11 Settembre 1974 Seminara (RC). Ucciso Giuseppe Bruno, bambino di 18 mesi, mentre era sulle spalle del padre. Vittima innocente di una faida

L’11 Settembre 1974 a Seminara (RC) è stato ucciso Giuseppe Bruno, un bambino di 18 mesi, mentre era sulle spalle del padre. È la vittima innocente di una faida iniziata il 17 settembre 1971 e che in tre anni fece 16 morti, tra cui anche il papà del bambino, che in quell’occasione fu solo ferito. Una faida nata per una frase di troppo e uno schiaffo di risposta.

 

 

Articolo da La Stampa del 13 Settembre 1974
Un bambino di 18 mesi è ucciso in braccio al padre; vendetta
Alla periferia di Seminara – E’ stato freddato con una scarica di lupara

Reggio Calabria, 12 sett. (e.l.)
Un bambino di un anno e mezzo, Giuseppe Bruno, è stato ucciso a colpi di lupara in un agguato teso da alcuni sconosciuti al padre Alfonso, di 32 anni, il quale invece è rimasto solo lievemente ferito.
E’ accaduto la notte scorsa davanti all’abitazione di Alfonso Bruno, alla periferia di Seminara, in provincia di Reggio Calabria. L’episodio si collega — secondo gli investigatori — alla sanguinosa catena di vendette fra le due famiglie rivali dei Frisina-Pellegrino e dei Gioffrè, nota come la «faida di Seminara» dal nome del piccolo paese dove vivono i due clan rivali. Alfonso Bruno aveva preso sulle spalle il bambino per fargli salire le scale esterne dell’abitazione, quando da un cespuglio sono stati sparati alcuni colpi di lupara. I pallettoni hanno raggiunto in pieno alla testa il piccolo Giuseppe che con il suo corpo ha attutito i colpi diretti al padre. Fuggiti i «killer», Alfonso Bruno è stato soccorso dalla moglie e da Iolanda Gioffrè, di 35 anni, cugina di Vincenzo Domenico Gioffrè, soprannominato «Ringo», ex capo del clan Gioffrè, attualmente in carcere perché ritenuto responsabile di tre omicidi. L’uomo ed il bambino sono stati trasportati all’ospedale civile di Palmi. Qui il piccolo Giuseppe è morto poco dopo il ricovero, mentre il padre è stato giudicato guaribile in dieci giorni. Alfonso Bruno, il padre del bimbo ucciso fa saltuariamente l’autista di camion e, secondo gli inquirenti, in passato ha lavorato alle dipendenze della famiglia Gioffrè con la quale è rimasto in buoni rapporti anche di vicinato dal momento che Iolanda Gioffrè è sua vicina di casa. La rivalità tra la famiglia dei Gioffrè e quella dei Frisina-Pellegrino cominciò la sera del 17 settembre. Giuseppe Frisina, parente dei Pellegrino, dopo aver bevuto in una osteria, offese uno dei Gioffrè, Domenico, e questi lo schiaffeggiò. Frisina allora sparò contro il figlio di Gioffrè, Giuseppe, di 19 anni, ferendolo in modo grave. Fu l’inizio della faida: il 7 ottobre dello stesso anno fu ucciso in un agguato l’agricoltore Antonio Pietropaolo. di 53 anni, parente dei Pellegrino, e lo stesso giorno fu ferito Rocco Pellegrino, che morì circa un mese dopo. Finora la sanguinosa catena di vendette ha causato la morte di 14 persone e il ferimento di 26. Il penultimo episodio della “faida di Seminara” risale al 28 febbraio scorso quando il pastore Francesco Caia, di 55 anni, componente del “clan” dei Gioffrè, fu ucciso in un agguato alla periferia di Seminara.
La stessa Iolanda Gioffrè, che ieri ha soccorso il Bruno, fu gravemente ferita il 7 agosto dello scorso anno a colpi di moschetto mentre stava affacciata a un balcone della sua abitazione.

 

 

 

Articolo da L’Unità del 13 Settembre 1974 pag. 11
Faida a Seminare : anche un bimbo ucciso sulle spalle di suo padre
di Franco Martelli
Il piccolo Giuseppe Bruno raggiunto in pieno da una scarica di lupara – Leggermente ferito il padre – L’assassino o gli assassini hanno atteso che la famiglia uscisse dopo cena Il bilancio dell’assurda « guerra » fra i due « clan » è adesso di 14 morti e di 3 feriti

CATANZARO, 12.
Fra le vittime della «guerra» di Seminara ora c’è anche un bambino di un anno e mezzo. E’ stato ucciso ieri sera a pallettoni. Il bilancio della faida tra i Gioffrè e i Prisina-Pellegrino è ora quindi di 14 morti e di 34 feriti. Il bambino, Giuseppe Bruno, è stato raggiunto dalla scarica di lupara mentre il padre, Alfonso di 32 anni, lo portava sulle spalle a cavalcioni. I pallettoni lo hanno raggiunto in pieno e ucciso sul colpo, mentre hanno solo sfiorato le spalle del genitore, dichiarato guaribile in 10 giorni all’ospedale di Palmi e ritornato subito a casa, per sua volontà, a piangere il figlio. Non si esclude vista la dinamica dell’agguato che la vittima prescelta fosse proprio il bambino. Se cosi fosse, e chiaro che si è voluto colpire nel profondo della cosca avversa.
Lo sparatore o gli sparatori (i colpi esplosi pare siano stati due) hanno potuto agire in tutta tranquillità. Hanno atteso da dietro una siepe, a una decina di metri di distanza, che la famiglia Bruno finisse di cenare ed uscisse dal pianoterra per raggiungere attraverso una scala esterna la camera da letto. Per fare questo hanno anche acceso una lampadina che illumina il cortile e le scale. E, in queste condizioni, sembra difficile sbagliare la mira con un fucile. Raggiunto dalla scarica, il Bruno ha compiuto un balzo e si è nascosto dietro un muretto, forse convinto che egli soltanto fosse stato raggiunto dai pallettoni. Quando ha constatato che il figlio si accasciava sanguinante ha cominciato a urlare. Sono accorsi gli altri familiari e i vicini. All’ospedale, come si è detto, il bambino è giunto cadavere.
Dell’assassino, o degli assassini, nessuna traccia. Gli inquirenti, i quali peraltro non hanno dubbi che l’episodio s’inquadra nella faida che divide le cosche dei Gioffrè e dei Frisina-Pellegrino, non sanno stabilire esattamente da che parte stiano in questa occasione gli assassini e da quale altra, invece, stiano le vittime. Infatti, il Bruno, certamente legato in passato ai Gioffrè, da qualche tempo sembra avesse cambiato atteggiamento. Stabilire con esattezza tutto ciò, tuttavia, conta assai poco di fronte alla mostruosità del fatto e di fronte al continuare di questa assurda guerra che ormai coinvolge amici, conoscenti, vicini, un intero paese, insomma. Ufficialmente si parla di una decina di latitanti, da una parte e dall’altra, che si cercano per sterminarsi, ma è certo che ve ne sono altri, molti altri, i quali anche se non latitanti si guardano continuamente le spalle. Giorni addietro due uomini armati e mascherati sono entrati nella farmacia del paese: cercavano il farmacista che non c’era e sono scappati in tutta fretta. Non voleva essere quello un gesto semplicemente intimidatorio, né tanto meno una rapina. Basta un nulla, ormai, per ritenere, da parte dell’una e dell’altra cosca, che una persona sia con loro o contro di loro.
Seminara, dunque, più che mai è tornata a vivere in un clima di terrore. Carabinieri, polizia e magistratura avevano tentato di far trasferire le famiglie più esposte, ma pochi si sono mossi e qualcuno è già tornato.
Il primo anello della catena risale al 17 settembre 1971 quando un Frisina affrontò i Gioffrè in un bar e li sfidò. Nello scontro rimase ucciso un ragazzo 19enne del clan dei Gioffrè. Da quel momento la « guerra » è aperta. Lo  scontro coinvolge in pieno i Pellegrino, legati ai Frisina e presenti anche il giorno della sfida nel bar. Sullo sfondo la supremazia mafiosa nel paese e, a suo tempo, il controllo dei cantieri della costruenda autostrada del Sole. Ma, con l’allungarsi della catena di sangue, la «guerra» è divenuta sempre più di sterminio per lo sterminio, alimentata dalle assurde regole dell’odio che non conoscono la possibilità di interrompersi tagliando con un passato di pregiudizi che scavano ancora solchi profondi fra gli uomini, in una società contadina in violento disfacimento quale è quella calabrese.

 

 

 

Articolo da La Stampa del 28 Ottobre 1974
Il quindicesimo omicidio nella faida di Seminara
Abbattuto con cinque colpi di pistola

Reggio Calab., 27 ottobre.  Il numero delle vittime della faida di Seminara è salito a 15: ieri sera, sul litorale di Bagnara Calabra, è stato ammazzato Alfonso Bruno, camionista di 32 anni, appartenente al clan dei Pellegrino, che era scampato miracolosamente alla morte VII settembre scorso quando gli furono sparati da un cespuglio alcuni colpi di lupara che uccisero il figlio Giuseppe, di 18 mesi, che Alfonso Bruno stava portando sulle spalle. Il camionista in quell’occasione se la cavò con lievi ferite; questa volta non è riuscito però a sfuggire al killer che lo ha affrontato direttamente con la pistola in pugno e lo ha freddato con cinque pallottole. Il clan dei Pellegrino e quello dei Gioffrè, due famiglie di Seminara. sono in guerra da circa tre anni. Dalla sera del 17 settembre 1971, quando Giuseppe Frisino, parente dei Pellegrino, fu schiaffeggiato in un bar da Domenico Gioffrè per vendetta e ammazzò a colpi di pistola il figlio di quest’ultimo Giuseppe, 15 persone sono cadute sotto i colpi di pistola, mitra e fucile a canne mozze dei due clan e trenta sono rimaste ferite più o meno gravemente. L’assassinio di Alfonso Bruno è collegato con l’arresto di Rocco Gioffrè, 38 anni, capo del clan omonimo, e dei suoi nipoti Giuseppe e Rocco di 22 e 17 anni, sorpresi dalla polizia in un piccolo casolare aLu periferia di Seminara nel pomeriggio di sabato. e. f.

 

 

 

Articolo di La Stampa del 25 Maggio 1975
Il processo per la “faida di Seminara” – Odio fra due clan, in tre anni 16 morti
di Guido Guidi
Una allucinante vicenda in corte d’assise a Palmi

Palmi, 24 maggio. Il bilancio è allucinante: sedici morti ed altrettanti feriti nell’arco di trentasette mesi. A Seminara, un paesino di cinquemila abitanti tra l’Aspromonte e Gioia Tauro (niente locande, niente cinema, niente trattorie: soltanto una farmacia, la chiesa, la caserma dei carabinieri, una scuola), tutti sanno che queste sono le conseguenze di una guerra privata, per vendetta, tra due famiglie: quella degli autotrasportatori Gioffrè e quella degli agricoltori Pellegrino. Ma nessuno parla: qualcuno per paura, la maggior parte per una questione di principio. Anche Vincenzo Domenico Gioffrè, detto «Ringo», capo riconosciuto e temuto di uno dei due clan, non è venuto meno alla regola.
Questa storia terribile che non è affatto conclusa perché la spirale della vendetta e dell’odio sembra destinata a continuare, è cominciata con un episodio soltanto in apparenza banale, anzi con una frase. «Noi siamo uomini e non abbiamo paura di nessuno» gridò Giuseppe Frisina uscendo dal bar e lasciò intendere che la battuta era per Domenico Gioffrè. Erano le cinque del pomeriggio di venerdì 17 settembre 1971: Domenico reagì con uno schiaffo, Giuseppe cavò di tasca la pistola e ferì Giuseppe, figlio diciannovenne di Domenico.
Fu la guerra, dunque. La reazione dei Gioffrè arrivò puntuale: tre settimane dopo, due omicidi. Alle 4 del pomeriggio del 7 ottobre 1971 viene ucciso Rocco Pellegrino che sta lavorando al suo distributore di benzina; alle sei del pomeriggio muore un contadino, Antonio Pietropaolo. I due sono ritenuti responsabili dalla famiglia Gioffrè di avere aiutato Frisina a fuggire: una colpa gravissima, un affronto da punire con la morte. Quarantotto ore dopo, terzo delitto: questa volta vengono colpiti i fratelli Di Rocco (Michelangelo e Pietro) e la madre, Maria Antonia.
Chi ha sparato? L’accusa non ha dubbi: Rocco Pellegrino e Fiorentino Staltari sono stati colpiti da Vincenzo Domenico Gioffrè detto «Ringo», 30 anni, alto, robusto, tracotante; gli altri dal fratello minore (27 anni) Giuseppe Vincenzo. «Ero sull’Aspromonte — ha spiegato oggi ai giudici per difendersi — e non potevo quindi essere a Seminara. Ero latitante perché avevo litigato con un brigadiere della polizia stradale». Nella realtà questa lite si era trasformata in un’accusa di aggressione al sottufficiale che lo aveva fermato per un normale controllo: Ringo è stato condannato a 16 mesi.
Il processo che è cominciato oggi viene circoscritto soltanto a questi episodi. Ma la storia della faida continuò dopo quelle sanguinose giornate dell’ottobre 1971. Nel pomeriggio del 14 novembre 1971 in piazza dei Martiri viene ucciso un pensionato, Domenico Gallico, 65 anni: si disse che avesse assassinato Antonio Pietropaolo, ma tutto è rimasto nell’ombra. Sconcertante è che Domenico Gallico era con un amico, stava parlando con lui: questo amico ha sempre «giurato» di non avere sentito neanche i colpi di lupara. Sette giorni dopo è il turno di Gaetano Gioffrè, 19 anni.
L’inverno portò a Seminara una tregua: ma era soltanto apparenza. Gli uomini erano in montagna e pensavano soltanto alla vendetta. La guerra tornò ad infuriare a primavera. Il primo a cadere è Domenico Gioffrè detto il Monco: gli spara alle spalle Salvatore Pellegrino che ebbe il coraggio di presentarsi ai funerali di Gaetano Gioffrè imbracciando un mitra con la conseguenza che i becchini lasciarono cadere la bara e fuggirono. Ma tre giorni dopo (22 marzo 1972) Vincenzo Gioffrè vendica il figlio Gaetano ed uccide Pietro Pellegrino.
Poi tocca a Rocco Surace che ha soccorso uno dei Pellegrino morente ed ad altri che sono rimasti coinvolti nella faida. Dalla spirale della vendetta non rimangono fuori neanche le donne: il 26 gennaio 1973 viene uccisa la vedova di Rocco Pellegrino. Infine quelli che cronologicamente sono gli ultimi due episodi: la sera dell’undici settembre 1974 viene ucciso un bimbo di 18 mesi che suo padre, Alfonso Bruno, portava a cavalcioni sulle spalle; la sera del 26 ottobre un killer spara ad Alfonso Bruno perché lui era l’obiettivo da raggiungere.
Questo il quadro della situazione: terribile, agghiacciante. Il presidente della corte d’assise oggi ha avvertito i giudici che non è un processo in cui sia facile trovare la verità perché tutti tacciono e tutti negano di sapere qualcosa. Nessuno si è costituito parte civile: i parenti delle vittime hanno altro cui pensare. Anche al pubblico di Seminara il processo non sembra interessare: ognuno preferisce non farsi vedere in aula perché potrebbe dare fastidio o a quelli del clan Gioffrè o a quelli del clan Pellegrino.

 

 

 

Articolo dell’11 Febbraio 2014 Fonte: mole24.it
La faida di Seminara giunse in città
di F. Mosso
La Storia del secondo dopoguerra in Italia è misteriosa, affascinate, sovente inquietante.

Una cosa la dobbiamo dire, noi italiani tra terrorismi vari, mafie cannibali, gang in armi, battaglie camorriste, sapevamo ammazzarci tra di noi con successo anche in tempo di pace o surrogato di essa.
In quest’ottica è interessante osservare le faide che insanguinavano la terra di Calabria, che vedevano contrapposte diverse famiglie che si scannavano tra loro con serio accanimento.
I motivi delle truci dispute spesso apparivano futili; in realtà, dietro ad un banale sgarro o ad un’offesa, si nascondevano rivalità antiche o ambizioni neofeudali di controllo del territorio, di egemonia degli affari della zona, di potere locale. Le famiglie si sterminavano per conquistare la supremazia.
Quando la guerra s’iniziava la si finiva solo quando uno dei due gruppi periva, solo quando il nemico finiva al cimitero, ucciso fino “all’ottava generazione” come da consueta minaccia.
E poi, quando il conflitto avvampava sempre più in un incendio di alte fiamme, i confini della faida venivano oltrepassati, si usciva dai paesi e i borghi dell’Aspromonte con le pistole nella cintola, e sgherri venivano sguinzagliati per la Penisola nella caccia con la bava alla bocca dalla voglia di vendetta e sangue.

Così infatti successe una tarda sera del giugno 1978 in Corso Orbassano 350, a Torino.

Due uomini aspettavano nell’ombra, vicino ad un parcheggio. Qualcuno li vide, chiamarono la polizia temendo ladri d’auto.
Ma non erano venuti lì per rubare, ma per ammazzare Antonio Gioffrè, 36 anni, muratore.
Quando la pantera stava per giungere sul posto, i due agenti sentirono i colpi, 8 in tutto, quattro di essi diretti alla testa della vittima che s’accasciò senza vita sul volante della sua 127 rossa.
I fari illuminarono i killer che iniziarono la loro fuga da centometristi, dietro si misero alle loro calcagna i due poliziotti con le pistole e le milze in mano. I due sicari correvano più veloci, si dileguarono nella notte della periferia di Torino e come fantasmi, sparirono.
Antonio Gioffrè: la diciassettesima vittima della faida Gioffrè – Pellegrino, che dal 1971 riforniva le pompe funebri del paese di Seminara con materia prima extra.
Gli assassini erano partiti da lì, da questo piccolo comune della provincia di Reggio Calabria, per colpire i rivali con crudeltà, anche lontano da casa.

Andiamo con ordine. Approfondiamo Seminara e la sua faida terribile.

Western: genere cinematografico ambientato nella frontiera dell’ovest degli Stati Uniti. Quando si pensa ai western vengono in mente pistoleri, sfide a revolverate, luoghi selvaggi, di frontiera.
Facendo un gioco con l’immaginazione proviamo a pensare ad un’ambientazione inconsueta, non più americana ma italiana. Proviamo ad immaginare un western più moderno ma sempre violento, che si svolge negli anni ’70 del secolo scorso e non più in Arizona o Texas, ma in Calabria, in un paese dal nome che racconta storie di atroci vendette: il paese di Seminara, senza saloon, ma ben allestito di banditi e di tombe al cimitero, per la gioia delle tasche del becchino locale.
Far West? No, Calabria dai cartelli stradali sforacchiati.
Cinquemila anime vivevano a Seminara e, a quanto pare, farsi la guerra era lo sport preferito dai cittadini.
Nel 1978, anno dell’agguato di Corso Orbassano, ben tre faide erano disputate in paese.
La famiglia dei Barca contro i Mammoliti.
Il clan dei Garza contro quello dei Scibillia
E infine la celebre faida tra le famiglie Gioffrè contro i Pellegrino e i Frisina loro alleati.

Iniziò tutto da uno schiaffo.

I Gioffrè da umili braccianti erano diventati proprietari terrieri, possedevo uliveti, frantoi, camion, insomma avevano messo su un’azienda agricola di una certa importanza nella zona, visto e considerato che quella terra povera oltre alle olive dava ben poco. Anche i Pellegrino entrarono nel settore e tra le famiglie ci fu concorrenza, però inizialmente rispettosa, amichevole, in buoni rapporti di vicinato.
Ma venne il giorno dell’incidente. Un Gioffrè e un Frisina imparentato con i Pellegrino tracannarono qualche amaro di troppo. Volarono parole grosse.
E poi, il casus belli, la scintilla della terza guerra paesana: uno schiaffo, l’affronto definitivo, il sangue ribollì, fece impazzire di rabbia per l’offesa ricevuta Giuseppe Frisina, lo schiaffeggiato dalla guancia che bruciava disonorata.
Corse a casa, recuperò il “ferro”. Tornò di gran carriera con gli occhi fuori dalle orbite da Domenico Gioffrè, lo schiaffeggiatore impunito. Giuseppe sparò e ferì gravemente il figlio di Gioffrè, un ragazzo di diciannove anni.

Fu guerra aperta.

Le due famiglie e gli amici di esse fecero quadrato, si asserragliarono nelle loro case in attesa degli eventi, delle mosse dell’avversario. Furono caricati i tamburi dei revolver, le doppiette da caccia, i caricatori dei mitra e i coltelli s’affilarono.
Occhio per occhio, dente per dente, sangue chiama sangue. La vendetta dei Gioffrè covava. Ma la vendetta a Seminara non era un piatto che veniva servito freddo. No, veniva servito incandescente, subito.
Dopo tre settimane calò la furia dei Gioffrè. Furono acciuffati due Pellegrino, rei di aver fatto fuggire Giuseppe Frisina, e trucidati come monito.
Ma i Pellegrino sapevano cosa andavano incontro, ormai era troppo tardi per fare un passo indietro, chi cedeva, chi calava le braghe perdeva l’onore, perdeva il rispetto, perdeva tutto.
Due Gioffrè e la moglie di uno di loro vennero imbottiti di pallini da caccia. Era la risposta ai due Pellegrino ammazzati. La spirale era ormai inesorabile e a Seminara i cortei funebri aumentarono, e le morti non naturali pure e di molto.
Tanti i morti, e non si risparmiarono neanche le donne e i bambini, come un bimbo di diciotto mesi che era sulle spalle del papà, ammazzato dai pallettoni di un sicario con la pessima mira.
O come quella volta che due quattordicenni si fronteggiarono a colpi di pistola nella via principale, corso Barlaam, sotto gli occhi di centinaia di persone che poi naturalmente non avevano visto nulla, erano miopi, avevano il sole negli occhi.
O come quell’altra volta, nell’inverno 1973, quando andarono a prendere la vedova Carmela Pellegrino, mentre si stava dirigendo a piedi all’asilo a prendere i figli.
L’ammazzarono in strada. Il corpo rimase abbandonato sul ciglio fino a quando non arrivarono i carabinieri, nessuno del paese osò avvicinarsi alla vittima a tentare un soccorso. Le persiane della case rimasero chiuse. In strada c’era il deserto e un cadavere di donna in una pozza scura.
Era la paura, l’omertà.
Sì, un Far West. Anche alcuni protagonisti di questa tragedia truculenta sembravano essere usciti da un western di Sergio Leone, uno spaghetti western made in Calabria.
Michele Frisina era detto “il pazzo”. Una volta aveva assaltato la caserma dei carabinieri da solo. Quando scendeva dai monti, lupara alla spalla e bombe a mano nella sacca, a Seminara scappavano tutti, le finestre si chiudevano, le serrande si abbassavano, manco fosse arrivato il diavolo in paese.
Nel 1972 un corteo funebre attraversava il paese. Le donne erano in nero, i pianti disperati. Si celebrava il funerale di un Gioffrè mitragliato dai rivali. Il corteo funebre si disperse quando comparve da un angolo un avversario con il mitra. Tutti fuggirono, parenti, conoscenti con lutto al braccio, pure il prete. La bara cadde in terra, abbandonata in piazza. L’uomo con il mitra, rimasto solo con il morto, si accanì sul cadavere sforacchiando la bara con raffiche, a sfregio, a volerlo ammazzare una seconda volta. La bara venne seppellita dai carabinieri, costretti dagli eventi a fare le veci di becchini, irreperibili quel giorno. L’autore dell’impresa era Salvatore Pellegrino conosciuto come “l’uomo mitra.”
Ma anche dall’altra parte della barricata non mancavano assassini patentati da cinematografo. Vincenzo “Ringo” Gioffré detto anche “Sartana”, pistolero affermato, celebre bandito. Venne arrestato alle nozze di sua figlia, sul sacrato della Chiesa nel pandemonio tra chicchi di riso, donne svenute, sommosse famigliari, sudati appuntati baffuti. Per sopravvivere nella latitanza alla macchia nei boschi mandava lettere minatorie ai fini d’estorsione. La filastrocca recitava così:
“Un turbine di polvere, un grido di terrore. Arriva Sartana: Vincenzo Domenico Giuffrè, latitante di Seminara.”

 

 

 

 

Vittima della mafia a 18 mesi
LaC – 15 settembre 2016

 

 

 

 

 

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