18 Ottobre 1984 Palermo. Strage di Piazza Scaffa. Furono uccise 8 persone, per dare un segnale forte della “potenza criminale delle “famiglie” siciliane”.

Strage di Piazza Scaffa, Palermo, 18 ottobre 1984.
Una strage simbolo, che doveva servire a punire uno sgarro e a ripristinare il potere di Cosa nostra su una città che aveva accolto con grande soddisfazione la massiccia ondata di arresti seguita alle rivelazioni di Tommaso Buscetta.
La notte del 18 ottobre 1984 a Cortile Macello, nel quartiere Ballarò di Palermo, un commando fece irruzione in una stalla massacrando i fratelli Cosimo e Francesco Quattrocchi, il loro cugino, Cosimo Quattrocchi, e il cognato, Marcello Angelini.
Salvatore Schimmenti, Giovanni Catalanotti, Antonio Federico e Paolo Canale si trovavano casualmente in compagnia delle vittime designate e furono uccisi per non lasciare testimoni.
A far scattare la mattanza sarebbe stata la decisione dei fratelli Quattrocchi, commercianti di carne equina, di acquistare direttamente sul mercato pugliese diciotto puledri destinati alla macellazione e rifiutare la solita intermediazione dei catanesi. Uno sgarro che secondo i canoni classici della mafia andava punito immediatamente.

Fonte: memoriaeimpegno.it
Nota del 18 ottobre 2016

 

Furono assassinati i fratelli Cosimo e Francesco Quattrocchi, commercianti di carne equina, proprietari di alcune macellerie in città. Assieme a loro c’erano il cugino Cosimo Quattrocchi, il cognato Marcello Angelini. E poi Salvatore Schimmenti, Paolo Canale, Giovanni Catalanotti e Antonino Federico che si erano fermati a dare una mano.

Tutte le otto vittime erano inserite, fino al 2016, tra le “Vittime Innocenti delle mafie” della Lista di “Libera Associazioni Nomi E Numeri Contro Le Mafie” e ricordate il 21 Marzo, nella giornata a loro dedicata.

 

 

Articolo del 20 Ottobre 1984 da ricerca.repubblica.it
 UN ENIGMA IL MOVENTE DELLA STRAGE
di Franco Recanatesi

PALERMO – Gli otto cadaveri massacrati dalla lupara e caduti nel letame sono stati lavati, asciugati e deposti nelle bare. Quasi tutti hanno il cranio fracassato avvolto da una fasciatura bianca. Soltanto uno anzichè le bende ha in testa una coppola ben calzata. Indossano l’ abito della festa e scarpe di lucida vernice dalla scuola immacolata. I parenti avevano minacciato con i pugni alzati gli agenti di guardia che non intendevano consentire il rito della vestizione. L’ altra sera la questura ha dovuto cedere anche alla richiesta di una veglia funebre improvvisata nella sala al pianterreno dell’ istituto di medicina legale. Nenie, preghiere, corone sgranate tra i singhiozzi davanti a bare diseguali: in noce e foderate di una trapunta color viola quelle della famiglia Quattrocchi; in legno grezzo e nudo le altre. Ieri mattina le bare sono state inchiodate e infilate negli otto furgoni giunti in silenzioso corteo davanti al portone dell’ obitorio: carri pomposi e corone di fiori per i morti di nome Quattrocchi, carri del Comune semplici e spogli per gli altri. Un breve tragitto, neanche trecento metri, verso il piccolo cimitero di Santa Orsola, accompagnato dalle mogli, i genitori, gli amici. Con tanti bambini per mano. Quasi duecento persone: molto affrante e dimesse, ma anche dure e animate da reciproca solidarietà. Gente abituata a convivere con gli stenti e con la violenza. Come quegli otto uomini sui quali adesso cala per sempre una coltre di terra. Chi erano quegli otto uomini? A due giorni di distanza dalla strage i loro contorni cominciano ad assumere tratti precisi. E sembrano emergere anche i motivi della vendetta che così brutalmente li ha colpiti. L’ attività di Francesco e Cosimo Quattrocchi, fratelli, era quella di commercianti di bestiame. Sebbene più giovane, pare che fosse Francesco (34 anni, qualche precedente penale per furto e una diffida) a guidare il commercio. Lucroso? Non troppo. Carne già macellata acquistata a Catania e venduta nella carnezzeria equina di via Naso, rione Ballarò. I Quattrocchi decidono di allargare il raggio d’ affari acquistando in proprio i cavalli. Probabilmente non solo per macellarli ma anche per far partecipare i più in gamba (si fa per dire) alle corse clandestine. Ma per comprare i cavalli ci vuole qualcuno che conosca bene il giro. Come Salvatore Schimmenti, dipendente dell’ Ente Acquedotto Siciliano, ma soprattutto mediatore nella compravendita degli equini. Schimmenti diventa socio nella nuova attività. Anch’ egli è un delinquente di piccolo cabotaggio, furti di poco conto e niente più. I fratelli Quattrocchi assoldano anche due parenti stretti: il cugino, anch’egli di nome Cosimo, incensurato, e Marcello Angelini, marito di una figlia (Antonina) che Francesco aveva avuto a soli diciassette anni. Come Cosimo, Angelini è “pulito”: nessuna pendenza con la legge. Sono in cinque, dunque, a tentare di ingrandire la ditta. Francesco Quattrocchi e Schimmenti si recano un mese fa a Molfetta, in Puglia, per trattare l’ acquisto di sedici cavalli. Si accordano sul prezzo e sulle modalità di spedizione: gli animali giungeranno alla stazione di Palermo a bordo di un carro merci alle ore 17.30 di mercoledì 17 ottobre. Evidentemente non credono alla superstizione. Dove custodiranno i cavalli? Nella stalla del “Cortile Macello”, già occupata abusivamente da tempo e mai da nessuno reclamata. E come le trasporteranno? Con il furgone “Om” adatto al trasferimento degli animali che Francesco ha acquistato alcuni mesi fa. E’ evidente, dunque, che qualche traffico con i cavalli i Quattrocchi dovevano già averlo avuto, ma del tutto occasionale e probabilmente per conto di terzi. La loro stalla ospitava, per esempio, un cavallo appartenente a Giovanni Catalanotti, venditore ambulante di frutta e verdura, precedenti penali per detenzione e porto abusivo di armi, una diffida dalla questura e una sorveglianza speciale già scontata. Ed un altro di Paolo Canale, raccoglitore di ferro vecchio, ma capace di guadagnare – come rivelerà la moglie Lucia Russo ai carabinieri – centomila lire al giorno. Due ronzini ansimanti ma tuttavia buoni per le corse clandestine. Dunque, eccoci al mercoledì 17 ottobre. I tre Quattrocchi, Angelini e Schimmenti raggiungono la stazione a bordo del furgone intorno alle 17, ma il ritardo del treno li obbliga ad un’ attesa di quasi tre ore. Alle 20 caricano i primi otto cavalli, con un secondo viaggio portano gli altri otto nella stalla. Nel “Cortile Macello” trovano anche Catalanotti e Canale, i quali prima di rientrare a casa per la cena erano passati per dare un’ occhiata ai loro animali. E trovano anche Antonio Federico, uno sfaccendato, senza stabile occupazione, incensurato. Trascorre il tempo girovagando nella zona di corso dei Mille, visitando gli amici, frequentando i bar. Un bicchierino non lo rifiuta mai. Sono quasi le 22, l’ ultimo cavallo è stato sistemato nella stalla, quando dal cancello del cortile entrano i killer sterminatori. Anche sulla feroce esecuzione, gli inquirenti ne sanno ora qualcosa di più. Per esempio, che il commando era piuttosto esiguo. A sparare sono stati soltanto in due, con un fucile automatico calibro 12 e una pistola calibro 9 lungo. Ma due super professionisti. Le otto vittime presentano ciascuna due colpi, uno di pistola al cuore e uno di lupara alla testa. Pochi anche i bossoli trovati in terra dalla polizia scientifica. Nulla esclude che alle spalle dei due assassini vi fossero altri uomini pronti ad entrare in azione. Comunque, non ce n’ è stato bisogno: i due vani della stalla non consentivano via di scampo, i bersagli erano estremamente facili, ravvicinati e terrorizzati. E’ probabile che le fucilate alla testa siano state sparate a morte già avvenuta, un colpo di grazia devastatore, inutile e crudele. Un altro dato agghiacciante emerge dalla più precisa ricostruzione. Obiettivo della vendetta erano soltanto – probabilmente – i fratelli Francesco e Cosimo Quattrocchi e il loro socio Schimmenti. Al massimo, anche il cugino Cosimo e Angelini. Sicuramente i killer non davano la caccia a Canale, Catalanotti e Federico, presenti sul posto del tutto occasionalmente. La strage di piazza Scaffa, dunque, si configura sempre più come una strage degli innocenti, colpevoli soltanto di essere capitati nel posto sbagliato e nel momento sbagliato. E soprattutto di avere occhi per vedere e bocca per parlare. Ma di quale tremenda violazione si sarebbero macchiati i Quattrocchi e il loro socio per dover subire una punizione così feroce? Tra le tante ipotesi, gli inquirenti sembrano convergere su questa: la famiglia Quattrocchi comincia ad essere un gruppo ben assortito e ambizioso. Sopporta di malavoglia le briglie delle cosche mafiose che comandano nella zona, pensa di poterle recidere e camminare con le proprie gambe. Forse rifiuta di pagare le tangenti, quasi certamente inizia a trafficare in cavalli senza chiedere alcuna autorizzazione. Le cosche che dettano legge a piazza Scaffa, Ponte dell’ Ammiraglio, corso dei Mille, sono quelle dei Vernengo, degli Zanca. Soprattutto quella dei Marchese, la più spietata, di cui si conoscono le “camere della morte” dove nemici e traditori venivano prima torturati e poi trucidati; che come primo provvedimento, dopo avere preso il sopravvento sugli Inzerillo ed i Bontade, triplicò in tutta la zona i prezzi delle tangenti. Organizzazioni mafiose che non consentono alcuna libera iniziativa, e che – soprattutto dopo le rivelazioni di Tommaso Buscetta e il conseguente blitz del 29 settembre scorso – hanno bisogno di riaffermare la propria egemonia sul quartiere. Tutto chiaro, dunque? Sino ad un certo punto. Motivi di perplessità ne esistono ancora. Due soprattutto, che facilmente possono integrarsi. Il primo interrogativo è questo: erano davvero dei traffichini da strapazzo i Quattrocchi? A parte le esequie più costose rispetto ai loro compagni di sventura, c’ è un fatto che sta facendo riflettere gli inquirenti: in casa di un loro cugino, l’ ennesimo Cosimo, ucciso in una porcilaia di Misilmeri il 26 febbraio di due anni fa, furono trovati sedici milioni in contanti. Secondo interrogativo: una strage di queste proporzioni può essere originata da un semplice seppur arbitrario commercio di cavalli, per di più appena avviato? E se sotto ci fosse qualcosa di molto più importante? Per esempio, il commercio della droga? Nè polizia nè carabinieri confermano quest’ ultima pista, eppure essi non intendono trascurarla del tutto. Tant’ è che ieri mattina hanno dragato da cima a fondo l’ immondo “cortile macello” con l’ aiuto di cani addestrati a fiutare qualsiasi tipo di stupefacenti. E pare – ma la notizia non ha raccolto conferme ufficiali – che alcuni dei diciotto cavalli trovati nella stalla siano stati sottoposti a radiografia, nel sospetto che le loro viscere potessero contenere bustine di eroina o cocaina. Il giallo, insomma, è ancora lontano dalla sua soluzione. Nè potrebbe essere altrimenti, considerate le sue anomalie: un’ azione punitiva così scientifica e feroce, vittime di livello infimo e sicuramente non appartenenti a famiglie mafiose, motivazioni apparentemente futili. Mentre le forze dell’ ordine continuano a battere la città, perquisendo le case di corso dei Mille e di Brancaccio e persino gli autobus che attraversano quei malfamati quartieri, una sola convinzione appare incrollabile: la mafia ha resistito gagliardamente al ciclone-Buscetta. E il sangue, a Palermo, non ha finito di scorrere.

 

 

 

 

Fonte: legislature.camera.it
Atti Parlamentari – Camera Deputati
IX LEGISLATURA – DISCUSSIONI – SEDUTA DEL 23 OTTOBRE 1984

Interrogazioni sull’eccidio di Palermo del 18 ottobre

[…]

L’onorevole ministro dell’interno ha facoltà di rispondere.

OSCAR LUIGI SCÀLFARO, Ministro dell’interno.

Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, desidero iniziare pregando lei, onorevole Presidente, di essere autorevole tramite per un mio personale ringraziamento al Presidente della Camera, sia per aver fissato questo punto all’ordine del giorno, ma più ancora perché, essendomi rivolto al Presidente della Camera ed al Presidente del Senato nei primissimi momenti successivi all’arrivo della notizia del delitto avvenuto a Palermo, ho trovato una profonda comprensione; ero infatti in partenza per una riunione da svolgersi in Sardegna a causa dell’intensificarsi preoccupante dei sequestri di persona e scrissi, allora, una lettera ai Presidenti dei due rami del Parlamento, dichiarando, come mio dovere, la totale disponibilità a riferire alle Camere.

Ora, mi trovo a dare la notizia dei fatti, quando vi è un’istruttoria ai primi passi e, quindi, in fondo, sui fatti molte notizie in più non si sanno. E per stare ai fatti: alle 6,40 del 18 ottobre perveniva alla centrale operativa della questura di Palermo una telefonata anonima con la quale si segnalava, in modo generico, che all’interno di una stalla nei pressi di piazza Scaffa si trovavano otto cadaveri. A seguito di minuziose ricerche, alle ore 7,30 circa, personale della polizia di Stato localizzava la stalla tra Corso Mille e via Brancaccio — in una zona decentrata della città — in un agglomerato di box e casupole semidiroccate, siti su terreno di proprietà comunale e adibita abusivamente a ricovero per equini. Nel luogo venivano rinvenuti effettivamente i corpi di otto uomini, uccisi con armi da fuoco. Tre cadaveri si trovavano negli spiazzi antistanti alle stalle, mentre i corpi degli altri cinque giacevano nei due locali ove erano custoditi una quindicina di equini. La loro identità veniva accertata, per alcuni, con i documenti di riconoscimento, per altri, a seguito di accertamenti.

Le persone sono state così identificate: Cosimo Quattrocchi, nato a Palermo il 17 agosto 1946 ed ivi residente in largo Medaglie d’Oro n. 4, macellaio con esercizio di vendita di carne equina in via G. Naso n. 2, pregiudicato per atti osceni in luogo pubblico; Francesco Quattrocchi, fratello del primo, nato a Palermo il 21 luglio 1950, ivi residente in via Capinere n.17, commerciante di bestiame, pregiudicato per furti aggravati e associazione per delinquere (denunzia anno1974), violenza carnale, contravvenzioni per porto abusivo di armi, lesioni e diffidato ai sensi della legge n. 1423 del 1956; Cosimo Quattrocchi, nato a Palermo il 10 gennaio 1956 ed ivi residente in via Corrao, cugino dei fratelli Cosimo e Francesco, macellaio con esercizio di vendita di carne equina in via Gustavo Roccella n. 83, incensurato; Marcello Angelini, nato a Palermo il 9 marzo 1961 ed ivi residente in via Capinere 17, genero di Francesco Quattrocchi, che collaborava con il suocero nel commercio del bestiame, incensurato; Salvatore Schimmenti, nato a Polizzi Generosa (Palermo) il 31 marzo 1945 e residente a Palermo in via Piediscalzi 2, dipendente dell’Ente acquedotto siciliano e mediatore di bestiame, pregiudicato per furto; Giovanni Catalanotti, nato a Palermo il 23 ottobre 1944 ed ivi residente, venditore ambulante di frutta e verdura, pregiudicato per furti e associazione per delinquere (denunzia anno 1971), porto abusivo d’armi, diffidato ai sensi della legge n.1423 del 1956 già sorvegliato speciale della polizia; Paolo Canale, nato a Palermo il 14 agosto 1960 ed ivi residente invia Brancaccio 24,straccivendolo, pregiudicato per porto di coltello di genere vietato; Antonino Federico, nato a Palermo il 10 luglio 1959, ivi residente in via XXVII maggio n.28, disoccupato, incensurato.

Dalle prime indagini esperite in collaborazione dalla polizia di Stato e dall’Arma dei carabinieri, d’intesa con la magistratura, è emerso che il delitto era stato commesso all’incirca tra le 21,30 e le 22 del giorno precedente, come è stato accertato da successiva perizia necroscopica. Gli esecutori, che verosimilmente avevano fatto irruzione improvvisa nei locali ove erano riunite le vittime, avevano usato almeno una pistola calibro 9 Parabellum bifilare ed un fucile calibro 12 caricato a pallettoni (lupara). Non sono state riscontrate tracce di colpi di arma da fuoco non andati a segno. Le vittime si trovavano in quel luogo probabilmente per accudire a circa 20cavalli, la maggior parte dei quali prelevati in precedenza presso la stazione ferroviaria. Detti cavalli, provenienti dalla Romania e destinati alla macellazione, erano stati acquistati da Cosimo Quattrocchi e Salvatore Schimmenti dalla SIEB, società a responsabilità limitata dei fratelli Michele e Rocco La Torre, con sede in Molfetta. Altri due cavalli, già in precedenza nella stalla, erano di proprietà, rispettivamente, di Giovanni Catalanotti e Paolo Canale. Tali locali, adibiti a stalla, sono limitrofi a quelli già utilizzati, per deposito e demolizione di autovetture, da Giuseppe Ambrogio, ucciso 1’11 marzo 1981 ad opera di appartenenti al noto gruppo mafioso della zona — facente capo alle famiglie dei Marchese, Vernengo, Zanca e Greco — perché ritenuto persona loro avversa e non affidabile.

Sul luogo del delitto sono stati rinvenuti: 7cartucce per fucile calibro 12 esplose, alcune supercorazzate e altre solo corazzate; 1 cartuccia per fucile calibro 12 inesplosa, caricata a pallettoni; 1 cartuccia inesplosa per pistola calibro 9 lungo marchio NATO anno fabbricazione1978 — Fiocchi Lecco; 1 bossolo per pistola calibro 9 lungo; 1 proiettile della stessa arma. Nei cadaveri, nel corso dell’autopsia, sono stati rinvenuti complessivamente: 16 pallettoni tipo 3/0; 10 pallettoni tipo 8/0; 30 pallettoni tipo 11/0; 1 proiettile calibro 9 Parabellum.

Le vittime, incensurate o con precedenti penali di non particolare rilievo, non risulterebbero affiliate o collegate alla mafia, anche se operavano nel settore del commercio del bestiame, da sempre ritenuto oggetto di attenzione e di scontro da parte di gruppi mafiosi.

Dediti a tale commercio erano, in particolare, i Quattrocchi, Schimmenti ed Angelini, mentre Catalanotti e Canale avevano interessi collegati alla proprietà ed all’attività agonistica dei propri cavalli. Nessun particolare interesse è invece, al momento, attribuibile al Federico. Allo stato, non sussistono elementi univoci di riscontro che consentano di attribuire una precisa matrice al fatto criminoso in argomento, anche se le modalità di esecuzione del delitto sembrano proprie della mafia o, comunque, della criminalità organizzata. Sono comunque considerate e seguite tutte le possibili ipotesi.

In primo luogo, il delitto potrebbe essere stato causato da motivi di vendetta per questioni connesse all’attività di commercio dei cavalli. L’azione sarebbe stata diretta, in tale caso, soprattutto nei confronti dei Quattrocchi e gli altri sarebbero verosimilmente rimasti coinvolti nell’eccidio perché presenti in quel momento sul posto. Altra ipotesi sarebbe quella della mancata sottomissione e dell’atteggiamento ostile eventualmente mostrato dalle vittime nei confronti dell’anzidetta cosca mafiosa predominante nella zona. In tal caso, si tratterebbe di punizione diretta a riaffermare il proprio prestigio. Si è pensato anche che il delitto sia maturato nell’ambiente delle corse dei cavalli. Infine, l’azione criminosa — nell’ipotesi che le vittime o parte di esse operassero con la protezione del citato gruppo mafioso — potrebbe avere avuto il fine di colpirlo indirettamente. In tal caso, il delitto potrebbe avere una relazione con la recente uccisione di Rinaldo Rimi, appartenente ad una delle famiglie ritenute attualmente soccombenti nelle lotte di mafia degli ultimi anni.

Non sussistono, al momento, elementi per suffragare l’ipotesi di un collegamento con le rivelazioni del noto mafioso Tommaso Buscetta. Sta assumendo, comunque, maggiore consistenza l’ipotesi della mancata sottomissione e dell’atteggiamento ostile nei confronti del clan mafioso avente prevalenza criminale nella zona e della conseguente spedizione punitiva, con intenzionale platealità a evidente scopo intimidatorio.

Ha perso invece del tutto consistenza l’ipotesi secondo cui fra i moventi del crimine potesse esservi un collegamento delle vittime con l’ambiente delle scommesse e corse clandestine dei cavalli. Infatti, gli animali rinvenuti nella stalla, teatro dell’eccidio, erano sicuramente destinati alla macellazione, né sono emersi elementi che possano indurre a ritenere che qualcuna delle otto vittime si interessasse alle corse o fosse dedita alle scommesse clandestine.

Da parte delle forze dell’ordine sono in corso accurate ed approfondite investigazioni. Sono stati controllati quartieri, eseguite numerose perquisizioni, in massima parte riguardanti sospetti mafiosi. Sono state fermate quaranta persone sul conto delle quali sono stati esperiti accurati accertamenti ed alcune di esse, particolarmente sospette, sono state sottoposte a rilievi dattiloscopici ed al guanto di paraffina. Sono state identificate ed interrogate le persone abitanti in prossimità di piazza Scaffa al fine di acquisire eventuali testimonianze. Si stanno svolgendo, infine, approfondite indagini volte a ricostruire nel modo più completo la vita e la condotta delle otto vittime.

La polizia di Stato e l’Arma dei carabinieri, con rapporto congiunto del 21 scorso, indirizzato alla procura della Repubblica, hanno altresì chiesto di esperire accertamenti bancari. È chiaro che sono in corso altri accertamenti, ma la Camera comprende che sono coperti da riserbo e segreto istruttorio.

 

[…]

 

 

 

 

Articolo di La Repubblica del 2 Dicembre 1984
ECCO KILLER E MANDANTI DELLA STRAGE DI PALERMO 
di Giuseppe Cerasa

PALERMO – Gli autori e i mandanti della strage del 17 ottobre hanno nome e cognome. Dopo un mese e mezzo di indagini un dettagliato rapporto di polizia e carabinieri ha consentito l’ arresto dei presunti killer che hanno eseguito il massacro all’ interno della stalla di Cortile Macello. Gli ordini di cattura firmati dai sostituti procuratori della Repubblica di Palermo Guido Lo Forte, Dino Cerami e Paolo Giudici sono sei: le manette sono scattate ai polsi di Antonino Fisichella, grosso commerciante di carni equine, di xxxxxxxx e xxxxxxx, tutti di Catania, uomini del potente boss Benedetto Santapaola, latitante dall’ estate del 1981 dopo aver partecipato all’ omicidio del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari. Santapaola adesso è ricercato anche per la strage di Cortile Macello assieme ai boss palermitani Pietro Vernengo e a Carmelo Zanca, gli uomini che controllano la zona di Ponte Ammiraglio dove avvenne l’ esecuzione degli otto uomini di Cortile Macello. E’ di nuovo l’ asse Palermo-Catania che rispunta, come nelle vicende più sanguinose della recente storia di mafia. Vernengo, Santapaola e Zanca di ritrovano insieme nell’ inchiesta sull’ omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Su di loro pende un mandato di cattura firmato dal giudice istruttore Giovanni Falcone che ha indicato nei super boss delle cosche vincenti i mandanti dell’ esecuzione del prefetto di Palermo, della moglie Emanuela e dell’ agente Domenico Russo. E ancora Santapaola è tra i protagonisti della strage della Circonvallazione di Palermo (estate ‘ 82) dove fu ucciso il boss catanese Alfio Ferlito, tre carabinieri e l’ autista della Mercedes sulla quale viaggiavano.
Anche in quell’ occasione è stato determinante l’ “okay” della cosca che controllava la zona dell’ agguato, a riprova dei solidi collegamenti esistenti tra le famiglie catanesi e quelle palermitane. Un’ alleanza di fuoco che ha funzionato anche la sera del 17 ottobre scorso. Nella stalla di Cortile Macello verso le ore 21 c’erano otto uomini che stavano sistemando una partita di cavalli appena arrivati da Molfetta. Gli animali appartenevano ai fratelli Cosimo e Francesco Quattrocchi, commercianti di carne equina, proprietari di alcune macellerie in città. Assieme a loro c’erano il cugino Cosimo Quattrocchi, il cognato Marcello Angelini, (il loro socio Salvatore Schimmenti*). E poi Paolo Canale, Giovanni Catalanotti e Antonino Federico che si erano fermati a dare una mano. L’ azione dei killer è stata fulminea, spietata. L’ obiettivo vero erano i fratelli Quattrocchi, ma si volle dare comunque un segnale inequivocabile sulla capacità di reazione della mafia. Pochi giorni prima infatti il potere delle cosche era stato incrinato dalle confessioni di Tommaso Buscetta e dai 366 mandati di cattura firmati dall’Ufficio istruzione di Palermo. La strage era la riprova della potenza criminale delle “famiglie” siciliane. Ma serviva anche a far capire che nonostante le retate l’ influenza della mafia era ancora solida e non ammetteva deroghe. I fratelli Quattrocchi, infatti, avevano tentato di sfuggire al “giro” del clan dei catanesi che in Sicilia detiene il controllo del commercio equino. Sono loro gli intermediari inevitabili, gli uomini che tirano le fila di un business di diversi miliardi all’ anno. Ma i Quattrocchi avevano provato a mettersi in proprio, profittando dell’ estrema incertezza esistente all’ interno della costellazione mafiosa e tentando un collegamento diretto con i gruppi di pugliesi.

 

 

 


Articolo del 2 Dicembre 1984 da  archiviostorico.unita.it 
Presi i killer del mattatoio
di Saverio Lodato
Una strage per 18 cavalli acquistati «fuori zona»
Le vittime si erano ribellate ai grossisti mafiosi catanesi e al loro «protettore», Nitto Santapaola – il superlatitante e i boss di Brancaccio decisero le esecuzioni

PALERMO – A tempi record, meno di sei settimane, polizia e carabinieri hanno fatto quasi piena luce sull’orrenda strage di «cortile Macello», il massacro di otto persone del 18 ottobre scorso. Venne compiuta da killer catanesi, autorizzata da boss palermitani, voluta dal famigerato Nitto Santapaoia. Sei ordini di cattura, firmati da tre sostituti palermitani (Paolo Giudici, Guido Lo Forte, Raimondo Cerami) hanno già portato a tre arresti per concorso in strage, associazione per delinquere di tipo mafioso, porto abusivo di armi da fuoco, mentre continuano le ricerche di tre latitanti.
Le manette sono scattate a Catania, all’alba di ieri, per: Antonio Fisichella, 60 anni, grossista di carni equine ed i suol nipoti xxxxxxx, 29 anni, e xxxxxxxx, 29 anni, accusati quest’ultimi di aver preso parte all’agguato. Ieri mattina sono stati trasferiti tutti a Palermo e tradotti all’Ucciardone. Agirono invece nell’ombra, e d’altra parte sono latitanti da anni, oltre a Santapaola, Pietro Vernengo e Carmelo Zanca, indiscussi capi di piazza Scaffa, zona del popolarissimo quartiere di Brancaccio dove venne l’eccidio.
Come si ricorderà Santapaola è ricercato anche per l’uccisione nell’agosto dell’80 di Vito Lipari, sindaco dc di Castelvetrano; per la strage di via Carini (Dalla  Chiesa, la moglie, l’autista); per quella della Circonvallazione a Palermo quando per eliminare Alfio Ferlito, rivale di Santapaola, i sicari moltiplicarono per cinque quella condanna a morte (caddero infatti nell’imboscata anche tre carabinieri e l’autista). È proprio il modulo organizzativo della strage della Circonvallazione ad esser stato ricalcato in occasione della mattanza a Cortile Macello.
Caddero otto persone, crivellate dai colpi della lupara e delle calibro 38, ma i destinatari veri erano appena tre: i due fratelli Cosimo e Francesco Quattrocchi, il loro socio in affari Salvatore Schimmenti.
Fu una fucilazione in piena regola: alcune delle vittime, erano tutte disarmate, vennero messe con la faccia al muro, mentre diciotto ronzini, da qualche ora giunti a Palermo, assistevano impauriti. Era proprio per quei diciotto cavalli, per quella mela proibita, che otto uomini stavano morendo. E questa la conclusione cui sono giunti polizia e carabinieri che in un minuzioso rapporto — suffragato da incontrovertibili intercettazioni telefoniche — hanno ricostruito scenario, movente e ruolo di tutti i protagonisti della strage. E questa volta — dicono durante la conferenza stampa lgnazio D’Antone, capo della Squadra Mobile, e il capitano Gennaro Scala, giunto da una settimana alla guida del nucleo operativo dei carabinieri — «è tutto sudore nostro: in questa stona non ci sono pentiti». Questa storia raccontiamola così.
Sono i giorni caldi del «dopo Buscetta». Il potere mafioso è sgomento. E gregari, fiancheggiatori e succubi manifestano in parecchi quartieri palermitani segni di sbandamento, a volte di cedimento. Temono di non esser più garantiti da nessuno.
Qualcuno si spinge più in là del dovuto: accarezza finalmente l’idea di mettersi in proprio, recidendo vecchi lacci e laccioli, rappresentati — soprattutto in commercio — da troppe intermediazioni parassitarie. Qualcuno, come per esempio, i fratelli Quattrocchi. Dediti da anni al commercio delle carni equine, voltano improvvisamente le spalle ai loro fornitori fissi (e imposti), i grossisti di carne del Catanese, a loro volta soggiogati dal potere di Nitto Santapaoia. È bene tener presente che il mercato della carne equina rappresenta a Palermo un giro molto grosso che sfiora i 20 miliardi annui. I conti sono presto fatti: nel capoluogo siciliano sono 27 le macellerie che espongono il cartello a riprova della loro «specializzazione»: «Qui si vende carne equina». Macellano, in media, per ciascuna, nove capi alla settimana. Mercato regolare, con tanto di certificazioni veterinarie e del macello comunale. Non quantificabile, ma altrettanto estesa, la parte clandestina di questo commercio.
I Quattrocchi segnano la loro condanna a morte con un viaggio a Molfetta, all’inizio di ottobre, per acquistare una partita di cavalli da commercianti pugliesi. Ma questo è solo l’ultimo «sgarro», dei Quattrocchi. Già da qualche mese avevano ridotto le ordinazioni ai fornitori di mafia dimostrando apertamente di voler alzare la testa. Vennero chiamati a Catania per un «chiarimento». Addussero argomenti considerati «pretestuosi», proprio da Fisichella, uno dei tre arrestati. Secondo  indiscrezioni fu proprio lui — mentre era in pieno svolgimento la missione a Molfetta — a subissare di incalzanti telefonate Maria Lo Verso, moglie di Cosimo Quattrocchi. Messa alle strette la donna ammette che scopo del viaggio di suo marito era l’acquisto del cavalli.
Fisichella si mette in contatto con Santapaola (come, dal momento che è latitante?) chiede e ottiene soddisfazione. Dice un investigatore: «In questa strage c’è la causale specifica ma a questa si è anche voluto conferire un significato simbolico valevole per tutti». Torna il canovaccio organizzativo della strage della Circonvallazione. Santapaoia si rivolge a Pietro Vernengo e a Carmelo Zanca. È un diabolico scambio di favori: voi permettete ai miei uomini di far vendetta nel vostro territorio, ne avrete in cambio nuovo terrore, e di conseguenza prestigio, rispetto alla popolazione di Brancaccio che manifesta segni di inquietudine.
Ma qual è il profilo criminale dei tre catanesi arrestati? Insospettabili, incensurati. Ma dalle perquisizioni nelle loro abitazioni è emerso un elemento inquietante: tutti e tre avevano cinque pistole (tre calibro 38 e due 7,65 regolarmente denunciate).

 

 

 

Articolo del 25 Giugno 1985 da  ricerca.repubblica.it
PER IL MASSACRO DI PIAZZA SCAFFA RINVIATI A GIUDIZIO I MANDANTI MAFIOSI

PALERMO (a.b.) – Rinvio a giudizio per tutti i mandanti della strage di piazza Scaffa. E’ la richiesta del sostituto procuratore della Repubblica Raimondo Cerami che ha depositato, nella tarda mattinata, la requisitoria su uno dei più orribili massacri palermitani: l’esecuzione di otto uomini nella stalla del cortile Macello. Il rinvio a giudizio è stato chiesto al magistrato per Antonino Fisichella, commerciante di bestiame catanese, accusato di essere il mandante della strage insieme ai boss palermitani Carmelo Zanca e Pietro Vernengo e al capomafia catanese Benedetto Santapaola. La richiesta di rinvio a giudizio è arrivata dopo alcuni mesi di indagini incrociate tra Palermo e Catania. Un’inchiesta che ha coinvolto l’ambiente dei grossisti di carne equina, ma anche tutte le più agguerrite cosche siciliane. Francesco e Cosimo Quattrocchi, macellai del quartiere palermitano di Ballarò, e sei loro amici, secondo il sostituto procuratore della Repubblica Raimondo Cerami, sono stati uccisi per aver “osato” acquistare grosse partite di carne da nuovi commercianti, senza chiedere l’autorizzazione ai clan di Palermo e di Catania. I due macellai, infatti, avevano già contattato alcune aziende pugliesi, sganciandosi così dai grossisti catanesi che li avevano sempre riforniti. La vendetta è scattata qualche giorno dopo l’acquisto di alcuni cavalli, con il consenso del boss Benedetto Santapaola e dei capiclan della zona di cortile Macello: gli Zanca e i Vernengo. Un numero imprecisato di killer armati di pistole e fucili a cannemozze, la notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1984, è entrato in azione in una stalla dove i fratelli Quattrocchi stavano sistemando i cavalli insieme a sei dipendenti. Pochi attimi di terrore e poi un vero e proprio tiro al bersaglio: gli otto uomini sono morti all’ istante sotto gli zoccoli di diciotto cavalli imbizzarriti. La strage, nonostante la sparatoria, è stata scoperta soltanto il giorno dopo. Le indagini si sono indirizzate subito verso il mondo dei grossi commercianti di bestiame siciliani. Una pista che, poche ore dopo, ha condotto gli investigatori a Catania. I primi ad essere individuati sono stati i Fisichella, i commercianti che si sarebbero rivolti ad amici influenti perchè “offesi” dall’ acquisto di carne fuori dai confini dell’ isola. Una lamentela arrivata alle orecchie di alcuni boss e che è sfociata poi in una carneficina. Ma la strage di piazza Scaffa, sostengono magistrati e poliziotti, non sarebbe mai avvenuta se non ci fosse stato il “nullaosta” della mafia che comanda in quella borgata di Palermo. E cioè Carmelo Zanca e Pietro Vernengo, due superboss già ricercati da anni per l’agguato contro il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

 

 

 

Articolo del 6 Novembre 1986 da ricerca.repubblica.it
CORTILE MACELLO 4 ERGASTOLI PER LA STRAGE

PALERMO Strage di piazza Scaffa, penultimo atto. Il pubblico ministero Raimondo Cerami ha chiesto ieri alla seconda sezione della Corte d’ assise di Palermo di condannare all’ ergastolo i mandanti dell’ orribile massacro compiuto nell’ ottobre di due anni fa in una stalla di Cortile Macello. Una strage-simbolo, che doveva servire a punire uno sgarro e a ripristinare il potere di Cosa nostra su una città che aveva accolto con grande soddisfazione la massiccia ondata di arresti seguita alle rivelazioni di Tommaso Buscetta. Secondo il Pm Cerami l’ ordine di uccidere partì da Catania. Nella città etnea operava Antonino Fisichella, commerciante di carne, legato a Benedetto Santapaola, potentissimo capoclan, ricercato per l’ omicidio Dalla Chiesa. Da Palermo l’ okay sarebbe venuto da Pietro Vernengo, arrestato nei mesi scorsi vicino Napoli, boss di Ponte Ammiraglio e da Carmelo Zanca, capo della famiglia di Torrelunga. Per tutti e quattro Raimondo Cerami ha chiesto alla Corte d’ assise la pena dell’ ergastolo, mentre per i due imputati minori accusati di falsa testimonianza, Rocco La Torre e Biagio Amico, ha proposto rispettivamente un anno e quattro mesi di reclusione. Nella requisitoria, durata poco più di due ore, il Pm ha ricostruito minuziosamente le fasi dell’ agguato mortale. Quella notte del 18 ottobre 1984 a Cortile Macello un commando fece irruzione in una stalla massacrando i fratelli Cosimo e Francesco Quattrocchi, un loro cugino Marcello Angelini, Salvatore Schimmenti e altri quattro uomini che si trovavano casualmente in compagnia delle vittime designate. A far scattare la mattanza sarebbe stata la decisione dei fratelli Quattrocchi di saltare l’ intermediazione di Fisichella e acquistare diversamente sul mercato pugliese diciotto puledri destinati alla macellazione. Uno sgarro che secondo i canoni classici della mafia andava punito immediatamente. Soprattutto nel momento in cui il potere delle cosche subiva colpi tremendi in seguito alle rivelazioni di Buscetta e Contorno. A giudizio di Cerami dunque lo scenario della strage è chiaramente di marca mafiosa. A delineare il contesto e le responsabilità si è rivelata utilissima, secondo il Pm, la testimonianza di Vincenzo Sinagra, il pentito numero tre che proprio l’ altro ieri è ritornato in Corte d’ assise per ribadire le sue accuse contro Vernengo e Zanca (Senza il loro consenso sarebbe stato impossibile compiere una strage nella zona in cui dettano legge, ha detto Sinagra). Determinante anche la deposizione di Pietra Lo Verso, moglie di Cosimo Quattrocchi che ha sfidato i boss, deponendo al processo e accusando i presunti assassini.

 

 

 

Articolo del 11 Novembre 1986 da ricerca.repubblica.it 
PER QUEGLI OTTO MORTI NESSUN COLPEVOLE ASSOLTI BOSS E GREGARI
di Giuseppe Cerasa

PALERMO Né assassini né mandanti. Per i giudici della seconda sezione della Corte d’Assise gli imputati accusati della strage di piazza Scaffa non c’entrano nulla con l’esecuzione degli otto uomini uccisi il 18 ottobre del 1984 nella stalla di cortile Macello. Non hanno commesso il fatto, questa la sintesi della sentenza letta dopo quattro ore di camera di consiglio dal presidente della corte Prinzivalli. Una decisione clamorosa che rende sostanzialmente priva d’efficacia l’istruttoria condotta dai giudici antimafia, che vanifica la requisitoria della pubblica accusa (il Pm Raimondo Cerami aveva chiesto quattro ergastoli per gli imputati maggiori) ma soprattutto proietta inquietanti interrogativi sul maxi processo in corso nell’ aula bunker. Non foss’ altro perchè i giudici non hanno creduto alle rivelazioni del pentito numero 3, quel Vincenzo Sinagra, che accusava Pietro Vernengo e Carmelo Zanca d’ aver dato il loro assenso alla strage. Un Sinagra che nel corso di tre animatissime udienze ha dimostrato quanto sia costellata di insidie la strada del pentitismo, sbalordendo tutti quando ha deciso di cambiare versione e di fare marcia indietro. Per poi ripentirsi e spiegare alla corte di essere stato minacciato dagli uomini di Cosa nostra che avevano cercato di comprare con duecento milioni la sua ritrattazione. Signor presidente non vede che faccia ho? aveva chiesto Sinagra. Non esiste niente, ho inventato tutto. Ho raccontato un sacco di fesserie. Leggevo sul giornale gli omicidi e parlavo, parlavo. Avevo visto che Pietro Vernengo e Carmelo Zanca erano implicati nell’omicidio del generale Dalla Chiesa e così li ho chiamati in causa anche per piazza Scaffa. La gente, signor presidente, sceglie di pentirsi per avere il proprio nome sul giornale, per uscire prima di galera, aveva aggiunto Vincenzo Sinagra, lasciando perplessi i giurati e facendo crollare uno dei pilastri tirati su nel corso dell’istruttoria. All’ indomani della sua deposizione Sinagra aveva chiesto di incontrarsi con i giudici del pool antimafia, raccontando così perchè aveva deciso di smentire la versione originaria dettata ad un maresciallo nel carcere di Paliano (Hanno minacciato la mia famiglia. Mi hanno offerto duecento milioni per ritrattare. Ma adesso anche i miei mi hanno lasciato solo e io non ho più paura di morire. Per questo riconfermo tutto. La strage di piazza Scaffa non si poteva fare senza l’ assenso di Zanca e Vernengo che controllano le zone dove è stata compiuta la mattanza aveva ribadito Sinagra). Ma la giuria della seconda sezione della Corte d’ Assise non gli ha creduto e non ha ritenuto nemmeno dover dare rilevanza penale alle accuse lanciate contro Antonino Fisichella, commerciante di bestiame catanese, da Pietra Lo Verso, moglie di Cosimo Quattrocchi, uno degli uomini assassinati a piazza Scaffa. Ad uccidere mio marito credo sia stato Fisichella, aveva detto in lacrime la donna davanti ai giudici di Corte d’ Assise. La mano della strage viene da Catania. Cosimo andava d’ accordo con tutti, tranne che con Fisichella. Ed è stato lui a telefonare sempre a casa nostra, s’ è fatto sentire fino al 14 ottobre. Poi il silenzio, perché forse aveva già preparato la trappola. Ma la corte non ha creduto alla ricostruzione di Pietra Lo Verso, ha ritenuto insufficienti le sue motivazioni per emettere una sentenza di condanna. E non ha sciolto nemmeno gli interrogativi posti ieri mattina dall’ avvocato Vincenzo Gervasi, difensore di parte civile. Perché esporre persone che spezzando catene antiche anziché cercare vendetta privata si presentano davanti ad una corte della Repubblica?, ha chiesto Gervasi. Perché esporle alla rappresaglia, al pericolo e isolarle così dalla città?. A Gervasi la corte ha risposto con una sentenza che certamente farà discutere. E adesso Cosimo Quattrocchi, assieme a Zanca, a Vernengo e al boss catanese Nitto Santapaola, ricercato per l’ assassinio di Dalla Chiesa, escono dal processo assolti per non aver commesso il fatto. Pure assolti, ma perché il fatto non costituisce reato, i commercianti di carne Biagio D’ Amico e Rocco La Torre, accusati di falsa testimonianza. Ritorna dunque il mistero su quella strage che impressionò tutta l’ Italia, per la ferocia e la precisione del commando che fece irruzione nella stalla di Cortile Macello. In quell’ enorme baracca di lamiera, cartone e tronchi d’ albero si erano dati appuntamento Cosimo e Francesco Quattrocchi, commercianti di carni equine, un loro cugino Marcello Angelini, Salvatore Schimmenti e altri quattro uomini che casualmente avevano accettato di dare una mano per sistemare sedici puledri arrivati dalla Puglia. Secondo la ricostruzione fatta dai giudici fu proprio il commercio di cavalli destinato alla macellazione a scatenare la rappresaglia di piazza Scaffa. I fratelli Quattrocchi infatti avevano probabilmente deciso di saltare l’ intermediazione che viene garantita dalla mafia catanese. La requisitoria del pm Cerami faceva perno proprio su questo ragionamento e assegnava a Fisichella il ruolo di mandante di una strage che avrebbe ricevuto l’ imprimatur di Santapaola e l’ assenso di Vernengo e Zanca. La Corte ha dimostrato invece che questo ragionamento non aveva riscontri concreti, almeno nel delineare le responsabilità individuali, è ha pronunciato così la sentenza di assoluzione, contro la quale il Pm si è già appellato. Restano comunque le immagini di una mattanza che non ha precedenti nella recente storia criminale siciliana. Le raffiche di mitra, i corpi pieni di sangue riversi senza vita tra il letame e gli zoccoli dei sedici puledri risparmiati dal fuoco dei killer. Le sequenze allucinanti di una mattinata di morte, lo strazio dei parenti, la paura di una città rimessa in ginocchio proprio quando le confessioni di Buscetta e di Contorno sembravano voler spazzare via la cappa di omertà e di angoscia che avvolge i quartieri a più alta densità mafiosa. Resta intatto il significato di sfida di una strage compiuta proprio all’ indomani della firma di centinaia di ordini di cattura seguiti alle rivelazioni di Tommaso Buscetta, a riprova che la mafia non aveva e non ha alcuna intenzione di alzare bandiera bianca.

 

 

 

Articolo dell 11 Novembre 1986 da archiviostorico.unita.it
La sentenza dei giudici di Palermo per gli otto omicidi di piazza Scaffa
Cortile Macello, tutti assolti «Quei boss sono innocenti»
di Saverio Lodato
Pietro Vernengo, Carmelo Zanca e Nitto Santapaola «non hanno commesso il fatto» – Inutile la coraggiosa battaglia della moglie di uno dei massacrati che aveva confermato le rivelazioni del pentito Sinagra

Tutti assolti per non aver commesso fatto. I boss palermitani Pietro Vernengo e Carmelo Zanca, della borgata di Brancaccio, ma anche il superlatitante catanese Nitto Santapaola e il commerciante di carni Antonino Fisichella, non furono né mandanti né gli esecutori della strage di Cortile Macello, nella notte fra 11 17 e il 18 ottobre 1984.
Otto persone fucilate alle spalle, dentro una stalla, ma il mistero, almeno per ora, è destinato a rimanere tale.
Con questo verdetto, i giudici della Sezione Penale della Corte d’Assise di Palermo — presidente Giuseppe Prinzivalli — lasciano intendere: le accuse di quel «pentito» non sono credibili. Il pentito è Vincenzo Sinagra, l’uomo che più volte aveva accusato e più volte aveva ritrattato. Lo stesso che, alla fine, aveva confermato tutto sostenendo, come aveva fatto all’inizio: «Una strage simile non poteva essere compiuta senza il consenso del boss di Brancaccio. Senza l’autorizzazione di Pietro Vernengo e Carmelo Zanca i killer catanesi non avrebbero avuto libero accesso a Brancaccio per “punire” coloro i quali, acquistando altrove cavalli da macellare avevano rotto un rapporto consolidato con i commercianti catanesi».
Nei giorni del ripensamento, invece: «Cosa vuole signor giudice? leggevo i giornali, sentivo parlare di delitti e inventavo, inventavo, accusavo questi signori che non hanno commesso alcun reato». A «questo» Sinagra, ha creduto la Corte. Ma Sinagra, in più occasioni, si era lamentato apertamente di non essere sufficientemente protetto e aveva svelato che avevano tentato di corromperlo con duecento milioni per comperare il suo silenzio.
Esultano gli im putati. Immediatamente rimesso in libertà il commerciante di carne catanese Antonino Fisichella, accusato di essere il personaggio chiave dell’intera vicenda. Rimane in carcere Pietro Vernengo imputato nel maxi processo. Continuano la latitanza Zanca e Santapaola. Assolti, anch’essi con formula piena, due imputati minori, accusati di falsa testimonianza: Rocco La Torre e Biagio Amico. Esultano i difensori. Sperano di «trasferire» in aula bunker questo successo, poiché Sinagra ha un ruolo anche nel maxi-processo e Zanca e Santapaola sono imputati di primissimo piano, accusati di moltissimi delitti, anche della strage Dalla Chiesa.
Sdrammatizzano, ridimensionano, invece, i giudici che hanno istruito quel processo: «L’architrave di quell’istruttoria — spiegano — è rappresentato dalle puntuali rivelazioni di Buscetta e Contorno, ampiamente confermate, tra l’altro, in dibattimento. Ed è stato raccolto un grande materiale bancario, nonché prove di varia natura che confortano quelle accuse». La sentenza di assoluzione, ieri nel primo pomeriggio, dopo quattro ore di camera di consiglio. La Corte d’Assise ha ritenuto poco attendibili anche le affermazioni della signora Pietra Lo Verso, moglie di Cosimo Quattrocchi, considerato dai poliziotti, qualche ora dopo l’eccidio, la vera vittima designata.
Pietra Lo Verso si era costituita parte civile (la difendevano gli avvocato Alfredo Galasso e Vincenzo Gervasi, insieme ai suoi figli, perché convinta — lo aveva ripetuto in aula — che fosse stato il commerciante Fisichella ad innescare il meccanismo perverso che sarebbe sfociato nella strage. Questa, in sintesi, la ricostruzione degli investigatori, confermata in istruttoria dal giudice Paolo Borsellino, e su cui si era basata l’accusa del pubblico ministero Dino Cerami (ha immediatamente annunciato appello).
Disse Pietra Lo Verso in apertura di processo: «L’uomo che ha organizzato la strage è Fisichella. Si è rivolto al boss Nitto Santapaola. Ce l’aveva con mio marito perché si era rivolto ad un commerciante di Bari per comperare, in quella città, una decina di cavalli». Era la prima volta che Cosimo Quattrocchi «tradiva» il suo abituale fornitore, trattando con il commerciante barese Rocco La Torre. «E La Torre — aveva insistito la donna — inizialmente non voleva concludere, per non dispiacere a Fisichella, anche perché nell’ambiente si conoscevano tutti. Poi l’affare venne concluso, ma, a quel punto, la spedizione fu ritardata per consentire la realizzazione della strage. Soprattutto di predisporre in tempi utili l’agguato in piena notte.
Fui io — aveva proseguito la donna — ad informare Fisichella che mi aveva telefonato, del fatto che mio marito si trovava a Bari. Non ebbi difficoltà a raccontargli che era andato lì per comperare dei cavalli: da dieci anni frequentava la nostra casa, spesso mangiava con noi, diceva di essere amico di Cosimo. Ma dal giorno della telefonata non si fece più vivo. Ormai aveva predisposto la trappola che qualche giorno dopo si sarebbe richiusa».
(Fisichella) aveva negato tutto: «Presidente, glielo giuro, non so di cosa stia parlando questa donna, non è vero che ci siamo mai conosciuti. È la prima volta che la vedo…».  E la Corte gli ha creduto.

 

 

 

Articolo del 12 novembre 1986 da ricerca.repubblica.it 
‘IO RISCHIO LA VITA, VOI LI ASSOLVETE’
di Giuseppe Cerasa

PALERMO Col volto bagnato di lacrime Pietra Lo Verso, moglie di Cosimo Quattrocchi, ucciso a piazza Scaffa, lancia accuse pesantissime contro la sentenza che assolve gli imputati della strage di Cortile Macello: Ecco come funziona la giustizia italiana, dice. Io ho rischiato molto e continuo a rischiare. Ho parlato, ho fatto nomi e cognomi, ma adesso su quel massacro scende nuovamente il silenzio. Si ricomincia da capo, non ci sono né assassini né mandanti. Da quando ieri sera guardando la tv ha appreso che la Corte d’ assise non aveva creduto alle sue accuse, Pietra Lo Verso non ha avuto più pace. Per lei è stato come se il marito fosse stato ucciso una seconda volta. E adesso seduta nel salotto buono della sua casa al quinto piano di una palazzina popolare continua la sua battaglia solitaria. Avevo fiducia nella giustizia. Ecco come sono stata ricambiata. Come si fa a non dare un nome agli assassini di otto padri di famiglia? Cosa volevano di più della mia deposizione? Forse pretendevano la mia morte? E’ vero, mi hanno minacciata, mi hanno consigliato di stare zitta, di non deporre al processo. E io ho voluto sfidare tutti, mi sono messa anche contro i miei figli che avrebbero preferito il silenzio. Ecco, ho voluto vincere la paura, ma i giudici non mi hanno ascoltata. Gli occhi di quella donna che si è seduta con coraggio davanti alla Corte d’ assise, che ha accettato di farsi riprendere dalle telecamere e di lanciare pubblicamente pesantissime accuse continueranno forse a turbare parecchie coscienze. Potrebbero anche oltrepassare i blocchi di cemento precompresso che difendono il bunker dove la settimana prossima riprenderà il processone a Cosa Nostra. Arrivando in quell’ aula dove i colpi di scena si susseguono a ritmo incessante. Adesso è il turno per esempio dei giurati popolari, che in una lettera hanno fatto sapere al ministro della Giustizia Virginio Rognoni che non possono più reggere il ritmo di un processo massacrante. In sostanza i giudici popolari chiedono la stipula di una polizza assicurativa speciale individuale ed estesa ai familiari in grado di coprire il rischio di morte, di invalidità permanente, con relativo rimborso spese mediche ed ospedaliere. La durata dovrebbe superare di dodici mesi la conclusione del processone contro Cosa Nostra. Lo stesso arco di tempo dovrebbe essere garantito per i servizi di scorta, da predisporre almeno per i giudici effettivi, anche dopo la lettura della sentenza. E infine nella lettera a Rognoni si chiede il pagamento con data retroattiva di una indennità speciale di rischio, non limitata ai soli giorni delle udienze, ma equiparata a quella dei giudici togati che viene calcolata su base mensile. Una lettera molto dettagliata, spedita un mese fa ma che ancora non ha ricevuto risposta. Non si può dire dunque che la sentenza che assolve i presunti mandanti della strage di piazza Scaffa sia arrivata nel momento migliore. E’ stata una doccia fredda che si aggiunge alle incertezze e ai timori che anche nel maxi processo contro Cosa nostra il castello di accuse messo assieme dai magistrati anti-mafia possa crollare sotto i colpi vigorosi sferrati in queste settimane. A Palermo la sentenza di piazza Scaffa è stata accolta con stupore, con meraviglia, con rancore. Se da un lato l’ avvocato Cristoforo Fileccia, difensore di Carmelo Zanca, (uno dei quattro presunti mandanti assolti dalla seconda sezione di Corte d’ assise) parla con orgoglio di scintilla in grado di illuminare la giustizia italiana in un momento di tanto grigiore, all’ ufficio istruzione e alla procura della Repubblica non si nasconde l’ amarezza e anche il timore che da piazza Scaffa possano partire reazioni a catena incontrollabili. E’ stato un colpo durissimo, ammette Leonardo Guarnotta, giudice istruttore del pool antimafia. Guarnotta non lo dice ma quella patente di non attendibilità rilasciata al pentito numero tre,Vincenzo Sinagra, potrebbe creare seri imbarazzi alla Corte d’ assise del maxi processo. Sinagra infatti nel corso delle sue altalenanti deposizioni sul massacro di piazza Scaffa ha messo i giudici nelle condizioni di valutare per la prima volta la credibilità del cosiddetto teorema Buscetta.

 

 

Articolo di La Repubblica del 13 Aprile 1988
L’ AGGUATO DI PIAZZA SCAFFA UNA STRAGE SENZA COLPEVOLI
di Umberto Rosso

PALERMO La strage di piazza Scaffa, la più feroce commessa a Palermo con otto morti, resta senza colpevoli. Anche nel processo d’appello i quattro imputati sono stati assolti. In un unico punto il verdetto pronunciato ieri dalla Corte di assise d’ appello si differenzia con quello emesso nel processo di primo grado: il commerciante catanese Antonino Fisichella, indicato dall’ accusa come il mandante del massacro, è stato scagionato per insufficienza di prove. Due anni fa venne assolto invece con formula piena. Confermata la sentenza per gli altri tre imputati: non hanno commesso il fatto, secondo la Corte presieduta da Antonio Saetta.

Un verdetto di innocenza piena dunque per il boss catanese Nitto Santapaola (latitante, condannato all’ ergastolo al maxiprocesso anche per il delitto Dalla Chiesa), per Carmelo Zanca (anche lui latitante, ritenuto esponente della cosca di corso dei Mille) e per Pietro Vernengo (rinchiuso all’ Ucciardone per l’ ergastolo inflittogli nel processone alla mafia). I giudici della I sezione della Corte d’ assise d’ appello non hanno ritenuto dunque fondate le richieste del Pg Domenico Signorino che per Santapaola e Fisichella aveva sollecitato la massima pena (per gli altri due l’accusa aveva chiesto l’ assoluzione). Non c’è nessun elemento, hanno stabilito dopo tre ore di Camera di consiglio, che indichi i due come gli organizzatori della notte di sangue del 18 ottobre di 5 anni fa.

Secondo la ricostruzione dell’ accusa Fisichella, un commerciante di carni catanese, era da ritenersi il mandante della spedizione punitiva. Movente dell’ agguato uno sgarro commesso dalla famiglia Quattrocchi: per acquistare i cavalli destinati alla macellazione si rivolsero ad un barese, provando a saltare l’ intermediazione del Fisichella. Per vendicarsi dell’affronto, sempre secondo le conclusioni cui erano giunti prima il Pm e adesso il Pg nel processo d’ appello, il commerciante si rivolse al boss Santapaola. Proprio il boss del clan dei catanesi avrebbe a questo punto organizzato il commando: il gruppo entrò in azione in una stalla all’ interno di cortile Macello, facendo fuori 4 componenti della famiglia Quattrocchi e altre 4 persone che in quel momento si trovavano lì per accudire i cavalli. Una carneficina portata a termine con l’ assenso dei boss palermitani della zona? Un’ ipotesi che anche il Procuratore generale Signorino aveva escluso nella sua requisitoria, chiedendo infatti l’ assoluzione per Zanca e Vernengo ritenuti personaggi non di primo piano nel territorio di corso dei Mille controllato invece da Filippo Marchese (ma del boss da molto tempo non si hanno più notizie).

La Corte, ieri, ha accolto questa lettura dei fatti, ma anche per gli altri due imputati non ha riscontrato elementi di colpevolezza. E tuttavia, in qualche modo, in questo secondo processo per la strage le accuse lanciate dalla vedova di Cosimo Quattrocchi hanno avuto un certo peso. Pietra Lo Verso ha puntato il dito anche stavolta contro Fisichella, indicandolo come il mandante del delitto. Ha parlato delle pressioni che avrebbe esercitato sul marito per impedirgli di sganciarsi dal suo giro. E la Corte, assolvendo ma per insufficienza di prove Fisichella, ha avanzato dei dubbi sull’ imputato probabilmente proprio in relazione alle dichiarazioni della vedova. Assolti infine, con formula piena, anche due imputati minori accusati di falsa testimonianza: Antonino La Torre (il fornitore barese di cavalli) e Biagio Amico.

 

 

 

Articolo del 13 aprile 1989 da  ricerca.repubblica.it
PALERMO, 4 ACCUSATI PER PIAZZA SCAFFA

PALERMO La squadra mobile di Palermo ha individuato i presunti sicari della strage di piazza Scaffa compiuta il 17 settembre del 1984, di altri cinque delitti e di un tentativo di omicidio. Sono il pentito Sinibaldo Figlia e Filippo Quartararo, entrambi di 31 anni, Pietro Senapa, di 40, e Salvatore Di Salvo, di 39. Del gruppo di fuoco, le cui vittime furono otto, avrebbe fatto parte anche il super-killer Mario Prestifilippo, poi assassinato in un agguato mafioso nel settembre dello scorso anno. Nei confronti dei quattro il giudice istruttore Ignazio De Francisci ha emesso mandato di cattura per omicidio e associazione per delinquere di stampo mafioso. Tre provvedimenti sono stati notificati in carcere a Figlia, Senapa e Quartararo, detenuti per altra causa; Di Salvo è stato arrestato ieri sera nella sua abitazione a Palermo. Un contributo notevole alle indagini è stato dato dalle rivelazioni di Sinibaldo Figlia, che hanno trovato riscontri nelle indagini svolte in questi mesi.

 

 

 

Articolo del 18 aprile 1989 da ricerca.repubblica.it
PRINZIVALLI SI DIFENDE ‘ NESSUN REGALO AI BOSS’

PALERMO Il giudice ci riceve nella sua piccola stanza dell’ aula bunker di Palermo. E’ una cella di pochi metri quadri, un po’ di luce filtra dal vetro blindato, il lettino dove ha dormito per i dodici giorni di camera di consiglio è incastrato sotto una libreria a muro. Buste di latte sugli scaffali, la scrivania coperta da carte e fascicoli, una mazzetta di giornali sopra la macchina per scrivere. Alle spalle del presidente di Corte di Assise Giuseppe Prinzivalli un foglietto bianco appeso alla parete. Buongiorno presidente, ci faccia dormire dolcemente che poi lavoreremo alcremente…. Il giudice sorride. Questa è una poesia, una poesia di una signora che faceva parte della giuria popolare. Sa, ogni tanto si lamentavano che li obbligavo a turni massacranti, che non li facevo dormire abbastanza…. Giuseppe Prinzivalli ha 58 anni e sembra quasi il sosia di Enzo Biagi. Me lo dicono tutti, qualche amico scherzando mi chiama anche Enzo…. Giuseppe Prinzivalli fa il magistrato da trent’ anni. E’ lui che ha cancellato con un colpo di spugna impalcature accusatorie che reggevano da dieci anni, che ha rivoluzionato con una sentenza tutte le teorie su Cosa nostra elaborate da Falcone e dai pool antimafia. Dottor Prinzivalli, un’ altra polemica sta montando, c’ è chi parla di una sentenza scandalosa. Voglio subito dire che sono abituato a certe cose. Anche dopo la sentenza sulla strage di piazza Scaffa (otto uomini uccisi in una stalla, assoluzioni a raffica nel processo presieduto dallo stesso Prinzivalli, ndr) si parlò di sentenza scandalosa, di una sentenza che era stata emessa in maniera inopportuna. Si disse tutto questo prima ancora che fossero depositate le motivazioni in cancelleria. Poi, però, i giudici di merito della Cassazione stabilirono che quella sentenza, per lo meno giuridicamente, era esatta. Il pubblico ministero del maxi-ter Gianfranco Garofalo dice che è disorientato, parla di un grosso regalo fatto ai mafiosi. Lei cosa risponde? Io non faccio regali a nessuno, tantomeno ai criminali. Penso che le reazioni del pubblico ministero, se sono davvero dello stesso tenore di quello che ho letto questa mattina su alcuni quotidiani, mi sembrano affrettate e irrituali. Mi sembrano dettate proprio dalla inesperienza giovanile del collega. Per oltre vent’ anni sono stato in un ufficio di Procura della Repubblica o di Procura generale e mai, dico mai, ho commentato una sentenza emessa dal tribunale o dalla Corte di Assise. Mi sono sempre limitato ad impugnare il provvedimento e poi a redigerne i motivi. Quando trent’ anni fa sono entrato in magistratura se avessi detto certe cose, come quelle che ha dichiarato il pubblico ministero, mi avrebbero cacciato all’ Ordine. Il Pm non avrebbe dovuto parlare? La sua è stata una dichiarazione a caldo, fatta prima del deposito delle motivazioni che chiariscono le ragioni per le quali la Corte ha condannato o prosciolto gli imputati. Mettendo in rilievo con tutte queste assoluzioni che l’ impalcatura del giudice istruttore non ha retto al sereno riscontro dibattimentale. Presidente, lei diceva che anche dopo la sentenza di piazza Scaffa ci furono polemiche. Sì, ci furono anche nel novembre del 1986, all’ indomani del processo di piazza Scaffa. Ricordo bene certi affrettati e irriflessivi commenti. Ma aspettate, vi leggo cosa ho scritto poi nelle motivazioni di quella sentenza: I semplici indizi e le presunzioni possono costituire spunti di prova solo quando siano diretta logica conseguenza di fatti oggettivi e univoci soltanto al processo. E ascoltate ancora: La prova deve essere verosimile, seria e inconfutabile e deve trovare conferma negli elementi di riscontro che le conferiscono carattere di certezza. In uno Stato di diritto il soggetto va sempre giudicato e punito per il comportamento tenuto, cioè per i fatti commessi, che costituiscono reati. E non per le qualifiche personali e le delazioni di terzi. Non può essere consentito al giudice lo stravolgimento delle regole probatorie da applicare solo ai processi di mafia. Questo è il suo pensiero, una linea che ha sempre coerentemente seguito. Lei dunque non crede ai pentiti? Io credo ai pentiti solo nel momento in cui ci sono dei riscontri e delle prove. Il processo si fa in giudizio, si fa al dibattimento. Il nuovo Codice eliminerà completamente la fase istruttoria e solo il dibattimento sarà la fede per valutare le prove. L’ opinione pubblica è disorientata. Ci sono giudici che chiedono 19 ergastoli e 900 anni di carcere ed altri che assolvono… Ma io non ho assolto tutti… ho dato 6 ergastoli e 307 anni di carcere. Il pubblico ministero e altri magistrati di Palermo sostengono che la sua sentenza minaccia il giudizio di appello del maxi processo 1. E’ vero, non è vero? Lo ripeto: quelle dichiarazioni del dottor Garofalo mi sembrano proprio irriflessive, soprattutto quando pongono in relazione la nostra sentenza con le decisioni di altri giudici. Ogni processo ha la sua struttura, ha le sue prove, i suoi riscontri. Aspettiamo le motivazioni, aspettiamole e poi vedrete che molti giudizi affrettati, già come è accaduto per il processo di piazza Scaffa, si ridimensioneranno. Cosa vuole dire esattamente? Il riscontro di quello che abbiamo fatto deve esserci soltanto nel giudizio di appello e poi in Cassazione. Saranno loro, e solo loro, a decidere se la corte che ho presieduto ha sbagliato o se ha esaminato bene le carte processuali. Io, da parte mia, non ho nulla da rimproverarmi. Insieme al giudice a latere, il collega Marino, ho portato avanti con rigore e professionalità questo processo. Abbiamo lavorato per un anno intero e la istruzione di questo dibattimento mi ha imposto anche la conoscenza del maxi 1 e del maxi 2. Insomma, sono arrivato all’ udienza con una visione unitaria di tutto il problema.
a b

 

 

 

Articolo del Corriere della Sera del 16 Marzo 1992 
Un signore dell’eroina accusato di 100 omicidi, condannato per uno solo
di Enzo Mignosi
Breve biografia del boss Vernengo Pietro evaso nell’ottobre scorso e arrestato ieri

PALERMO . Grandi traffici, grandi delitti, grandi parentele. C’era di tutto nella vita di Pietro Vernengo, uno dei padrini storici di Cosa nostra, cugino del pentito Mannoia, accusato di 100 omicidi e assolto da novantanove. Gli è rimasto solo un delitto piccolo piccolo, quello di un picciotto di borgata che aveva il brutto vizio di frequentare i commissariati. Si chiamava Antonino Rugnietta e fu strangolato nella camera della morte di piazzetta Sant’Erasmo da Pietro Vernengo e da Vincenzo Sinagra, altro ragazzotto del clan. Ma anziché essere disciolto nell’acido, come si usava in quegli anni di orrore, il cadavere venne chiuso nel baule di una 127 e lasciato davanti al comando della Guardia di Finanza. “Così finiscono i confidenti”, disse l’ anonimo che telefonò al centralino dei carabinieri. Mai Pietro Vernengo avrebbe potuto immaginare che Sinagra un giorno si sarebbe pentito delle sue malefatte e, con una clamorosa chiamata di correo, gli avrebbe rovinato la carriera di uomo d’onore perché dopo tanti processi, l’unica condanna che gli è piovuta addosso è riferita proprio all’omicidio di Rugnietta: un ergastolo nei due gradi del “maxi” diventato definitivo in Cassazione. E dire che a suo carico c’era roba ben più consistente: la strage Dalla Chiesa con tre morti, il massacro di piazza Scaffa con otto cadaveri, l’omicidio del medico legale Paolo Giaccone, del comandante dei carabinieri Mario D’Aleo, del poliziotto Lillo Zucchetto, di una ventina di amici e parenti del pentito Contorno e di un’infinita sequela di boss e gregari. Cento morti ammazzati, appunto, avevano contato i giudici istruttori che si erano soffermati anche su un ruolo del boss nel business dell’eroina. I laboratori della mafia erano controllati da Pietro e dal fratello Nino detto “u dutturi”. Come si scoprì nel febbraio dell’ 82, quando due villette di via Messina Marine furono circondate dai carabinieri arrivati con gazzelle ed elicotteri. Dentro, gli alambicchi e le attrezzature per la trasformazione della morfina, base in eroina. In quella occasione Pietro Vernengo si rese protagonista di una rocambolesca fuga: scappò per i tetti, saltò su un’auto e sparì. Fu bloccato dalla polizia il 29 giugno ’86 nel Golfo di Napoli su un motoscafo dove festeggiava il suo onomastico con gli amici della camorra. Una bella dinastia di mafia, quella dei Vernengo, presente in massa al maxiprocesso: ergastolo a Pietro, 16 anni al fratello Nino, 9 allo zio Cosimo, sei all’altro zio Ruggero, 8 e 6 anni a due cugini che portano lo stesso nome, Giuseppe. E poi parentele importanti: la moglie di Pietro Vernengo, Provvidenza Aglieri, e sorella di Giorgio, il cassiere della mafia morto suicida in carcere, e madre di Pietro detto “u signorino”, il killer tirato in ballo da una telefonata anonima per l’omicidio di Lima.

 

 

 

 

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