attilio è angustiato da qualcosa, specie dopo aver sentito al telefono gente di Barcellona.Lo affermano tutti i testimoni. Due giorni prima fa uno strano viaggio a Roma, probabilmente per incontrare qualcuno. Parla al telefono con un’infermiera: è strano, spaventato: ‘Attilio, ma che hai?’. ‘Un problema’. ‘Non ti preoccupare, domani è un altro giorno’. Nel pomeriggio ha un appuntamento con il prof. Ronzoni, il suo secondo padre, e non si presenta. La sera, a Viterbo, ha una cena di lavoro con una Casa farmaceutica e non si presenta neanche li”.
“Ma il mistero si infittisce nelle ore successive. Alle undici di sera chiamiamo ma non risponde. L’indomani mattina alle nove telefona, ma senza quell’affettuosità di sempre: ‘Mamma, mi dovete fare aggiustare la moto che è nella casa al mare di Terme Vigliatore’. ‘Attilio, siamo a febbraio’. “Me la dovete fare aggiustare’. Chiudo e mi giro verso mio marito: ‘Attilio sta diventando acido’. Da qualche giorno mi rispondeva così, come se volesse che io capissi le sue preoccupazioni. Dopo la sua morte, abbiamo portato la moto dal meccanico: era in ottimo stato. Attilio voleva mandare un messaggio, forse un riferimento alla località di Terme Vigliatore, dove Provenzano è stato nascosto per diverso tempo. Anche questa telefonata non esiste nei tabulati della Polizia. Nelle ore successive lo abbiamo chiamato più volte, il telefono suonava ma lui non rispondeva. Questo mi fa presumere che fosse in ostaggio. L’hanno portato in qualche posto? È andato a visitare Provenzano in qualche località segreta? Perché quegli strumenti di lavoro in camera da letto? Li ha adoperati o li doveva adoperare?”.
Fonte: sicilians.it
Articolo dell’9 Giugno 2012
Angela Manca: “Indignata per il comportamento della Procura di Viterbo”
“Sono indignata, delusa, amareggiata, stupita da quanto ho visto nella conferenza stampa del Procuratore Capo Pazienti e del Pubblico Ministero Petroselli”. Va dritta al punto Angela Manca, la madre dell’urologo barcellonese assassinato dalla mafia, che insieme al marito Gino e a Gianluca, l’altro figlio, da otto anni lotta senza tregua per ottenere giustizia e perché si faccia chiarezza sulla morte di suo figlio Attilio.
“Non sembravano due magistrati -continua- sembrava di essere in un’osteria, con risatine e ammiccamenti vari. Quasi che sul banco degli imputati ci fosse mio figlio e non chi l’ha ucciso”.
Lei ha scritto che durante la conferenza stampa ad un certo punto arriva un messaggio che sembra indirizzare le dichiarazioni. “Infatti. Mentre si parlava dei rapporti tra Attilio e suo cugino Ugo, ad un certo punto è arrivato un sms sul cellulare di Pazienti, che subito dopo ha detto che Attilio e Ugo si volevano bene! Figurarsi: è evidente che sono dichiarazioni pilotate, perché non era assolutamente così”.
Lei e la sua famiglia avete giudicato inaccettabile nei vostri confronti il comportamento dei due magistrati. “Ovviamente. Pensi che ad un certo punto, facendo riferimento al buco che si è creato nell’appartamento di Attilio a Viterbo, Pazienti ha detto che da questo momento in poi ogni volta che andrà a casa di amici starà bene attento a guardare il pavimento. Eppure c’è un magistrato come Clementina Forleo che mi ha scritto nella pagina di face book che non capisce come mai si esclude la pista mafiosa e che l’Italia onesta è con noi”.
Lei è molto dura nei confronti di Pazienti e Petroselli. “Certo. Dal mio punto di vista con quelle risatine e con quei gesti che tutti possono vedere nel video della conferenza stampa, hanno dimostrato poca serietà. Non capiscono che noi abbiamo subito un lutto grave, abbiamo perso un figlio e che per di più tutti hanno perso un medico di grande valore. Le istituzioni dovrebbero tutelare il diritto dei cittadini alla giustizia e non comportarsi come la Procura di Viterbo ha fatto con noi. Invece, ascoltando la loro conferenza stampa sembra quasi che Attilio fosse quello da buttare e che Ugo sia un santo. Adesso lui sta raccontando la sua versione alla troupe di “Chi l’ha visto?”. Ma io e la mi famiglia non ci arrenderemo e la verità salterà fuori”.
Attilio Manca: Conferenza stampa Procura di Viterbo (Video integrale)
Caso Attilio Manca, Procura di Viterbo. Conferenza stampa del Procuratore capo Alberto Pazienti (sulla sinistra del video) e del Pubblico ministero Renzo Petroselli (sulla destra del video). Viterbo, 8 giugno 2012
Fonte: antimafiaduemila.com 20 giugno 2012
«Caso Attilio Manca: il testo dell’opposizione alla richiesta di archiviazione»
di Fabio Repici
Opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dal legale della famiglia Manca, depositata presso la Procura di Viterbo il 18 giugno 2012.
Il sottoscritto avv. Fabio Repici, difensore di Angela GENTILE, (omissis), e Gioacchino MANCA, (omissis), entrambi residenti a (omissis), persone offese dal reato nel sopra indicato procedimento propone, ai sensi dell’art. 410 c.p.p., opposizione alla richiesta di archiviazione formulata dal P.m., recante data 5 giugno 2012 e data di deposito 6 giugno 2012, il cui avvisto è stato notificato al sottoscritto il 7 giugno 2012. Il presente atto è fondato sui motivi di seguito esposti.
*****
È doverosa una premessa: dall’ormai lontanissimo anno 2004 (al 15 novembre di quell’anno risale l’atto di opposizione alla prima richiesta di archiviazione proposta dal p.m.) si sono sollecitati atti d’indagine e, al contempo, si sono proposte interpretazioni delle risultanze del fascicolo sulla scorta di fatti incontrovertibili noti ai genitori di Attilio Manca o al sottoscritto difensore. La maggior parte di quelle sollecitazioni e di quelle richieste sono rimaste a tutt’oggi inevase dal pubblico ministero, che alle volte ha perfino rifiutato sdegnato i fatti su cui quelle sollecitazioni poggiavano. Eppure, a rileggere oggi ancora una volta tutte le memorie depositate nell’interesse dei genitori di Attilio Manca, tutti gli atti di opposizione alle ripetute richieste d’archiviazione (seguite da tre ripetuti rigetti da parte del G.i.p.: quasi un record nel panorama giudiziario del paese), tutti i documenti di volta in volta prodotti (puntualmente trascurati dal P.m.) un osservatore intellettualmente onesto non può non avvedersi della fondatezza e della coerenza di tutte le deduzioni offerte e della scarsa giustificabilità della disattenzione che esse hanno incontrato.
Per tale ragione, preliminarmente a ogni altra osservazione e a ogni altra richiesta in ordine all’ultima richiesta di archiviazione formulata dal P.m., si chiede qui che il G.i.p. ordini al pubblico ministero l’espletamento ogni atto d’indagine già in passato sollecitato nell’interesse delle persone offese dal reato. Né a ciò è ostativo il fatto che in passato il G.i.p. non ne abbia ritenuto la rilevanza. Di certi errori nella ricostruzione svolta negli ultimi tempi dal G.i.p. si avrà modo di dire in prosieguo ma di certo essi non gli impediscono, re melius perpensa, di determinarsi oggi in senso diametralmente diverso.
La conferenza stampa del Procuratore della Repubblica
L’8 giugno 2012 la Procura della Repubblica di Viterbo ha tenuto una imbarazzante (nei toni, nel merito delle cose dette e nell’oggetto) conferenza stampa, con la partecipazione del Procuratore capo e del P.m. titolare del presente procedimento, per informare gli organi di informazione non dei dettagli di una significativa operazione di polizia conseguente a indagini di quell’ufficio ma dell’avvenuto deposito della richiesta di archiviazione nei confronti degli indagati barcellonesi del presente procedimento. “Per informare” è un’espressione sicuramente esagerata, visto che, finiti i monologhi dei magistrati, gli stessi alle poche domande puntuali loro rivolte non hanno saputo rispondere o hanno preferito non farlo, accampando non ben comprensibili esigenze di riserbo (in una conferenza stampa!).
Tuttavia, le affermazioni fatte in quella sede dal dr. Alberto Pazienti e dal dr. Renzo Petroselli hanno un certo rilievo ai fini del presente atto, perché utili a interpretare il contenuto e il senso della predetta richiesta di archiviazione. Per tale ragione, al presente atto si allega un dvd contenente la registrazione audiovisiva dell’intera conferenza stampa.
Gli accertamenti dattiloscopici disposti dal G.i.p.
Si esamina qui il contenuto della richiesta di archiviazione secondo l’ordine logico e argomentativo proposto dalla stessa. Pertanto, occorre innanzitutto valutare gli esiti degli accertamenti dattiloscopici che erano stati ordinati dal G.i.p. con il suo provvedimento del 30 novembre 2011 (in esito a una camera di consiglio del 16 luglio 2010!).
Con quell’ordinanza il Gip, tanto poco convinto di quanto (fuori da ogni risultanza utile al riguardo nel fascicolo) aveva sostenuto sulla presunta “autoinoculazione” di droga da parte di Attilio Manca, aveva ordinato al P.m. di verificare la sussistenza di impronte papillari sulle due siringhe utilizzate per le due iniezioni di droga su Attilio Manca e di effettuarne la comparazione. Evidentemente, tale accertamento mirava, come comprende chiunque, a escludere (o, al contrario, ad attestare) che persona diversa da Attilio Manca avesse maneggiato quelle siringhe per iniettare la droga sul braccio sinistro del mancino Attilio Manca. Il risultato è stato che su tutti i reperti in sequestro sono stati rilevati solo tre ridottissimi frammenti di impronta (uno su una delle due siringhe utilizzate per le due iniezioni; uno sulla bustina di plastica contenente le siringhe rimaste inutilizzate; uno su una siringa non utilizzata da alcuno e ancora conservata nella predetta bustina di platica) e che nessuno di essi è stato ritenuto utile per la comparazione.
Quindi, ancora oggi non si può dire chi abbia maneggiato le siringhe utilizzate per le due iniezioni letali sul braccio sinistro di Attilio Manca.
Altre osservazioni devono essere fatte e riguardano le anomalie derivanti dai risultati sopra descritti. Su una delle due siringhe sicuramente utilizzata per iniettare l’eroina nelle vene di Attilio Manca non è stata trovata alcuna traccia di impronta, nemmeno sotto forma di frammento insufficiente alle comparazioni. Vale osservare, dunque, che la siringa rinvenuta sul pavimento innanzi al bagno dell’appartamento di Attilio Manca, che pur risulta essere stata chiusa con l’apposizione del cappuccio salva-ago è del tutto intonsa, priva di alcuna impronta, e che solo un minimo frammento di impronta, inutile probatoriamente, è stato individuato sulla siringa rinvenuta nel secchio dei rifiuti nella cucina di Attilio Manca, pure essa chiusa con l’apposizione del cappuccio salva-ago e pure del cappuccio salva-stantuffo. Come sia possibile che due siringhe maneggiate prima per l’aspirazione della sostanza stupefacente, poi per l’iniezione della stessa e infine per l’apposizione del cappuccio salva-ago, a sua volta inizialmente estratto, non presentino alcun frammento di impronta papillare è circostanza che induce ovvie perplessità, analoghe a quelle derivanti dalla presenza di solo un piccolo frammento di impronta in un’altra siringa utilizzata per l’aspirazione dell’eroina, l’iniezione della stessa e la chiusura con il cappuccio salva-ago e il cappuccio salva-stantuffo (a loro volta prima dell’uso evidentemente estratti). Tali perplessità impongono l’espletamento di un ulteriore accertamento tecnico: dovrà essere chiesto a un esperto (anche uno dei due che hanno operato da ultimo) se le impronte possano essere svanite sui reperti pur sigillati con il trascorrere del tempo o se il risultato sopra descritto è significativo del fatto che mai altra impronta su quei reperti sia mai stata apposta.
Perché in tale ultimo caso bisognerebbe concludere che, non essendo stati rinvenuti nell’appartamento di Attilio Manca guanti che potessero far pensare (per quanto l’evenienza fosse da sé particolarmente stravagante) a un uso cautelato di quelle siringhe da parte sua, a maneggiare le due siringhe sia stata persona diversa da Attilio Manca, dotata di guanti o altri accorgimenti che gli abbiano permesso di evitare di lasciare tracce che ne consentissero l’identificazione.
Sul punto vale qui sottolineare le incredibili affermazioni fatte dal Procuratore della Repubblica durante la predetta conferenza stampa. Così si è espresso il Procuratore della Repubblica: “siccome questa indagine non era stata fatta perché tra l’altro ci era stato detto che essendo delle siringhe piccolissime difficilmente si potevano trovare delle impronte digitali riscontrabili, non era stata fatta, il gip ha deciso di farla, il risultato era quello che avevamo previsto, cioè le tracce non sono riscontrabili … ci sono, certo, ci sono, perché qualcuno le ha utilizzate, però non sono tali da poter stabilire le impronte digitali riscontrabili”. Ora, tale affermazione lascia senza parole, perché evidentemente fondata su scienza privata del Procuratore della Repubblica, non ricavabile dagli atti del fascicolo (e peraltro contraria alle massime d’esperienza). Infatti, non risulta in atti alcuna indicazione di questo tipo da parte di alcun soggetto, esperto di impronte digitali o meno.
È certo, tuttavia, che l’esito degli accertamenti da ultimo svolti per l’ennesima volta non fornisce conferma della “volontaria autoinoculazione” di droga da parte di Attilio Manca. Per l’ennesima volta, espletato un accertamento obiettivo, la tesi della volontaria assunzione di droga non trova riscontro. Ciò esattamente al contrario di quanto sostenuto dal P.m. nell’ultima richiesta di archiviazione, laddove si è incredibilmente sostenuto, non si sa se in ragione di quelle cognizioni private (peraltro erronee: mai sostenuto da alcuno che sulle siringhe da insulina, le uniche usate per l’assunzione di droga, non vengano impresse le impronte degli utilizzatori), che tali accertamenti “non hanno portato alcun ulteriore elemento di valutazione”.
Sempre in tema di impronte papillari emerge l’improcrastinabilità di un ulteriore accertamento tecnico. Infatti, è noto che bel bagno dell’appartamento di Attilio Manca sia stata rinvenuta un’impronta palmare di omissis, in ordine alla quale l’indagato diede giustificazioni molto tardive, secondo cui quell’impronta sarebbe stata rilasciata in occasione di un suo pernottamento in quell’abitazione, nella notte fra il 15 e il 16 dicembre 2003, in previsione del banalissimo intervento di varicocele cui si fece sottoporre a Viterbo dal cugino Attilio, anziché farselo praticare nell’ospedale in cui lo stesso lavorava. Al riguardo, nella conferenza stampa il Procuratore della Repubblica ha affermato circostanze inedite e sconosciute al fascicolo procedimentale: “Il cugino frequentava abitualmente casa sua. Ma che le devo di’, che faceva il punto di riferimento pe’ quelli di Barcellona che se venivano a operare? Venivano a operarsi quelli di Barcellona e venivano qui al Belcolle”. Sulla frequentazione abituale fra Attilio Manca e (omissis) non si capisce quali siano le fonti evocate dal Procuratore della Repubblica. Sicuramente si tratta di fonti estranee al fascicolo. In realtà, nel caso, si tratta di fonti particolarmente inaffidabili, visto che, anche alla luce delle risultanze dei tabulati telefonici acquisiti dalla Procura di Viterbo, fra i due non sono risultati frequenti nemmeno i contatti telefonici.
Sennonché esistono alcuni dati obiettivi che, come anche in passato ripetutamente segnalato, smentiscono la dichiarazione di (omissis): intorno al Natale 2003 la madre di Attilio Manca provvide alle pulizie della casa del figlio e in particolare provvide alla pulizia integrale del bagno, ivi comprese le piastrelle sulle quali sarebbe stata rilasciata l’impronta di (omissis); non è stata rilevata all’interno di quella abitazione alcuna impronta rilasciata dai genitori di Attilio Manca, come detto ospiti a Viterbo a casa del figlio per il Natale 2003; non sono state rilevate impronte nemmeno degli amici di Attilio Manca che cenarono in quell’appartamento nella sera del 6 febbraio 2004; secondo quanto incidentalmente riferito dal perito che fu incaricato dal Gip di effettuare le comparazioni fra le impronte rilevate nell’appartamento di Attilio Manca e quelle, fra gli altri, degli odierni indagati, le impronte papillari sarebbero sottoposte a progressiva evanescenza, proporzionata al materiale sulle quali sarebbero state impresse e alle condizioni dell’ambiente, prima fra tutte l’umidità.
Ora, l’impronta di (omissis) fu ritrovata nella stanza più umida dell’intero immobile e già questo, in uno all’assenza di impronte delle altre persone che negli ultimi due mesi di vita di Attilio Manca avevano frequentato quell’appartamento, indurrebbe a ritenere che difficilmente quell’impronta possa risalire addirittura a metà dicembre 2003.
Alla luce di ciò, appare necessaria l’audizione di un consulente tecnico perché possa riferire, alla luce delle risultanze conosciute, se quell’impronta possa risalire a metà dicembre 2003.
Il mancinismo di Attilio Manca
Si legge da ultimo nella richiesta di archiviazione che il mancinismo di Attilio Manca è stato “mai da nessuno posto in discussione”. A dire il vero ciò era avvenuto ad opera dello stesso P.m. nel suo intervento all’udienza camerale del 16 luglio 2010 (cfr. pag. 37 trascrizioni di quell’udienza): “il povero Attilio Manca … era assolutamente ambidestro, doveva esserlo perché altrimenti non avrebbe potuto, non avrebbe potuto, non avrebbe potuto esercitare quella professione”. Detto da chi ha avuto il coraggio di sostenere che le persone offese dal reato e il loro difensore hanno ripetutamente fatto riposizionamenti di comodo delle proprie prospettazioni, secondo le convenienze contingenti, il dato è particolarmente rilevante.
È ancor più rilevante se si tiene conto della pluralità di fonti testimoniali (tutti gli amici e colleghi che Attilio Manca ha avuto a Viterbo nell’ultimo anno di vita) che in modo assolutamente convergente hanno riferito che Attilio Manca era un mancino puro. Con memoria dell’aprile 2012 il sottoscritto difensore aveva sintetizzato le dichiarazioni testimoniali ivi allegate: “(omissis), sentito il 17 dicembre 2010, dichiarava: ‘Io ed Attilio eravamo molto amici e ci frequentavamo anche fuori dall’ambiente ospedaliero … Manca Attilio nel suo lavoro utilizzava solo la sinistra, sia per scrivere che per svolgere ogni altra attività. A differenza di altri dottori mancini, che riescono ad utilizzare anche la destra, lui non poteva farlo: la utilizzava solo per tenere la strumentazione chirurgica che poi per l’uso la passava a quella sinistra. Era certamente una sua spiccata caratteristica … Come detto Attilio era mancino puro e quindi con la destra escludo che potesse fare dei movimenti precisi come quelli di farsi un’iniezione’.
(omissis), sentito il 18 dicembre 2010, dichiarava: ‘Sono sicuro che Manca Attilio fosse mancino, scriveva sicuramente con la sinistra. Non sono in grado però di precisare se fosse in grado di utilizzare anche la destra soprattutto per i lavori più delicati che competono al nostro mestiere. È successo che abbiamo effettuato degli interventi chirurgici insieme ma non ricordo se Attilio utilizzava la destra o la sinistra: ho modo di ritenere che utilizzasse la sinistra. Mi è rimasto in mente il fatto che Attilio rispondeva al cellulare utilizzando la mano sinistra perché portava l’apparecchio all’orecchio destro, facendo un movimento inconsueto … Posso solo ipotizzare che se per rispondere al telefono utilizzava la mano sinistra, difficilmente avrebbe potuto farsi un’iniezione con la mano destra in quanto è un’operazione che richiede precisione’.
(omissis), sentito il 20 dicembre 2010, dichiarava: ‘Sono sicuro che Manca Attilio fosse mancino e scriveva con la sinistra. La destra la utilizzava poco e per gesti semplici. Nelle poche occasioni che l’ho visto operare in sala operatoria o in ambulatorio Attilio usava solo la sinistra. Per esempio anche i punti di sutura che applicava ai pazienti, teneva il porta aghi con la mano sinistra. Del resto anche nello scrivere nelle cartelle cliniche o le impegnative lo faceva sempre con la mano sinistra … Posso solo ipotizzare che, visto come utilizzava la destra, gli sarebbe stato difficile iniettarsi droga con quella mano’.
(omissis), sentita il 22 dicembre 2010, dichiarava: ‘Sono certa che Manca Attilio nello scrivere e nel mangiare utilizzava la mano sinistra, anche nel lavoro e nelle varie prescrizioni mediche. Non sono in grado di riferire se in sala operatoria il Manca utilizzasse la destra o la sinistra in quanto non mi è mai capitato di assisterlo’.
(omissis), sentito il 4 gennaio 2011, dichiarava: ‘Sono sicuro che Manca Attilio fosse mancino e scriveva con la sinistra. La destra l’utilizzava poco e per gesti semplici. Anche nella sua professione di medico utilizzava la sinistra anziché la destra. Ricordo che anche nel rispondere al telefono sia esso fisso che cellulare utilizzava sempre la mano sinistra’.
(omissis), sentito il 7 gennaio 2011, dichiarava: ‘Sono sicuro che Manca Attilio fosse mancino, scriveva con la sinistra e svolgeva le sue normali attività con tale mano. È capitato di operare insieme a lui ed anche in queste circostanze ricordo che Attilio utilizzava come mano principale sempre la sinistra. La destra l’utilizzava poco e per gesti semplici … Reputo questa circostanza molto difficile perché sarebbe stato per lui un gesto certamente innaturale. Del resto anche quando operava nei gesti più banali utilizzava la sinistra. Ritengo che quindi, farsi un’iniezione endovena con la sua mano non naturale sia stato estremamente difficile’.
A chi voglia fare uso della ragione il mancinismo di Attilio Manca appare allora un dato insuperabile. E tuttavia il P.m. ha voluto, sul punto, farsi scudo di un obiter dictum contenuto nell’ordinanza del Gip del 30 novembre 2011 (che in effetti riprendeva le parole del P.m. all’udienza camerale del 16 luglio 2010), secondo cui il chirurgo che opera in laparoscopia non può che essere ambidestro. Circostanza che, pure questa, non risulta in atti e andrebbe ricercata nella scienza privata di chi l’ha addotta ma che, nella sostanza delle cose, ha la stessa fondatezza dell’affermazione per cui solo gli ambidestri sono capaci di guidare una bicicletta e, quindi, chi guida la bicicletta è ambidestro.
Si è da sempre insistito sul mancinismo di Attilio Manca perché c’è un dato oggettivo sul quale il P.m. ostinatamente si rifiuta di fare i conti. È indubbio che i segni delle due punture provocate dalle due siringhe rinvenute a casa di Attilio Manca siano entrambi sul braccio sinistro, uno al polso e uno all’avambraccio. Al di là della gaffe pronunciata dal Procuratore della Repubblica alla sopra citata conferenza stampa (“I buchi sono due: uno sembra recente, uno sembra più del passato”; cosicché se uno dei due buchi fosse del passato bisognerebbe concludere che Attilio Manca nell’ultimo giorno di vita si era bucato con la mano sbagliata ma era riuscito nell’improba impresa di praticarsi due iniezioni con le due siringhe ritrovate a casa sua e di aver provocato con quelle due siringhe un’unica puntura nella pelle), il dato non può essere trascurato, proprio alla luce del mancinismo di Attilio Manca. Perché, se pure si volesse sostenere che egli fosse con un po’ di impegno capace di farsi un’iniezione utilizzando la mano destra (ciò che alla luce delle dicharazioni dei suoi colleghi dovrebbe escludersi), dovrebbe individuarsi un qualche motivo per cui Attilio Manca, volontariamente, avrebbe dovuto preferire bucarsi sul braccio sinistro anziché, come naturalmente avrebbe dovuto fare, su quello destro. Su questa enorme incongruenza ancora a distanza di otto anni la Procura di Viterbo rifiuta di trovare una risposta: probabilmente perché una risposta ragionevole non si può trovare.
Sennonché la Procura di Viterbo stavolta ha davvero superato ogni limite di immaginazione: “In epoca successiva all’ordinanza della S.V. … è pervenuto a questo Ufficio per competenza territoriale un procedimento nei confronti di Mileti Monica … Si osserva al riguardo, e per i soli fini delle posizioni che qui interessano, che dalle dichiarazioni delle persone informate emerge come il Manca Attilio fosse da tempo un assuntore abituale di stupefacenti e di eroina in particolare che veniva confezionata anche in più siringhe (v. dichiarazioni (omissis)) e che si iniettava usando sia la mano destra che quella sinistra (v. dichiarazioni (omissis))”. Il riferimento è agli atti trasmessi a Viterbo dalla Procura della Repubblica di Messina, all’esito del decreto di archiviazione emesso dal Gip di Messina il 10 gennaio 2012. Quel procedimento era nato da esposto depositato presso la Procura della Repubblica di Messina dal sottoscritto difensore nel 2006 (come si rileva dall’intestazione del verbali di s.i.t. di (omissis), di (omissis), di (omissis) e di (omissis): procedimento n. 9213/06 r.g.n.r. mod. 44) ed evidentemente esitato col predetto decreto del Gip di Messina. Ma è assurdo l’uso che di quegli atti ha fatto, mostrando di non avere grande consapevolezza del fascicolo, la Procura di Viterbo. Infatti, ha utilizzato per chiedere l’archiviazione della posizione dei cinque barcellonesi indagati le dichiarazioni, raccolte aliunde, di soggetti barcellonesi. Non solo. Fra i soggetti le cui dichiarazioni sono state utilizzate per la richiesta di archiviazione c’è perfino (omissis), persona sottoposta a indagini nel presente procedimento le cui dichiarazioni, rese quale persona informata sui fatti, sono state ritenute utili per l’archiviazione. Un caso unico di indagato che fa pure da testimone a propria discolpa. Fosse stato usato per lui un canone simile, perfino Salvatore Riina a oggi sarebbe rimasto incensurato. Ma oltre alla provenienza di quelle dichiarazioni è anche il merito delle stesse a fornire elementi per valutazioni specularmente contrarie a quelle tratte dal P.m..
Infatti, appare evidente dalla lettura delle dichiarazioni rese da (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis) il loro obiettivo di smentire ogni risultanza dedotta a Viterbo dal sottoscritto difensore o dai suoi assistiti e addotta a elemento indiziante circa l’uccisione di Attilio Manca. Ed ecco che puntualmente i predetti personaggi barcellonesi forniscono le risposte agli enigmi fin qui irrisolti. Attilio Manca era un mancino puro e non poteva iniettarsi la droga con la mano destra né una simile evenienza aveva giustificazioni ragionevoli? Ecco che viene testimoniato che Attilio Manca in passato era stato assuntore di eroina e che aveva spesso provveduto a iniettarsela giusto con la mano destra. A casa di Attilio Manca non era stata rinvenuta traccia alcuna degli strumenti usati per la preparazione della droga da iniettarsi? Ecco che viene testimoniato (cfr. s.i.t. di omissis) che Attilio Manca “dopo aver sciolto l’eroina ripuliva il tutto non lasciando traccia. A volte, quando riempiva più siringhe, le utilizzava per ulteriori somministrazioni, anche nell’arco della stessa serata”. Laddove, anche ammesso che Attilio Manca avesse questo strano riflesso pavloviano, nell’occasione della sua morte non si capisce dove sarebbero andati a finire gli strumenti utilizzati per lo scioglimento dell’eroina, visto che non ne è rimasta traccia nemmeno nel secchio della spazzatura. Forse Attilio Manca, per ragioni prudenziali, prima di iniettarsi la droga e uccidersi, aveva ben pensato di andare a gettare fuori di casa quegli strumenti?
Ora, la valutazione che la Procura della Repubblica di Viterbo avrebbe dovuto fare degli atti ricevuti ragionevolmente sarebbe dovuta essere quella di dichiarazioni mendaci finalizzate a far ottenere l’archiviazione del procedimento agli indagati barcellonesi del presente procedimento. Sostanzialmente, attività di favoreggiamento a beneficio degli indagati barcellonesi. Invece, ne ha tratto le conclusioni inverse, esaltandone la rilevanza e la fondatezza. In questo commettendo una gaffe madornale, non solo perché a beneficio dell’indagato (omissis) ha utilizzato le dichiarazioni testimoniali dello stesso (omissis), non solo perché a beneficio degli indagati barcellonesi ha utilizzato le dichiarazioni del loro amico (omissis) (amico soprattutto di (omissis), come già risultava dei frenetici contatti telefonici intervenuti tra i due il giorno del rinvenimento del cadavere di Attilio Manca), non solo perché le dichiarazioni di (omissis) (di fatto confermative della veridicità delle affermazioni fatte dai genitori di Attilio Manca) sono state sminuite a parole di convenienza ma per una circostanza che è dimostrativa di come si facciano costantemente passi falsi quando si opera senza conoscenza delle cose. Infatti, le dichiarazioni rese da (omissis), ritenute così rilevanti, sono le dichiarazioni di un soggetto che è tanto attendibile da essere stato rinviato a giudizio, su richiesta della D.d.a. di Messina, per il delitto di falsa testimonianza in relazione al delitto più eclatante della storia barcellonese, l’assassinio dell’eroico giornalista Beppe Alfano. Chi scrive ne ha piena contezza, visto che nell’interesse dei familiari del giornalista assassinato, si è costituito parte civile anche contro (omissis), il cui processo (procedimento 6017/05 r.g.n.r.) si trova nella fase dibattimentale di primo grado.
Cosicché la summa ideologica della Procura di Viterbo consiste nel non ritenere attendibili le convergenti dichiarazioni disinteressate di tutti i colleghi di Viterbo che escludono che Attilio Manca facesse uso di droga e fosse abile all’uso della mano destra e nel ritenere attendibili le dichiarazioni di screditati e interessati soggetti barcellonesi che sostengono che Attilio Manca fosse un abituale assuntore di eroina, che si iniettava con la mano destra e che aveva la strana pulsione a far scomparire gli strumenti utilizzati per la preparazione della sostanza stupefacente.
Peraltro, il P.m. non si è accorto di un dato rilevante che pure da quegli atti emerge a riscontro di quanto dal sottoscritto difensore e dai suoi assistiti sostenuto da molti anni. Commentando vecchie dichiarazioni di (omissis) circa il modo in cui aveva conosciuto Attilio Manca, si era segnalato che il comune amico architetto che aveva potuto presentarla ad Attilio Manca era (omissis). Ora si apprende che lo stesso (omissis) ammette di essere stato lui a presentare Attilio Manca a (omissis). Cosicché è definitivamente confermata la radice barcellonese dei rapporti fra Attilio Manca e (omissis), a comprova della possibilità che quel 10 febbraio 2004 il suo non preventivato incontro con (omissis) potesse essere stato indotto da qualche soggetto barcellonese. Al riguardo, vale osservare come il racconto fatto, in veste di testimone, dall’indagato (omissis) in ordine alle telefonate intercorse fra lui e Attilio Manca il 9 e il 10 febbraio 2004 contrasta con le pregresse risultanze in atti. Qui vale la pena rinviare a quanto riferito già in passato in ordine alle dichiarazioni rese da (omissis) e da Gianluca Manca, sulla telefonata nella quale Attilio Manca fu impegnato mentre si trovava a casa di (omissis) e che sembrerebbe essere stata la scaturigine per Attilio Manca di un incontro indesiderato con qualcuno a Roma.
Negli atti trasmessi dalla Procura della Repubblica di Messina ci sono, invece, due elementi da cui trarre ragioni di investigazioni suppletive nel presente procedimento.
Il primo riguarda l’amico di Attilio Manca a nome di (omissis). A conferma che le dichiarazioni rese dalle persone barcellonesi sentite su delega della Procura di Messina sono state calibrate sulle memorie depositate a Viterbo nell’interesse dei genitori di Attilio Manca, si segnala come in una memoria di giugno 2005 si era fatto riferimento a (omissis) e si erano richiesti approfondimenti investigativi. Era, infatti, successo che, dopo la partecipazione dei genitori di Attilio Manca alla trasmissione “Chi l’ha visto?” (trasmissione cronica, secondo il Procuratore della Repubblica) del 30 maggio 2005, a quella redazione era giunta un’email in forma anonima, scritta da persona che riferiva di essere amica di Attilio Manca. Il testo di quella comunicazione, dell’1 giugno 2005 era il seguente: “Sono un amico di Attilio del periodo dell’università a Roma e voglio mantenere l’anonimato per questo l’indirizzo email è di fantasia. Scrivo per comunicare che prima della morte di Attilio nel 1998 già un’altra morte sospetta era avvenuta nello stesso ambiente. L’amico e compagno di appartamento storico (sono stati in casa assieme per quasi 10 anni) di Attilio, (omissis) nel luglio del 1998 è stato ritrovato morto in via dell’acquedotto paolo accanto al suo motorino. Tutto lasciava pensare ad un incidente ma io che l’ho conosciuto bene non ci ho mai creduto anche se non sapendo cosa fare ho lasciato passare tutto questo tempo. (Omissis) come Attilio era una persona e medico brillantissimo, di altissimo profilo intellettuale. Non viveva più con Attilio da qualche mese ma si sentivano. A tal riguardo mi raccontò una volta, poco tempo prima della sua morte, che era da poco uscito con Attilio ed un altro ragazzo (non ricordo bene ma mi sembra mi disse il cugino di Attilio) e aveva litigato per futili motivi con quest’ultimo che lo aveva minacciato verbalmente. Ci ridemmo su ma dopo la vostra trasmissione questo ha assunto un altro significato e mi ha spinto a scrivervi. (Omissis) era di Poggiomarino in campania e non vi sarà difficile rintracciare i famigliari che comunque non so quanto potranno esservi di aiuto in quanto non sapevano di ciò che gli capitava a roma. Spero possiate fare luce su queste vicende che sono sicuramente strettamente collegate. Non ho purtroppo altre informazioni. Però vi esorto a chiedere informazioni a tutti gli amici e compagni/e di università di entrambi di quel tempo e fare tutto quello che potete anche per indagare sulla morte di (Omissis). Grazie”.
Appare evidente a questo punto, dal momento che il nome di Gennaro Scetta è stato fatto strumentalmente da soggetti vicini agli indagati a uso degli stessi, la necessità di acquisire presso la redazione di “Chi l’ha visto?” della sopra riportata email dell’1 giugno 2005 e di verificarne, tramite polizia postale, la provenienza, cosa che può ben avvenire a mezzo dell’individuazione dell’indirizzo IP del messaggio di posta elettronica.
Dalle informative della Squadra Mobile di Messina del 15 e del 25 marzo 2011, ancora, si apprende che nel procedimento messinese archiviato con il decreto sopra indicato, sono stati acquisiti i tabulati telefonici (per estensioni temporali di molto superiori a quelli acquisiti dall’A.g. di Viterbo) di utenze in uso agli odierni indagati o a molte persone alle stesse legate da rapporti di vario tipo e che addirittura, su di essi, sarebbe stata espletata una consulenza tecnica. Si tratta di elementi che, però, non sono presenti nel fascicolo e che, essendo stato il fascicolo messinese archiviato, non sono nemmeno soggetti ad alcun riserbo investigativo (del resto, altri elementi di quel fascicolo sono stati trasmessi a Viterbo). Tuttavia, si tratta di elementi che senz’altro sono utili all’accertamento della verità nel presente procedimento. Cosicché appare necessaria l’acquisizione presso la Procura di Messina di tutti i tabulati telefonici acquisiti da quella A.g. nel procedimento n. 9312/06 r.g.n.r. mod. 44 (e della consulenza tecnica sugli stessi effettuata). Già in passato si è dimostrato, pur con la lacunosità e la parzialità dei dati di traffico telefonico acquisiti da codesta Procura, come il sottoscritto difensore e i propri assistiti avevano individuato elementi sfuggiti sia alla Procura della Repubblica sia alla Squadra Mobile di Viterbo. È plausibile ritenere che nei tabulati telefonici acquisiti a Messina (e nella consulenza tecnica sugli stessi effettuata) si potrà rinvenire più di qualche elemento utile all’accertamento della verità sulla morte di Attilio Manca.
Oltre a quanto sopra, è perfino superfluo ribadire la disponibilità dei genitori di Attilio Manca a sommarie informazioni su qualunque delle tante circostanze già segnalate nel presente procedimento. Lo si fa, però, alla luce di quanto incredibilmente sentito nella conferenza stampa sopra citata. I genitori di Attilio Manca fin da subito e successivamente con svariati scritti propri e del proprio difensore si sono messi a disposizione del pubblico ministero procedente. Nonostante ciò, la Procura della Repubblica, evidentemente ritenendoli un fastidio piuttosto che una risorsa per l’accertamento della verità, ha fino a oggi omesso di sentirli su qualunque aspetto del presente procedimento, salvo poi denunciare pubblicamente la circostanza, falsa, che essi mai hanno chiesto di essere sentiti.
Per le ragioni sopra indicate, con il presente atto si chiede che il Gip voglia rigettare la richiesta di archiviazione proposta dal pubblico ministero e voglia ordinare l’espletamento delle investigazioni suppletive di seguito elencate:
Ogni atto d’indagine già in passato sollecitato nell’interesse delle persone offese dal reato, con i precedenti scritti difensivi;
Accertamento mediante quesito a un consulente tecnico se le impronte possano essere svanite sui reperti pur sigillati con il trascorrere del tempo o se il risultato delle analisi svolte al riguardo è significativo del fatto che mai altra impronta su quei reperti sia mai stata apposta;
Accertamento mediante quesito a un consulente tecnico sulla durata delle impronte papillari rinvenuti nell’abitazione di Attilio Manca, con particolare riferimento a quella attribuita a (omissis) rinvenuta in bagno, per appurare se, alla luce delle risultanze conosciute, quell’impronta possa risalire a metà dicembre 2003 o sia stata rilasciata in epoca successiva;
Acquisizione presso la redazione della trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?” dell’email ricevuta l’1 giugno 2005 e riguardante Attilio Manca e (omissis) e ricerca, anche attraverso l’indirizzo IP, della sua provenienza;
Acquisizione presso la Procura della Repubblica di Messina di copia di tutti i tabulati telefonici acquisiti nel procedimento n. 9312/06 r.g.n.r. mod. 44 (e della consulenza tecnica effettuata sugli stessi);
Audizione dei genitori di Attilio Manca su quanto fino a oggi dedotto nel presente procedimento.
Al presente atto si allega:
Dvd contenente il file della registrazione audiovisiva della conferenza stampa tenuta l’8 giugno 2012 dalla Procura della Repubblica di Viterbo.
Grosseto, 17 giugno 2012
Avv. Fabio Repici
Articolo del 2 Luglio 2012 da isiciliani.it
Cronaca di un “suicidio” annunciato
di Luciano Mirone
Otto anni dopo, non sono affatto chiariti i dubbi sulla morte del giovane urologo barcellonese. Ecco perché
Quel che colpisce è la tempistica. Una tempistica che mal si concilia con un silenzio fin troppo imbarazzante. Il silenzio di una Procura che per otto anni non ha sentito il dovere di fornire un briciolo di spiegazione sulla strana morte (2004) di Attilio Manca, medico urologo di Barcellona Pozzo di Gotto in servizio all’ospedale Belcolle di Viterbo, che nel 2003 a Marsiglia si sospetta abbia fatto parte dell’equipe che ha operato segretamente di tumore alla prostata il boss Bernardo Provenzano, e poi lo abbia assistito in Italia senza conoscere la sua vera identità.
L’unica spiegazione che i magistrati di Viterbo hanno fornito in questi otto anni è che il giovane medico è morto per overdose d’eroina – mediante “inoculazione volontaria” – mischiata ad una grossa quantità di alcol e di tranquillanti.
Peccato che Attilio Manca, la droga, se la sarebbe iniettata nel braccio sbagliato, quello sinistro, dato che era un mancino puro, ma dopo quasi un decennio, anche il “mancinismo puro” della vittima è stato messo in discussione.
Attilio Manca è stato trovato cadavere sul letto del suo appartamento di Viterbo la mattina del 12 febbraio 2004 con due buchi al braccio sinistro e – secondo la famiglia – con il setto nasale deviato, il volto tumefatto, e una serie di ecchimosi in tutto il corpo.
A qualche metro di distanza dal cadavere sono state trovate due siringhe con tappo salva ago inserito, un pezzo del parquet divelto, un peso da ginnastica rotto, la camicia e la cravatta della vittima poggiate su una sedia.
Non sono stati trovati i pantaloni, i boxer, i calzini, le scarpe e la giacca di Attilio, né sono stati trovati lacci emostatici e cucchiai sciogli eroina. Un particolare, quest’ultimo, sul quale il procuratore e il suo sostituto hanno dato l’impressione di annaspare. Sul tavolo del soggiorno sono stati rinvenuti degli attrezzi chirurgici che, secondo gli stessi familiari e gli amici più stretti di Attilio, non erano mai stati visti nell’appartamento.
L’autopsia, condotta dalla dottoressa Danila Ranaletta, moglie del primario di Attilio, ha escluso ecchimosi sul corpo, il volto tumefatto e le labbra gonfie. Al contrario del medico del 118, intervenuto dopo la scoperta del cadavere, che, secondo la famiglia Manca, avrebbe riscontrato questi particolari. Due tesi contrastanti che dovrebbero esere chiarite dalle foto del viso (mai pubbicate, neanche in rete ) che secondo i Manca descrivono chiaramente la situazione
Dai rilievi effettuati dalla Scientifica, nell’alloggio sono state rilevate cinque impronte, una del cugino dell’urologo, Ugo Manca, e altre quattro non appartenenti a persone che la vittima era solita frequentare. Dunque, in quell’appartamento, delle persone estranee all’ambiente del medico, nelle ultime ore avrebbero lasciato le loro tracce. Ma nessuno, in tutto questo tempo, ha saputo dire a chi appartengano.
Sarà pure una coincidenza, ma questa estemporanea conferenza stampa tenuta dal capo della Procura Alberto Pazienti e dal sostituto procuratore Renzo Petroselli, titolare dell’indagine sulla morte di Attilio Manca, arriva dopo quindici giorni “di fuoco” in cui del Caso Manca si è parlato in tre trasmissioni di grande impatto mediatico: “Servizio pubblico” di Michele Santoro, “Chi l’ha visto” di Federica Sciarelli, e “Rainews24”, la quale ha trasmesso una bella inchiesta di Giuseppe Lo Bianco che, come i programmi di Santoro e della Sciarelli, si è soffermata sulle eventuali connessioni tra la morte dell’urologo e l’intervento alla prostata di Provenzano, mettendo insieme fatti, circostanze e notizie, senza la pretesa di fornire risposte certe, ma con il fine di accendere i riflettori su uno dei misteri più tormentati della storia recente.
Da queste trasmissioni sono emerse un paio di cose semplicissime: che Attilio Manca, malgrado i suoi 34 anni, nel 2003 era un luminare della chirurgia alla prostata, essendosi specializzato a Parigi, patria del sistema laparoscopico, una tecnica rivoluzionaria e meno invasiva del tradizionale intervento chirurgico, arrivata in Italia con alcuni anni di ritardo. Che Francesco Pastoia, braccio destro di Bernardo Provenzano, poco prima di impiccarsi nel carcere di Modena, disse che il “boss dei boss”, sotto il falso nome di Gaspare Troia, era stato operato e assistito da un medico siciliano (e all’epoca l’unico medico siciliano in grado di operare col sistema laparoscopico pare che fosse proprio Manca). Che la cittadina di Attilio, Barcellona Pozzo di Gotto, non è una cittadina come tante, ma il centro nevralgico di una strategia dell’eversione che nel ’92 portò il boss Giuseppe Gullotti (mandante dell’assassinio del giornalista Beppe Alfano) a recapitare a Giovanni Brusca il telecomando della strage di Capaci, e nello stesso periodo portò Bernardo Provenzano e Nitto Santapaola a trascorrere la loro latitanza proprio lì, ben protetti da una fitta rete di complicità, che il dottor Manca (se davvero ha operato Provenzano) potrebbe avere scoperto.
Ebbene, in concomitanza con questo “fuoco” mediatico, la procura di Viterbo ha finalmente deciso di battere un colpo, o meglio, di sferrare il colpo finale all’inchiesta. Per dire cosa? Che Attilio Manca era un drogato e che i quattro barcellonesi indagati da alcuni mesi non c’entrano niente con questa storia, malgrado l’impronta palmare lasciata da Ugo Manca (uno degli indagati), condannato in primo grado nel processo “Mare nostrum” per traffico di stupefacenti, ma assolto in appello, e malgrado lo stesso Ugo Manca, subito dopo la morte del cugino, dalla Sicilia si sia precipitato a Viterbo per chiedere al titolare dell’indagine – a nome dei genitori e del fratello di Attilio, che hanno categoricamente smentito – il dissequestro dell’appartamento. Perché? Perché questa fretta di entrare nell’appartamento? Per fare cosa? Anche su quest’ultima circostanza,Pazienti e Petroselli hanno dato la netta sensazione di annaspare.
Articolo dell’11 Ottobre 2012 da linformazione.eu
Attilio Manca. Appello al GIP
di Luciano Mirone
Egregio Giudice per le indagini preliminari di Viterbo,
Lei tra pochi giorni dovrà decidere se archiviare buona parte dell’indagine sulla misteriosa morte di Attilio Manca, l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) trovato cadavere a Viterbo il 12 febbraio 2004. E siamo certi che deciderà secondo coscienza, anche perché Lei, in questi otto anni, più che respingere per ben tre volte la richiesta di archiviazione che la Procura di Viterbo Le ha inoltrato, onestamente non avrebbe potuto fare. Adesso siamo alla quarta richiesta: non di archiviazione del caso, ma di archiviazione della parola “mafia”, di legittimazione della parola “droga”, di legittimazione di un assunto molto discutibile portato avanti dalla Procura di Viterbo con una ostinazione degna di miglior causa: ovvero che Attilio Manca sia morto per eroina, malgrado la montagna di dubbi che sommerge questa tesi.
In pratica la Procura Le chiede di archiviare la posizione dei quattro barcellonesi indagati (un paio dei quali invischiati a vario titolo con Cosa nostra) e di rinviare a giudizio una pusher romana che avrebbe fornito ad Attilio la dose mortale di eroina.
Non sappiamo cosa succederà: se un’ulteriore ombra si addenserà su questa vicenda o se le indagini prenderanno direzioni diverse. Non vogliamo prevedere nulla.
Il problema semmai è a monte, nell’indagine condotta dalla Procura laziale in modo così anomalo da considerare eufemismo perfino la parola “superficialità”.
Mi permetto di invitarLa, Egregio Gip, qualora non lo avesse ancora fatto, a guardare (e soprattutto ad ascoltare) la conferenza stampa che il procuratore capo di Viterbo, Alberto Pazienti, e il sostituto procuratore Renzo Petroselli (titolare dell’inchiesta), hanno tenuto in occasione dell’ultima richiesta di archiviazione.
Una conferenza-stampa molto istruttiva, perché dagli stessi magistrati viene confermato, seppure indirettamente, quanto questo caso sia viziato da carenze investigative gravi, specie se si tiene conto che da qualche tempo all’interno del Palazzo di giustizia di Palermo comincia a fare capolino l’idea che davvero la morte di Attilio Manca potrebbe essere collegata con l’intervento alla prostata che nel 2003 l’urologo siciliano avrebbe eseguito segretamente a Marsiglia al boss Bernardo Provenzano (celatosi per l’occasione col falso nome di Gaspare Troia), e alla successiva assistenza che il chirurgo avrebbe fornito nel Lazio (e forse non solo nel Lazio) allo stesso boss.
Infatti ultimamente sta emergendo una circostanza clamorosa: che Bernardo Provenzano, dopo l’intervento a Marsiglia, abbia trascorso una parte del periodo post operatorio proprio nel viterbese, tra Bagnoregio e Civitella D’Agliano.
Un’ipotesi che i magistrati della Procura laziale, in conferenza stampa, liquidano con una risata: “Tramontata l’ipotesi Marsiglia, esce fuori l’ipotesi del Lazio”.
A parte il fatto che l’ipotesi Marsiglia non è mai tramontata, quella del Lazio è affiorata solo alcuni mesi fa. Le due ipotesi non si escludono, semmai si integrano.
Certo, Egregio Gip, non ci sono prove che dimostrino che Attilio Manca abbia davvero operato Provenzano, ma Lei ci insegna che le prove non cadono dal cielo, vanno cercate con pazienza, partendo dagli elementi di cui si è in possesso.
L’arresto di Cattafi
Ora, Signor Gip, si dà il caso che nelle ultime settimane sia stato confermato (con un arresto clamoroso) ciò che la famiglia Manca e pochi altri antimafiosi siciliani ripetono da anni: che l’avvocato Rosario Cattafi, potentissimo boss di Barcellona Pozzo di Gotto, potrebbe avere avuto un ruolo di primo piano nelle stragi del ’92 (soprattutto in quella di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta), nella Trattativa fra Stato e mafia, nonché in alcune operazioni finanziarie che hanno visto come protagonista Cosa nostra.
Sì, perché da tempo si ripete che Cattafi è il trait d’union fra i boss, i servizi segreti deviati, la politica affaristico-mafiosa e certi magistrati non proprio rispettosi dello Stato di diritto. Insomma un potente più potente degli stessi Riina e Provenzano.
Potrebbe uscire assolto o condannato, l’avvocato Cattafi, ma una sentenza non cambierebbe di una virgola una verità ormai incontrovertibile: i suoi legami con quelle entità.
Per caso è mai venuto in mente a qualcuno di codesta Procura di sapere per quale ragione due mafiosi del calibro di Nitto Santapaola e dello stesso Provenzano abbiano trascorso un pezzo della loro latitanza a Barcellona Pozzo di Gotto, o magari di sapere per quale ragione un altro super boss – Gerlando Alberti junior, sì, Signor Gip, quello che ha ammazzato la povera Graziella Campagna, una ragazzina di diciassette anni che ha avuto il torto di scoprire la vera identità di Alberti – sia stato tenuto nascosto per diverso tempo in quella zona, godendo delle incredibili protezioni di alti magistrati della Procura di Messina, che per decenni hanno insabbiato le indagini?
Ora, Egregio Gip, un fatto resta un fatto, ma tanti fatti diventano un contesto. E un delitto, perfino secondo un mediocre scrittore di libri gialli, va sempre inserito nel suo contesto. O no?
“Inoculazione volontaria”… Nel braccio sbagliato
Ma procediamo con ordine.
Secondo il procuratore Pazienti e il sostituto Petroselli, Attilio Manca sarebbe morto per overdose di eroina mediante “inoculazione volontaria”, mischiata ad un quantitativo di alcol e di tranquillanti.
“Inoculazione volontaria”, proprio così. Dov’è la prova della “volontarietà” dell’azione? Non c’è. O meglio, non l’abbiamo vista.
Anche perché c’è un problema grosso quanto una casa: il fatto che Attilio Manca la droga se la sarebbe “inoculata” nel braccio sbagliato, quello sinistro, dato che era un mancino puro. Orbene: dopo quasi un decennio, anche il “mancinismo puro” della vittima è stato messo in discussione dalla Procura di Viterbo, malgrado le tante conferme (di colleghi, di dipendenti dell’Asl, di amici, di familiari) dell’”uso esclusivo della mano sinistra da parte della vittima”.
Ascolti in conferenza stampa cosa dicono il Procuratore e il Sostituto: siccome Attilio Manca era un chirurgo, doveva per forza sapere utilizzare entrambe le mani. Secondo quale principio scientifico?
E allora, Egregio Gip, consenta di ricostruire la scena della morte, sia perché è giusto partire dai fatti, sia perché coloro che leggono questa storia per la prima volta possano comprenderla bene.
La scena della morte
Attilio Manca – in quel periodo in servizio all’ospedale “Belcolle” di Viterbo – viene trovato cadavere sul letto del suo appartamento la mattina del 12 febbraio 2004 con due buchi al braccio sinistro e – secondo la famiglia – con il setto nasale deviato, il volto tumefatto, una serie di ecchimosi in tutto il corpo, e un testicolo gonfio. Sotto il letto una pozza di sangue. Nell’appartamento un caldo asfissiante dato che i regolatori dei termosifoni sono posizionati al massimo da molte ore (non si sa da chi, tenuto conto che Attilio li regolava a temperature normali).
A qualche metro di distanza (nel bagno e in cucina) vengono rinvenute due siringhe con tappo salva ago ancora inserito, un pezzo del parquet del pavimento divelto, un peso da ginnastica rotto, la camicia e la cravatta della vittima poggiate su una sedia. Non vengono trovati i pantaloni, i boxer, i calzini, le scarpe e la giacca di Attilio, né vengono rinvenuti lacci emostatici e cucchiai sciogli eroina.
Sul tavolo del soggiorno vengono trovati anche degli attrezzi chirurgici che, secondo gli stessi familiari e gli amici più stretti della vittima, non erano mai stati visti nell’appartamento.
L’autopsia, condotta dalla dottoressa Danila Ranaletta, moglie del primario di Attilio, ha escluso sia le ecchimosi sul corpo, sia il setto nasale deviato, il volto tumefatto e le labbra gonfie. Una tesi che trova completamente d’accordo la Procura di Viterbo.
Secondo la famiglia Manca, invece, il medico del 118, intervenuto dopo la scoperta del cadavere, avrebbe riscontrato questi particolari e li avrebbe inseriti nel referto.
Come si vede, si tratta di due tesi del tutto contrapposte, che dovrebbero essere chiarite dalle foto del volto (mai pubblicate dai giornali e su internet).
Il giallo delle foto
Attualmente poche persone possiedono le foto del volto di Attilio da morto: probabilmente soltanto i magistrati di Viterbo, i legali dei Manca e i legali dei cinque attuali imputati. Dei familiari del medico, l’unico ad averle viste è il fratello Gianluca (chiamato pure a riconoscere il cadavere). Gianluca asserisce che si tratta di immagini raccapriccianti, talmente raccapriccianti da averne chiesto la non diffusione per evitare un ulteriore trauma ai genitori.
Per evitare un trauma a Gino e ad Angela Manca, precipitatisi a Viterbo dopo il decesso del figlio, fu consigliato bonariamente di non vedere la salma di Attilio. A dare il “consiglio bonario” fu il primario del reparto di Urologia dell’ospedale “Belcolle”, il prof. Rizzotto, colui che, secondo i Manca, in quelle prime ore spiegò loro che il figlio si era fracassato la faccia andando a sbattere contro il telecomando poggiato su una superficie morbida come il piumone. Peccato che dalle foto riprese da dietro (queste sì, diffuse e visibili) si veda il corpo di Attilio riverso sul letto, col telecomando sotto il braccio.
In ogni caso, dal consiglio di Rizzotto si deduce – a prescindere dalle foto – che il volto di Attilio non doveva essere proprio normale. La stessa Polizia di Viterbo, in quelle prime ore, a dire dei familiari dell’urologo, aveva sollevato seri dubbi sul movente della droga. Tutto cambiò nel giro di qualche ora.
Ma c’è da chiedersi: perché il prof. Rizzotto diede quel “consiglio bonario” ai Manca? Solo per un alto senso di umanità? Può darsi. Ma perché portò avanti una tesi inverosimile come quella del telecomando? Perché durante l’autopsia stazionava assieme ad Ugo Manca (cugino della vittima e perno di questa storia; ora vedremo perché) dietro la porta della moglie, mentre questa eseguiva l’esame autoptico sul corpo di Attilio? Perché la sollecitava a concludere in fretta l’autopsia? Perché diceva alla moglie che c’era l’esigenza immediata di consegnare il corpo alla famiglia Manca se la famiglia Manca, come sostiene, non aveva fatto alcuna premura? Perché nelle ore immediatamente successive teneva i contatti con la madre di Ugo Manca, che da Barcellona forniva e riceveva notizie? A che titolo?
Barcellona Pozzo di Gotto
Dai rilievi effettuati dalla Polizia scientifica, nell’alloggio di Attilio sono state rilevate cinque impronte, una del cugino Ugo Manca, e altre quattro non appartenenti a persone che la vittima era solita frequentare. Dunque, in quell’appartamento, delle persone estranee all’ambiente del medico, a parte il cugino, avrebbero lasciato le loro tracce nelle ultime ore di vita dell’urologo. A chi appartengono? Non si sa neanche questo.
Da tempo vengono condotte delle inchieste giornalistiche su questo caso. Da queste sono emersi dei fatti incontestabili.
1) Che Attilio Manca, malgrado i suoi 34 anni, era un luminare della chirurgia alla prostata, essendosi specializzato a Parigi, “patria” del sistema laparoscopico, tecnica rivoluzionaria e meno invasiva del tradizionale intervento chirurgico. 2) Che Francesco Pastoia, braccio destro di Bernardo Provenzano, poco prima di impiccarsi nel carcere di Modena (che altra strana coincidenza…), disse che il boss Corleonese era stato operato e assistito da un medico siciliano. 3) Che la cittadina di Attilio, Barcellona Pozzo di Gotto, non è una cittadina come tante, ma il centro nevralgico di una strategia dell’eversione che nel ’92 portò il boss Giuseppe Gullotti (mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano) a recapitare direttamente a Giovanni Brusca (Corleonese come Bernardo Provenzano) il telecomando della strage di Capaci. 4) Che nello stesso periodo, sia Provenzano che il potente boss catanese Nitto Santapaola trascorrevano la loro latitanza proprio lì, a Barcellona Pozzo di Gotto. Protetti da chi? 5) Che il giornalista Beppe Alfano era stato ucciso perché aveva scoperto l’appartamento dove veniva nascosto Santapaola.
E allora, tenuto conto di questo contesto, chi può escludere che Attilio Manca – se davvero ha operato Provenzano – potrebbe avere scoperto gli stessi segreti di cui era venuto a conoscenza Beppe Alfano? Chi può escludere che il medico fosse venuto a capo di quella inconfessabile rete di complicità?
Anche perché, a quanto pare, alcune settimane prima di morire, il medico potrebbe avere confidato certe notizie alla persona sbagliata. Che non è di Viterbo, ma di Barcellona.
Cosa risponde in proposito la Procura di Viterbo? Che il giovane medico era un drogato e che i quattro barcellonesi indagati vanno prosciolti perché, a loro dire, “non c’entrano niente con questa storia”. Eppure c’è quell’impronta palmare di Ugo Manca, dalla quale si sarebbe potuti partire. Invece Ugo Manca dà la sua versione e viene tranquillamente creduto.
Ugo Manca è il perno – non l’unico ovviamente – attorno al quale ruota l’intera indagine.
Perché?
Il perno Ugo Manca
Condannato in primo grado nel processo “Mare nostrum” per traffico di stupefacenti, ma assolto in appello, Ugo Manca nelle ore immediatamente successive alla morte del cugino, dalla Sicilia si precipita a Viterbo per chiedere al magistrato titolare dell’indagine – a nome dei genitori e del fratello di Attilio, che però hanno categoricamente smentito – il dissequestro dell’appartamento. Perché? Nientemeno che per rivestire la salma. È un’ipotesi credibile?
Nel frattempo la madre di Ugo – secondo la testimonianza dei familiari di Attilio – oltre a tenere i contatti con il prof. Rizzotto, si affretta a chiamare un alto magistrato romano (ripetiamo: a che titolo? Per un’amicizia pregressa o per l’interessamento di qualche collega siciliano?) affinché questi possa intercedere presso la Procura di Viterbo per il dissequestro in tempi rapidi della casa. Alla fine l’appartamento non viene dissequestrato per la ferma opposizione del fratello e dei genitori di Attilio.
Ma è su quell’impronta lasciata sulla mattonella del bagno – in un luogo dove, secondo gli esperti più autorevoli, le tracce digitali tendono a distruggersi nel giro di qualche ora per la presenza di vapore acqueo – che Ugo Manca avrebbe dovuto dare spiegazioni più plausibili.
Lui, Ugo, dice che è stato davvero in quella casa, ma circa due mesi prima, quando si è recato a Viterbo per sottoporsi a un banalissimo intervento di varicocele. Chi è il chirurgo che lo opera? Attilio Manca. Incredibile. Lo stesso Attilio Manca che oggi (quando non può più difendersi perché è morto) nelle aule di giustizia e nelle interviste viene accusato dal cugino Ugo di essere stato un eroinomane, capace di usare tutt’e due le mani per drogarsi. E allora in questa storia ci sono delle cose che non tornano.
Ugo rischia gli organi genitali a causa di un cugino drogato? Scusi la volgarità, Signor Gip, ma è proprio il caso di dirlo, dato che un intervento di varicocele si fa agli organi genitali maschili. È un alibi convincente?
Perché rischiare tanto, se un intervento del genere Ugo può farlo agevolmente all’ospedale di Sant’Agata di Militello, dove presta servizio come dipendente amministrativo, o di Barcellona, o di Patti o di tanti altri nosocomi vicini? Ugo si fa duemila chilometri per recarsi a Viterbo per un’operazione così semplice? Anche questa versione non sembra per niente convincente.
Eppure, Signor Gip, sa cosa hanno detto in conferenza stampa i procuratori di Viterbo a proposito di Ugo Manca? Testuale: “Manca Ugo era in ottimi rapporti con il cugino Manca Attilio. Manca Ugo era di casa a Viterbo, in quanto punto di riferimento dei barcellonesi che dovevano farsi operare all’ospedale ‘Belcolle”.
È un aspetto che apre scenari inquietanti e che, in sostanza, conferma che ci troviamo di fronte a un caso che presenta troppe stranezze.
La prostata dell’estortore
Se da un lato la Procura laziale è portata a giustificare l’impronta palmare lasciata da Ugo Manca attraverso la storia dell’”assidua frequentazione tra cugini”, dall’altro emerge una circostanza inedita e oscura sul ruolo avuto da questo personaggio equivoco.
Sì, perché un conto è dire che Ugo contattava telefonicamente il cugino per mandare qualche barcellonese ad operarsi a Viterbo. Un altro è dire che lui a Viterbo “era di casa” per intercedere presso l’ospedale (solo con Attilio o con qualche altro medico?) per le cure alle quali dovevano sottoporsi i barcellonesi.
E qui entra in gioco un altro personaggio appartenente al mondo della mafia barcellonese. Anche lui – poco tempo prima – si reca nella città laziale per farsi operare da Attilio: si chiama Angelo Porcino, è stato condannato per estorsione, ed è uno dei quattro barcellonesi indagati per i quali la Procura laziale ha chiesto l’archiviazione.
A quanto pare ai magistrati di Viterbo non risulta neanche che Porcino – ufficialmente titolare di una sala giochi – abbia un cellulare. Dunque non si sa se questo tizio parli al telefono e con chi, se faccia uso dell’apparecchio di altri (eventualmente di chi), quali sono i contenuti dei suoi presunti colloqui telefonici soprattutto nel periodo in cui si è recato a Viterbo, e cosa abbia fatto realmente nella città laziale nei giorni della sua degenza. Non si sa praticamente nulla. Si sa solo che ha contattato Attilio – autonomamente o per mezzo di Ugo? – per un intervento alla prostata (lo stesso, guarda caso, al quale si è sottoposto Provenzano).
Non sappiamo se Porcino c’entri qualcosa in questa vicenda, però sia in lui che in Ugo Manca si riassumono due incredibili paradigmi: l’appartenenza a un mondo che si spinge fino a Viterbo per farsi curare da un medico bravissimo (ma “drogato”), e il modo di condurre le indagini da parte degli investigatori laziali.
Ma quel che appare paradossale è che non si sa neppure chi siano gli altri barcellonesi (ripetiamo: solo barcellonesi?) che Ugo Manca avrebbe portato a Viterbo per farsi operare. Magari i magistrati della Procura lo sanno, ma per riservatezza non lo dicono. Eppure in conferenza stampa hanno dato la sensazione di annaspare.
Perché se dovesse risultare che Ugo era il punto di riferimento delle operazioni e delle cure cui si sottoponeva un determinato mondo, il quadro potrebbe cambiare notevolmente. C’entra Provenzano con quel mondo barcellonese con il quale era in stretto contatto?
Ma ipotizziamo pure che Provenzano non c’entri assolutamente nulla con questa storia. Ipotizziamo che si tratti di semplici congetture.
Resta quel mondo poco scrutato dai magistrati laziali, collegato con Viterbo attraverso la figura di Ugo Manca, che potrebbe avere avuto l’esigenza di rivolgersi a un grande medico originario della stessa città per risolvere “privatamente” certi problemi di salute, stando lontano dai riflettori dell’isola. Ipotesi? Può darsi. Ma la storia della mafia è piena di casi del genere. Che proprio per questo non vanno mai sottovalutati.
L’improvvisa comparsa degli attrezzi per le operazioni chirurgiche trovati a casa di Attilio è casuale? Non lo sappiamo. Se è casuale deve essere spiegato concretamente perché. Se è legata a qualcosa di inconfessabile, in quell’appartamento, la sera dell’11 febbraio 2004 – nelle ore che hanno preceduto la morte di Attilio – potrebbe essere accaduto di tutto. Anche perché, a parte la circostanza del volto sfigurato e del testicolo gonfio – che la Procura laziale smentisce – c’è da chiarire la circostanza del parquet divelto, del peso da ginnastica rotto, di alcuni indumenti della vittima stranamente introvabili, e tanto altro che adesso vedremo.
Un eroinomane… controllato
Il giovane medico, secondo Pazienti e Petroselli, si faceva di eroina ma non era un tossicodipendente. Si drogava, a loro dire, solo in certi momenti, magari quando era depresso, ma l’eroina riusciva a tenerla sotto controllo, senza subirne dipendenza. L’eroina? Sotto controllo? Senza subirne dipendenza?
I familiari smentiscono categoricamente che Attilio si drogasse, qualche spinello al tempo del liceo, poi basta. La madre sostiene che beveva un bicchiere di vino ogni tanto, a tavola nei fine settimana, ma mai alla vigilia di un intervento chirurgico, in sala operatoria voleva essere lucido. I genitori, si sa, sono obnubilati da dolore, quindi sono portati a raccontare balle, non lo fanno per male… certo. E i colleghi, e il personale dell’ospedale “Belcolle”, e gli amici di Viterbo? Anche loro raccontano un sacco di balle. Vuoi mettere queste testimonianze con quelle dei barcellonesi? Non scherziamo. Ora ci arriviamo ai barcellonesi.
Quindi Attilio Manca era un eroinomane ma non tanto, o meglio, era eroinomane solo in certi momenti. In che senso? Beh… Qui onestamente le contraddizioni sono tali e tante che si fa fatica a venirne fuori.
Riavvolgiamo il nastro… Nei primi anni le carte processuali ci dicono che l’urologo è morto per suicidio da overdose. Adesso ci dicono che è morto per overdose senza suicidio.
Nell’ultima trance dell’indagine la parola “suicidio” misteriosamente scompare, resta solo la parola drogato. Dunque Attilio Manca, secondo i magistrati, è sì un drogato, ma “controllato”, nel senso che non può fare a meno del buco, ma vi ricorre ogni tanto, magari il giorno prima di fare un delicato intervento chirurgico, tanto per tenersi in forma. Infatti, come previsto dal programma del reparto di Urologia dell’ospedale “Belcolle”, Attilio doveva operare la mattina del 12 febbraio, quando è stato trovato morto.
Però siccome è medico sa benissimo che quell’intruglio micidiale di eroina, di alcol e di tranquillanti può portarlo alla morte, ma siccome lo sballo è sballo, più cose ci mette dentro più si assicura l’effetto psichedelico. E così mentre l’intruglio mortale circola nelle sue vene, gli salta in mente una cosa che può cambiare la sua vita: rimettere i tappi negli aghi delle siringhe. Strafatto si precipita in cucina e poi nel bagno, barcolla ma deve portare a termine la missione, senza ovviamente lasciare impronte sulle siringhe, poi torna in camera da letto, crolla sul piumone e si fracassa il volto sbattendolo sul telecomando.
Il sangue per terra è causato dall’edema polmonare scatenatosi per l’overdose, mica perché è stato pestato. Questa la tesi ufficiale.
Quando viene ritrovato morto, nel suo braccio vengono rinvenuti due buchi (gli unici in tutto il corpo). Su questo la Procura sostiene una tesi per noi del tutto nuova: che sarebbero stati praticati in tempi diversi. Ce ne sarebbe uno recente e uno più vecchio. Questo secondo Pazienti e Petroselli dimostrerebbe tre cose: che Attilio si drogava, che quella sera non era la prima volta che si drogava, e che era un drogato “controllato”. Elementare, Watson.
Lo scandalo delle impronte digitali
I magistrati non hanno spiegato per quale ragione – malgrado le ripetute richieste della famiglia Manca e dell’avvocato Repici – per ben otto anni si sono rifiutati di rilevare le impronte digitali sulle due siringhe.
In conferenza stampa hanno dichiarato che siccome le siringhe erano troppo piccole (immaginiamo delle normali siringhe da insulina: sono proprio così piccole?), la Procura non ha ritenuto di ordinare il rilevamento delle impronte perché non si sarebbe trovato nulla. È possibile una cosa del genere con i sofisticati mezzi scientifici di cui dispongono le Forze di polizia?
Soltanto poco tempo fa – dopo una precisa richiesta del Gip – le analisi sulle siringhe sono state eseguite. Su una non è stato trovato nulla, sull’altra una labile traccia non assolutamente comparabile a un’impronta, quindi da non considerare valida come prova.
Dalle analisi effettuate non è stato accertato né che Attilio si sia drogato, né che altri lo abbiano drogato forzatamente per simulare una morte per overdose. Non esiste alcuna prova sia nell’un senso che nell’altro. Però i magistrati affermano che in una delle sue siringhe è stata rinvenuta una minuscola traccia di eroina.
E così per la prima volta abbiamo sentito parlare di esame tricologico. I giudici hanno garbatamente spiegato che trattasi di analisi sul capello della vittima per accertare se questa abbia assunto degli stupefacenti. Ebbene: ci è stato detto che sì, anche nei capelli di Attilio sono state trovate delle tracce di stupefacenti. Ecco la prova “inconfutabile”.
A parte il fatto che non è stato specificato di quali stupefacenti si tratta, non si comprende perché questo esame tricologico sia saltato fuori dopo otto anni, senza che alla famiglia Manca sia stato notificato nulla, e senza che le sia stata data la possibilità di nominare un perito di parte.
Però siccome nella siringa è stata trovata eroina, siccome “è provato” che “Manca Attilio si sia inoculato volontariamente l’eroina nel braccio sinistro”, siccome i vicini di casa non hanno sentito rumori, Manca Attilio è morto drogato. Stop.
La Corda fratres
La droga, secondo i magistrati laziali, sarebbe stata una pusher romana a fornirgliela, l’unica persona, tra i cinque indagati, su cui la Procura chiede il rinvio a giudizio.
Evidentemente ci saranno prove inoppugnabili per affermare con sicurezza un assunto del genere, In conferenza stampa è stato detto che la pusher capitolina riforniva di stupefacenti il “gruppo” barcellonese presente nel Lazio. Il “gruppo barcellonese”. Di cui Attilio avrebbe fatto parte. Formato da chi?
Ecco allora che Barcellona torna alla ribalta, non come epicentro di una criminalità organizzata che ha contatti non solo con il “gotha” di Cosa nostra siciliana, della ‘ndrangheta calabrese e della camorra campana, ma con altissimi magistrati come il procuratore generale di Messina Franco Antonio Cassata – residente da sempre a Barcellona, ricadente nello stesso Distretto giudiziario messinese – oggi sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa; con un ex ministro come Domenico Nania (oggi vice presidente del Senato), con l’ex sindaco di Barcellona Candeloro Nania (cugino dell’ex ministro), con l’ex presidente della Provincia di Messina Giuseppe Buzzanca, e con tanti altri autorevoli personaggi.
Per la Procura di Viterbo, Barcellona non torna alla ribalta per questo. Torna alla ribalta per le presunte pratiche a base di droga da parte di Attilio e del “gruppo” barcellonese presente nel Lazio. Tutto qui.
Ai magistrati di Viterbo sfuggono evidentemente dei tasselli importanti per completare il mosaico.
Eppure tante volte è stato scritto – e i procuratori sicuramente lo hanno letto – che in quella cittadina della lontana Sicilia esiste un circolo paramassonico denominato “Corda fratres”, che occupa un intero primo piano di un palazzo del centro.
Chi non è di Barcellona pensa al classico circolo di paese, dove si gioca a carambola o a carte, si legge il giornale, si conversa amabilmente di corna e di politica, si organizzano dotte conferenze di letteratura e di arte. La “Corda fratres” è anche questo, ma è molto altro. Pur essendo frequentata anche da gente perbene, è un centro di potere dove i boss Gullotti e Cattafi convivono alla luce del sole col magistrato Cassata e con l’ex ministro Nania, con il cugino sindaco e col presidente della Provincia. Un livello superiore, che bypassa il livello medio delle persone perbene e decide il destino della città.
Non c’è giovane di Barcellona che, conseguita la laurea, non si iscriva alla “Corda fratres”. Sicuramente per prestigio, ma anche per “sistemarsi” professionalmente attraverso le potenti aderenze di cui dispongono i personaggi più in vista.
Come si spiega che il magistrato Franco Cassata, vero animatore del Circolo – pur essendo da anni oggetto di durissime interrogazioni parlamentari, di inchieste giudiziarie e giornalistiche, pur essendo chiacchierato per le sue amicizie discutibili – diventa Procuratore generale di Messina? Solo oggi, messo sotto inchiesta dalla Procura di Reggio Calabria con accuse gravissime, al Csm si parla di un suo trasferimento per incompatibilità ambientale. Solo oggi, cioè quando Cassata è alla soglia della pensione.
Come si spiega il fatto che diverse testimonianze rese all’Autorità giudiziaria contro Attilio Manca provengano dall’ambiente della “Corda fratres” fortemente intossicato da certi condizionamenti? Testimonianze che cozzano con quelle di Viterbo, che paiono di segno completamente opposto.
E qui per dovere di cronaca bisogna dire che i rapporti “altolocati” intessuti all’interno di quel sodalizio non si fermano qui. C’è l’amicizia stretta fra Ugo Manca (e la sua famiglia) con il giudice Cassata, l’amicizia stretta fra Ugo Manca (e la sua famiglia) con Rosario Cattafi, l’amicizia stretta fra queste variegate entità e parecchia gente recatasi dai magistrati a testimoniare contro quel “drogato di Attilio Manca”. Significa qualcosa o pensiamo che i contesti non contino nulla?
Le telefonate scomparse
Ma ipotizziamo pure, Signor Gip, che Attilio fosse davvero un drogato. Questo spiega a tutti i costi una morte per overdose? Questo significa che i magistrati non abbiano il dovere di indagare a trecentosessanta gradi? Questo significa non considerare anche l’ipotesi dell’omicidio, magari tenendo conto che la scena del presunto delitto potrebbe essere stata camuffata?
Anche ammesso che Attilio fosse stato un drogato, non sarebbe stata utile una maggiore prudenza sulla dinamica della morte, dato che diversi elementi ci portano a ritenere che quella sera, nella casa di Attilio Manca, potrebbe esserci stato uno scontro violento?
Non è detto che sia così, ma non può essere escluso a priori. Eppure la Procura di Viterbo lo ha escluso dicendo “Non ci sono elementi”. Li ha cercati?
Fin dall’inizio si è sposata la tesi della morte per overdose “volontaria”, e non ci si è spostati di un millimetro.
Restano poi da chiarire i gialli di almeno due telefonate intercorse fra Attilio e la sua famiglia, che secondo il legale dei Manca non risultano nei tabulati telefonici.
La prima telefonata proviene dalla Francia nello stesso periodo in cui viene operato Provenzano. In quel caso Attilio dice alla madre che deve assistere a un intervento. A quale? Non si sa.
Il procuratore Pazienti ha affermato che dai controlli effettuati, il dottor Manca in quel periodo risultava in servizio al “Belcolle”. Come se con un aereo non è facile raggiungere la Francia in poche ore anche nei fine settimana o nei giorni liberi.
La seconda telefonata riguarda l’ultimo colloquio fra Attilio e la madre, intercorso il giorno prima del ritrovamento del cadavere. Il medico – chissà da quale luogo e in quale situazione, ma sicuramente provato – avrebbe lanciato dei messaggi in codice in cui avrebbe cercato di dire di cercare la verità proprio a Barcellona Pozzo di Gotto.
Congetture anche queste, certo, ma ci chiediamo se è vero che nei tabulati quelle due telefonate non risultano. I procuratori hanno detto che quelle telefonate non ci sono mai state. Ne prendiamo atto.
Quel che appare certo è che ci troviamo di fronte a tanti, troppi, “buchi neri” che Lei, Egregio Gip, è chiamato a chiarire attraverso un compito che si prospetta assai delicato. Buon lavoro.
Luciano Mirone
Articolo del 6 Settembre 2013 Fonte attiliomanca.it
CASO MANCA, NON FINISCE QUI
di Luciano Mirone
da Linformazione.eu
Solo “incompetenza” della Procura della Repubblica di Viterbo o qualcos’altro? Il caso di Attilio Manca andrebbe trasferito alla Procura nazionale antimafia per manifesta “incompetenza” dei magistrati – come giustamente proposto nei giorni scorsi dal direttore di “Antimafia 2000”, Giorgio Bongiovanni – o prima si dovrebbero capire le ragioni di certe incredibili omissioni, ed eventualmente aprire un’inchiesta? Sì, perché a quasi dieci anni dalla morte di Attilio Manca, certe parole come “incompetenza” o “negligenza” non appaiono proporzionate a un’indagine dai contorni inquietanti come quella portata avanti dal sostituto procuratore Renzo Petroselli, avallato dal capo della Procura di Viterbo, Alberto Pazienti.
Ipotizziamo che dietro la morte di Attilio Manca non ci sia la mafia. Ipotizziamo pure che si tratti di un ordinario fatto di cronaca nera – suicidio o omicidio – verificabile in qualsiasi città della provincia del Centro o del Nord Italia.
Ipotizziamo che la vittima sia un tossicodipendente (particolare assolutamente ininfluente per collegare una circostanza del genere con un enigma complesso come questo). Per il caso Manca è necessaria una specifica competenza antimafia o è sufficiente fare delle indagini serie?
Quando non si prendono le impronte digitali su due oggetti che potrebbero risultare determinanti come le siringhe trovate a pochi metri dal cadavere (eppure le impronte sono state prese in tutto l’appartamento, nel garage e perfino nella macchina di Attilio; dappertutto tranne che su quelle due siringhe); quando non viene effettuato l’esame del Dna su certi oggetti trovati nell’appartamento; quando non si fa richiesta delle telefonate essenziali, possiamo parlare solo di “incompetenza”?
Invece in questa inchiesta ci sono degli strafalcioni talmente incredibili da fare accapponare la pelle perfino a un mediocre lettore di libri gialli. Bastava partire da quei pochi elementi a disposizione per produrre una ipotesi parallela a quella del “suicidio per overdose di eroina, tranquillante e alcol”, sostenuta con sicumera degna di miglior causa dai magistrati laziali: ovvero l’ipotesi del delitto di mafia semplice, o legata all’operazione alla prostata di un boss di Stato come Bernardo Provenzano. Bastava partire semplicemente da questo per capire meglio.
Due siringhe. Due buchi in un braccio. Due telefonate. Una impronta palmare. Un cadavere con il setto nasale deviato, dei lividi e un testicolo enorme. Elementi nudi, crudi, essenziali per condurre un’indagine a trecentosessanta gradi.
Il cadavere è quello di Attilio Manca, 34 anni, originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), in servizio da un paio di anni all’ospedale “Belcolle” di Viterbo, un grande urologo, il primo in Italia ad operare il cancro alla prostata con il sistema laparoscopico, appreso a Parigi poco tempo prima.
Le due siringhe. Trovate in cucina e nel bagno, con tappo salva ago inserito; “prove” inoppugnabili, secondo la Procura di Viterbo, del “suicidio per overdose”. Eppure vicino al cadavere vengono rinvenuti anche degli strumenti per le operazioni chirurgiche, mai visti prima (un bisturi, delle forbici e un ago con del filo da sutura inserito), un peso da ginnastica rotto, i granuli interni sparsi negli angoli più nascosti, una parte del parquet divelto.
I due buchi. Nel braccio sbagliato, quello sinistro, dato che Attilio è un mancino puro, mangia con la sinistra, scrive con la sinistra, opera con la sinistra, quindi quei due buchi sarebbero dovuti essere nel braccio destro.
Le telefonate. L’ultima, o meglio, la “presunta” ultima telefonata, quella dell’11 febbraio 2004, intorno alle 9 del mattino, il giorno prima del ritrovamento del cadavere. Attilio, in quella telefonata, fa un discorso apparentemente strano: chiede ai genitori Angela e Gino di portare dal meccanico la sua moto, che dovrà servigli per agosto, quando tornerà in Sicilia. “Ma siamo a febbraio – dice la madre –. Per agosto mancano sei mesi”. Attilio si arrabbia. Angela, che solitamente riesce ad interpretare anche i sospiri del figlio, stavolta non capisce. A distanza di quasi dieci anni dice: “Era un messaggio preciso. Che Attilio, in quel momento, non poteva rendere esplicito perché probabilmente si trovava al cospetto dei suoi carnefici”.
La parola in codice non è la moto, ma la località della casa al mare: Tonnarella, un paio di chilometri da Barcellona Pozzo di Gotto, luogo dove grandi latitanti come Nitto Santapaola sono stati ben nascosti e ben protetti, ma soprattutto luogo che, secondo i familiari di Attilio, potrebbe essere legato al possibile passaggio di un altro grande boss, quel Bernardo Provenzano, protetto per quarant’anni dallo Stato, e in quel periodo bisognoso di cure per un cancro alla prostata operato appena tre mesi prima a Marsiglia, guarda caso col sistema laparoscopico. La moto da fare aggiustare è il pretesto. La richiesta è di duplice significato, secondo i familiari di Attilio: qualcuno si rechi urgentemente “sul posto”; se mi succede qualcosa sappiate che la chiave di volta è Barcellona Pozzo di Gotto. “Evidentemente Attilio, in quel momento, non poteva dirlo in modo esplicito. Era ostaggio di qualcuno”, dice la madre. “Per questo si è arrabbiato. Si è sentito impotente. È stata l’unica volta in vita mia in cui non ho capito mio figlio”.
Ma queste, diciamo, sono congetture. E prendiamole come tali. Almeno per ora.
La realtà ci dice che, attraverso quella telefonata, si sarebbero potute individuare due cose: il luogo dove in quel momento si trovava Attilio e forse le persone che erano con lui. Non è cosa da poco. Il luogo ci avrebbe detto “perché” Attilio era lì. Ed è quel “perché” a costituire ancor oggi uno dei tanti, vistosi “buchi neri” di questa inchiesta. L’11 febbraio 2004. Gli inquirenti non hanno mai saputo indicare dove e con chi è stato Attilio Manca il giorno prima di essere stato trovato morto.
Intanto quella telefonata “ufficialmente” non c’è. Per il sostituto procuratore di Viterbo, Renzo Petroselli, per il Procuratore capo, Alberto Pazienti, per gli inquirenti che si son occupati del caso, non è mai esistita. Si tratta, dicono, di fantasie di due genitori obnubilati dal dolore.
Peccato che di quell’ultima telefonata non siano testimoni solo i genitori, ma una schiera di investigatori, di parenti e di amici che, poche ore dopo la morte di Attilio, hanno posto ad Angela e a Gino la solita, semplice domanda che si pone a dei genitori dopo il decesso di un figlio: “Quando l’avete sentito l’ultima volta?”. “Ieri mattina verso le 9”. Chiaro, inequivocabile, lapalissiano. O no?
“Le cose sono due”, dicono Angela e Gino Manca. “O siamo dei folli, o la telefonata, chissà per quale misteriosa ragione, si è misteriosamente cancellata”.
Passiamo all’altra telefonata. Quella intercorsa fra Attilio e i suoi genitori nell’autunno del 2003, tre mesi prima della morte. Non da un posto qualunque, ma dal Sud della Francia. Non in un momento qualsiasi, ma proprio nel preciso momento in cui a Marsiglia è “sotto i ferri” Bernardo Provenzano – allora latitante con il falso nome di Gaspare Troia, non ancora identificabile da Attilio – per quel carcinoma alla prostata che gli sta creando problemi seri. Non per una vacanza qualsiasi, ma per “assistere a un’operazione chirurgica” (testuale frase riferita dai genitori).
Ebbene. Mentre la prima telefonata “non esiste”, la seconda non è stata richiesta dalla Procura di Viterbo alle società telefoniche. Oggi – a distanza di quasi dieci anni dalla morte di Attilio Manca – siamo fuori tempo massimo. Un tabulato telefonico, dopo cinque anni, viene distrutto, mandato al macero. Il fatto si è verificato nel 2003, gli inquirenti, malgrado le richieste della famiglia Manca e dell’avvocato Fabio Repici, fino al 2008 non hanno ritenuto di fare questo semplice riscontro. E anche quest’altro fatto è rimasto avvolto nel mistero.
Come sono rimaste avvolte nel cellophane della Polizia scientifica le due famose siringhe. Per otto anni i Manca e il loro legale hanno chiesto a gran voce di rilevare le eventuali impronte su quei due oggetti di fondamentale importanza, ma i magistrati hanno risposto che, siccome le siringhe erano troppo piccole, era impossibile effettuare questo esame. Basta consultare un comune investigatore per sapere se è possibile o meno prendere le impronte su delle superfici molto più piccole. Tutti rispondono: sì, è possibile.
voluta la richiesta del Gip perché quegli oggetti venissero analizzati. Ebbene: su una siringa non è stato trovato nulla, sull’altra una leggerissima traccia non ritenuta comparabile a una impronta, con una labile incrostazione di eroina.
Questo dimostra due cose: che intanto le siringhe non erano poi così piccole come asserito dalla Procura, e che non ci sono prove che ad usarle sia stato Attilio, così come non ci sono prove che siano stati altri. Peccato, però, che diversi elementi portino a privilegiare la seconda ipotesi. Innanzitutto per quel cadavere che, più che un suicidio da overdose, appare la “sintesi” di una colluttazione violenta ma brevissima,; poi per quella “location” non proprio ideale per un suicidio; infine perché chi ha usato le siringhe, o ha indossato i guanti (e Attilio non lo ha fatto, perché di guanti, nell’appartamento, non ne sono stati trovati, e dalle foto si vede che Attilio non indossa dei guanti); o ha cancellato le impronte, oppure ha sostituito le siringhe con cui ha drogato Attilio.
Evidentemente gli inquirenti, in tutti questi anni, hanno pensato che il dottor Manca, in preda alla sensazione psichedelica del “buco”, abbia riposto i tappi negli aghi ed abbia accuratamente pulito le siringhe dopo essersi drogato.
Tutto lascia supporre, invece, che l’urologo, con un’azione fulminea, sia stato picchiato, immobilizzato e drogato. In ogni caso, ci chiediamo: se quell’accertamento sulle siringhe fosse stato eseguito subito, e avesse dato l’esito negativo di otto anni dopo, l’inchiesta avrebbe preso quella piega? Si sarebbe parlato di suicidio da overdose? In questa maniera, invece, l’intera impalcatura investigativa è stata viziata per dieci anni da questa mastodontica omissione.
Nessuna risposta sul perché mancassero alcuni indumenti della vittima come le mutande, i calzini e la camicia, indossati fino ad alcune ore prima.
Quello appena descritto non è un fatto di mafia, ma un fatto di cronaca nera che può verificarsi in una tranquilla città della provincia italiana.
A prescindere dal movente della morte, il comportamento degli inquirenti di Viterbo porta o no a pensare che l’”incompetenza” è il prezzo da pagare per non consentire all’inchiesta di fare il salto di qualità?
Il “salto di qualità” è il delitto di mafia, con gli elementi affiorati alcune settimane dopo la morte di Attilio.
In quel caso la Procura di Viterbo avrebbe potuto essere dichiarata “incompetente”, perché Viterbo non è Palermo, Napoli o Catania. Ma se anche senza la parola mafia non si eseguono accertamenti così elementari, viene il dubbio che nella città laziale c’è qualcosa che non quadra. Addirittura è stato escluso il delitto semplice. Magari ci saranno fatti inoppugnabili per sostenere questa tesi, ma una cosa è certa: le omissioni ci sono e sono gravissime.
E in casi analoghi l’esperienza ci insegna che più una morte eccellente viene “banalizzata”, più potrebbe avere dei retroscena clamorosi. La storia italiana è piena di questi episodi, da Pasolini a Fava, da Mattei a Moro, solo per citarne alcuni.
Perché il caso Manca potrebbe essere clamoroso?
Innanzitutto perché a dire che Bernardo Provenzano è stato operato a Marsiglia, e successivamente assistito in Italia “da un urologo siciliano”, è Francesco Pastoia, braccio destro del boss Corleonese, guarda caso impiccatosi nel carcere di Modena nel 2005. Nel periodo dell’operazione e del decorso post operatorio, “l’unico urologo siciliano” in grado di asportare un tumore alla prostata col sistema laparoscopico è Attilio Manca. L’unico a sapere dove mettere le mani per un intervento eseguito con una tecnica diversa dal tradizionale “taglio” è sempre Attilio Manca, magari coadiuvato da altri medici.
Quindi per una impronta palmare trovata nel bagno di Attilio. Un’impronta appartenuta al cugino Ugo Manca, condannato in primo grado al processo “Mare nostrum” a 9 anni e 8 mesi, in quanto ritenuto un trafficante di droga per conto della mafia barcellonese, ma assolto in appello, personaggio centrale in questa storia, ma con una posizione – almeno questa è la sensazione – ridotta a quella di un figurante o addirittura di una semplice comparsa. Ugo Manca giustifica quell’impronta dicendo di essere stato in quella casa due mesi prima, ospite del cugino per una banalissima operazione di varicocele eseguita da Attilio, alla quale si sarebbe potuto sottoporre benissimo all’ospedale di Sant’Agata Militello (presso il quale lavora), di Patti, di Barcellona, di Messina. Il fatto singolare è che da qualche tempo – da quando la famiglia di Attilio parla di omicidio mafioso – Ugo Manca, assieme ad altri “amici” barcellonesi, dichiara ai magistrati che l’urologo era un tossicodipendente, abituato a bucarsi anche con la mano destra. E allora perché decide di farsi operare da un drogato che può mettere a rischio i suoi organi genitali?
Il procuratore Pazienti e il Pm Petroselli, lo scorso anno, in una conferenza stampa, hanno dichiarato che Ugo Manca “a Viterbo era di casa”, essendo “il punto di riferimento delle operazioni dei barcellonesi all’ospedale di Viterbo”. Di che tipo di barcellonesi e di che tipo di operazioni si tratta? Ugo Manca è la cinghia di trasmissione fra il cugino e un certo tipo di ambiente?
A tal proposito, c’è un indizio da non sottovalutare: poche settimane prima di morire, Ugo raccomanda ad Attilio tale Angelo Porcino, condannato per estorsione e indicato dal pentito Carmelo Bisognano come “uno dei boss più importanti di Barcellona”. Ugo porta a Viterbo per operazioni, consulti e visite solo Porcino o altri personaggi appartenenti a un certo mondo? Addirittura risulta che Porcino – gestore di una sala giochi – non possieda neanche un cellulare. Quindi non si sa se Porcino sia stato davvero nel Lazio pochi giorni prima della morte di Attilio. Da questo esempio, in ogni caso, si desume che Attilio potrebbe essere stato il chirurgo di certe persone che hanno avuto l’esigenza di essere curate lontane dal loro ambiente.
Che c’entra Barcellona con Bernardo Provenzano? La stessa cosa che c’entrano con “Binnu ‘u tratturi” personaggi come Giuseppe Gullotti, Pietro Rampulla e Rosario Cattafi. I primi due hanno recapitato a Bernardo Brusca il telecomando della strage di Capaci, il terzo è stato ritenuto (poi assolto) uno dei mandanti esterni della strage di Capaci. Addirittura pare che Cattafi – oggi presunto pentito – sia più potente degli stessi Provenzano e Santapaola, al punto da essere nelle condizioni di indirizzarne le decisioni. Non un semplice boss, ma uno dei pochi mafiosi in grado di interagire con i servizi segreti deviati, con certa politica e con la massoneria deviata.
Cattafi a Barcellona fa parte del circolo “Corda fratres”, dove c’era anche Gullotti e dove ci sono ancora l’ex Procuratore generale della Corte d’Appello di Messina, Franco Antonio Cassata (intimo di Cattafi), l’ex ministro Domenico Nania, l’ex sindaco Candeloro Nania, l’ex presidente della Provincia, Buzzanca. Non un circolo come tanti, ma un circolo “para massonico” (secondo la Guardia di Finanza) dove, in mezzo a diversa gente perbene, ci trovi un gruppo di potere molto unito e coeso. Di questo gruppo fa parte anche Ugo Manca, amico intimo dei boss, come dei “colletti bianchi”. Ugo Manca, adesso, assieme ad altri quattro barcellonesi (compreso Porcino) esce dall’inchiesta per volere del Gip, su richiesta del Pm Petroselli. Che in questi anni ha chiesto per ben tre l’archiviazione dell’inchiesta.
Adesso resta indagata ufficialmente una presunta spacciatrice romana che, secondo i magistrati, avrebbe ceduto ad Attilio la “dose mortale”. Quindi non più mafia, ma solo droga, così come la Procura viterbese ha sempre teorizzato.
Una decisione che ha fatto mobilitare centinaia di gente comune e diversi intellettuali che, tramite, facebook, hanno espresso la loro indignazione.
Lo scorso 2 settembre un corteo pacifico ha attraversato le vie di Barcellona Pozzo di Gotto: circa trecento persone – assieme al leader delle Agende rosse Salvatore Borsellino, all’europarlamentare Sonia Alfano, al presidente di Azione Civile Antonio Ingroia, al sindaco di Messina Renato Accorinti, al sindaco di Barcellona Maria Teresa Collica – si sono stretti attorno alla famiglia Manca, chiedendo verità e giustizia su un caso ancora irrisolto.
Il 30 settembre, alla Camera dei deputati, sarà presentato il libro di Luciano Armeli Iapichino, “Le vene violate”, un dialogo interiore con l’urologo Attilio Manca.
Sarà un’impressione, ma crediamo che questa storia non finisca qui.
Articolo del 20 Gennaio 2014 da tusciaweb.eu
Caso Manca, chiesto il rinvio a giudizio per spaccio
di Stefania Moretti
Viterbo – Resta in piedi solo l’ipotesi di spaccio per Monica Mileti.
Per l’unica indagata per il caso di Attilio Manca, il giovane medico trovato morto a Viterbo, la procura di Viterbo ha chiesto il proscioglimento dal reato di omicidio colposo per cessione di droga, prescritto dal 2011.
Il pm Renzo Petroselli vuole il processo solo per lo spaccio della dose letale di eroina che ha stroncato Manca dieci anni fa.
Solo la pubblica accusa ha parlato all’udienza preliminare di stamattina. Una requisitoria di poco meno di un’ora in cui il sostituto procuratore ha riepilogato gli indizi a carico dell’imputata Monica Mileti, cinquantenne romana.
Sarebbe stata lei, secondo le indagini, a cedere al giovane urologo di Belcolle la dose di eroina che lo ha stroncato il 12 febbraio 2004, nella sua casa alla Grotticella (Viterbo). L’accusa lo deduce dall’incontro tra Mileti e Manca il giorno prima della sua morte. L’urologo avrebbe dovuto dare alla donna una ricetta medica ma, per la procura, la cinquantenne avrebbe consegnato a Manca la dose letale di eroina proprio in quell’occasione. A dimostrare l’avvenuto incontro ci sarebbe un’impronta palmare dell’imputata sull’auto del dottore.
Per il fratello del medico, Gianluca Manca, presente all’udienza “la procura si muove sulle solite incertezze giuridiche. Parlano di indizi, ma non hanno prove”. Con lui c’è l’ex pm di Palermo Antonio Ingroia, da oggi avvocato di parte civile dei Manca insieme al collega Fabio Repici.
“La procura parla anche di testimoni a sostegno del fatto che Attilio si drogasse – afferma Ingroia -. Ma per noi sono tutti testimoni “interessati”. Uno è addirittura un ex indagato”.
Dai dieci indagati iniziali, il cerchio si è stretto prima su sei, cinque dei quali originari di Barcellona Pozzo di Gotto come il giovane medico. La sesta era Monica Mileti, unica donna e unica romana del gruppo. E ad oggi, unica indagata, dopo l’archiviazione degli altri, tra cui anche il cugino di Manca.
I familiari sostengono da sempre la tesi del delitto di mafia: Attilio sarebbe stato ucciso perché testimone scomodo, dopo aver operato il capo di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano. Lo direbbero quei due buchi sul braccio sinistro, quando Attilio era mancino. Le siringhe, analizzate dopo otto anni, senza neanche le impronte di Attilio e sigillate col tappo salva-ago subito dopo l’uso. E poi i tabulati e la telefonata introvabile dalla Francia: risale all’ottobre 2003. Proprio quando Attilio, a detta della madre, era in Costa Azzurra per un intervento, contemporaneamente all’operazione del boss alla prostata. La madre Angela Manca ricorda distintamente di aver parlato al telefono col figlio dall’estero, ma dai tabulati non risulta. Per tutti questi motivi, tramite indagini difensive, sperano di poter far riaprire il caso dalla procura nazionale antimafia.
Gli inquirenti viterbesi tagliano corto: le impronte sulle siringhe non erano rilevabili già dal primo giorno per le loro dimensioni. Il fatto che Manca fosse mancino non gli avrebbe impedito di bucarsi. Il suo passato da assuntore di droga risulterebbe anche dall’esame del capello. Non un omicidio di mafia, insomma, ma una disgrazia di droga, come dichiarò lo stesso procuratore capo Alberto Pazienti alla conferenza stampa indetta dopo la chiusura delle indagini.
Alla colpevolezza di Monica Mileti i Manca non hanno mai creduto. Ma stamattina si sono costituiti comunque parte civile. “Credo sia d’obbligo usare ogni strumento procedurale per cercare la verità – ha affermato il fratello della vittima prima dell’udienza -. In dieci anni la procura di Viterbo non ha mai fatto indagini, se non lacunose e superficiali. Cercare la verità a 360 gradi è il compito della magistratura. Noi bussando alla procura di Viterbo abbiamo ricevuto solo porte in faccia”.
Alla prossima udienza del 3 febbraio parleranno Ingroia e Repici per la famiglia Manca, poi il difensore dell’imputata Cesare Placanica. La decisione spetterà al gup Franca Marinelli.
Fonte: antimafiaduemila.com
Dieci anni fa moriva Attilio Manca. Intervista ad Angelina, sua madre
di Sara Donatelli – 2 novembre 2014
Il 12 febbraio 2004 viene trovato, nella sua abitazione di Viterbo, il corpo senza vita di Attilio Manca. La sua morte viene sin da subito identificata come un suicidio causato da overdose ma tanti indizi portano invece a pensare che si tratti di un omicidio. O meglio, di una vera e propria esecuzione mafiosa. Le motivazioni? Innanzitutto l’appartenenza territoriale dell’uomo e la sua professione: Attilio Manca è un urologo siciliano, precisamente di Barcellona Pozzo Di Gotto, divenuta negli ultimi decenni uno dei punti cruciali nel rapporto tra Cosa Nostra, servizi deviati e massoneria. A Barcellona Pozzo di Gotto viene ucciso il giornalista Beppe Alfano. A Barcellona Pozzo di Gotto esiste il circolo “Corda Fratres”, strettamente legato al boss Gullotti (ritenuto il mandante del delitto di Beppe Alfano) e Rosario Pio Cattafi. A Barcellona Pozzo di Gotto viene costruito il telecomando per la strage di Capaci. A Barcellona Pozzo di Gotto Provenzano vive parte della sua latitanza protetto all’interno di un convento. Barcellona Pozzo di Gotto è il paese di Attilio Manca, il migliore urologo in circolazione proprio nel periodo in cui, nel 2003, il boss corleonese necessita di un’operazione chirurgica a causa di un tumore alla prostata. Cosa fa pensare dunque che Attilio Manca sia stato ucciso e che non si sia suicidato? Nel 2005 il mafioso Francesco Pistoia viene intercettato mentre parla degli omicidi commessi da Provenzano ed afferma che questi è stato visitato da un urologo siciliano. Tre giorni dopo il boss viene trovato, in circostanza misteriose, suicida nella sua cella. L’unico urologo siciliano in quel periodo in grado di operare il cancro alla prostata per laparoscopia è Attilio Manca. Nel 2007 Vincenza Bisognano (moglie e sorella di boss della mafia barcellonese) viene intercettata mentre, trovandosi in auto con altre persone, parla di Provenzano e della morte di Attilio Manca. Un amico della donna dice: «Ma questo ragazzo era a Roma. Chi doveva dargli fastidio?». La Bisignano risponde: «Perché lui l’aveva riconosciuto”.
Ma nonostante siano tanti gli indizi che avvalorano la tesi dell’omicidio, ad oggi non è ancora stata fatta piena luce sulla morte di Attilio Manca. La sua vicenda e la sua atroce morte rappresentano una delle pagine più buie della storia del nostro Paese. Ed è impossibile non constatare come lo Stato più volte abbia volutamente ignorato, o ancor peggio, nascosto ed insabbiato tutto quello che si cela dietro questa vicenda. Uno Stato che, come spesso accade, non vuole affrontare le proprie debolezze e le proprie mancanze. Uno Stato che permette per quarant’anni la latitanza di uno spietato boss ma non permette ad una madre di conoscere cosa sia realmente accaduto al figlio. Tante le domande. Ci si chiede ad esempio perché Salvatore Gava, ex capo della Squadra mobile di Viterbo (condannato dalla Cassazione per aver falsificato i verbali sui fatti accaduti alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001) scriva che nel periodo di degenza di Provenzano a Marsiglia, Attilio Manca non si sarebbe mosso dall’ospedale Belcolle di Viterbo mentre invece successivamente scopriremo che proprio nei giorni in cui Provenzano era sotto i ferri in terra francese, il dottor Manca era assente dall’ospedale. Ci si chiede perché il Procuratore Capo Alberto Pazienti e del PM Renzo Petroselli in una conferenza stampa sostengano fortemente la tesi del suicidio e non prendano minimamente in considerazione la tesi dell’omicidio. Su quali basi se negli atti della Procura di Viterbo non troviamo la perizia tricologica dalla quale si evincerebbe che Attilio era un consumatore abituale di stupefacenti? Il collegamento tra la morte di Attilio Manca e la latitanza di Bernardo Provenzano è dunque evidente. Palesemente evidente. Attilio viene ucciso perché, divenuto testimone scomodo, avrebbe potuto non solo porre fine alla latitanza del boss ma anche rivelare nomi e cognomi di tutti quei personaggi dello Stato che quella latitanza la stavano favorendo. Attilio Manca è stato ucciso. Ucciso in maniera disumana come testimoniano le foto diffuse dalla famiglia in cui è possibile rendersi conto (guardando ad esempio il setto nasale distrutto) del violentissimo pestaggio subito da Attilio. In questo scenario assurdo e desolante la famiglia dell’urologo non ha mai smesso di urlare e chiedere giustizia. Ne abbiamo parlato con lei, Mamma Angela, la persona che meglio conosceva Attilio e che in questi anni ha vissuto dignitosamente il proprio dolore, trasformandolo in forza e voglia di verità.
Buongiorno signora Manca, La ringraziamo innanzitutto per averci dato la possibilità di intervistarLa, consapevoli del dolore che ogni volta tutto questo può suscitare. Come detto prima, il corpo di Attilio viene ritrovato senza vita il 12 febbraio 2004. Che ricordi ha dei giorni precedenti alla tragedia? Avete mai percepito qualcosa di strano, o diverso, da parte di Attilio?
Sentivamo Attilio un po’ strano, meno affettuoso del solito, sfuggente nelle telefonate. Personalmente non mi rendevo conto della grande preoccupazione che lo tormentava. Anche i colleghi con i quali lavorava presso l’Ospedale Belcolle di Viterbo hanno notato che negli ultimi giorni era molto preoccupato. Ma Attilio non parlò con nessuno dei problemi che stava vivendo.
Come avete saputo della morte di Attilio?
Abbiamo appreso della sua morte tramite il padre di Ugo Manca, che ha comunicato la notizia a mio figlio Gianluca a cui è stato immediatamente riferito che la morte del fratello era stata causata da un’ overdose e che vicino al cadavere erano state trovate due siringhe. Gli fu però raccomandato di dirci che invece nostro figlio era morto a causa di un aneurisma per non aggiungere altro dolore e per tutelare la memoria di Attilio. Solo il giorno del funerale abbiamo saputo che invece era morto per una dose massiccia di eroina ,tranquirit e alcool. La cosa assurda è che, mentre noi ne eravamo all’oscuro, tutti a Barcellona Pozzo di Gotto ne erano a conoscenza. Chi era stato a divulgare la notizia?!
Cosa avvenne dopo?
I giorni ed i mesi successivi, anche se noi abbiamo parlato subito di omicidio, siamo stati circondati da un immenso affetto. Gli amici di Attilio, i conoscenti e tutta la città si è stretta con affetto attorno a noi. Ma, esattamente un anno dopo, quando abbiamo cominciato a parlare di mafia e soprattutto del boss Bernardo Provenzano, sono magicamente spariti tutti. Sulla vicenda di Attilio sono però stati scritti tre libri: “L’enigma di Attilio Manca” di Joan Queralt, “Le vene violate” di Luciano Armeli
e “Un suicidio di mafia” di Luciano che ha ricostruito tutta la vicenda giudiziaria con atti giudiziari ,interviste ,documenti. Questi libri hanno sicuramente svolto un grande ruolo. Soprattutto hanno fatto conoscere ancora di più la storia di mio figlio, ed io sono molto grata agli autori che ormai fanno parte della mia famiglia .
Cosa vi ha spinto a divulgare le foto del corpo martoriato di Attilio?
Io non avrei mai voluto vedere quelle foto. Ma dopo 10 anni è stato proprio mio figlio Gianluca a volerle divulgare per far vedere come avevano massacrato Attilio. Per me e mio marito è stato un trauma perché per la prima volta abbiamo realizzato cosa ha dovuto subire il nostro adorato figlio .
Ci sono stati dei momenti in cui avete pensato di mollare questa estenuante lotta per la verità?
Bisogna innanzitutto riconoscere che a Barcellona Pozzo di Gotto qualcosa è cambiato. Abbiamo un sindaco, Maria Teresa Collica che cerca, fra mille difficoltà, di ” voltare pagina “. Come lei stessa sostiene più volte, c’è molta più conoscenza del problema mafia da parte dei cittadini ,ma sicuramente la strada da percorrere è ancora lunga e piena di ostacoli. Pe quanto riguarda noi possiamo dire che sicuramente ci sono dei momenti di sconforto, di stanchezza, di delusione, di amarezza. Ma mai e poi mai abbiamo pensato di mollare. Attilio merita Verità e Giustizia!
Attilio é stato riconosciuto come vittima di mafia. In primo luogo dallo stesso Don Ciotti e poi addirittura dal papa. Che ricordo ha di quel giorno?
Don Ciotti non ha creduto dal primo istante alla morte per droga e in questi anni ci ha dimostrato tanta vicinanza e un grande affetto . Ha inserito il nome di Attilio fra le vittime di mafia perché lui sa benissimo che purtroppo ci sono dei casi in cui è molto difficile cristallizzare quella verità giudiziaria che è sotto gli occhi di tutti . E’ tra l’altro stata una grande emozione leggere il nome di Attilio davanti al Papa. Ma soprattutto mi ha commossa il dolore e l’atteggiamento assorto del pontefice mentre venivano scanditi i nomi delle vittime di mafia.
La storia di Attilio è per certi versi riconducibile alla vicenda di Nino e Ida Agostino. Tanti giovani ragazzi uccisi perchè entrati dentro un meccanismo troppo grande e pericoloso. Purtroppo dopo 25 anni la famiglia Agostino aspetta ancora giustizia. 25 anni sono una vita. È questo secondo lei il segnale di una giustizia (volutamente) troppo lenta? Cosa prova quando pensa ad uno stato che dopo 25 anni non fa luce sull’uccisione di un giovane ragazzo e grande servitore dello Stato?
La storia di Attilio è simile a quella di Nino Agostino perché in entrambi i casi non c’è la volontà di arrivare alla verità. In entrambi i casi ritroviamo quella parte deviata dello Stato . Per Nino sono stati sottratti i documenti , per Attilio sono state cancellate telefonate dai tabulati, falsificati documenti o esibiti esami mai effettuati ( come l’esame tricologico ). E’ difficile per noi familiari lottare contro certi poteri. Ma noi, come la famiglia Agostino, non ci arrenderemo mai.
Ogni giorno assistiamo alla delegittimazione dei PM impegnati nel complicatissimo e ostacolatissimo processo sulla trattativa stato-mafia. E questa macchina del fango si può ricollegare a quella che è stata messa in moto nei confronti di Attilio. Uno dei medici più bravi del nostro paese, infangato dall’insinuazione del suicidio e dell’abuso di droghe. Che sensazioni ha lei al riguardo?
Purtroppo avverto una non volontà di giungere alla verità sulla trattativa tra lo Stato e la mafia, probabilmente perché questa vede coinvolti molti protagonisti politici ed istituzionali che ancora oggi detengono il potere. Non si vuole la verità e per questo noi stiamo lottando contro un muro di gomma: proprio perché dietro l’omicidio di Attilio c’è Bernardo Provenzano e la rete di istituzioni che ne proteggeva la latitanza . Non bisogna dimenticare che Provenzano si muoveva liberamente su tutto il territorio nazionale ed è andato persino a Marsiglia!
Il Maresciallo Saverio Masi, il caposcorta del magistrato Antonino Di Matteo, sostiene di aver individuato Provenzano già nel 2001 e per tale motivazione ha denunciato i suoi superiori per la mancata cattura del boss. Cosa prova quando pensa che la morte di Attilio poteva essere evitata?
Ho avuto modo di incontrare diverse volte Saverio Masi: una persona perbene, verso la quale provo stima e affetto. Ricordo ancora che la prima volta che ci incontrammo e lui mi disse “Perdonami se non ho potuto catturare Provenzano; se lo avessi fatto, tuo figlio sarebbe ancora vivo”. Lui non ha nessuna colpa perché glielo hanno letteralmente impedito. E si, provo disprezzo verso quelle figure istituzionali che si appoggiano alla mafia per fare carriera, incuranti del dolore che provocano alle famiglie per colpa dei loro patti scellerati e criminali.
È notizia degli ultimi giorni che non siete stati ammessi come parte civile al processo che vede coinvolta la presunta spacciatrice che avrebbe ceduto la dose letale ad Attilio. Quali sono le motivazioni della vostra esclusione e soprattutto, le vostre sensazioni una volta appresa la notizia?
La Procura di Viterbo nell’attimo in cui stava per iniziare un processo (anche se per cessione di droga ) ha preferito buttarci fuori. Abbiamo provato una grande rabbia, delusione e senso di impotenza davanti ad una Procura sorda a qualsiasi nostra richiesta per accertare la verità.
Cosa vi manca più di Attilio? Ma soprattutto, riuscite a ritrovarlo in piccoli attimi di luce all’interno del buio di questo dolore immenso?
Attilio era un ragazzo sensibile, dotato di una grande intelligenza, solare, con una gran voglia di vivere e con una curiosità di apprendere e scoprire cose nuove che ha manifestato sin dai primi anni di vita. La sua cultura spaziava dalla letteratura, alla fisica, alla filosofia, alla chimica, alla musica, all’elettronica. Leggeva tantissimo (accanto a lui c’era sempre un libro nuovo da leggere ). Era un figlio premuroso, protettivo, sempre presente e vicino con il suo affetto, tanto che ci telefonava tutti i giorni e talvolta due volte al giorno. Attilio ci manca in ogni momento della nostra giornata. Ci manca il suo amore, la sua ironia, la sua tenerezza, la sua costante presenza nella nostra vita. Però sono convinta che è sempre accanto a noi; che ci sorregge, ci guida, e ci trasmette la forza di continuare ad andare avanti in questa nostra ricerca di Verità e Giustizia.
In foto: Angela e Attilio insieme in uno scatto d’archivio
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile.
Pier Paolo Pasolini, Supplica a mia madre
Articolo del 13 Gennaio 2015 da loraquotidiano.it
Caso Manca, San Macuto convoca il procuratore e il pm di Viterbo
di Luciano Mirone
Questo pomeriggio davanti alla Commissione Antimafia l’audizione del capo dei pm Alberto Pazienti, e del sostituto Renzo Petroselli per avere chiarimenti su tutti i punti oscuri di un’inchiesta che l’avvocato di parte civile Antonio Ingroia ha accusato di “inerzie al limite del depistaggio”. Sulla morte dell’urologo di Barcellona, liquidata come un’overdose, Rosy Bindi ha detto: “Tutto sembra tranne che un suicidio”
Sul mistero della morte di Attilio Manca, ora indaga la Commissione parlamentare antimafia che questo pomeriggio ascolterà il procuratore della Repubblica di Viterbo, Alberto Pazienti, e il sostituto procuratore Renzo Petroselli per avere chiarimenti su tutti i punti oscuri di un’inchiesta che l’avvocato di parte civile Antonio Ingroia ha definito un festival ”di sciatteria al limite del depistaggio”. L’urologo Attilio Manca, è morto nel suo appartamento di Viterbo (la cittadina laziale dove prestava servizio da oltre un anno presso l’ospedale Belcolle) nelle ultime ore dell’11 febbraio 2004: il suo corpo senza vita viene scoperto la mattina dopo sul letto dell’appartamento. Un cadavere anomalo, con due buchi al braccio sinistro (circostanza stranissima in quanto la vittima era mancina) e due siringhe a poca distanza, che porta la Procura di Viterbo a sostenere con certezza un decesso da overdose di eroina, mista ad una dose di tranquillante e di alcol. Il corpo di Attilio Manca presenta però una quantità enorme di segni anomali per un’overdose: il volto pieno di sangue, il setto nasale deviato, le labbra gonfie e tumefatte, i testicoli enormi, lo scroto con una ecchimosi evidente, macchie “emostatiche” all’altezza dei polsi e delle caviglie: indizi che portano la famiglia – assieme ai legali Fabio Repici e Antonio Ingroia, affiancati da parte consistente dell’opinione pubblica e dalla magistratura palermitana che si occupa della Trattativa – a ritenere che Attilio Manca, dopo una colluttazione, sia stato immobilizzato con dei colpi al volto e ai testicoli, trattenuto ai polsi e alle caviglie, sedato con una dose di tranquillante attraverso il primo buco, imbottito di eroina attraverso il secondo, e lasciato morire sul letto.
Ipotesi, quest’ultima, corroborata dall’assenza nell’appartamento dei classici oggetti per bucarsi (il laccio emostatico, il cucchiaio sciogli eroina, l’involucro conserva-eroina), ma anche dalla presenza di un peso da ginnastica rotto, con la sabbia del peso depositata negli angoli più nascosti dell’appartamento (come se qualcuno avesse ripulito in fretta il pavimento, trascurando il resto), da un pezzo del parquet divelto, e da alcuni strumenti chirurgici mai visti prima e disposti su un tavolo apparecchiato: un bisturi, delle forbici, un ago con il filo da sutura ancora inserito. A cosa dovevano servire questi oggetti? C’era un’urgenza “segreta” alla quale si doveva far fronte? C’è un collegamento fra questi oggetti, l’eventuale “urgenza” e la morte di Attilio Manca?
Potrebbe essere contenuto in queste tre domande il mistero della morte dell’urologo siciliano. Un mistero più grande di quanto gli inquirenti laziali vogliano far credere. Un mistero di mafia? Un mistero che porta direttamente alla città di Attilio: Barcellona Pozzo di Gotto, centro di fortissime collusioni fra mafia, politica, massoneria e servizi segreti deviati? Centro dove è strato costruito il telecomando della strage di Capaci, dove sono state uccise centinaia di persone, fra cui il giornalista Beppe Alfano, l’editore televisivo Antonio Mazza, il consigliere comunale Giovanni Salomone, e si sono registrati gli strani “suicidi” del professore universitario Adolfo Parmaliana (che denunciava gli scandali del vicino Comune di Terme Vigliatore) e, appunto, di Attilio Manca, quest’ultimo così anomalo da spingere il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, nei giorni scorsi, a dichiarare: “Tutto è tranne che un suicidio”.
Dunque, un omicidio? Legato a cosa? Diversi elementi, come detto, portano a Barcellona. E Barcellona porta alla latitanza di Bernardo Provenzano proprio in quel comune. E la latitanza di Provenzano porta all’operazione di cancro alla prostata alla quale lui stesso si sottopose a Marsiglia nell’autunno del 2003. Un periodo nel quale Attilio Manca, guarda caso, si trova nel Sud della Francia, “per vedere un’operazione” (così dice telefonicamente alla madre). Circostanza smentita dall’ex capo della Squadra mobile di Viterbo, Salvatore Gava, secondo cui il medico, in quei giorni, non si sarebbe mosso dall’ospedale laziale. Un falso clamoroso, secondo quanto sostenuto dalla trasmissione di Rai Tre, “Chi l’ha visto”, che, consultati i registri delle presenze, ha accertato che Attilio Manca era assente proprio in quel periodo. Peccato che proprio da quello scoop clamoroso (gennaio 2014), “Chi l’ha visto” ha deciso di non occuparsi più del caso Manca.
Oggi i magistrati laziali, convocati a Palazzo San Macuto, dovranno spiegare alla Commissione antimafia perché – malgrado le sollecitazioni della famiglia Manca – non hanno mai ritenuto di acquisire i tabulati telefonici del medico relativi all’autunno 2003; perché hanno sempre “visto” solo i buchi e le siringhe, ignorando tanti altri particolari fondamentali per arrivare alla verità; perché l’esame per le impronte digitali sulle siringhe è stato ordinato soltanto otto anni dopo; perché malgrado l’esito “neutro” di questo esame (nel senso che non sono state trovate impronte) hanno continuato a parlare di “inoculazione volontaria”; perché malgrado lo stato impressionante del volto, del naso, delle labbra e dei testicoli (documentato dalle foto della Scientifica subito dopo il decesso), il procuratore Pazienti e il sostituto Petroselli (titolare delle indagini), in una conferenza stampa tenuta nel giugno 2012, hanno smentito che il corpo presentasse segni di violenza. Del resto, lo stato alterato di alcune parti del cadavere viene completamente ignorato sia dal verbale di sopralluogo della Polizia di Viterbo (arrivata sul posto subito dopo la scoperta del corpo), che addirittura dal referto della dottoressa Dalila Ranalletta, che ha svolto l’autopsia, e che, secondo il codice deontologico, avrebbe dovuto descrivere minuziosamente ogni traccia e ogni segno del cadavere ispezionato. Negli atti si legge: “Non si notano segni di violenza sul corpo di Attilio Manca”.
Domande che la Commissione parlamentare antimafia porrà probabilmente ai due magistrati laziali, ma che – relativamente a certi aspetti misteriosi dell’inchiesta – dovrebbe porre anche all’ex capo della Squadra mobile Salvatore Gava e alla dottoressa Ranalletta. Dopo la morte di Attilio Manca, Gava era destinato a una folgorante carriera: peccato che nel frattempo sia stato condannato (con sentenza passata in giudicato) a tre anni e mezzo e all’interdizione per cinque anni dai pubblici uffici per avere falsificato un verbale sul massacro di decine di giovani pacifisti inermi all’interno della scuola “Diaz” di Bolzaneto, durante il G8 di Genova del 2001. La Ranalletta, invece, la folgorante carriera l’ha fatta davvero: oggi è direttore dell’Asl 1 di Roma e consulente fissa della trasmissione di Mediaset, “Quarto grado”.
Articolo del 16 aprile 2015 da robertogalullo.blog.ilsole24ore.com
Morte di Attilio Manca/1
Durissimo atto d’accusa dell’ex pm Antonio Ingroia contro la Procura di Viterbo
Quella che è andata in onda l’8 aprile in Commissione parlamentare antimafia, sbaglierò di certo, ma anche è uno dei tanti round tra magistrati siciliani nei quali si parla a suocera perché nuora intenda.
La vicenda della morte di Attilio Manca, siciliano di Barcellona Pozzo di Gotto (città in provincia di Messina, crocevia di mafia e sistemi criminali), urologo di fama e presunto chirurgo di Bernardo Provenzano in quel di Marsiglia (Francia) per un cancro alla prostata, si perde infatti nelle nebbie palermitane ancor prima che in quelle viterbesi, sponda ultima dal punto di vista professionale, umano e giudiziario, di Attilio Manca (al quale questo blog nel passato, con rigore e in silenzio rispetto al clamore spesso ostentato dai “colleghi”, ha dedicato molti servizi alcuni dei quali si rimandano con link a fondo pagina). Manca, ricordiamolo, morì a 34 anni l’11 febbraio 2004 a Viterbo, dove risiedeva e lavorava.
Sbaglierò ma il mondo di cose dette e non dette, fatte e non fatte, addebitate tra ex magistrati della Procura di Palermo (e non solo) che ruota intorno alla “galassia Provenzano”, alla sua vita e alla sua cattura è talmente fitta da perderci il sonno. E i segnali del tipo “io so che tu sai che io so” si moltiplicano in ogni occasione. Ripeto, sbaglierò.
Credo si tratti, in diversi casi, di pagine molto buie della democrazia italiana e credo, altresì, che i riflettori della stampa non solo siano fortemente detestati ma anche che debbano essere spenti in ogni modo possibile e immaginabile.
Per restare al caso di specie, Antonio Ingroia, appunto ex pm di Palermo e attualmente avvocato della famiglia Manca, l’8 aprile ha sparato a zero in Commissione antimafia su una vicenda che ora tocca altri magistrati, e che, parole testuali sue, «che per troppo tempo è rimasta al buio e che è rimasta al buio, lo dico con il dolore necessario di un ex magistrato, soprattutto per responsabilità di un pezzo di magistratura. Mi riferisco, in particolare, alla procura di Viterbo, che non solo nulla ha fatto perché emergesse tutta la verità su quella vicenda, ma anzi ha fatto di tutto perché la verità non emergesse. Quali siano le ragioni non sta a me individuarlo, ma devo dire che, da quando io ho assunto, assieme all’avvocato Fabio Repici, che segue la vicenda da più tempo di me, la difesa delle parti offese, ossia della famiglia Manca, nella vicenda di Attilio Manca, leggendo le carte e gli atti di quell’inchiesta, sono rimasto sbalordito ed esterrefatto nell’evidenziare la sciatteria del modo di condurre quell’indagine. A questo si aggiunge – non ho motivo per non essere particolarmente duro, e non solo perché la procura di Viterbo, nel frattempo, mi ha perfino indagato, ma parlerò a breve anche di questo, per calunnia, incriminandomi nell’espletamento della mia attività difensiva – una rara ostinazione e un’ottusità investigativa (mi si passi il termine) nell’ignorare in modo deliberato, continuativo e ostinato ogni indicazione che veniva e che è venuta in questi anni dalla famiglia per fare chiarezza sui fatti, anche ignorando l’evidenza dei fatti».
Ora è inutile che mi dilunghi sull’archiviazione (rectius: sule archiviazioni) del Gip del Tribunale di Viterbo sulla vicenda relativa al possibile omicidio per mano mafiosa dell’urologo (Internet è fonte aperta piena di servizi e sul sito della Commissione antimafia è possibile leggere l’integrale audizione di Ingroia) ma quel che qui si sottolinea, a fronte delle tante anomalie su quel suicidio (ufficialmente per overdose secondo la Procura di Viterbo), è un passaggio nel quale Ingroia afferma che «per dimostrare la sciatteria dei magistrati di Viterbo che si sono occupati di questo caso basta citare l’archiviazione del Gip, che, a fronte dell’obiezione della parte offesa su questo particolare, ha replicato allegando un articolo dal Corriere della Sera – questa era la letteratura scientifica consultata dal Gip per rigettare l’obiezione della difesa – che diceva che i medici hanno una particolare manualità. Pertanto, aggiungeva e commentava il giudice, poteva benissimo darsi che la manualità da medico consentisse a un mancino puro di farsi un’iniezione con la mano meno sicura».
Ingroia e Repici proprio l8 aprile hanno presentato alla Procura di Roma richiesta di apertura delle indagini per omicidio mafioso e il 13 gennaio 2015 il collaboratore di giustizia palermitano Stefano Lo Verso, che è stato sentito davanti alla Corte d’assise di Caltanissetta nel processo Borsellino-quater, ha fatto espresso ed esplicito riferimento alla sua conoscenza di particolari che potrebbero fare luce sul caso dell’urologo Manca. Dalla provincia di Messina, arriverebbero altri due pentiti, Carmelo D’Amico e Nunziato Siracusa, che secondo i legali della famiglia Manca potrebbero riferire fatti e circostanze di rilievo sulla vicenda.
Ora sapete, voi che mi seguite, che dei pentiti mi fido quanto ci si può fidare di uno jihadista in Terra Santa ma non è compito mio giudicarne la fondatezza e dunque spero che le sue affermazioni abbiano seguito ed eventuali riscontri ferrei.
Compito del giornalismo è quello di non fermarsi mai alla superficie delle cose, a maggior ragione quando le cose che si raccontano ai lettori originano dalla Sicilia e dalla Calabria, terre nelle quali ciò che appare quasi mai è (per non dire mai). Dunque vanno approfondite le ulteriori denunce in Commissione antimafia di Ingroia, secondo il quale in questa vicenda ci sono stati clamorosi depistaggi, veri e propri falsi, nei quali venivano attestate in atti pubblici alcune circostanze da lui ritenute false.
Per questa ragione Ingroia venne incriminato per calunnia. Qual è la falsità alla quale si riferisce l’ex magistrato e per la quale è indagato? «Io mi riferivo alla nota della squadra mobile di Viterbo del 21 novembre 2006 – dirà Ingroia l’8 aprile davanti ai commissari antimafia – firmata dal dottor Salvatore Gava, al tempo dirigente della squadra mobile di Viterbo, che è stato per altre vicende già condannato in definitivo per fatti di falso in atto pubblico, ossia per lo stesso tipo di incriminazione. Il dottor Gava è stato condannato con sentenza definitiva per falso a tre anni e otto mesi di reclusione per le vicende della famosa falsa bottiglia molotov dei fatti del G8 di Genova ed è il firmatario – sarà una coincidenza, ma è lui – di questa informativa in cui è scritto il falso. È scritto il falso obiettivo. In parte, si evince che sia falso perfino dagli stessi allegati della nota falsa. La nota dice che nei giorni in cui Bernardo Provenzano si trovava a Marsiglia per le cure mediche il dottor Manca era di servizio presso il reparto di urologia dell’ospedale Belcolle di Viterbo, mentre dagli stessi allegati – chi ha firmato la nota non si è dato cura neanche di verificare gli allegati alla nota stessa – risultano dei vuoti, per fare delle esemplificazioni, nei giorni che vanno dal 25 al 26 ottobre.
In particolare, questo è il fatto più clamoroso. Due giorni consecutivi sono più che sufficienti per andare da Viterbo a Roma, da Roma a Marsiglia, fare una visita e tornare in servizio all’inizio della settimana successiva. Si tratta di un fine settimana compreso in quel periodo.
In ogni caso, è falsa la circostanza per cui il dottor Manca fosse stato continuativamente in servizio in quei giorni presso l’ospedale di Viterbo, ed è falso, quindi, che fosse impossibile per lui recarsi a Marsiglia, fare la visita e tornare, ma c’è di più».
Il di più, secondo Ingroia, è che la Squadra mobile di Viterbo avrebbe appreso semplicemente da una telefonata al Servizio centrale operativo della Polizia di Stato che Bernardo Provenzano si era recato a Marsiglia dal 7 all’11 luglio e dal 22 ottobre al 4 novembre mentre invece risulterebbe che Provenzano è stato a Marsiglia ben più dei quattro o cinque giorni limitati all’entrata e alla dimissione dalla clinica. Sarebbe stato quasi un mese consecutivo a Marsiglia, sia nel mese di luglio che in quello di ottobre e si andassero, secondo Ingroia, a confrontare gli spostamenti di Provenzano a Marsiglia con i turni di servizio di Attilio Manca, ci si accorgerebbe dei vuoti enormi, a volte di quattro o cinque giorni. in cui Manca stesso non era in servizio, periodi immediatamente prima e immediatamente dopo l’operazione a Marsiglia.
Per ora mi fermo qui ma dalla prossima settimana proseguo sul caso Manca annunciando fin da ora che si darà conto anche della versione della Procura di Viterbo.
r.galullo@ilsole24ore.com
1 – to be continued (sullo stesso argomento si vedano anche
Articolo del 20 aprile 2015 da /robertogalullo.blog.ilsole24ore.com
Morte di Attilio Manca/2
Ingroia: «Omicidio di mafia, massoneria deviata e servizi per difendere la trattativa Stato-mafia e il garante Provenzano»
Cari e amati lettori di questo umile e umido blog, dalla scorsa settimana sto trattando ancora della vicenda relativa alla morte dell’urologo Attilio Manca che secondo le risultanze delle indagini della Procura di Viterbo (città nella quale risiedeva e operava) è morto l’11 febbraio 2004 per una overdose. Sarebbe morto da drogato colui il quale, secondo la famiglia Manca, avrebbe verosimilmente operato il boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano in quel di Marsiglia (Francia).
Non vi tedio neppure oggi con le decine di anomalie che la famiglia Manca ha sollevato in questi 11 anni con forza e disperazione sul quel suicidio. Ciò che conta è che l’8 aprile i legali della famiglia Manca hanno chiesto ufficialmente alla Procura di Roma di riaprire le indagini (denuncia per omicidio di mafia) e che lo stesso 8 aprile l’ex magistrato Antonio Ingroia, oggi legale della famiglia con il suo collega Fabio Repici, è andato in Commissione parlamentare antimafia per lanciare un durissimo atto di accusa non solo contro la Procura di Viterbo (dove ha in corso un indagine per calunnia) ma contro un mondo che su quella morte ha fatto muro. Un mondo di relazioni sul quale (peccato) Ingroia finora non ha affondato del tutto, riservandosi verosimilmente di farlo nel prosieguo.
Alla fine dell’audizione (rimando alla puntata di giovedì scorso ed alcuni altri servizi che ho recentemente dedicato alla vicenda nei link a fondo pagina) alcuni commissari antimafia hanno chiesto a Ingroia quale potrebbe essere stato il movente e il contesto che avrebbe portato all’omicidio di Attilio Manca.
Ecco la risposta di Ingroia: «Con riferimento al movente, senza voler evocare complotti internazionali, la messinscena e il depistaggio fanno intendere che non siamo di fronte a quello che noi chiamiamo un omicidio di mafia. La mafia c’entra, ma è ovvio che, come suol dirsi in questi casi, mafia non solo mafia.
Noi riteniamo che l’ipotesi più plausibile sia che Attilio Manca è rimasto vittima del muro di protezione eretto attorno a Bernardo Provenzano, perché Bernardo Provenzano era il garante sul versante mafioso della famosa trattativa Stato-mafia. Attilio Manca può essere stato indotto a sua insaputa, per esempio – è un’ipotesi, una possibilità – dal cugino Ugo Manca, che è stato indagato ed è stato sottoposto a processi, le cui impronte digitali sono state trovate a casa di Attilio Manca e che non ha saputo fornire una spiegazione plausibile di tali impronte digitali.
La sua versione è che lui in quel periodo era andato all’ospedale di Viterbo a farsi curare. Non si capisce perché dovesse partire da Barcellona sino all’ospedale di Viterbo per andarsi a fare curare, non si sa di che, e che sono rimaste le sue impronti digitali a casa del dottor Manca. Peraltro, ci sarebbe stato molte e molte settimane prima dell’evento, ma, guarda caso, sono rimaste solo poco più di quelle impronte digitali.
Ugo Manca, che era al centro di relazioni pericolose – chiamiamole così, per non prendersi un’altra incriminazione per calunnia – potrebbe aver indotto Attilio Manca, con il quale aveva mantenuto dei buoni rapporti, a curare un personaggio forse strano, ma che magari Attilio Manca non pensava fosse addirittura Bernardo Provenzano. Ricordiamoci tutti che, quando venne arrestato, Provenzano era sostanzialmente irriconoscibile rispetto alle foto che normalmente circolavano e che tutti noi immaginavamo.
Ipotizziamo che, a un certo punto, Attilio Manca abbia cominciato a capire qualcosa e che Ugo Manca, e così chi era collegato e vicino a lui, abbia avuto paura che Attilio Manca, parlando, avrebbe esposto lui. Ugo Manca sarebbe stato eventualmente, quale garante di Attilio Manca, agli occhi della mafia, il primo a essere ritenuto responsabile, qualora fosse saltato qualcosa nel circuito di protezione attorno a Provenzano, con tutto ciò che ne sarebbe conseguito.
Forse così il movente è facilmente spiegabile, tenuto conto che, ripeto, se è vero quello che si sta celebrando nel processo a Palermo, ossia la trattativa Stato-mafia, in cui Provenzano aveva un ruolo cruciale, lo scopo poteva essere quello di mantenere Bernardo Provenzano latitante il più a lungo possibile e di non far scoprire di quale rete di protezione godesse.
Peraltro, Bernardo Provenzano, secondo alcune risultanze, è stato a lungo nel barcellonese e dintorni. Il riferimento alla Madonna che fa Lo Verso – come è noto, c’è la famosa Madonna di Tindari, che non è molto lontana da Barcellona Pozzo di Gotto – sembra essere una possibile allusione a una presenza di Provenzano in quella zona, dove (sto facendo delle ipotesi che mi sono state chieste) sarebbe potuto avvenire il primo incontro e il primo contatto fra questo paziente e Ugo Manca e Attilio Manca. Attilio Manca potrebbe essere stato poi chiamato a Marsiglia per fare una visita di controllo immediatamente prima e una visita di controllo immediatamente dopo l’operazione a Marsiglia.
Tutto questo potrebbe costituire un movente più che plausibile per tutta la messinscena. Diversamente, non si capisce il perché. Se Attilio Manca fosse stato ucciso con due colpi di pistola lungo le strade di Viterbo, in quel caso, inevitabilmente la procura distrettuale antimafia di Roma se ne sarebbe dovuta occupare. In questo modo, invece, se n’è potuta occupare per anni una piccola procura di provincia dove potevano passare sotto silenzio vicende di questo tipo. Mi pare di avere risposto a tutto».
Su richiesta del commissario Giuseppe Lumia (Pd) Ingroia si intrattiene sulla figura di Ugo Manca. Così: «Ugo Manca è stato indagato in questo procedimento, ma è stato archiviato senza sostanzialmente alcuna indagine, senza che sia mai stato interrogato e senza che gli siano mai state contestate e chieste le ragioni di quelle impronte digitali.
Ugo Manca è stato più volte oggetto di indagini e di processi per i suoi legami con la mafia barcellonese e con il personaggio di Rosario Pio Cattafi, più volte indagato. Ricordo che l’ho indagato anch’io nella famosa indagine – famosa per me – sui sistemi criminali, perché è stato l’anello di collegamento fra il versante mafioso militare e il versante della massoneria e dei Servizi.
Cattafi ha avviato un inizio di collaborazione, che però mi pare piuttosto deludente rispetto alle sue premesse. Io ho seguito i primissimi mesi – ero ancora in magistratura – di avvio della sua collaborazione con la procura di Messina e non mi pare che abbia raccontato ciò che ha da riferire.
Ugo Manca è esattamente in questo ruolo di anello di collegamento. Ecco perché corrisponde – non voglio dire che sia responsabile dell’omicidio – a quell’ambiente, a quel milieu dentro il quale, secondo me, si possono collocare, rispondendo alla domanda sul movente, i legami fra la criminalità organizzata attorno a Provenzano e gli ambienti della massoneria e dei Servizi, in cui è maturata anche la famigerata trattativa Stato-mafia».
E il legame con Provenzano, qual è, chiede sempre Lumia?
Ingroia risponde serafico: «Tutto nasce da quella informativa sostanzialmente a contenuto falso della squadra mobile, che fa restringere l’accertamento sui giorni in cui Provenzano era curato dentro la clinica. Invece, la verifica andava fatta, e così abbiamo sollecitato anche la procura di Roma a fare, per il periodo immediatamente antecedente e successivo, che è compatibile con i fogli di presenza di Manca in ospedale».
Per ora mi fermo qui. Domani, doverosamente, darò conto del punto di vista della Procura di Viterbo.
Articolo del 21 aprile 2015 da robertogalullo.blog.ilsole24ore.com
Morte di Attilio Manca/3
Il capo della Procura di Viterbo è certo: «L’urologo non ha operato Provenzano a Marsiglia»
Cari e amati lettori di questo umile e umido blog, da alcuni giorni sto trattando ancora della vicenda relativa alla morte dell’urologo Attilio Manca che secondo le risultanze delle indagini della Procura di Viterbo (città nella quale risiedeva e operava) è morto l’11 febbraio 2004 per una overdose. Sarebbe morto da drogato colui il quale, secondo la famiglia Manca, avrebbe verosimilmente operato il boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano in quel di Marsiglia (Francia).
Non vi tedio neppure oggi con le decine di anomalie che la famiglia Manca ha sollevato in questi 11 anni con forza e disperazione sul quel suicidio. Ciò che conta è che l’8 aprile i legali della famiglia Manca hanno chiesto ufficialmente alla Procura di Roma di riaprire le indagini (denuncia per omicidio di mafia) e che lo stesso 8 aprile l’ex magistrato Antonio Ingroia, oggi legale della famiglia con il suo collega Fabio Repici, è andato in Commissione parlamentare antimafia per lanciare un durissimo atto di accusa non solo contro la Procura di Viterbo (dove ha in corso un indagine per calunnia) ma contro un mondo che su quella morte ha fatto muro.
Durissimo (se avete letto gli articoli precedenti ai quali rimando con link a fondo pagina) è stato l’atto di accusa anche contro la Procura di Viterbo. Non assolverei al mio dovere di imparzialità e terzietà se non dessi conto di quanto detto in seno alla stessa Commissione parlamentare antimafia dalla stessa Procura, attraverso il capo della Procura Alberto Pazienti (a capo dal 2008) e il sostituto Renzo Petroselli (dovrò operare una sintesi e dunque rimando per l’intera audizione al link camera.it).
I due magistrati, vale la pena sottolinearlo, hanno parlato in Commissione il 13 gennaio 2015 e dunque mesi prima di Ingroia (ai quali saranno ancora liberi di ribattere se la Commissione proseguirà, come ha affermato, nel seguire da vicino il caso).
I due magistrati hanno doverosamente difeso il proprio lavoro, le indagini svolte, le perizie, le testimonianze raccolte, insomma ogni passo svolto nel tentativo di accertare la verità. Per questo, appunto, rimando puntualmente al link indicato sopra.
Quel che affronto oggi è la parte relativa agli eventuali collegamenti (e dunque cause o concause) tra Attilio Manca e la “galassia Provenzano” che, secondo quanto raccontato ai commissari antimafia dall’avvocato della famiglia, Antonio Ingroia, sarebbero all’origine dell’omicidio di mafia, grazie alla mano sporca di ambienti deviati della massoneria e dei servizi segreti, al fine di proteggere la trattativa tra Stato e mafia e il suo maggior garante, vale a dire quel Bernardo Provenzano boss di Cosa nostra poi arrestato.
Ebbene, ecco quel che dichiarò il procuratore capo di Viterbo Pazienti: «Guardando gli atti e tenendo conto delle obiezioni dei familiari, la prima cosa che è stata certa è che i rapporti tra Manca e Provenzano sono inesistenti dal punto di vista processuale. Si tratta, infatti, semplicemente di un’argomentazione della madre che, ricordando che il figlio le aveva telefonato una volta dalla Costa Azzurra, si è detta: “vuoi vedere che mio figlio in quel periodo ha operato Provenzano in quanto era molto bravo negli interventi alla prostata in laparoscopia? Forse lo ha riconosciuto e ne ha determinato la morte”. Questa è un’affermazione che non solo non trova alcun elemento, ma è anche in contrasto con tutti gli accertamenti fatti da Palermo, che in ordine all’intervento alla prostata di Provenzano sa tutto: sono andati a Marsiglia, hanno parlato con il medico, hanno le cartelle cliniche, hanno arrestato gli italiani – siciliani – che avevano collaborato per l’intervento di Provenzano a Marsiglia. C’è poi un’altra cosa: dalle stesse cartelle cliniche risulta che Provenzano è stato operato alla prostata con i metodi tradizionali, non con l’intervento in laparoscopia, quindi non c’era alcun motivo di rivolgersi a chi all’epoca non era poi un luminare della laparoscopia, ma era uno che se ne stava interessando. Non solo: siccome poi nel tempo queste denunce di omicidio di mafia sono state fatte alle varie procure antimafia, noi non ricevevamo che fascicoli che ci venivano inviati per competenza, perché sia Caltanissetta che Palermo non hanno ritenuto che ci fosse alcun fatto mafioso. Diversa è la situazione se si va a vedere come è avvenuta la morte di Attilio Manca, perché lì ci sono altre obiezioni. Si diceva che Attilio Manca è morto per overdose di eroina e tranquillanti e non assumeva sostanze stupefacenti. Questa è la prima obiezione, per cui sono andato a vedere gli atti. Il 17 febbraio 2004, pochi giorni dopo la morte di Attilio Manca, la mamma, Gentile Angela, interrogata nel commissariato di pubblica sicurezza di Barcellona Pozzo di Gotto dichiara: “ero a conoscenza che mio figlio quando frequentava il liceo ha fatto uso di sostanze stupefacenti, poi a 18 anni è partito per Roma e ha cambiato vita, non mi sono più accorta di nulla e lui non mi ha mai detto di farne ancora uso”. Questo veniva dichiarato dalla madre immediatamente dopo la morte del povero Attilio Manca. Si dirà (o meglio dicono adesso) che avrà fumato qualche spinello, ma, se mi viene chiesto se sappia niente di mio figlio che è morto per eroina e dico che ha fatto uso di sostanze stupefacenti, non mi sembra credibile il fatto dello spinello: uno guarda a qualcosa di più sostanzioso. Questo era il primo elemento, poi c’è stata la perizia. La perizia ha stabilito che la morte di Attilio Manca era dovuta a un uso tra l’altro nemmeno eccessivo di eroina, ma misto a tranquillanti, e sulla base dell’esame autoptico è stata fatta anche la perizia tricologica sui capelli, che ha dato l’esito di pregresso uso di sostanze stupefacenti. Se i familiari mi vengono a dire che questa perizia è falsa, che quell’altra perizia è sospetta perché è stata fatta dal medico legale Ranalletta, che era l’unica che effettuava le autopsie a Viterbo a quell’epoca, però – guarda caso – è la moglie del professor Rizzotto presso il quale all’ospedale Belcolle di Viterbo il Manca lavorava e questo diventa sospetto, uno non può rispondere niente. Se tutto quello che viene posto contro diventa oggetto di un complotto a cui hanno partecipato tutti, allora non c’è difesa. Altro elemento che è sempre stato portato a sostegno è che era totalmente mancino per cui non avrebbe potuto farsi i buchi sul braccio, ma, signori miei, come si può ritenere che uno che si sta specializzando in laparoscopia non adoperi entrambe le mani? Sinceramente io non mi farei operare in laparoscopia da un professore che usi solamente la mano sinistra! È credibile quindi che come molti altri fosse ambidestro, cioè potesse utilizzare entrambe le mani, anche perché parliamo di un medico. Sono circolate alcune foto che hanno visto leggermente schiacciato il setto nasale, ma i medici mi hanno detto che dipende dall’aver trascorso tutta la notte morto in quella posizione, quindi è più che normale. Queste sono comunque tutte questioni che potrebbero essere inerenti alle modalità della morte di Attilio Manca, ma non certo ad Attilio Manca ucciso su mandato di Provenzano. Per poter trovare per la prima volta un piccolo appiglio bisogna giungere a quello che si è verificato nell’anno appena concluso con le dichiarazioni di Setola, quindi parecchi anni dopo tutta la vicenda, dichiarazioni che io ho appreso dai giornali. Setola avrebbe dichiarato di aver saputo da uno che stava in carcere con lui che Provenzano si era fatto operare e aveva forse ucciso un medico, che sbagliando definisce oncologo invece che urologo, ma quello potrebbe esserci come errore, perché l’aveva riconosciuto. Queste dichiarazioni vengono fatte però da un soggetto che credo sia stato dichiarato poco credibile, dopo dieci anni che se ne è parlato e scritto su tutti i quotidiani. Questo è il quadro. Ho omesso tutta l’indagine collaterale fatta da Messina sull’uso di sostanze stupefacenti da parte di Manca, laddove alcuni suoi paesani amici, ovviamente tutti indagati a Viterbo come possibili autori dell’omicidio, hanno dichiarato di essere soliti rifornirsi di sostanza stupefacente da una tale Monique residente a Roma in via dei Serpenti, che ovviamente le indagini hanno un fatto in modo che fosse rinviata a giudizio per aver ceduto ad Attilio Manca sostanza stupefacente il giorno prima della sua morte. Di fronte a queste situazioni però i familiari dicono che i suoi paesani, compreso il cugino che l’ha visto poco prima di morire, fanno tutti parte di un complotto. Questo è quindi il quadro di carattere generale.
….. Posso aggiungere una cosa che forse vi riguarda maggiormente: l’unica cosa per me certa in tutta questa vicenda è che il dottor Attilio Manca non può aver operato Provenzano a Marsiglia. Questo è dimostrato in maniera totale, le indagini sono state fatte a suo tempo, a Palermo hanno fatto i processi, ci sono state le condanne, è tutto chiaro e tutto preciso. È stato seguito a ritroso l’iter di Provenzano da Marsiglia fino al ritorno a Palermo, quindi possiamo dire che sicuramente non può averlo operato a Marsiglia. Cosa possiamo ipotizzare, che Provenzano prima dell’arresto si sia fatto visitare per un controllo? Lui lascia Marsiglia, non si ferma nel viterbese, come pure è stato ritenuto sempre per giustificare la visita, va direttamente a Palermo e prima dell’arresto matura il tempo per una visita di controllo, per la quale infatti lo aspettavano a Marsiglia. Non risulta aver fatto questa visita di controllo, ma, se pure avesse fatto una visita di controllo prima dell’arresto, perché avrebbe dovuto rivolgersi al dottor Manca che stava a Viterbo? Probabilmente avrebbe potuto farla a Palermo con tanti altri medici. Il rapporto fra Provenzano e Manca mi sembra quindi del tutto inconcepibile. Su tutto il resto possono aprirsi mille altre ipotesi, perché si tratta di indizi, non ci sono certezze».
Dopo queste certezze, un’altra considerazione sul cugino di Attilio, Ugo Manca, chiamato in causa nella testimonianza di Ingroia (che, vale la pena di sottolinearlo, quando sarà ascoltato l’8 aprile ha ovviamente letto i resoconti di Pazienti e Petroselli già pubblicati sul sito della Commissione antimafia e, ugualmente, farà strame del lavoro negli anni della Procura di Viterbo). Dirà Pazienti: «…Non è esatto che questo Ugo Manca, sia stato nell’appartamento del cugino molto tempo prima. Lei sa che la morte è avvenuta il 10-11 febbraio 2004. Il cugino Ugo Manca era stato in Viterbo, in quanto, appunto, doveva fare un intervento credo di varicocele o che, comunque, richiedeva la specializzazione del cugino, ospite di quell’appartamento nel dicembre 2003».
Credo che lo scontro sul caso Manca (e mi verrebbe da pensare, per estensione, anche sul “caso Provenzano”) avrà modo di proseguire in maniera ancor più aspra. Non credo, però, che il mistero intorno alla sua morte sarà mai chiarito. Troppi interessi in gioco. Superiori a quelli di un urologo, facilmente sacrificabile sull’altare dei giochi di potere.
Articolo di Agosto 2015 da linformazione.eu
Manca, silenzio di Stato
di Luciano Mirone
La denigrazione non basta. Per insabbiarlo è necessario il silenzio. Un silenzio che avvolge il caso di Attilio Manca e scorre lungo l’asse Viterbo-Marsiglia-Barcellona Pozzo di Gotto, con un tassello mancante che potrebbe avere un nome: Bernardo Provenzano. Potrebbe… ma non ci sono prove. Non perché non esistano gli elementi su cui indagare, ma perché ogni volta che affiora un collegamento sulla trattativa Stato-mafia o sulla protezione occulta e istituzionale di cui “Binnu” avrebbe beneficiato anche a Barcellona Pozzo di Gotto (città di Attilio Manca), il mare del silenzio inghiotte ogni cosa. Del resto, lo stesso collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, recentemente lo ha confermato: “Provenzano durante la latitanza era protetto dal Ros e dai servizi segreti”.
Da undici anni c’è gente che quando si parla di questo argomento, o cambia discorso o usa il sarcasmo: “La morte di Attilio Manca? Non c’entra nulla con Provenzano”.
Sarà. Ma intanto qualcuno dovrebbe spiegare perché, dopo undici anni alla morte dell’urologo barcellonese, la magistratura, l’ex capo della Squadra mobile di Viterbo Salvatore Gava, il medico legale Dalila Ranalletta, che ha effettuato l’autopsia sul corpo di Manca, hanno assunto un atteggiamento talmente omissivo da indurre la Commissione parlamentare antimafia ad aprire un’inchiesta su questa storia.
LA LATITANZA DI PROVENZANO
Strano che degli organi dello Stato, anche col silenzio, si espongano così tanto per un banale suicidio per overdose. Significativo che per la prima volta, dopo undici anni, il procuratore di Viterbo, Alberto Pazienti, e il Pm Renzo Petroselli, in Commissione Antimafia abbiano ammesso i “buchi neri” presenti nell’autopsia e addirittura l’incompetenza dello stesso Medico legale. E quando un esame autoptico presenta dei “buchi neri”, indirettamente si conferma la tesi di un oggettivo depistaggio.
Qualcuno dovrebbe spiegare perché il rapporto dei Carabinieri sulla latitanza a Barcellona Pozzo di Gotto del boss corleonese non si trova, malgrado un numero di protocollo, una data e delle firme di autorevoli ufficiali dell’Arma. Quel rapporto parla della presenza di “Binnu” nel convento di Sant’Antonino della città tirrenica, dove all’improvviso sono stati trasferiti cinque frati e dove ogni parete è stata ritinteggiata da cima a fondo dopo il presunto passaggio del capomafia.
Qualcuno dovrebbe spiegare se è vero che dopo la morte di Attilio Manca un personaggio di alto livello – avendo saputo che si indagava sul presunto intreccio fra il decesso dell’urologo e la latitanza di Provenzano – ha chiesto urgentemente il fascicolo, che successivamente sarebbe stato inghiottito dalle sabbie mobili di certi palazzi.
Qualcuno dovrebbe spiegare perché diversi collaboratori di giustizia confermano che la morte dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto – primo chirurgo in Italia, a soli 34 anni, ad operare il cancro alla prostata col sistema laparoscopico – sia legata all’operazione che Provenzano subì a Marsiglia nell’autunno del 2003.
LA SVOLTA DEI PENTITI
Ci sono collaboratori di giustizia che sul caso Manca stanno cominciando a parlare, ma è come se anche queste dichiarazioni vengano risucchiate dal vortice del silenzio. Parla l’ex boss del clan dei Casalesi, Giuseppe Setola, secondo cui Attilio Manca sarebbe stato ucciso perché – avendo assistito Provenzano per la diagnosi, per le cure e forse per l’operazione – avrebbe riconosciuto non solo la vera identità del boss protetto per quarant’anni dallo Stato (celatosi sotto il falso nome di Gaspare Troia al momento dell’operazione a Marsiglia), ma anche il volto di certi personaggi delle istituzioni che lo avrebbero nascosto. Trapelata la notizia, Setola ha ritrattato tutto: “Temo per la vita della mia famiglia che ha rifiutato il piano di protezione e ha continuato a risiedere a Casal di Principe”. Il pentito, in effetti, anche prima di parlare dell’urologo barcellonese, aveva dato strani segni di paranoia. Ma le sue dichiarazioni sono state riscontare per accertare se sono vere?
Anche perché qualcuno dovrebbe rispondere a una domanda semplicissima: è vero che Setola – come ha dichiarato alcuni mesi fa l’ex magistrato Antonio Ingroia, oggi legale dei Manca – ha appreso queste notizie dal boss di Barcellona Pozzo di Gotto, Giuseppe Gullotti, secondo la Cassazione mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano, con collegamenti con i servizi segreti deviati, certa politica e certa magistratura? Giuseppe Gullotti, per la cronaca, è la persona che nel 1992 recapitò il telecomando per la strage di Capaci a Giovanni Brusca, uno strumento sofisticato costruito da gente molto esperta nell’uso di esplosivi. Sarebbe interessante sapere se davvero Setola sia stato il depositario dei presunti segreti di Gullotti in merito alla morte di Attilio Manca.
Parla il collaboratore Stefano Lo Verso – un pentito definito “molto attendibile”, ex braccio destro di Provenzano – il quale, nello scorso gennaio, nell’ambito del processo Borsellino quater, ha fatto intendere di conoscere retroscena molto inquietanti sulla morte dell’urologo siciliano: “Provenzano – dice sibillinamente Lo Verso – in macchina mi diede una Madonnina con il Bambino Gesù in braccio… Sicuramente Provenzano sarà stato in quel luogo, in un luogo religioso, e mi ha portato questo pensierino. Madonnina che io ancora tengo conservata”. E fin qui, diciamo che si tratta di un passaggio interlocutorio della deposizione. Ma solo in apparenza. Nella sostanza, il linguaggio di Lo Verso – allegorico, come è nello stile di Cosa nostra – va interpretato. Il boss parla di “luogo religioso” dove Provenzano si sarebbe nascosto durante la latitanza. Quale? Non lo sappiamo, ma è significativo il fatto che questo “luogo” – nella dichiarazione successiva – venga associato ad Attilio Manca. Attraverso “questa Madonnina” – aggiunge Lo Verso – si possono fare delle indagini “utili per riaprire il caso dell’urologo Manca”. Quindi, alla fine del suo intervento, il pentito aggiunge: “Io tengo tutto conservato per potere fare luce su questo evento”. Le affermazioni di Lo Verso sono fondamentali per almeno tre motivi: 1) Il collaboratore di giustizia mette in relazione il “luogo sacro” visitato da Provenzano col “caso dell’urologo Manca”; 2) Per la seconda volta un uomo d’onore di prima grandezza (dopo Giuseppe Setola) dice che Attilio Manca è vittima di mafia, confermando il parallelismo con Provenzano e smentendo i magistrati di Viterbo; 3) Lo Verso su questa vicenda ha dimostrato disponibilità a collaborare.
E poi ci sono le dichiarazioni dello stesso Carmelo D’Amico, ex boss di Barcellona, il quale al processo “Gotha 3”, oltre ad aver confermato che il giornalista Beppe Alfano è stato ucciso perché aveva scoperto il covo di Santapaola a Barcellona (come vedremo successivamente), ha sostenuto che il senatore barcellonese Domenico Nania è a capo di una super loggia segreta in grado di condizionare la vita politica della Sicilia e della Calabria. “Ne facevano parte – ha detto – anche Cattafi, Dell’Utri, e altri uomini d’onore”. A un certo punto D’Amico afferma: “Dietro a certi omicidi-suicidi c’è la mano dei servizi segreti deviati”. Di quali omicidi-suicidi si tratta non è dato sapere, ma non sarebbe male indagare anche sull’“impiccagione” in carcere di Ciccio Pastoia, avvenuta, guarda caso, in seguito al riferimento dello stesso Pastoia (intercettato dalle “ambientali”) ad un “medico che ha curato Provenzano”. Sarebbe interessante sapere di chi si tratta.
IL TRIO CASSATA-NANIA-CATTAFI
Qualcuno dovrebbe spiegare perché un altro boss di Stato come Nitto Santapaola ha trascorso parte della sua latitanza a Barcellona, dedito all’organizzazione di riunioni di alta massoneria e di qualche omicidio eccellente. Certo, ad assumersi la responsabilità del delitto Alfano – come detto – è stato il referente di Cosa nostra barcellonese Giuseppe Gullotti, ma è un omicidio che per stile e per modalità ricorda quello del giornalista catanese Giuseppe Fava, fatto ammazzare proprio da Santapaola il 5 Gennaio 1984 per interessi e per conto di personaggi molto più in alto.
Qualcuno dovrebbe spiegare perché, una settimana dopo la morte di Attilio Manca (avvenuta a Viterbo l’11 Febbraio 2004), quando ancora tutti erano convinti che Attilio Manca fosse morto per overdose di eroina, tale Vittorio Coppolino, padre di Lelio Coppolino (il migliore amico barcellonese di Attilio) e componente del circolo paramassonico “Corda fratres”, ai genitori del medico (secondo quanto gli stessi dichiarano) confidi delle cose interessanti: “Siete sicuri che Attilio si sia suicidato? Non pensate che sia stato ucciso? Non pensate che l’omicidio sia stato commesso nell’ambito dell’operazione di Bernardo Provenzano?”.
Qualcuno dovrebbe spiegare da chi questo signore avrebbe appreso un particolare così clamoroso, se nessuno in quel momento – né magistrati, né esponenti delle Forze dell’ordine – sapeva della trasferta del latitante Provenzano in terra francese per motivi di salute. Qualcuno dovrebbe spiegare perché il signor Coppolino non è mai stato messo sotto torchio dai magistrati di Viterbo, e perché il figlio Lelio non è mai stato sentito sul medesimo argomento, magari per accertare se questa confidenza l’ha davvero ricevuta da Attilio. Così come non sarebbe male spiegare a chi, Lelio, successivamente – qualora fosse stato davvero depositario di quel segreto – potrebbe aver rivelato la notizia. Lelio è stato sentito dagli inquirenti dopo la morte di Attilio, sì, ma soltanto sulla presunta tossicodipendenza dell’amico. E lui ha categoricamente smentito. Salvo a ritrattare – con la serafica “presa d’atto” dei magistrati viterbesi – quando la famiglia Manca ha cominciato a tuonare contro Provenzano e la mafia barcellonese.
Qualcuno dovrebbe spiegare cosa ci facevano dentro la “Corda fratres” individui come Giuseppe Gullotti e Rosario Pio Cattafi – quest’ultimo avvocato e alter ego di Nitto Santapaola, entrambi in stretti contatti con i servizi segreti deviati e detenuti al 41 bis – con un alto magistrato come Antonio Franco Cassata, fino al 2011 procuratore generale della Repubblica di Messina, e con l’ex vice presidente del Senato Domenico Nania. È un caso che Cassata, Cattafi e Nania siano ritenuti amici per la pelle? Ebbene, qualcuno potrebbe spiegare fino a che punto si sia spinta questa “amicizia” e per quali eventuali fini?
Già, perché se qualcuno pensa che la “Corda fratres” sia un circolo di buontemponi dediti solamente al gioco delle carte si sbaglia. Secondo la Guardia di Finanza è un “circolo parassonico”, dove personaggi di primissimo piano della magistratura e della politica convivono con un partecipante “indiretto” alla strage di Capaci (Gullotti) e con un boss (Cattafi) ritenuto dai magistrati, in un primo momento, uno dei mandanti occulti della stessa strage (posizione successivamente archiviata, assieme a quella di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’Utri), definito comunque dai giudici messinesi un “personaggio socialmente pericoloso”, ma non a Barcellona dove l’ex sindaco Candeloro Nania – cugino di Domenico – per diversi anni gli ha messo a disposizione un autista del Comune e il Consiglio comunale ha deciso di costruire un centro commerciale sui terreni di famiglia.
Lo stesso Mimmo Nania, molti anni fa, non ebbe problemi a candidare nelle liste del Movimento sociale italiano proprio Gullotti, causando le vibrate proteste di Beppe Alfano – militante in quel partito – che si rivolse addirittura all’ex segretario del Msi Giorgio Almirante per prendere provvedimenti. Niente da fare: Gullotti candidato, Alfano espulso dal partito. E la stella di Nania che da allora cominciò a splendere nel firmamento della politica nazionale, fino alla vice presidenza del Senato. Mentre nel corso degli anni, il Consiglio comunale di Barcellona si riempiva di gente collusa con Cosa nostra, legata proprio a Nania.
IL RUOLO DI CASSATA
E che dire di Antonio Franco Cassata, le cui amicizie con i mafiosi di Barcellona – città dipendente da Messina dal punto di vista giudiziario, ma dove il magistrato risiede da sempre – sono talmente evidenti da rasentare lo scandalo? Uno scandalo che viene centrato in pieno, quando nel 2008 il Csm, malgrado le interrogazioni parlamentari contro il magistrato, lo nomina Procuratore generale della Corte d’Appello di Messina. E che dire del figlio Nello, avvocato, nei confronti del quale il padre non ha mai ritenuto di prendere le distanze, magari chiedendo un trasferimento a mille chilometri di distanza? Che dire del rampollo di casa Cassata, ritenuto dai magistrati di Reggio Calabria il punto di snodo di un’organizzazione formata da Colletti bianchi e mafiosi di Barcellona, dedita a una colossale truffa alle assicurazioni che avrebbe fruttato centinaia di milioni di Euro? Che dire di Cassata junior che da presidente di un istituto di beneficenza (Ipab) prorogava la locazione di terreni e appartamenti a mafiosi come Domenico Tramontana – grande elettore di Bartolo Cipriano, ex sindaco e parlamentare di Terme Vigliatore (sia di destra che di sinistra) – o come i fratelli Calderone, o come Aurelio Salvo, “al tempo pregiudicato – scrive in una interrogazione il senatore del Pd, Beppe Lumia – per favoreggiamento aggravato nei confronti di Giuseppe Gullotti e di Nitto Santapaola”, nel senso che in un appartamento di Aurelio Salvo, il 16 aprile 1995, le Forze di polizia individuavano il covo di Gullotti, all’epoca ricercato per il delitto Alfano, e in una villa di Terme Vigliatore rinvenivano il nascondiglio di Nitto Santapaola? Il senatore Beppe Lumia nella stessa interrogazione chiede “se il Governo non ritenga che il ruolo esercitato dall’avvocato Nello Cassata quale presidente dell’Ipab imponga la segnalazione al Consiglio superiore della magistratura della posizione di incompatibilità ambientale dell’attuale Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Messina, dottor Franco Antonio Cassata”. Silenzio. Un silenzio assordante che suscita un paio di domande: da chi e perché è stato protetto per tanti anni l’ex procuratore generale della Corte d’Appello di Messina? Perché il neo sindaco di Barcellona Pozzo di Gotto, Roberto Materia, vinte le elezioni, ha ritenuto di omaggiare Cassata (ormai in pensione) con la prima visita ufficiale? Qual è ancora il ruolo dell’ex procuratore?
UGO MANCA A VITERBO
Qualcuno dovrebbe spiegare perché, nell’inchiesta di Viterbo, una figura come Ugo Manca – cugino della vittima – sia stata ridotta al rango di una semplice comparsa, malgrado il suo ruolo di primo piano. Nell’appartamento viterbese di Attilio – dopo il ritrovamento del cadavere – la Polizia scientifica ha rinvenuto una impronta palmare di Ugo. Che però sostiene di averla lasciata circa un mese e mezzo prima, ospite di Attilio che in ospedale lo avrebbe operato di varicocele. Appare strano che un’operazione così banale, Ugo, non abbia deciso di farla in Sicilia, dove lavora come tecnico radiologo. Lui invece decide di farla a Viterbo. Dal cugino. Che lui stesso ha accusato di essere un drogato, recitando lo stesso copione di Lelio Coppolino e di altri “amici” che appartengono al giro della “Corda fratres”.
I magistrati laziali, ovviamente, hanno creduto ai Barcellonesi e ignorato fior di primari, di colleghi, di capi sala e di infermieri che hanno affermato il contrario.
Del resto, meglio credere a Ugo Manca, condannato in primo grado a quasi dieci anni di reclusione al processo “Mare nostrum” per traffico di stupefacenti, che andar dietro a degli stimati professionisti. Anche perché, alla fine, Ugo, in quel processo, è stato assolto in Appello. Se la Procura generale – dove al tempo c’era Cassata – non ha presentato ricorso in Cassazione non importa. Ugo Manca è stato assolto, quindi Ugo Manca è una persona rispettabile sia a Barcellona che a Viterbo. Chissenefrega se risulta organico alla mafia barcellonese, se è amico stretto di Antonino Merlino, killer di Beppe Alfano (secondo la Cassazione) e della “triade” Cassata-Nania-Cattafi? Chissenefrega se Ugo – quando viene a sapere della morte del cugino – si precipita a Viterbo perché deve entrare a tutti i costi nell’appartamento di Attilio, in quel momento posto sotto sequestro. Il perché non si è mai saputo, né i magistrati laziali se lo sono mai posto, ma intanto Ugo si muove come uno che deve agire con urgenza. E per fare dissequestrare l’alloggio – richiesta che possono fare solo i familiari più stretti come i genitori o i fratelli – telefona a Gianluca, fratello della vittima: “Devo prendere un vestito di Attilio, voglio essere io a vestire la salma. Ai tuoi genitori non devi parlare di questa richiesta”. Riceve un rifiuto categorico. A quel punto Ugo rompe gli indugi e si reca direttamente in Procura. In Procura, ovviamente, non possono accontentarlo, ma invece di mettere sotto torchio anche lui, crederanno alla sue storie, mezza paginetta di verbale di sommarie informazioni, e tante-scuse-per-il-disturbo.
Qualcuno dovrebbe spiegare l’incrocio telefonico di Ugo Manca nei giorni che precedono e che seguono la morte dell’urologo. Qualcuno dovrebbe dire perché certi tabulati telefonici che hanno come perno proprio lui, ma che, secondo quanto dice l’avvocato Fabio Repici – altro legale dei Manca – si diramano verso direzioni “interessanti”, non sono stati richiesti da Viterbo presso il Palazzo di giustizia di Messina, dove da molti anni si trovano chiusi in un cassetto. Sì, perché in questa vicenda, Ugo Manca è il perfetto “trait d’union” fra una strana morte per overdose e un contesto eversivo dove si sono consumate almeno tre “trattative”: le latitanze di Santapaola e di Provenzano, e la costruzione del telecomando per la strage di Capaci.
LE TELEFONATE MANCANTI
Qualcuno dovrebbe far luce su due profondi “buchi neri” presenti, fra gli altri, nell’inchiesta sulla morte dell’urologo. Perché la Procura di Viterbo – benché sollecitata dalla famiglia della vittima – non ha ritenuto di indagare sul traffico telefonico di Attilio Manca relativo all’11 febbraio 2004, data in cui la madre dell’urologo – e non solo – giura di averlo sentito per l’ultima volta? Attraverso quella traccia, ritenuta determinante dai familiari, si sarebbe potuto scoprire il luogo della telefonata e ricostruire le ultime ore di vita di Attilio.
“In un primo momento – dicono i Manca – la Squadra mobile confermò che l’ultima chiamata era avvenuta l’11 febbraio, poi smentì tutto parlando del 10”. Resta il fatto, in ogni caso, che i magistrati viterbesi non abbiano mai voluto richiedere quei tabulati alle compagnie telefoniche. E per legge, dopo cinque anni, questi documenti devono essere distrutti. Quindi non sapremo mai se questa telefonata sia esistita davvero o no.
Ma c’è un’altra telefonata molto inquietante su cui gli inquirenti laziali si sono ostinati a non fare chiarezza. Risale all’autunno 2003, periodo dell’operazione di Provenzano in Francia. Attilio telefona alla famiglia: “Sono nel Sud della Francia, devo vedere un’operazione”. A quale luogo e a quale operazione si riferisce l’urologo? Nessuna risposta dagli inquirenti.
In compenso, l’allora capo della Squadra mobile di Viterbo, Salvatore Gava (che aveva avuto modo di mettersi in evidenza tre anni prima, in occasione del G8 di Genova, redigendo un rapporto falso – secondo la Cassazione – contro i No Global pestati nella scuola Diaz di Bolzaneto) scrive che nel periodo dell’operazione di Provenzano a Marsiglia, Attilio non si mai è mosso dall’ospedale “Belcolle” di Viterbo. Peccato che la trasmissione “Chi l’ha visto” – consultando il registro delle presenze – lo abbia smentito clamorosamente, scoprendo che proprio nei giorni in cui il boss era “sotto i ferri” in terra francese, Attilio Manca risulta assente da quell’ospedale. E allora come la mettiamo? Chi sta barando?
Qualcuno dovrebbe spiegare perché in un Paese dove quotidianamente la televisione e i giornali ci raccontano i particolari più demenziali sulle pulsioni omicide di un sacco di gente paranoica, da Cogne a Brembate passando per Ragusa, la storia di Attilio Manca – sicuramente non meno appassionante di queste, perché paradigmatica del perverso rapporto fra Stato e mafia – non trova posto. O meglio trova posto “una tantum” da Santoro o a “Chi l’ha visto”, ma non in quelle trasmissioni che tengono costantemente viva l’attenzione dell’opinione pubblica.
IL SILENZIO DI “CHI L’HA VISTO”
E però stupisce che un programma come “Chi l’ha visto” – che per alcuni anni ha seguito il caso Manca – dal gennaio 2014 abbia spento improvvisamente i riflettori sulla vicenda. Stupisce che questo sia successo dopo lo scoop di Paolo Fattori e di Goffredo De Pascale, che ha fatto emergere un presunto depistaggio mai smentito dagli inquirenti. Perché il programma di RaiTre, abituato a tornare sempre “sul luogo del delitto” (specialmente dopo uno scoop), improvvisamente fa marcia indietro?
Non lo sappiamo, ma lo registriamo. Così come registriamo il silenzio dell’intera TV di Stato, della TV berlusconiana (che ha promosso “sul campo” il medico legale Dalila Ranalletta come consulente, autrice della “lacunosissima” autopsia sul corpo di Attilio Manca, diventata nel giro di pochi anni direttrice dell’Asp1 di Roma); dei Colletti bianchi di Barcellona Pozzo di Gotto, che su questa storia sono stati attaccati pesantemente dall’opinione pubblica e dalla stampa non allineata, senza una minima reazione.
Qualcuno dovrebbe spiegare il ruolo dell’ospedale “Belcolle” nel corso di questi anni, dato che si tratta della prima struttura italiana ad ospitare – dall’inizio del nuovo millennio – i detenuti in regime di 41 bis. Chi è stato ricoverato – nel periodo in cui Attilio Manca prestava servizio a Viterbo – nell’ala riservata ai mafiosi che stavano scontando il carcere duro per mafia? È importante accertarlo perché il procuratore laziale Alberto Pazienti, nel corso di una conferenza stampa, ha dichiarato: “Ugo Manca era di casa a Viterbo ed era il punto di riferimento dei Barcellonesi che si dovevano curare al ‘Belcolle”. Senza aggiungere altro. Sappiamo però due cose: che mentre Attilio Manca era vivo, il boss barcellonese Sem Di Salvo (vice di Gullotti) stava scontando la sua pena proprio nel carcere di Viterbo; e che almeno un “boss di spicco” di Barcellona (secondo gli atti processuali) è stato segnalato ad Attilio Manca dal cugino Ugo: si tratta di Angelo Porcino, sulla cui presenza nella città laziale, nei giorni che hanno preceduto la morte dell’urologo, non si è indagato per nulla. Addirittura la Procura non è stata in grado di risalire ai suoi numeri di telefono.
Qualcuno dovrebbe spiegare il ruolo di Monica Mileti, la presunta spacciatrice romana oggi sotto processo, la quale, secondo i magistrati e la Polizia di Viterbo, avrebbe ceduto ad Attilio Manca la dose letale di eroina. È davvero così? Sono stati accertati i collegamenti fra la donna e gli “amici” barcellonesi del giro della “Corda fratres”? Di che tipo di collegamenti si tratta?
A tutte queste domande mai nessuno ha dato una risposta per il semplice fatto che l’inchiesta sul “suicidio” di Attilio Manca è rimasta impantanata per ben undici anni in una Procura che col pretesto di operare in un centro “tranquillo” come Viterbo, a volte si ritiene esente dall’indagare seriamente sulla pericolosa espansione delle organizzazioni criminali in quella provincia.
LA SCELTA DI VITERBO
E bisogna riconoscere – se davvero Attilio è stato ucciso, e se il piano per ucciderlo è stato studiato a tavolino – come la scelta di Viterbo sia stata geniale: intanto perché secondo certa vulgata “a Viterbo la mafia non esiste”, o al massimo esiste ma non ammazza come in Sicilia, quindi non è una mafia capace di commettere un delitto eccellente; e poi perché questo dà la possibilità alla Procura, al Gip e all’ex capo della Squadra mobile di sfoggiare il formidabile alibi della mancata preparazione nel fronteggiare un fenomeno nuovo come quello mafioso, di far passare le omissioni e le bugie come ingenui strafalcioni di una classe di magistrati e di poliziotti poco avvezza ad indagare sul crimine organizzato.
Per quanto finora la Procura, il Gip e l’ex capo della Mobile si siano mobilitati stoicamente (bisogna riconoscerlo!) per delegittimare la vittima, il tentativo si è rivelato un boomerang che ha finito per delegittimare loro stessi, che comunque stanno uscendo indenni da questa storia. Sarebbe bastato un intervento del Csm, del ministro di Grazia e giustizia (al quale pure il Movimento 5 Stelle, attraverso due interrogazioni, ha chiesto invano un’ispezione alla Procura della Repubblica di Viterbo), del ministro dell’Interno, dell’Associazione nazionale magistrati, della grande stampa, per far crollare il castello di incongruenze che – Provenzano o meno, mafia o meno, Barcellona o meno – ci allontana sempre più dalla verità. L’impressione è che per rimediare alle figuracce dei corpi intermedi, i corpi superiori usino il silenzio. Solo un’impressione, certo…
UNA TESI GROTTESCA
Se guardiamo i fatti senza pregiudizio, ci accorgiamo che la versione del medico drogato suicidatosi per “inoculazione volontaria di eroina”, in mancanza di prove, è semplicemente grottesca: troppo inverosimile la scena dei due buchi trovati nel braccio sinistro di una vittima mancina, per giunta con due siringhe poste a poca distanza, ma con i tappi salva ago inseriti, con la singolare assenza del cucchiaio sciogli eroina, dell’involucro di carta stagnola e del laccio emostatico. Così come appare strana l’assenza di certi indumenti della vittima e la contemporanea presenza di alcuni strumenti chirurgici (mai visti prima) su un tavolo. Troppo anomala quell’autopsia – eseguita senza la partecipazione di un perito della famiglia Manca – nella quale non vengono descritti i particolari più elementari come un setto nasale gonfio, le labbra tumefatte, i testicoli enormi e delle macchie emostatiche ai polsi e alle caviglie (come rilevato dal medico del 118) e, come dichiarato dagli zii della vittima a chi scrive, “la visibile presenza di materia nerastra sotto le unghie di Attilio”. Troppo grave quel mancato rilievo delle impronte digitali sulle siringhe, sulle quali, solo otto anni dopo, non sono state trovate tracce, né di Attilio né di altri (con una chiara mancanza della “prova regina” dell’auto inoculazione). Troppo insolito quell’esame tricologico che, attraverso l’analisi del capello della vittima, avrebbe dovuto stabilire assunzioni pregresse di droga, ma che, secondo l’avvocato Repici, non ha stabilito nulla perché il test – come l’autopsia – non solo è saltato fuori dopo otto anni, senza che la famiglia, a suo dire, ne fosse informata, ma è stato eseguito (anche questo) in assenza di un perito di parte, per di più senza un atto di notifica recapitato alla famiglia e al proprio legale, e con procedure tecniche anomale contestate dalla Commissione antimafia.
IL DECESSO PER “ANEURISMA”
Qualcuno dovrebbe spiegare perché, per ben due giorni, la polizia e la magistratura hanno parlato ufficialmente di “decesso per aneurisma”, omettendo alla famiglia la notizia del ritrovamento delle siringhe e dei due buchi al braccio sinistro. Una ennesima omissione che ha determinato, da un lato, un abbassamento del livello di attenzione dei familiari indotti a credere che la morte del congiunto fosse dovuta a “cause naturali”, al punto da non aver minimamente pensato di nominare un perito per assistere all’autopsia e agli esami collaterali (come quello tricologico e tossicologico); dall’altro a giustificare il sequestro del computer, delle ricette mediche e degli appunti della vittima da parte della Polizia, dove si sarebbe potuta trovare la chiave di questo giallo.
Qualcuno dovrebbe spiegare perché i Manca – dopo essere stati esclusi dall’autopsia e dall’esame tricologico – sono stati esclusi come parte civile nel processo “per droga” in corso a Viterbo, con una motivazione a dir poco surreale: la morte di Attilio non ha cagionato danno ai congiunti. I quali, adesso, non potranno dire la loro neanche in un dibattimento in cui la parola “mafia” è stata sostituita dalla parola “droga”. Una sottilissima strategia che ha visto impegnato in prima persona il sostituto Renzo Petroselli, titolare delle indagini, che, invece di stare dalla parte della vittima – come succede in casi del genere – ha imbastito un kafkiano processo alla vittima.
Adesso l’inchiesta – dopo le rivelazioni di Lo Verso – è nelle mani del capo della Direzione distrettuale antimafia di Roma, Giuseppe Pignatone. Che dovrà dirci se Attilio Manca è morto davvero per “inoculazione volontaria di eroina” o se è stato ucciso, ed eventualmente da chi e perché. Nell’uno o nell’altro caso l’opinione pubblica reclama prove serie e concrete.
Articolo del 5 Novembre 2015 da tusciaweb.eu
Viterbo – Caso Manca – L’ex capo della squadra mobile Salvatore Gava testimone in aula
“Tracce infinitesimali sulle siringhe”
Viterbo – “Non analizzammo le siringhe perché c’erano tracce infinitesimali”.
L’ex comandante della squadra mobile di Viterbo Salvatore Gava parla per la prima volta in aula di Attilio Manca, il medico siciliano 35enne trovato morto in casa nel 2004. Ne risponde Monica Mileti, cinquantenne romana a giudizio per spaccio: il decesso, secondo le indagini, è stato causato da un’overdose e l’imputata sarebbe la pusher che ha fornito a Manca la dose letale di eroina.
Gava indagò dopo il ritrovamento del corpo, nell’appartamento in cui Manca abitava al quartiere della Grotticella. “Sono interdetto dai pubblici uffici”, esordisce l’ex vicequestore aggiunto, alludendo alla condanna a 3 anni e 8 mesi per un falso sul verbale del – finto – ritrovamento di bombe molotov nella scuola Diaz, durante il G8 di Genova. Per il giudice può comunque testimoniare.
“Ascoltammo persone, esaminammo i tabulati dell’imputata e il cellulare di Manca – ha spiegato l’ex capo della mobile -. Abbiamo trovato contatti con la Mileti tra le ultime chiamate in entrata e in uscita. Quando la contattammo per venire in questura, lei mandò un messaggio a Manca sul suo cellulare, che era sotto sequestro”.
I poliziotti (un altro dei quali ascoltato ieri dopo Gava) perquisirono l’appartamento della donna: trovarono siringhe simili a quelle in casa di Manca, usate per iniettare l’eroina. “Non furono analizzate perché le tracce ritrovate erano infinitesimali”. Per i familiari, uno dei tanti buchi neri dell’inchiesta del pm Renzo Petroselli, che ha sempre scartato la pista del delitto di mafia, battuta dai Manca.
Una delle discrasie segnalate dai familiari del medico riguarda proprio Gava: il verbale dell’ex capo della squadra mobile viterbese verteva sui turni di Manca a Belcolle. Nel documento, scoperto da “Chi l’ha visto”, è scritto che Manca era di turno all’ospedale nei giorni dell’operazione di Provenzano alla prostata in Francia. Il periodo considerato va dal 22 ottobre al 4 novembre 2003. Ma dai fogli di presenza di Belcolle risulterebbe che il medico non era a lavoro né il 25, né il 26 ottobre e che il 30 aveva staccato prima del solito.
Secondo Antonio Ingroia, avvocato di parte civile dei familiari, Manca si sarebbe assentato anche per quasi tutti i mesi di luglio e novembre 2003. Periodi ipoteticamente sovrapponibili a quelli in cui il capo della mafia Bernardo Provenzano si trovava in Costa Azzurra per l’intervento alla prostata. L’ex pm è finito indagato per calunnia per aver parlato di “prove manomesse e falsificate” all’udienza preliminare, quando la famiglia Manca era ancora parte civile per il reato di omicidio a seguito di cessione di droga, reato poi caduto in prescrizione, cancellando i familiari del medico dal processo come parte civile. Ieri, prima udienza senza la famiglia Manca in aula.
Altri testimoni parleranno a marzo.
Fonte: messina.gazzettadelsud.it
Articolo del 13 gennaio 2016
«Manca ucciso da un ufficiale dei Servizi»
di Nuccio Anselmo
Fu «u calabrisi» a uccidere l’urologo barcellonese Attilio Manca, il boss palermitano Nino Rotolo mentre chiacchieravano in carcere lo chiamava pure «u bruttu». «U calabrisi» era «un ufficiale dei Servizi», uno che «era bravo a far apparire come suicidi quelli che erano a tutti gli effetti degli omicidi». Perché? Il dott. Manca aveva curato in gran segreto Bernardo Provenzano con la “mediazione” dell’avvocato barcellonese Saro Cattafi.
Sono letteralmente sconvolgenti le poche pagine di un verbale finora inedito del pentito Carmelo D’Amico, l’ex capo militare di Cosa nostra barcellonese, che è clamorosamente comparso tra le carte del tribunale del Riesame di Messina, davanti al quale si sta discutendo della presunta “mafiosità” post anno 2000 dell’avvocato barcellonese Rosario Pio Cattafi.
Un verbale depositato ieri mattina davanti al collegio presieduto dal giudice Antonino Genovese dal sostituto procuratore generale Salvatore Scaramuzza, proprio per dimostrare, cosi come sostengono i sostituti della Direzione distrettuale antimafia di Messina Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, che indagano da anni, che l’appartenenza di Cattafi alla mafia barcellonese non si è fermata al 2000 come hanno scritto in sentenza i giudici d’appello al processo “Gotha 3” un paio di mesi fa, condannandolo a 7 anni, ma va ben oltre.
Eppure proprio D’Amico al processo Cattafi, quando fu sentito, l’estate scorsa, non ha fatto parola di questo scenario inquietante, e sconvolgente, che oggi invece emerge da un suo verbale recentissimo, redatto il 13 ottobre scorso.
Il pentito, nel verbale, parla di incontri avuti sul caso Manca con il medico barcellonese Salvatore Rugolo, morto in un incidente stradale, che era cognato del boss Gullotti, e di colloqui in carcere a Milano con il boss di Pagliarelli Nino Rotolo.
Nella parte del verbale di “cose barcellonesi” che da ieri è agli atti della vicenda Cattafi, D’Amico inizia così a parlare del caso Manca: «Alcune circostanze che mi sono ricordato e che voglio aggiungere riguardano la morte di Attilio Manca. Si tratta di circostanze ulteriori che si aggiungono a quelle che ho già detto in precedenza e che confermo anche in questa sede».
Ecco il racconto: «Poco tempo dopo la morte di Attilio Manca, avvenuta intorno all’anno 2004, incontrai Salvatore Rugolo, fratello di Venerina e cognato di Pippo Gullotti. Lo incontrai a Barcellona, presso un bar che fa angolo, situato sul Ponte di Barcellona, collocato vicino alla scuola guida Gangemi. Una volta usciti da quel bar Rugolo mi disse che ce l’aveva a morte con l’avvocato Saro Cattafi perché “aveva fatto ammazzare” Attilio Manca, suo caro amico. In quell’occasione Rugolo mi disse che un soggetto non meglio precisato, un Generale dei Carabinieri, amico del Cattafi, vicino e collegato agli ambienti della “Corda Fratres”, aveva chiesto a Cattafi di mettere in contatto Provenzano, che aveva bisogno urgente di cure mediche alla prostata, con l’urologo Attilio Manca, cosa che Cattafi aveva fatto».
Ed ancora: «Rugolo non mi specificò se l’urologo Manca era già stato individuato come medico che doveva curare il Provenzano e il compito del Cattafi era soltanto quello di entrare in contatto con il Manca, o se invece fu lo stesso Cattafi che scelse e individuò il Manca come medico in grado di curare il Provenzano. Rugolo Salvatore ce l’aveva a morte con Cattafi perché, proprio alla luce di quel compito da lui svolto, lo riteneva responsabile della morte di Ugo Manca che riteneva sicuramente essere un omicidio e non certo un caso di overdose. Rugolo non mi disse espressamente che Cattafi aveva partecipato all’omicidio di Manca ma lo riteneva responsabile della sua morte per i motivi che ha sopra detto. Quando Rugolo mi disse queste cose, io ebbi l’impressione che mi stesse chiedendo di eliminare il Cattafi, cosa che era già successa in precedenza, così come ho già detto quando ho parlato di Saro Cattafi perché ritenuto il responsabile della cattura di Nitto Santapaola».
Dopo le confidenze di Rugolo c’è un altro colloquio a cui si riferisce D’Amico: «Successivamente ho parlato di queste vicende quando sono stato detenuto presso il carcere di Milano-Opera in regime di 41 bis insieme a Rotolo Antonino. Mi confidò che erano stati i “Servizi segreti” a individuare Attilio Manca come il medico che avrebbe dovuto curare il latitante Provenzano. Rotolo non mi disse chi fosse questo soggetto appartenente ai servizi ma io capii che si trattava della stessa persona indicatami dal Rugolo, ossia quel Generale dei Carabinieri che ho prima indicato; sicuramente era un soggetto delle istituzioni. Rotolo Antonino, sempre durante la nostra comune detenzione presso il carcere di Milano-Opera, mi disse che Attilio Manca era stato eliminato proprio perché aveva curato Provenzano e che ad uccidere quel medico erano stati i servizi segreti».
Non è finita: «In quella circostanza Rotolo mi aggiunse che di quell’omicidio si era occupato, in particolare un soggetto che egli definiì “u calabrisi”; costui, per come mi disse Rotolo, era un militare appartenente ai servizi segreti, effettivamente di origine calabrese, che era bravo a far apparire come suicidi quelli che erano a tutti gli effetti degli omicidi. Rotolo Antonino mi fece anche un altro nome coinvolto nell’omicidio di Attilio Manca, in particolare mi parlò del “Direttore del Sisde”, che egli chiamava “U Diretturi”. Rotolo non mi disse come era stato ammazzato Manca, né mi fece il nome e cognome del “calabrese” e del “Direttore del Sisde”, né io glielo chiesi espressamente. In questo momento mi sono ricordato che Rotolo, se non ricordo male, indicava il calabrese come “U Bruttu”, ma non so dire il motivo, e che era “un curnutu”, nel senso che era molto bravo a commettere questo tipo di omicidi».
Da oggi, sul caso Manca, si apre un nuovo scenario.
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La vicenda
Trovato morto a Viterbo nel febbraio 2004
Il giovane e brillante urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, Attilio Manca, venne trovato morto in circostanze misteriose il 12 febbraio del 2004 nella sua casa di Viterbo. Inizialmente il caso fu archiviato come suicidio, ma la famiglia non accettò mai questa spiegazione, ritenendola incompatibile con il carattere solare e generoso del giovane medico. Maturò invece progressivamente la convinzione che la tragica scomparsa fosse collegata all’intervento alla prostata subito dal boss Bernardo Provenzano a Marsiglia nel 2003, nel quale potrebbe essere stato coinvolto in qualche modo proprio Attilio, che in quel periodo era stato il primo urologo italiano a operare il cancro alla prostata con il sistema laparoscopico. Nell’aprile del 2015 i legali della famiglia Manca, l’avvocato Fabio Repici e l’ex pm Antonio Ingroia, hanno presentato una denuncia per omicidio di mafia al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone. Per Ingroia, «ci sono i presupposti perché apra un nuovo fascicolo di indagine».
Articolo del 29 Marzo 2017 da antimafiaduemila.com
Monica Mileti condannata a 5 anni e 4 mesi, il caso Manca è (per Viterbo) chiuso
di Lorenzo Baldo
I buchi neri attorno all’unica imputata. Il padre: “Una sentenza che mi toglie la dignità”
“Si rende conto di essere una sorta di ‘capro espiatorio’ dietro il quale si nascondono altre persone?”. “Si, lo so…”. “E allora è il momento di parlare, lo faccia per un padre e una madre che rischiano di morire prima ancora di avere un brandello di verità”. “Adesso basta, non servirebbe a niente, mi lasci vivere…”. Era il 4 aprile dello scorso anno quando Monica Mileti rispondeva così al telefono. A distanza di un anno la sentenza di condanna a 5 anni e 4 mesi emessa dal Gup di Viterbo, Silvia Mattei, non scalfisce minimamente il muro di silenzio di questa cinquantenne romana. La consistenza di quel muro, però, è stata inevitabilmente corroborata da un’inerzia investigativa che non ha eguali. Dal canto suo la difesa della Mileti parla di “processo indiziario”. Certo è che nessun giudice di Viterbo ha mai interrogato in maniera approfondita questa donna. Nessuno le ha chiesto dei suoi legami con l’architetto Guido Ginebri che a sua volta le aveva presentato Attilio Manca. Né tanto meno qualche pm di Viterbo le ha mai chiesto che rapporto avesse avuto con Salvatore Fugazzotto che proprio a Gino e ad Angelina Manca aveva confidato di conoscere bene questa donna. Nessun magistrato di Viterbo le ha mai posto domande sulla sua conoscenza di Ugo Manca, oppure di Gennaro Scetta, amico di vecchia data del giovane urologo barcellonese (con il quale aveva convissuto a Roma diversi anni), morto nel 1998 in circostanze misteriose. Nessun giudice ha mai chiesto a questa donna le ragioni per cui si incontrava con Attilio quelle poche volte all’anno. Che rapporto c’era con lui? Perché l’aveva incontrato a Roma il 10 febbraio 2004, due giorni prima di essere ritrovato morto, dopo più di 24 ore nelle quali non si era saputo nulla di lui? E cosa c’entra Salvatore Fugazzotto in quell’incontro? Domande che non sono mai state poste a Monica Mileti dalla magistratura viterbese. Nessuno le ha mai chiesto se avesse mai pensato di essere stata usata da qualcuno per coprire l’omicidio di Attilio Manca. Ha mai parlato a sua figlia di Attilio Manca? E soprattutto, ha mai pensato che quello che è successo ad Attilio potrebbe succedere a chiunque, anche a sua figlia? E se queste ultime tre domande – come direbbero in un’aula di giustizia – sono “suggestive”, tutte le altre sono invece a dir poco necessarie per un qualsiasi magistrato che avesse voluto (o che voglia) arrivare alla verità sulla morte di Attilio Manca. Evidentemente non sono domande così fondamentali per alcuni magistrati.
L’esclusione della Mileti
Di fronte a tutti questi interrogativi inesplorati non resta che ripartire da lontano per capire questo possibile “ruolo” di Monica Mileti – volutamente ignorato – nel caso Manca. Nel dispositivo di archiviazione del Gip Salvatore Fanti emerge la “scientifica” esclusione di ogni fattore “esterno” nella responsabilità di questa donna. La parola fine in merito alle posizioni di Ugo Manca, Lorenzo Mondello, Andrea Pirri, Angelo Porcino e Salvatore Fugazzotto, inizialmente indagati assieme alla Mileti per la morte di Attilio Manca, viene quindi messa il 26 luglio 2013. Quel giorno il Gip scrive che “della mera circostanza che Mileti Monica sia stata presentata ad Attilio Manca dal Ginebri (Guido, ndr), amico di Ugo Manca, non può certo inferirsi che l’incontro tra i due del 10.2.2004 sia stato preordinato dall’ambiente ‘barcellonese’ allo scopo di eliminare Attilio Manca. Trattasi di illazione non confermata da alcun atto di indagine”. Per quanto riguarda poi la lettera anonima giunta alla redazione di “Chi l’ha visto?” relativa alla strana morte di Gennaro Scetta il giudice parla di “estrema vaghezza del contenuto” che “è tale da non meritare alcun approfondimento investigativo”. Le stesse considerazioni valgono per la richiesta di acquisizione dei tabulati telefonici tra gli “indagati messinesi” (tra cui Ugo Manca e alcuni suoi amici, ndr) e Attilio Manca; per il dott. Fanti è “irrilevante sotto il profilo probatorio, per l’impossibilità di evidenziare il contenuto delle conversazioni da cui desumere elementi utili a ricostruire una causa (diversa da quella ipotizzata dal Pm) della morte di Attilio Manca”. Giù il sipario.
Un esposto a Roma
Sono passati solamente due anni, ma è come se fosse passato un secolo. Era l’8 aprile 2015. Angelina Manca assieme al figlio Gianluca si erano presentati dal Procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone assieme al loro storico difensore Fabio Repici e all’ex pm di Palermo, ora avvocato, Antonio Ingroia. Il motivo era quello di presentare un esposto: una denuncia per omicidio – contro ignoti – contrassegnato dalla presenza della mafia. Lo scopo? Far aprire alla Dda capitolina un fascicolo di indagine sulla morte violenta di Attilio Manca. Obiettivo raggiunto. A tutt’oggi, presso la Dda di Roma, è pendente un fascicolo per omicidio – contro ignoti – nelle mani del procuratore aggiunto Michele Prestipino. Spunti di riflessione interessanti si possono ritrovare proprio in quell’esposto di due anni fa. Secondo la ricostruzione dei due legali la Procura di Viterbo “con il cadavere di Attilio Manca appena rinvenuto, ha di fatto mirato a indagare e processare la stessa vittima, al fine di conclamarne la sua pretesa condizione di persona adusa all’assunzione di eroina (seppure tale circostanza è stata smentita dai colleghi e dagli amici di Attilio Manca, ai quali certamente non sarebbe potuta sfuggire, frequentandolo quotidianamente in reparto e perfino in sala operatoria). E infatti le sue attività si sono limitate ad accertare i contatti avuti da Attilio Manca nel pomeriggio del 10 febbraio 2004 telefonicamente e di persona a Roma con tale Monica Mileti, persona non estranea al mondo della droga, al fine di evocare la possibilità che fosse stata per l’appunto Monica Mileti a fornire ad Attilio Manca le dosi letali di eroina”. “Nel far questo, però – sottolineano Repici e Ingroia – la Procura di Viterbo, da un lato, ha omesso di eseguire alcuna attività che consentisse di accertare l’eventuale responsabilità della Mileti per la cessione di droga e la conseguente morte di Attilio Manca (omessa alcuna attività di intercettazione, ad esempio) e, dall’altro, non è stata in grado di spiegare con quali modalità Attilio Manca si fosse adoperato per predisporre la droga che si sarebbe inoculato da sé con le due siringhe rinvenute in casa sua, visto che in casa sua non è stata trovata alcuna traccia degli strumenti con i quali, secondo le più banali cognizioni processuali di ciascuno, Attilio Manca avrebbe potuto trattare la sostanza stupefacente per la sua liquefazione al fine delle iniezioni”. I due legali avevano evidenziato di seguito che nel pomeriggio del 10 febbraio 2004, quando il dott. Manca aveva telefonato per la prima volta a Monica Mileti “si trovava già all’altezza di Ronciglione, dunque incontrovertibilmente già in cammino per Roma, laddove, come riferito da Loredana Mandoloni (amica e collega di Attilio Manca, ndr) e Gianluca Manca, Attilio avrebbe dovuto avere un non meglio precisato incontro per il quale aveva mostrato fastidio”, un dato importante da mettere in correlazione con l’ultima conversazione telefonica avuta da Attilio Manca prima di mettersi in viaggio per Roma “intercorsa con Salvatore Fugazzotto, fedele amico di Ugo Manca”. “Una volta collegata la vita di Attilio Manca alla persona di Monica Mileti – avevano spiegato i due legali – e una volta dimostrata una familiarità fra quest’ultima e l’eroina, il 19 febbraio 2004 il Pm di Viterbo cessò perfino di pensare al compimento di alcun atto utile all’accertamento della verità sulla morte di Attilio Manca”. Nello specifico Ingroia e Repici avevano evidenziato una stridente anomalia: dopo la perquisizione eseguita presso l’abitazione della Mileti, con la quale gli inquirenti attestarono che si trattava di persona che faceva uso di eroina, “le indagini segnarono il passo”. “Anche ammesso – si legge nell’esposto – che Attilio Manca fosse morto a causa dell’assunzione volontaria di eroina, colui o coloro che gliel’avessero venduta sarebbero stati responsabili di due gravi delitti: la cessione della droga e la morte di Attilio come conseguenza di quel primo reato, esattamente i reati che con dieci anni di ritardo il pubblico ministero decise di contestare a Monica Mileti, nonostante evidentemente si fosse convinto fin da subito che la morte di Attilio Manca rientrava in quel quadro, e solo in quel quadro. Sennonché nell’immediatezza gli inquirenti omisero di compiere gli atti di indagine che in quel quadro sarebbero stati doverosi, a partire dalle intercettazioni”. Certo è che la stessa Mileti, nonostante fosse stata posta sotto attenzione investigativa pochi giorni dopo la morte di Attilio Manca, venne rinviata a giudizio solo nel 2013. E soprattutto: nei suoi interrogatori disse che Attilio non faceva uso di sostanze stupefacenti.
Omicidio colposo? Prescritto
Il 23 ottobre del 2014 la famiglia di Attilio Manca è stata estromessa dal processo di Viterbo perché il reato di “omicidio colposo”, attribuito a Monica Mileti, è caduto in prescrizione, mentre lo “spaccio di sostanze stupefacenti” – l’altro reato per la quale la donna era sotto processo – a parere del giudice monocratico, non ha determinato danni alla famiglia del congiunto deceduto. Dietro richiesta dell’allora pm Renzo Petroselli (attualmente in pensione), il Giudice del dibattimento, dopo che il Giudice dell’udienza preliminare le aveva ammesse, ha infatti escluso dalle parti civili la famiglia Manca. Come sia stato possibile che sia accaduto questo lo aveva già illustrato l’avvocato Repici. “Si tratta di un’aberrazione giuridica – aveva spiegato a caldo –. Il reato caduto in prescrizione esclusivamente a causa del lassismo del dr. Petroselli e della Procura di Viterbo, che ha agito con quasi dieci anni di ritardo, era quello previsto dall’art. 586 del codice penale: morte come conseguenza di altro delitto. Tradotto nella vicenda della morte di Attilio Manca, la morte di Attilio come conseguenza della cessione di droga”. Fabio Repici aveva evidenziato che le imputazioni erano state scritte dallo stesso Petroselli. “Era stato lui, quindi, a dire che la morte di Attilio Manca era conseguenza immediata e diretta della cessione di droga imputata a Monica Mileti”. “Caduta una delle due imputazioni per prescrizione in udienza preliminare e rinviata Monica Mileti a giudizio per la cessione di droga, a dibattimento il dr. Petroselli ha cambiato idea e ha sostenuto che la morte di Attilio Manca non era conseguenza immediata e diretta della cessione di droga e che, quindi, i familiari di Attilio non potessero essere considerati nemmeno danneggiati da quel reato, di cessione di droga. Una follia. Purtroppo condivisa dal Giudice del dibattimento, che ha escluso i familiari di Attilio dal processo come parti civili”. “Evidentemente – aveva concluso Repici – la presenza dei genitori e del fratello di Attilio che reclamavano approfondimenti al fine della ricerca della verità era vissuta con fastidio da alcuni magistrati a Viterbo”.
Il dolore di un padre
“Questa sentenza toglie dignità anche a me”, al telefono Gino Manca non ha più parole per commentare il verdetto del giudice di Viterbo. “Io sono vecchio – sospira –, non pensavo che sarebbe passato tanto tempo per non vedere verità e giustizia… mi rendo conto che bisogna sopportare tutto…”. La consapevolezza del padre di Attilio Manca è tranciante. “Ormai c’è un muro di gomma insormontabile, temo che anche a Roma chiuderanno l’indagine, forse per omicidio, se non addirittura per suicidio… spero solo di poter resistere per vedere un giorno giustizia e verità”.
Fonte: ilsicilia.it
Articolo del 17 luglio 2018
Archiviato il caso Attilio Manca: “Lo Stato si autoassolve, ingiustizia è fatta”
il j’accuse dell’avv. Antonio Ingroia
BARCELLONA POZZO DI GOTTO (ME) – “Ancora una volta sul caso di Attilio Manca ingiustizia è fatta, ancora una volta la verità viene sacrificata sull’altare della ragion di Stato”. Così in una nota l’avvocato Antonio Ingroia, legale della famiglia Manca, dopo che il Gip di Roma ha accolto la richiesta di archiviazione della Procura di Roma.
“L’ennesima archiviazione della magistratura laziale, prima quella di Viterbo e oggi quella di Roma, conferma che avevamo ragione: lo Stato si autoprotegge, anzi si autoassolve, affinché non si sappia la verità, e cioè che Attilio è stato ucciso dall’apparato mafioso istituzionale che a lungo ha coperto la latitanza di Bernardo Provenzano prima del suo arresto, essendo all’epoca il boss il garante di Cosa nostra nella trattativa Stato-mafia.
Invece di approfondire e di indagare a fondo, come pure imponevano le palesi incongruenze e le lacunose ricostruzioni che hanno caratterizzato le indagini, nonché l’assoluta inattendibilità di alcuni testimoni, si è preferito non vedere e non sentire, si è deciso di ignorare fatti evidenti, così da mettere una pietra tombale sull’intera vicenda con 75 pagine di motivazioni assolutamente inconsistenti, con cadenze argomentative che ricordano quelle della Cassazione di Corrado Carnevale dei bei tempi andati…
Quella di Attilio – prosegue Ingroia – non è stata una tragedia di droga, come pure la si vuol far passare, Attilio è una vittima di Stato e di mafia, ma lo Stato non può e non vuole ammetterlo. E’ per questo – conclude Ingroia – che lo Stato italiano ancora una volta nega giustizia ad Attilio e alla sua famiglia. Ma non si può subire per sempre. È il momento che il Popolo della Verità si ribelli!”
Il caso Attilio Manca
Change.org Italia
Pubblicato il 26 apr 2017
Il dottor Attilio Manca è stato trovato morto la mattina del 12 febbraio 2004 nella sua casa di Viterbo. Secondo la procura si è trattato di “suicidio”, perché Attilio si sarebbe iniettato una overdose di eroina, alcool e tranquillanti. Ma per la famiglia questa ricostruzione non torna.
Fonte: blogsicilia.it
Articolo del 5 febbraio 2019
La morte dell’urologo Attilio Manca, famiglia lancia petizione per chiedere riesumazione
Il giovane fu ritrovato morto nel 2004 a Viterbo
“Chiediamo la riesumazione del cadavere di Attilio Manca”. Una petizione alla procura nazionale antimafia, condivisa dalla famiglia, è stata lanciata su change.org dai legali e dalla famiglia dell’urologo trovato morto a Viterbo, nella sua abitazione, nel 2004. Si chiedono anche ulteriori indagini e che vengano seguite le “piste” che alcuni collaboratori di giustizia hanno fornito con le loro dichiarazioni. Il prossimo 11 febbraio saranno passati 15 anni dalla morte del giovane medico. “Mi auguro che la nuova commissione antimafia si occupi nuovamente del caso e riprenda le indagini”, dice la madre della vittima, Angela Manca. La Commissione parlamentare antimafia della scorsa legislatura ha svolto alcune sedute sul caso e nella relazione finale si legge che “dall’esame degli atti finora disponibili, deve concludersi che, allo stato, non si evidenziano elementi sufficienti per ribaltare le risultanze raggiunte sino a oggi dall’autorità giudiziaria”. Un giudizio che la madre di Attilio Manca non esita a giudicare “vergognoso”.
Secondo una relazione presentata dalla minoranza della commissione, invece, l’operato della Commissione “ben poteva continuare con l’espletamento di ulteriori audizioni e con l’acquisizione di documenti utili all’approfondimento del caso, che si auspica verranno portati avanti nella prossima legislatura”; la relazione di minoranza si conclude, quindi, con un corposo elenco degli approfondimenti auspicati. L’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto fu trovato morto nel febbraio 2004 nella sua casa di Viterbo. La morte del medico fu inizialmente ritenuta dovuta ad overdose e fu archiviata come suicidio. I genitori però si sono sempre opposti a questa ricostruzione, sostenendo – anche sulla scorta delle dichiarazioni di alcuni pentiti – che il figlio fosse stato ucciso per coprire un intervento subito da Bernardo Provenzano a Marsiglia. A metà del luglio scorso il Gip di Roma ha accolto la richiesta di archiviazione della Procura. La famiglia aveva invece già allora chiesto la riesumazione della salma: “sarebbe un trauma – spiega la signora Manca – ma è l’unica possibilità per fugare qualsiasi dubbio”. Di qui la petizione alla procura nazionale antimafia.
Fonte: antimafiaduemila.com
Articolo del 9 febbraio 2019
Omicidio Manca? Repici: ”Ripartire dai dati esistenti, la Dna si occupi del caso”
di Lorenzo Baldo
A colloquio con il legale dei familiari del giovane urologo a pochi giorni dal 15° anniversario della sua morte
Un fiume in piena. È così che si possono definire le dichiarazioni di un avvocato integerrimo come Fabio Repici che, assieme ad Antonio Ingroia, difende la famiglia di Attilio Manca. Le sue analisi si basano su dati oggettivi. Che rimbalzano contro ipocrisie, menzogne ed omertà. La sua è un’osservazione pregnante, del tutto fondamentale per attraversare fino in fondo un caso giudiziario controverso. Quello del giovane urologo siciliano trovato morto a Viterbo il 12 febbraio 2004. Tanti gli aspetti sui quali bisogna fare luce: l’“anomalia” rappresentata dall’’ex capocentro del Sisde di Messina, attuale collaboratore del sottosegretario Luigi Gaetti; le prove ignorate dal Gip di Roma che ha firmato l’archiviazione e quelle da cercare; e poi ancora il significato della trattativa tra Stato e mafia nella morte di Attilio Manca. Sullo sfondo, immancabile, la città di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, dove vive e vegeta: “un aggregato mafioso che, ben più che in qualunque altro posto, è stato più che una mafia protetta dallo Stato una vera e propria mafia di Stato, con la coincidenza in alcune persone del ruolo di uomo di mafia e uomo di Stato”.
Avvocato Repici, alcuni giorni fa l’Espresso ha evidenziato “l’anomalia” della figura dell’ex capocentro del Sisde di Messina che risulta essere uno stretto collaboratore del sottosegretario Luigi Gaetti, già vicepresidente della Commissione antimafia. Quella stessa Commissione che si è occupata, tra l’altro, del caso di Attilio Manca. Gaetti e la minoranza della Commissione avevano stilato una relazione sulla morte dell’urologo barcellonese in netto contrasto con quella della maggioranza, appiattita sulla tesi del suicidio a base di droga che, paradossalmente aveva utilizzato anche il parere dello stesso Gaetti per smentire le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia che descriveva l’omicidio di Attilio Manca all’interno di un disegno di mafia, Servizi e Massoneria. Siamo di fronte ad un corto circuito tra politica, giustizia e Servizi, o cos’altro?
Siamo sicuramente davanti a uno scenario di portata gigantesca. Innanzitutto, l’exploit di Gaetti in Commissione antimafia è un caso unico nella storia del Parlamento italiano. Egli, componente della Commissione in quanto senatore, ha fatto pure da consulente della commissione, redigendo, per quello che si legge nella relazione di maggioranza sul caso Manca, un elaborato medico-legale utilizzato per convalidare le conclusioni depistanti di quella relazione, che si era deciso fossero necessariamente coerenti con le conclusioni depistanti dell’autorità giudiziaria. La mala fede di Gaetti è, poi, certificata dall’aver al contempo sottoscritto, per evitare di togliere la maschera sul suo ruolo davvero increscioso, la relazione di minoranza sul caso Manca, che mostra come siano false non solo molte delle affermazioni della relazione di maggioranza ma pure, espressamente, quella fondata sulla “consulenza” di Gaetti, che, arretrando di 24 ore la morte di Attilio Manca, elimina il buco nero rimasto irrisolto dalla magistratura fino a oggi su cosa abbia fatto e dove sia stato l’urologo barcellonese il giorno 11 febbraio, prima che nella tarda sera di quella data la sua vicina di casa non sentì la presenza di qualcuno che usciva o entrava dall’appartamento di Manca. Siamo al primo indizio su Gaetti, che, per citare Agatha Christie, rimane pur sempre un indizio, per quanto gravissimo.
In parallelo con questa miserevole impresa, su un delitto che vede certamente coinvolta la famiglia mafiosa barcellonese ed esponenti degli apparati di sicurezza (non è una mia teoria ma il sunto delle dichiarazioni di più collaboratori di giustizia), Luigi Gaetti depositò in Parlamento un’interrogazione parlamentare su sollecitazione di un personaggio vicino a Rosario Pio Cattafi (esponente di alto livello della famiglia mafiosa barcellonese e degli apparati di sicurezza) per colpire il collaboratore di giustizia barcellonese Carmelo Bisognano, già riconosciuto con sentenza definitiva come vittima delle calunnie di Cattafi. Sono in grado di dimostrare in qualunque sede la provenienza di quell’interrogazione parlamentare e gli effetti (cioè la demolizione del collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano) ai quali essa mirava, puntualmente raggiunti, con grande soddisfazione del boss Cattafi, che nel 2012 era finito in carcere in esito alle indagini che la Dda di Messina era stata costretta a sviluppare sulla scorta delle dichiarazioni di Bisognano. E qui siamo al secondo indizio, che, sempre per Agatha Christie, può essere una coincidenza, per quanto sicuramente gravissima.
Infine, abbiamo scoperto che Gaetti, nominato, non si sa se per i grossi sforzi profusi – e prima descritti – in favore della mafia barcellonese e degli apparati deviati a essa contigui, con grande sorpresa sottosegretario all’interno con delega per l’antimafia, chiama presso il proprio ufficio quale principale collaboratore, prelevandolo dal Servizio centrale di protezione dove per anni (molto malamente, a sentire numerose voci che è possibile indicare in ogni sede) si è occupato di testimoni e collaboratori di giustizia, giusto il funzionario di polizia, Giuseppe De Salvo, che nel delicatissimo biennio 1992/93 fu il capocentro del Sisde di Messina. Per intenderci, nel biennio delle stragi, dell’omicidio di Beppe Alfano, della mancata cattura di Santapaola nel barcellonese, di un’operazione scellerata (sulla quale prima o poi l’autorità giudiziaria dovrà dare qualche risposta) con l’esfiltrazione dal 41 bis del boss Pino Chiofalo, del tentato omicidio di Stato in danno di Imbesi, dei depistaggi sull’omicidio di Beppe Alfano. Basta leggere gli scritti e le dichiarazioni su tutti questi argomenti del magistrato Olindo Canali, che quale dominus ai tempi della Procura di Barcellona Pozzo di Gotto in tutte quelle vicende era stato attore protagonista, per rabbrividire. E qui, oltre ad arrivare a una circolarità che trova piena chiusura nelle azioni di Gaetti sulle vicende della mafia barcellonese e sui servizi segreti, siamo ben più che a quel terzo indizio, che, sempre per rimanere ad Agatha Christie, è la prova. Per questo io ritengo che certe vicende debbano essere attentamente valutate dall’autorità giudiziaria.
Lo scorso luglio il Gip di Roma, Elvira Tamburelli, accogliendo le richieste della Procura, ha archiviato il caso Manca rigettando in toto l’opposizione firmata da lei e dal suo collega Ingroia. Una dopo l’altra sono cadute nel vuoto le vostre richieste, tra queste: indagare sul cugino di Attilio, Ugo Manca e sul pregiudicato Rosario Pio Cattafi, fare luce sui possibili collegamenti con Giovanni Aiello “faccia da mostro”, con il boss Carmelo De Pasquale, con l’ex capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano e soprattutto riesumare il cadavere del dottor Manca per fugare definitivamente ogni dubbio sulla sua pseudo tossicodipendenza. Di tutto questo non se ne è fatto nulla. Da dove si deve ripartire per non far cadere nell’oblio questo caso?
Si deve ripartire con tenacia nelle richieste di sviluppare le indagini sulla scorta dei dati già esistenti e di cercarne altri, in uno sforzo di ricerca della verità che non può essere oggetto di abdicazione da parte dello Stato. Purtroppo, abbiamo imparato che fare le indagini su vicende che coinvolgono solo responsabilità di uomini d’onore è più semplice di quanto avviene quando occorre scavare anche sulle responsabilità di apparati di Stato. Questo è il punto nodale, che riguarda anche la posizione dei collaboratori di giustizia. Coloro di essi che hanno parlato di mafia e servizi o sono stati indotti a tacere, o sono stati espulsi dal circuito della protezione magari approfittando di errori da loro commessi (alle volte perfino indotti) e immediatamente strumentalizzati per risolvere gordianamente il problema, oppure sono oggetto, pure in questo momento, di manovre finalizzate al loro ammutolimento. Carmelo D’Amico, in questo scenario, è un personaggio esemplare. Con le sue dichiarazioni ha fatto luce su decine di omicidi compiuti nel barcellonese e ha portato alla cattura di molti dei responsabili, con processi in corso che hanno già visto, in relazione alle ordinanze di custodia cautelare, fatto già registrare la sua attendibilità.
D’Amico ha reso dichiarazioni importanti anche nel processo sulla trattativa Stato-mafia e anche lì la sentenza ne ha certificato l’attendibilità, anche in relazione alle confidenze che egli aveva ricevuto al 41 bis da uno dei più importanti capimafia palermitana di questi decenni, Antonino Rotolo. Ma D’Amico ha reso dichiarazioni anche su altri temi: sull’omicidio di Attilio Manca coinvolgendo nello scenario del delitto Rosario Cattafi, un generale vicino al circolo Corda Fratres ed esecutori materiali appartenenti ad apparati deviati, ivi compreso, sembrerebbe, Giovanni Aiello “faccia da mostro”; su una loggia massonica coperta che ha sovrinteso agli affari criminali fra la Sicilia orientale e la Calabria; sulle contiguità istituzionali di istituzioni, anche giudiziarie, e grossa imprenditoria con la famiglia mafiosa barcellonese. È un caso che su questi temi la giustizia mostri molta più difficoltà? Io credo proprio di no.
Tra le richieste di approfondimento rigettate dal Gip di Roma ce n’è una che riguarda le dichiarazioni di un ex investigatore del messinese (contenute nel libro di Luciano Mirone “Un suicidio di mafia”) a dir poco incredibili: prima dell’intervento chirurgico a Marsiglia di Provenzano (ottobre 2003), Attilio Manca sarebbe stato prelevato in elicottero e portato nella zona di Tonnarella (vicino a Barcellona Pozzo di Gotto), in una struttura privata che un medico locale avrebbe messo a disposizione, e lì avrebbe visitato Provenzano. L’ex investigatore avrebbe specificato che, una volta morto Attilio Manca, il Ros avrebbe fatto delle indagini scoprendo che c’erano dei collegamenti tra la morte del giovane urologo e la latitanza del boss mafioso a Barcellona Pozzo di Gotto. Ad un certo punto, però, dagli alti vertici dei Carabinieri sarebbe arrivato l’ordine di insabbiare tutto quanto. In quale modo possono tornare utili ai fini investigativi le parole di questo investigatore?
Su questo io non posso che ribadire un mio vecchio convincimento: se non si conoscono le fonti su circostanze così delicate – e le fonti anonime sono fonti sconosciute – è impossibile esprimere ogni valutazione.
Nello stesso mese di luglio 2018 l’ex amico di Attilio Manca, Lelio Coppolino – tra coloro che poco dopo la morte del giovane urologo hanno iniziato ad accusarlo di essere stato un tossicodipendente – è stato condannato a 3 anni di reclusione per falsa testimonianza a seguito delle sue dichiarazioni rese nel ‘96 al processo per l’omicidio di Beppe Alfano (stessa condanna anche per il co-imputato Andrea Barresi). Coppolino è tra quei testimoni tenuti in grande considerazione dalle Procure di Viterbo e di Roma per circoscrivere la morte di Attilio Manca all’interno di un mero caso di overdose. Da una parte i magistrati di Viterbo hanno imbastito un processo “contro” il dottor Manca basandosi su testimonianze come quelle di Coppolino; dall’altra il giudice romano ha archiviato il caso facendo propria la tesi della Procura capitolina che si è avvalsa ugualmente di simili testimoni. È così difficile trovare un giudice che voglia arrivare fino in fondo alla verità su questo caso?
Ho già detto di queste difficoltà. Però sull’utilizzo di certe fonti di prova contro Attilio Manca (perché a Viterbo gli organi giudiziari il processo l’hanno fatto proprio contro la memoria di Attilio Manca, senza che egli potesse difendersi), e sul mancato utilizzo di altre, rimane un dato clamoroso. Nel processo contro Monica Mileti a Viterbo accusa e difesa sono state in assoluta sintonia nell’evitare che venissero esaminati a dibattimento i collaboratori di giustizia che hanno descritto la morte di Attilio Manca come un omicidio premeditato compiuto con la messa in scena dell’overdose in cui Manca doveva apparire vittima dei suoi vizi. Procura, difesa e Tribunale hanno avuto contezza delle dichiarazioni di quei pentiti, che fornivano una discolpa insuperabile in favore di Monica Mileti. Eppure nessuno li ha voluti sentire. Tutti d’accordo: com’è possibile?
Quanto hanno influito nell’inchiesta giudiziaria sul caso Manca le dichiarazioni – allineate nettamente sulla tesi del suicidio di un drogato – dell’ex Procuratore di Torino, Armando Spataro?
Io non so se le dichiarazioni di Spataro abbiano influito. So per certo che il comportamento di Spataro è imperdonabile. Ci sono numerosi pentiti, taluno dei quali di riconosciuta attendibilità, che hanno riferito che Attilio Manca è stato ucciso da mafia e servizi e Spataro, che non si è mai occupato di questo delitto, decide di aggiungere la sua parola (con i toni molto assertivi che gli sono propri) alla tesi della morte del povero tossico. Eppure Spataro per decenni è stato in servizio alla Procura di Milano e qualcosa dovrebbe pur sapere del calibro criminale di Rosario Cattafi e del suo ruolo di anello di congiunzione fra Cosa Nostra barcellonese-milanese e apparati deviati. Pensa che le prove a carico di Cattafi sono calunnie? Sarebbe gravissimo, se fosse così.
Due anni fa sono state raccolte oltre 30.000 firme contro l’archiviazione del caso Manca che purtroppo poi si è verificata. E’ un dato di fatto che la presenza della società civile unita nel chiedere giustizia e verità può essere determinante per esercitare una sorta di pressione su chi ha il dovere di indagare (i casi Cucchi e Regeni sono la dimostrazione). Nel caso Manca sembra tutto molto più difficile, per quale ragione?
La ragione è una sola: Barcellona Pozzo di Gotto. Per anni, ai pochi che segnalavano all’Italia intera la centralità di quella cittadina nei più alti livelli delle devianze criminali di Stato – insieme a me Sonia Alfano, i familiari di Attilio Manca, Antonio Mazzeo e prima di chiunque altro Adolfo Parmaliana – si rispondeva con un silenzio che significava incredulità e quasi convincimento che si trattasse di farneticazioni. Quando segnalai nelle sedi giudiziarie le vicende sconcertanti relative alla mancata cattura di Santapaola nel barcellonese e al tentato omicidio Imbesi mi venne detto che si trattava di episodi del tutto estranei alle grandi trame di mafia e di Stato.
Dopo moltissimi anni, quelle vicende, che avevo segnalato invano, sono state ritenute centrali nella sentenza del processo sulla trattativa Stato-mafia. Mi auguro che non ci vogliano ancora molti anni per ottenere sentenze che attestino come a Barcellona ha operato un aggregato mafioso che, ben più che in qualunque altro posto, è stato più che una mafia protetta dallo Stato una vera e propria mafia di Stato, con la coincidenza in alcune persone del ruolo di uomo di mafia e uomo di Stato.
In questi anni sul caso Manca sono state fatte diverse interrogazioni parlamentari – con tanto di sconcertanti risposte da parte del ministro della giustizia Orlando –, ogni volta sembrava davvero di scontrarsi contro un muro di gomma impenetrabile. A mettere in soggezione politici e uomini delle istituzioni è solo l’ipotesi che Attilio Manca sia stato ucciso per essersi reso conto della rete di protezione istituzionale che c’era attorno a Bernardo Provenzano, o c’è qualcosa di più occulto che si muove all’interno della trattativa Stato-mafia?
C’è che a Barcellona, coincidendo per alcune parti Stato e mafia, non è mai stata necessaria alcuna trattativa. Si tratta con altri da sé, non si può trattare con sé stessi. Eppure, a parte la vostra testata e pochi altri operatori dell’informazione, ancora Barcellona paga la decisione – perché io sono certo che sia una scelta mirata – di tenere un cono d’ombra sulle sue vicende criminali.
Per l’ex sostituto procuratore generale di Messina, Marcello Minasi, sul caso Manca la verità non verrà mai fuori in quanto si tratta propriamente di “un episodio della ‘trattativa di Stato’, su cui il grande spregiudicato Napolitano si è giocato il tutto per tutto per stendere un velo. Se fosse necessario sarebbero capaci di uccidere di nuovo come hanno fatto con il povero Attilio Manca”. Quanto è d’accordo con questa tesi?
Commentare quella tesi imporrebbe di approfondire tante vicende e ciò imporrebbe una conferenza apposita. Sul rischio di morte a latere delle vicende barcellonesi, invece, posso senz’altro dire che non è per nulla un pericolo astratto. Il pericolo di questi tempi non è l’assassinio commesso secondo i canoni spavaldi dei delitti di mafia. Lo stesso Attilio Manca, che è morto appunto non negli anni Ottanta o Novanta ma negli anni Duemila, è stato eliminato con un “non delitto”, come accade quando intervengono killer di apparato. Allora forse dovremmo interrogarci un po’ di più quando si verifica la morte di una persona che, per il modo e i tempi e le “necessità di sistema” in cui arriva, sembra richiamare quelle convergenti e irresistibili forze tutte coincidenti verso la soppressione di una persona, come in “Cronaca di una morte annunciata” di Gabriel Garcia Marquez.
Faccio un esempio specifico, per far comprendere. A fine ottobre 2008 morì in uno strano incidente stradale Salvatore Rugolo, cognato del boss barcellonese Giuseppe Gullotti e fonte di Carmelo D’Amico su Cattafi e sull’omicidio di Attilio Manca. Quando Rugolo morì, da poche settimane si era tolto la vita Adolfo Parmaliana e da solo una settimana era stato divulgato dal settimanale L’Espresso il contenuto sconcertante dell’informativa Tsunami, col coinvolgimento di importanti esponenti della «magistratura barcellonese-messinese», per usare le parole dell’ultima lettera di Adolfo Parmaliana.
Secondo l’accusa mossa di recente dalla Procura di Reggio Calabria a carico del magistrato Olindo Canali, per corruzione in atti giudiziari, che naturalmente finché non ci fosse una conferma in una sentenza è solo un’ipotesi di reato sulla quale vale la presunzione di non colpevolezza, Salvatore Rugolo, nelle accuse di D’Amico, era in quel momento coinvolto anche a deviare l’andamento della giustizia su importanti omicidi di mafia. So che il pm che si è occupato della morte di Rugolo provocata da un incidente stradale, pur dopo l’archiviazione del fascicolo, ha continuato a serbare perplessità su quell’episodio. Sono perplessità che condivido e che, per tornare alla sua domanda, mi fanno pensare che di questi tempi i rischi non sono le classiche esecuzioni mafiose ma altro tipo di evenienze. Che, dunque, mi fanno ben comprendere i timori dei collaboratori di giustizia a parlare di certe vicende mentre la loro vita e quella dei loro congiunti è nelle mani dello Stato, nelle carceri o nei circuiti di protezione.
Dopo 15 anni dalla morte di Attilio Manca, in virtù della prossima creazione di un pool investigativo sulle stragi all’interno della Dna, risulta fattibile che il caso Manca venga affidato a magistrati qualificati che possano tracciare gli opportuni collegamenti tra questa ed altre inchieste di mafia e Stato?
Sarebbe sicuramente una cosa molto opportuna, purché il lavoro venga svolto con la mira di fare luce sulle deviazioni istituzionali che ci sono dietro certi delitti, anziché per occultarle, come alle volte è accaduto in passato.
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«Dopo la morte di Attilio, quando ho visto quelle foto, mi sono sentito male per giorni e ancora adesso non riesco a guardarle. Sono immagini strazianti e credo che nessun medico potrebbe negare che si tratti di un corpo straziato».
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