11 Ottobre 1980 Napoli. Ucciso Ciro Rossetti, giovane operaio dell’AlfaSud
L’11 ottobre del 1980 a San Giovanni a Teduccio, quartiere del napoletano, viene ucciso Ciro Rossetti, giovane operaio dell’Alfasud. Ciro si è recato a casa della madre con la moglie ed i suoi due figlioletti per assistere con i suoi parenti alla partita di qualificazione ai mondiali Italia-Lussemburgo. Secondo la ricostruzione della polizia, l’operaio, uditi alcuni spari, si sarebbe subito precipitato alla finestra. Passava di lì un’Alfasud con a bordo almeno 3 persone. Una di queste, con il braccio proteso fuori dal finestrino anteriore destro, impugnava una pistola da cui sarebbero stati esplosi almeno quattro colpi, a distanza di pochi secondi l’uno dall’altro, uno dei quali ha ferito all’anca Ciro Sorrentino e ucciso il giovane Rossetti, padre di due bambini, che con la malavita della zona non aveva nulla da spartire. (Fondazione Pol.i.s.)
Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 1 novembre 1980
Ucciso in una sparatoria l’11 ottobre
Una fatalità la morte dell’operaio dell’Alfa
Il Rossetti rimase colpito per caso
Rimase ucciso per una fatalità lo sventurato operaio dell’Alfa Sud Ciro Rossetti. La squadra mobile che conduce le indagini ha accertato che il giovane fu raggiunto da un proiettile nel corso di una sparatoria tra gruppi rivali di contrabbandieri, nella quale si era trovato coinvolto per caso.
La polizia ha anche arrestato due dei sei protagonisti dello scontro e ne ha identificati altri tre. Nel pomeriggio dall’11 ottobre Ciro Rossetti si era recato a trovare la madre che vive in un terraneo al corso S. Giovanni a Teduccio e stava guardando la partita di calcio Italia-Lussemburgo alla TV. All’improvviso all’esplodere di alcuni colpi di arma da fuoco il Rossetti si alza ed esce sull’ingresso del terraneo. Qui un proiettile lo raggiunge ferendolo mortalmente.
Era accaduto che nella mattinata per uno «sgarro tra paranze» di contrabbandieri avevano litigato violentemente Ciro Sorrentino e Carmine Orso, poi arrestati dalla mobile. Sospesa la lite per il momento, si erano dati appuntamento nel pomeriggio al corso San Giovanni per chiarire i motivi del contrasto.
Nota da: Un nome, una storia – Libera
Erano almeno in tre a bordo dell’auto dalla quale sono partiti i proiettili che hanno ucciso Ciro Rossetti, 31 anni, operaio dell’Alfasud a Napoli l’ 11-10-1980.
Il fatto è avvenuto al bivio fra San Giovanni a Teduccio e Vico Pazzigno, dove abita la madre dell’operaio, Cristina Mansueto. Ciro Rossetti vi si era recato con la moglie Antonietta Lamberti, di 28 anni ed i suoi due figlioletti, per assistere con i parenti alla partita Italia-Lussemburgo.
Secondo la ricostruzione della polizia, l’operaio, udite delle detonazioni si sarebbe precipitato alla finestra proprio nel momento in cui sulla strada sfrecciava un’Alfasud , a bordo della quale dovevano essere almeno tre persone. La gente ha visto un uomo con le braccia protese fuori dal
finestrino anteriore destro con tutte e due le mani strette attorno all’impugnatura di una pistola. Sarebbero stati esplosi, a distanza di qualche secondo l’uno dall’altro, almeno quattro colpi: uno ha ferito all’anca Ciro Sorrentino e ucciso il giovane operaio dell’Alfasud , padre di due bambini, che con la malavita della zona non aveva proprio nulla da spartire.
Articolo da liberainformazione.org
Speciale 19/21 Marzo Giornata della Memoria di Napoli
Ricordare le vittime ma anche chi resta – Intervista a Giacomo Lamberti
Ciro Rossetti, poco più che trentenne, operaio dell’Alfasud, fu ucciso da un proiettile durante una sparatoria a San Giovanni a Teduccio a Napoli. I gruppi camorristici erano in guerra per il controllo del contrabbando di sigarette. Ciro, colpito a morte, lasciò moglie e figli piccoli. Anche loro vittime, perchè lasciati soli dopo la morte di Rossetti, unico sostentamento della famiglia. Ne abbiamo parlato con Giacomo Lamberti, cognato di Ciro, durante la giornata della memoria e dell’impegno.Signor Lamberti, può raccontarci brevemente la storia che la porta ad essere qui a Napoli per ricordare le vittime di mafia?
Io sono qui in qualità di cognato di Ciro Rossetti, un operaio dell’AlfaSud, ucciso a San Giovanni a Teduccio l’undici ottobre 1980. Si tratta di una vittima poco nota, come tante altre che oggi vogliamo ricordare.
Come ricorda quei momenti, anche storicamente, in che contesto si inserisce la vicenda di Ciro?
All’epoca a Napoli era in atto una guerra tra clan camorristici per il controllo del contrabbando di sigarette. Come poi fu appurato nel quartiere dove risiedeva la famiglia di mio cognato era in atto una caccia all’uomo, all’inseguimento di un pregiudicato, Sorrentino, che doveva essere ucciso dai rivali.
Come morì Ciro Rossetti?
Quella sera mio cognato Ciro era andato a trovare sua madre per un motivo molto semplice.
C’era una partita di calcio in televisione, Italia-Lussemburgo. Come usa molto da queste parti quando c’è una partita di calcio ci si riunisce in famiglia per seguire l’incontro. Per questo Ciro era andato a San Giovanni a Teduccio. Ma nel frattempo, durante la gara, si cominciarono a sentire degli spari. Ciro Rossetti pensava si trattasse di “botti”, di fuochi di artificio, per festeggiare la gara. In realtà erano gli spari che
i clan rivali esplodevano contro gli avversari.
Giunto sull’uscio, fu colpito da un proiettile all’occhio sinistro e morì dopo poco.
Cosa ha significato veder morire un padre di famiglia?
La morte di Ciro è stata un dramma. Sia perché ha strappato una vita così giovane in maniera ingiusta, dolorosa, straziante. Sia perché la sua morte ha reso vittime della camorra anche quelli che sono rimasti. Intendo dire che casi come questo lasciano completamente sola una famiglia. Ciro era l’unico sostentamento economico per i suoi cari. Lasciare una famiglia con figli piccoli senza i soldi per vivere rende soli, isolati, vittime anche loro.
Pensa che ora le leggi per il riconoscimento di vittime di mafia siano buone?
Io penso che la legge sia spesso disattesa. Circa il 90% dei familiari di vittime innocenti della mafie, a livello nazionali, stanno godendo di scarsi o nulli benefici. Anche la burocrazia in questo non aiuta. Dopo il riconoscimento nazionale di vittima di mafia, ci sono spesso occasioni in cui si deve compilare una domanda
per rinnovare questo status. Allora mi chiedo, di fronte alla drammaticità di queste vicende, perché non agevolare le procedure e far ricadere invece tutto questo nella burocrazia più gretta e algida?
Lei è molto impegnato sui percorsi di memoria, cosa è per lei il 21 marzo?
Il 21 marzo è per me la memoria che diventa impegno, impegno che io porto avanti con l’associazione
campana dei familiari delle vittime per attuare assistenza a chi, nel suo percorso, deve ancora ritrovare giustizia. Siamo qui in tantissimi da tutta Italia, grazie a Libera. Sento un abbraccio fondamentale da parte di tutti, siamo qui insieme. Sono orgoglioso di questo, orgoglioso che sia Napoli e spero che a Napoli
e a tutta la Campania questo serva.
Articolo dell’11 Ottobre 2011 da raffaelesardo.blogspot.com
CIRO ROSSETTI, OPERAIO DELL’ALFA SUD, UCCISO L’11 OTTOBRE 1980
di Raffaele Sardo
Ciro Rossetti, operaio dell’Alfa sud, venne ucciso l’11 ottobre 1980, nel corso di una sparatoria tra bande di camorristi. Quel giorno era a casa della mamma, a San Giovanni A Teduccio a guardare una partita della nazionale Italiana insieme alla sua famiglia. La storia qui pubblicata è tratta dal mio libro “Al di là della notte” ed. Tullio Pironti
È l’11 di ottobre del 1980. Gioca la nazionale italiana di calcio con i dilettanti del Lussemburgo. È l’Italia di Bearzot che si candida a vincere i mondiali in Spagna del 1982. Ci sono molte aspettative. La partita è di quelle da non perdere. È sabato pomeriggio e tutti i tifosi dell’Italia non si lasciano scappare l’occasione. Anche Ciro Rossetti, che fa l’operaio all’Alfasud di Pomigliano d’Arco, non vuole perdere l’avvenimento sportivo. Così va a casa della mamma, Cristina Mansueto, che abita in un basso di due stanze a San Giovanni a Teduccio. «Mamma, oggi vengo a vedere la partita dell’Italia da te insieme ai miei fratelli». Ciro, trentun anni, è padre di due bambini, Gennaro di quattro anni e Cristina di un anno, avuti dal matrimonio con Antonietta Lamberti, casalinga. Parte dopo pranzo da casa sua. Abita a Barra, al Rione Bisignano. La partita di quel pomeriggio è anche l’occasione per stare insieme all’anziana madre. Ciro arrivò un’ora prima. Ci mette poco per percorrere strade che spaccano popolosi quartieri degradati. Le stesse strade che portano anche lungo il «Miglio d’oro», verso Portici, Ercolano, fino a Torre del Greco, piene di splendide ville vesuviane costruite a partire dal Settecento.
Il sabato, a quell’ora, le piccole attività industriali erano tutte chiuse. Le strade quasi deserte. Sui marciapiedi, improvvisati venditori di bandiere italiane. Ciro voleva fermarsi a comprarne una per i bambini della famiglia. Ne avrebbero avuto piacere. A guardare la partita in Tv c’è anche la sorella Michelina, con il figlio Ciro, di otto anni, e il marito Angelo. E poi un altro fratello di Ciro, Alberto. Ma tirò dritto. Non sarebbe arrivato in tempo per il fischio d’inizio. Pensò che da qualche parte a casa della mamma una bandiera della nazionale ci doveva pur essere. Quand’era più giovane ne aveva sempre una a portata di mano. Magari nessuno l’aveva buttata via. La mamma aveva promesso di preparargli un dolce per quel pomeriggio e non voleva tardare. Arrivò all’ora promessa. Alle quattro in punto cominciano gli inni nazionali. L’Italia gioca con la sua formazione migliore di quel momento. Nando Martellini, il telecronista che accompagna con la sua voce la nazionale, la scandisce, come sempre, in modo da far rabbrividire i tifosi: «Zoff, Gentile, Baresi, Oriali, Collovati, Scirea, Causio, Tardelli, Altobelli, Antognoni, Bettega». Tutti zitti, si comincia.
Si preannuncia una goleada dell’Italia. Ciro, seduto sul divano, mentre la mamma in cucina prepara un buon caffè. L’Italia gioca fuori casa e la giornata è freddissima. La partita non è molto divertente, ma al 32’ Collovati con un colpo di testa porta in vantaggio l’Italia. Ciro e tutta la famiglia esultano, si alzano in piedi, esattamente come le migliaia di italiani sugli spalti dello stadio, giunti in Lussemburgo dalla Francia, dalla Germania e dal Belgio per tifare Italia. Ed è poco dopo il gol degli azzurri che Ciro sente dei botti provenire dall’esterno dell’abitazione. «Staranno già festeggiando? Ma la partita non è finita. Chi sarà mai?», dice Ciro ai fratelli che stanno guardando la partita con lui. Allora, incuriosito, insieme al fratello Alberto esce sull’uscio per vedere cosa sta accadendo fuori. Apre la porta a vetri che guarda direttamente sulla strada. Passa in quel momento un’Alfasud con a bordo almeno tre persone. Una di quelle auto che lui probabilmente ha contribuito a costruire proprio nella sua fabbrica. Uno ha il braccio teso e sporgente fuori dall’auto dal lato anteriore destro e in mano ha una pistola. Da quella pistola partono diversi colpi a distanza di pochi secondi l’uno dall’altro. Ciro non avrà nemmeno il tempo di accorgersi che quelli che ha sentito non sono botti per festeggiare la nazionale, ma colpi di arma da fuoco.
«All’epoca a Napoli era in atto una guerra tra clan camorristici per il controllo del contrabbando di sigarette», racconta Giacomo Lamberti, il cognato di Ciro. «Come poi fu appurato, nel quartiere dove risiedeva la famiglia di mio cognato, era in atto una caccia all’uomo. Un gruppo di malviventi inseguiva un pregiudicato, Ciro Sorrentino, che doveva essere ucciso dai rivali. Durante la gara tra l’Italia e il Lussemburgo si cominciarono a sentire degli spari. Ciro Rossetti ebbe la sventura di affacciarsi sull’uscio di casa e fu colpito da un proiettile all’occhio sinistro. Morì poco dopo».
Le grida di disperazione di tutta la famiglia si odono presto per tutto il quartiere. Il dramma si consuma davanti alla mamma e ai fratelli che assistono increduli a quello che è accaduto al congiunto che poco prima esultava per il gol dell’Italia. È il fratello Alberto ad accompagnarlo all’ospedale. A fatica il corpo di Ciro viene caricato sull’auto che partirà a tutta velocità. Ma la corsa sarà vana. Il proiettile che lo ha colpito all’occhio sinistro è stato mortale. Ciro muore al Loreto Mare. Quel giorno il cognato Giacomo Lamberti riceve una telefonata dalla mamma: «Corri, vai all’ospedale, è successo qualcosa a Ciro, il marito di Antonietta. Abbiamo ricevuto una telefonata, ma non sappiamo bene cosa è successo». Giacomo parte e va. Arriva di corsa in ospedale dove Alberto lo informa dell’accaduto. Ciro, intanto, non ce l’ha fatta. Ormai è morto. Una morte che davvero non ha un senso, non ha una ragione. La vita stroncata di un ragazzo che ha davanti a sé ancora i migliori anni da vivere, diventa una cosa assurda per i familiari che non lo rivedranno mai più. Per i figli che non avranno un padre, per una moglie che non gli potrà più parlare, per una mamma che non avrà più il frutto della sua carne.
A Giacomo tocca il triste compito di informare la famiglia che Ciro non tornerà più a casa dai suoi figli. Nel frattempo, a casa della mamma di Ciro Rossetti la televisione è ancora accesa. L’Italia continua a giocare. Nella disperazione nessuno più la guarda e nessuno ha avuto la briga di spegnerla. Hanno solo abbassato il volume. È il secondo tempo. Siamo al 32’, stesso minuto del primo tempo. Segna Bettega. Italia 2, Lussemburgo zero. Nessuno se ne accorge. Nessuno esulta. Non c’è più gioia in quella casa. È morto Ciro. Un giovane operaio dell’Alfasud.
Quella sparatoria fu ricostruita nei minimi dettagli dalle forze dell’ordine alcune settimane dopo. Ad affrontarsi erano in sei per regolare un conto in sospeso a colpi di pistola. Tre da una parte (Carmine Orso, Gennaro Limatola e Salvatore Piccolo) e tre dall’altra (Ciro Sorrentino, Luigi D’Alessandro e un altro non ancora identificato all’epoca). Ciro Sorrentino, che doveva essere ucciso, fu ferito gravemente e arrivò al Loreto Mare trasportato da un’ambulanza, un’ora dopo l’arrivo di Ciro Rossetti.
Il colpo mortale che raggiunse Ciro Rossetti sarebbe partito proprio dal gruppo che spalleggiava Ciro Sorrentino. Quest’ultimo fu arrestato in ospedale con l’accusa di omicidio pluriaggravato. «La morte di Ciro è stata un dramma», dice ancora il cognato, Giacomo Lamberti, «sia perché è finita una vita così giovane in maniera ingiusta, dolorosa, straziante, sia perché ha reso vittime della camorra anche quelli che sono rimasti. Casi come questo lasciano completamente sola una famiglia. Ciro era l’unico sostentamento economico per i suoi cari. Lasciare una famiglia con figli piccoli senza i soldi per vivere rende soli, isolati, vittime anche loro».
Giacomo cercò in tutti i modi di far assumere Antonietta, la moglie di Ciro, all’Alfasud al posto del marito. All’epoca l’Alfasud aveva circa 16.000 dipendenti. Un tentativo che andò a vuoto per l’insensibilità della dirigenza dell’Azienda. Quello di Ciro Rossetti era il 93° omicidio di camorra del 1980. La notizia della sua morte ebbe solo piccoli spazi nelle cronache dei giornali locali. Antonietta, rimasta sola con i due figli, si ritrovò accanto unicamente la sua famiglia. L’unica a dargli tutto l’aiuto necessario, anche psicologico, per andare avanti e sopportare che il suo Ciro ora lo poteva incontrare solo in una tomba al cimitero.
Fonte: ilmattino.it
Articolo del 19 ottobre 2015
Vittime innocenti della criminalità| Ciro Rossetti, ucciso da un proiettile vagante
Polis
Ciro Rossetti, 31 anni, operaio presso l’Alfasud di Pomigliano d’Arco, l’11 ottobre 1980 si trova a casa della madre a San Giovanni a Teduccio per seguire alla tv la partita di calcio tra Italia e Lussemburgo. Poco dopo il primo gol della nostra nazionale, Ciro sente dei botti provenire dall’esterno dell’abitazione. Esce sull’uscio, convinto che qualcuno sta festeggiando il parziale vantaggio. Non è così. E’ in corso un agguato di camorra, che ha come obiettivo un noto boss della zona.
Ciro viene colpito da un proiettile all’occhio sinistro. Muore poco dopo presso l’ospedale Loreto Mare. Ciro Rossetti era sposato con mia sorella Antonietta e padre di due bambini, Gennaro di quattro anni e Cristina di uno. Si guadagnava da vivere onestamente. Era l’unico sostentamento economico per i suoi cari.
Lasciare all’improvviso una famiglia, per giunta con figli in tenera età e a causa di un atto criminale così violento, ingiusto, inspiegabile, genera un senso di vuoto, di smarrimento totale. Ed è proprio per cercare di attutire il dramma della solitudine che noi familiari delle vittime innocenti della criminalità ci siamo riuniti in un coordinamento e la Regione Campania ha voluto istituire la Fondazione Polis.
La tragica vicenda di mio cognato e di tutti i 338 innocenti uccisi dalla violenza criminale in Campania mi ha portato ad impegnarmi nell’intricato e complesso panorama normativo relativo alle vittime di reato. Il frutto di questo lungo lavoro è il volume “Vittime innocenti della criminalità. Tutela giuridica e misure di sostegno”, prima raccolta ragionata e commentata delle disposizioni normative varate dal 1970 ad oggi a tutela delle vittime della criminalità organizzata, del terrorismo e del dovere, che ho curato insieme all’avvocato Emilio Tucci.
La genesi di questo libro è legata alla mia lunga esperienza in materia di aiuto ai familiari delle vittime, durante la quale mi sono imbattuto in numerose e variegate criticità. Procediamo in rapida sintesi. In media occorrono 5 anni di tempo tra la domanda di riconoscimento dello status di vittima innocente della criminalità e il conseguimento di questo stesso status, un’eternità. E’ necessario inoltre accertare i requisiti soggettivi della vittima, dei suoi familiari e degli affini fino al quarto grado di parentela. In pratica, se una persona della cerchia familiare fino al quarto grado, che a volte neanche si conosce, ha avuto a che fare con organizzazioni criminali ovvero è stata implicata in episodi criminali di qualsiasi natura, non è possibile ottenere il riconoscimento dello status di vittima innocente.
Al riguardo, abbiamo presentato alle Camere del Parlamento italiano una proposta di legge, per restringere il campo di applicazione dell’accertamento dei suddetti requisiti al secondo grado di parentela e affinità. E ancora, la legge prevede per le amministrazioni pubbliche delle percentuali obbligatorie di assunzione per chiamata diretta dei familiari delle vittime innocenti della criminalità, normativa questa quasi completamente disattesa. Un grave vulnus, come insegna proprio l’esperienza di mia sorella e di altri familiari di vittime che hanno perso l’unica fonte di reddito (penso ai casi di Carmela Sermino, vedova di Giuseppe Veropalumbo, di Antonietta Sica, vedova di Andrea Nollino, per citarne alcuni).
E poi c’è l’aspetto più grave: al momento l’ordinamento giuridico non riconosce alcuna forma di tutela per le vittime della cosiddetta “criminalità comune”, distinguendo quindi tra vittime di serie A e vittime di serie B. Nel nostro Paese si è soliti legiferare sulla base dell’onda emotiva generata dalle grandi stragi. Per questo motivo, esiste una normativa che tutela le vittime del terrorismo e le vittime della criminalità organizzata (ferme restando tutte le criticità già esaminate), oltre agli innocenti uccisi durante l’assolvimento del proprio dovere. Eppure, una direttiva europea, la 2004/80/CE, obbliga tutti gli Stati membri a disciplinare la tutela giuridica delle vittime di ogni forma di reato intenzionale violento.
Ma il nostro Paese risulta inspiegabilmente inadempiente. Proprio per superare questa ingiusta e pericolosa contrapposizione tra vittime, che fa quasi dipendere la dignità di esse dalla mano omicida, abbiamo elaborato una proposta di legge, sottoscritta da 30 parlamentari e attualmente al vaglio delle Camere, che prevede tra l’altro l’istituzione di un fondo di solidarietà a beneficio delle vittime dei reati intenzionali violenti, arricchito dai proventi delle confische ai mafiosi, oltre ad estendere a tutte le vittime la normativa relativa all’assunzione per chiamata diretta. Siamo in attesa di risposte concrete e celeri.
Vanno bene i cortei, le fiaccolate, le medaglie al valor civile. Ma, per far sì che il sacrificio dei nostri cari non risulti vano, occorre che lo Stato faccia realmente “memoria” delle sue vittime, provvedendo all’assunzione dei familiari superstiti negli organici della Pubblica Amministrazione, semplificando le problematiche che si frappongono ad una reale tutela giuridica degli stessi familiari e, soprattutto, garantendo la pari dignità tra tutti gli innocenti uccisi dalla violenza criminale. Esiste forse una differenza “culturale” tra un omicidio compiuto da un affiliato alla camorra e un delitto messo in atto da un bullo “cresciuto” nel culto della violenza e della sopraffazione che caratterizza le organizzazioni criminali? Domanda retorica, certo. Alla quale però chi ci governa deve dare una risposta immediata.
Giacomo Lamberti
Coordinamento campano familiari vittime innocenti della criminalità
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