19 Luglio 1992 Palermo. Strage di Via D’Amelio. Un’autobomba uccide il magistrato Paolo Borsellino ed i suoi agenti di scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Il sesto agente della scorta, Antonio Vullo, ed altre 23 persone rimasero gravemente ferite.

composizione fotografica di: Dedicato alle vittime delle mafie

19 Luglio 1992, Palermo, in Via D’Amelio, un’autobomba uccide il magistrato Paolo Borsellino ed i suoi agenti di scorta:
Agostino CatalanoWalter Eddie Cosina  – Vincenzo Li MuliClaudio TrainaEmanuela Loi

Foto da tifeoweb.it

I cinque agenti erano, insieme ad un sesto poliziotto, i componenti della scorta del Procuratore Aggiunto di Palermo Paolo Borsellino che stavano accompagnado in visita a casa della madre.

Una auto carica di tritolo, posteggiata nella via venne fatta esplodere da uomini della mafia, dilaniando il giudice Borsellino, Catalano, Traina, Li Muli, Cosina e Loi. Il sesto agente della scorta ed altre 23 persone rimasero gravemente ferite.

L’attentato fu deciso dalla “Cupola” di Cosa Nostra, decisa ad eliminare Paolo Borsellino, il principale ostacolo ai traffici mafiosi rimasto dopo l’assassinio del giudice Giovanni Falcone, ucciso il 23 maggio dello stesso anno insieme alla moglie ed agli agenti Di Cillo, Montinaro e Schifani, componenti della sua scorta, sull’autostrada Palermo Trapani da una bomba della mafia.

Mandanti ed esecutori della strage vennero individuati ed arrestati nei mesi seguenti e successivamente condannati all’ergastolo.

L’assistente capo Agostino Catalano, 43 anni, vedovo, lasciò due figli. Appena poche settimane prima aveva salvato un bambino che stava per annegare in mare, dinanzi alla spiaggia di Mondello.

L’agente scelto Walter Eddie Cosina, 31 anni, era giunto volontariamente a Palermo alcune settimane prima, subito dopo la strage di Capaci, proveniente dalla Questura di Trieste.

L’agente Claudio Traina, 27 anni, era sposato e padre di un bimbo in tenera età.

L’agente Emanuela Loi, 24 anni, lasciò i genitori, una sorella ed un fratello ed il fidanzato. Fu la prima agente donna della Polizia di Stato a venire uccisa in servizio.

L’Agente Vincenzo Li Muli, 22 anni, lasciò i genitori ed i fratelli.

Nella strage di Via D’Amelio la Polizia di stato subì le perdite più pesanti dal 1945.

Fonte:   cadutipolizia.it

 

 

Foto da cadutipolizia.it

Articolo da tifeoweb.it 
EMANUELA LOI E GLI ALTRI ANGELI DELLA SCORTA
di Andrea Doi

Era stata assegnata al nucleo scorte di Palermo dopo la strage di Capaci dove venne ucciso Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvilio, gli agenti Rocco Di Cillo, Vito Schifani e Antonio Montanaro. Emanuela Loi aveva 24 anni quando morì in via D’Amelio. Era nata e cresciuta a Sestu, paese a pochi chilometri da Cagliari. Amava la sua terra e il suo sogno di essere una poliziotta.

Quando arrivò a Palermo disse: “Se ho scelto di fare la poliziotta non posso tirarmi indietro. So benissimo che fare l’agente di polizia in questa città è più difficile che nelle altre, ma a me piace”. E’ la prima donna ad entrare a far parte di una scorta assegnata ad obiettivi a rischio.

La sua storia ha ispirato il bellissimo film di Rocco Cesareo “Gli angeli di Borsellino”. Una pellicola che parla della scorta QS e racconta tutti i 57 giorni che vanno dalla strage di Capaci a quella di via D’Amelio. Il regista e gli sceneggiatori Ugo Barbara, Mirco Da Lio, Massimo Di Martino e Paolo Zucca sono partiti dal libro La ragazza poliziotto scritto dal giornalista palermitano Francesco Massaro pochi mesi dopo la strage di Via D’Amelio, in cui veniva delineato il personaggio di Emanuela Loi. Emanuela stava per sposarsi. Ora in Sardegna molte scuole portano il suo nome e Sestu ogni anno ricorda Emanuela, una delle sue figlie.

 

 

Quel giorno con Emanuela Loi e il magistrato morirono:

(Foto da cadutipolizia.it)

 

Agostino Catalano, capo scorta, 43 anni. Sposato, aveva perso la moglie ed era rimasto solo con i suoi figli.

 

 

 

Walter Eddie Cosina, 30 anni. Era nato in Australia. Morto durante il trasporto in ospedale. Lasciava la moglie Monica.

 

 

 

Vincenzo Li Muli, 22 anni. Il più giovane della pattuglia. Da tre anni nella Polizia di Stato, aveva ottenuto pochi mesi prima la nomina ad agente effettivo.

 

 

 

Claudio Traina 26 anni. Arruolato in Polizia giovanissimo, dopo essere stato a Milano e Alessandria, aveva ottenuto da poco il trasferimento nella sua città: Palermo.

 

 

 

Invece, Antonio Vullo, 32 anni, agente, sposato e padre di un figlio è l’unico riuscito a sopravvivere alla strage. Mentre i suoi colleghi si stringevano attorno al magistrato, Vullo parcheggiava la macchina poco distante.

 

 

Puntata integrale La Storia Siamo Noi

57 giorni a Palermo    –   La scorta di Paolo Borsellino

A diciassette anni dalla strage che a Palermo uccise il giudice Paolo Borsellino, la vedova Agnese, in esclusiva per La Storia Siamo Noi, rompe il silenzio per ricordare gli angeli di suo marito Paolo, la scorta che perse la vita insieme al Giudice.

I 57 giorni sono quelli che separano la strage Falcone da quella Borsellino, a sottolineare quanto, dopo Capaci, il delitto Borsellino fosse annunciato. La cosa che emerge con più forza è come il giudice si preparasse alla morte, cercando pure di attardarsi da solo per dare la possibilità agli assassini di ucciderlo senza coinvolgere la scorta. Invece furono in cinque a cadere in via D’Amelio, dove una Fiat 126 imbottita di tritolo esplose nel momento in cui il giudice bussava al citofono della madre.

 

 

 

Puntata integrale La Storia Siamo Noi

Paolo Borsellino

La Storia del Magistrato ucciso dalla mafia

Puntata di Gianluigi De Stefano

Paolo Borsellino nasce a Palermo nel 1940. A soli ventitré anni vince il concorso in magistratura e diventa il più giovane magistrato d’Italia. All’inizio si occupa solo di cause civili, poi passa al penale. A trentanove anni il suo nome balza all’onore delle cronache: Borsellino compare sui giornali per un’inchiesta sui rapporti tra mafia e politica nella gestione degli appalti pubblici. È il 1980, l’anno in cui Cosa nostra cambia volto: ai vecchi uomini d’onore si sostituiscono i sanguinari corleonesi capitanati da Totò Riina.

Il pool antimafia
Nel 1980 Paolo Borsellino inizia a collaborare con Rocco Chinnici, procuratore capo di Palermo. È un incontro importantissimo nella vita del magistrato. Come racconta Rita Borsellino, sorella del giudice: “In Chinnici Paolo trova la figura paterna che aveva perso quando era giovane”. E proprio l’umanità, il rispetto reciproco e l’affiatamento sono le caratteristiche della straordinaria squadra di magistrati messa insieme da Chinnici: nasce il pool antimafia con l’obiettivo di combattere Cosa Nostra con metodi nuovi e più efficaci.

Proprio grazie al lavoro del pool, finalmente la mafia non sembra più un fenomeno invincibile. Chinnici ha l’intuizione giusta: indirizzare le indagini verso le attività finanziarie di Cosa nostra. I magistrati del pool si concentrano sugli appalti e sui conti bancari. Che la strada è quella giusta lo dimostra le reazione della mafia.
Il 30 aprile del 1982 sono assassinati il deputato comunista Pio la Torre e il suo autista Rosario Di Salvo. Lo stesso giorno, il ministro degli Interni, Virgilio Rognoni, decide di passare al contrattacco, inviando a Palermo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. È l’uomo che ha sgominato le Brigate Rosse, il generale dei carabinieri che ha combattuto per lo Stato e ha vinto. Dalla Chiesa arriva la sera stessa dell’omicidio La Torre e solo dopo cento giorni sarà lui la nuova vittima dalla mafia: il 3 settembre del 1982 infatti la sua A112 viene crivellata a colpi di mitra e con lui perdono la vita la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.

La scia di sangue lasciata da Cosa nostra è sempre più lunga. Prima di La Torre e Dalla Chiesa altri uomini sono caduti sulla strada della giustizia: Boris Giuliano, Gaetano Costa, Cesare Terranova e Emanuele Basile. La mafia ha ormai alzato il tiro e a Roma il Parlamento approva la legge Rognoni-La Torre che istituisce il reato di associazione mafiosa e fornisce ai giudici gli strumenti per indagare sui conti bancari. Ancora una volta la reazione mafiosa è violentissima: il 29 luglio 1983, in via Pipitone Federico, a Palermo, viene assassinato Rocco Chinnici.
Borsellino e gli uomini del pool si sentono colpiti nel profondo e chiedono al Consiglio Superiore della Magistratura che venga mandato al posto di Chinnici un uomo che abbia profonda conoscenza del fenomeno mafioso. Così Antonino Caponnetto diventa il nuovo Consigliere istruttore di Palermo.

Il maxi processo
Con Caponnetto arrivano i primi risultati eclatanti per il pool. La chiave di volta è un uomo di Cosa nostra, Tommaso Buscetta. Il mafioso viene arrestato nel 1984 in Brasile ed è Giovanni Falcone a interrogarlo e convincerlo a rivelare nomi e fatti. Le confessioni di Buscetta sono un colpo fortissimo per la mafia. Paolo Borsellino e Giovanni Falcone possono istruire il più grande processo contro Cosa nostra.

Il 10 febbraio del 1986 l’attenzione del Paese si concentra sull’aula bunker; da una parte ci sono gli uomini simbolo del pool, Falcone e Borsellino, dall’altra, dietro le sbarre, ci sono 475 imputati. Le rivelazioni di Buscetta hanno permesso di scoperchiare “la cupola”, il vertice di Cosa nostra. Il numero degli imputati è così elevato che è stato necessario costruire accanto al carcere dell’Ucciardone una costruzione collegata da corridoi interni alla prigione in modo che gli imputati siano trasferiti in massima sicurezza. Migliaia di carabinieri e poliziotti sono inviati a Palermo per l’occasione e la Corte giudicante è formata da un numero doppio di membri perché si teme che qualcuno possa essere ucciso durante il processo.

Il presidente è Alfonso Giordano e il processo dura 22 mesi, alla fine dei quali La Corte dà ragione in modo inequivocabile al pool antimafia. Il maxi processo si conclude il 16 dicembre del 1987 con sentenza della Corte di Assise che commina diciannove ergastoli a tutti i componenti della cupola e 2665 anni di carcere ad altri 339 imputati. Cinque anni dopo la Cassazione conferma la sentenza.

“Il pool deve morire davanti a tutti”
A Palermo intanto le cose stanno cambiando e il 16 dicembre del 1987 Caponnetto deve lasciare il pool per motivi di salute. Il suo erede naturale dovrebbe essere Giovanni Falcone, ma il 19 gennaio del 1988 il CSM designa come capo ufficio istruzione Antonio Meli. Per Paolo Borsellino è una decisione intollerabile. Il magistrato decide così, il 20 luglio del 1988, di rilasciare due interviste, a “L’Unità” e a “La Repubblica”, che sconvolgono l’opinione pubblica e colpiscono per la fermezza delle sue accuse: “Fino a qualche mese fa tutto quello che riguardava Cosa nostra passava sulla scrivania di Giovanni Falcone – dichiara Borsellino sulle pagine de “La Repubblica” – Ora, dopo un tiro e molla di qualche mese, Meli è diventato titolare del maxi processo. Dubito che il nuovo consigliere possa in un paio di mesi aver acquisito una tale conoscenza del fenomeno mafioso. Al posto di Meli si doveva nominare Falcone per garantire la continuità dell’ufficio. Intanto Cosa nostra si è organizzata come prima, più di prima … Ci sono tentativi seri per smantellare definitivamente il pool antimafia dell’ufficio istruzione e della procura di Palermo. Stiamo tornando indietro come dieci o venti anni fa”.

Poco prima di morire, il 25 giugno del 1992, alla biblioteca pubblica di Palermo, ultimo incontro pubblico del magistrato, Paolo Borsellino spiega perché aveva rilasciato quell’intervista: “Rischiai conseguenze professionali gravissime. E forse questo lo avevo messo nel conto. Mi dissi che almeno l’opinione pubblica deve sapere e conoscere. Il pool deve morire davanti a tutti”.

23 maggio 1992: la strage di Capaci
Sono circa le 18 del 23 maggio 1992 e il giudice Giovanni Falcone, direttore degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, è da poco atterrato all’aeroporto di Punta Raisi con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato. La sua auto e quella della scorta si dirigono verso Palermo. All’altezza di Capaci una tremenda esplosione di 5 quintali di tritolo uccide il magistrato simbolo della lotta alla mafia, sua moglie Francesca e tre uomini della scorta: Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo.

19 luglio 1992: la strage di via D’Amelio
Cosa nostra decide che è arrivato il turno di Borsellino. Il boss Totò Riina incarica uno dei suoi uomini, Salvatore Biondino, che a sua volta si rivolge a uomini d’onore legati a Bernardo Provenzano. Le due ali di Cosa nostra si dividono le responsabilità, allineate sullo stesso fronte. In quei giorni Borsellino è in Puglia per una conferenza e viene a sapere, da un’informativa del Ros, che a Palermo è arrivato il tritolo per ucciderlo. In via D’Amelio abita la madre del giudice. È una strada perfetta per piazzare un’autobomba perché è senza uscita. Gli abitanti della zona avevano chiesto più volte che fossero presi dei provvedimenti, impauriti dall’arrivo delle auto blindate del magistrato e gli stessi uomini della scorta avevano fatto presente la situazione. Ma nulla era stato fatto.

La mattina del 19 luglio del 1992 Paolo Borsellino è a Villagrazia di Carini, località in cui la sua famiglia passa le vacanze nella casa al mare. Il magistrato decide però di rientrare a Palermo per fare visita alla madre. A Villagrazia, di guardia, c’è Biondino che controlla i suoi spostamenti. Il mafioso avverte i killer già posizionati in via D’Amelio di tenersi pronti. “Mia madre era in casa da sola e fece in tempo a sentire le sirene delle macchine che si avvicinavano e poi scoppiò il finimondo”, ricorda Rita Borsellino.
Antonino Caponnetto, accorso sul luogo, riesce a dire solo: “È finito tutto”. Insieme a Paolo Borsellino vengono assassinati gli agenti di scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cusina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. Nel corso dei vari processi fino ad oggi celebrati sono stati condannati in via definitiva 47 persone, 25 delle quali all’ergastolo. Tra queste: Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Giuseppe Graviano, Carlo Greco e Salvatore Profeta.

 

 

 

Articolo del Corriere della Sera del 21 Luglio 1992
L‘ agente superstite: ” vivo per miracolo ”
di Giorgio Petta
Parla Vullo Antonio 32 anni, l’unico componente della scorta sopravvissuto all’esplosione di via D’Amelio perché era andato a parcheggiare.
Parla l’ unico componente della scorta sopravvissuto all’esplosione di via D’Amelio perché era andato a parcheggiare – Invece  è morto per caso Agostino Catalano, vedovo da poco, normalmente in servizio per padre Sorge.

PALERMO . “E’ stato troppo brutto: quello che e’ successo due mesi fa si e’ ripetuto”. Antonio Vullo, 32 anni, l’agente scampato alla strage che e’ costata la vita al procuratore aggiunto Paolo Borsellino e ad altri quattro suoi colleghi, e’ ricoverato per controlli al reparto di chirurgia generale dell’ ospedale “Villa Sofia”. Accanto c’ e’ la moglie Maria Letizia Maone, 29 anni, sposata lo scorso anno e dalla quale ha avuto un figlio. I medici hanno dichiarato il poliziotto fuori pericolo, ma nei suoi occhi si legge ancora il terrore di quanto ha visto appena una decina di ore prima. “Stavo parcheggiando l’ automobile – racconta – un po’ meglio rispetto a come era sistemata, procedendo in retromarcia. La manovra mi ha salvato. Quando la bomba e’ esplosa, ho visto una gran fiammata, ma non ho sentito alcun boato. Dentro l’ abitacolo sono sobbalzato, poi ho visto fiamme e distruzione ovunque. Appena sono uscito dall’ auto, mi sono subito reso conto di cio’ che era successo. Ho avuto la fortuna di uscire dalla “Croma” illeso”. Nonostante lo scampato pericolo, Antonio Vullo non ha perduto nulla della sua “combattivita’ “. E se la prende in particolare con il sistema giudiziario, che consente cose inammissibili per lui: “Bisogna continuare a lottare – dice – ma lottare bene, cambiando le leggi che sono troppo garantiste. Altrimenti non possiamo andare avanti”. Da due mesi nella scorta del giudice ucciso, Vullo fornisce un particolare importante. Sostiene che “era la prima domenica che Borsellino andava a trovare la madre. Probabilmente in altri turni andava a farle visita, ma non si sapeva quando lui faceva qualcosa”. Maria Letizia Maone racconta le sue ore d’ angoscia, ancora con le lacrime agli occhi: “Ero a casa di mia madre. Poi mi ha telefonato mia suocera. Subito dopo ho ricevuto la telefonata di Antonio dal pronto soccorso dell’ ospedale. Mi ha detto di non preoccuparmi. Ma io, con il cuore in gola, sono subito andata in ospedale. Da ieri sono qui, accanto a lui e ringrazio ancora il Cielo”. Diverso il clima davanti all’ istituto di medicina legale del Policlinico. I familiari dei palermitani Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Agostino Catalano – gli agenti uccisi dalla bomba insieme con Walter Eddie Cosina ed Emanuela Loi – dopo una notte trascorsa a piangere e disperarsi, non hanno piu’ lacrime. I familiari di Traina e Li Muli sono andati già via a mezzogiorno. Ma i fratelli e gli amici di Agostino Catalano sono ancora li’ , pazienti, sotto il sole che picchia sulla testa, ad aspettare la consegna dei poveri resti del congiunto e dell’ amico. Vogliono tutti bene ad Agostino, parenti, amici e colleghi, come se fosse ancora vivo, tra loro. “Un ragazzo d’oro – racconta il fratello Salvatore – che per garantire qualche lira in piu’ alla propria famiglia aveva cominciato a fare le scorte, a guadagnare quella miseria di straordinario che spesso gli veniva pure dimezzato quando superava il tetto delle ore consentite”. E racconta la sua storia di dolori e sacrifici. Sposato con Maria Pace, il 23 ottobre dell’ 89 Agostino Catalano era rimasto vedovo. La moglie era morta per un tumore, lasciandolo con tre ragazzi, Emanuele, Emilia e Rosalinda, che oggi hanno rispettivamente 20, 17 e 12 anni. “Fu un periodo molto duro per lui – dicono quasi in coro i fratelli Salvatore, Tommaso e Giuseppe – con tre figli e una casa da mandare avanti e il lavoro di poliziotto. Ma lui continuava imperterrito, sempre buono e sereno, incoraggiando addirittura noi a resistere, perche’ era lui che dava forza alla famiglia e i suoi bambini erano i nostri. Siamo una famiglia forte e unita noi Catalano e resteremo forti e uniti, come sempre”. Agostino Catalano e’ morto per caso. “Faceva parte della scorta di padre Sorge – continua il fratello Salvatore – ed era in ferie quando lo hanno chiamato per raggiungere un numero sufficiente per la scorta di Borsellino. E lui non ha detto no. Il 15 settembre doveva partire per il corso di sottufficiale”. Per dare una madre ai suoi tre figli, Agostino Catalano circa un anno fa si era risposato con Maria Fontana. “Sembrava che la felicita’ fosse ritornata in casa sua”, continua Salvatore Catalano. Sempre disponibile, sempre pronto ad aiutare il prossimo, come quel dodicenne che stava annegando nel mare di Mondello appena un mese addietro e che lui aveva salvato con la respirazione bocca a bocca. “Ma non lo aveva abbandonato . racconta ancora Salvatore . e si stava prodigando per aiutarlo a superare lo choc con l’ aiuto di uno psicologo suo amico”.

 

 

 

Intervista a Paolo Borsellino
Frammenti dell’intervista rilasciata da Paolo Borsellino a Lamberto Sposini nel 1992

 

 

Film trailer
GLI ANGELI DI BORSELLINO – SCORTA QS21

Uscito il 21 novembre 2003
Regia: Rocco Cesareo
Tratto dal libro di Francesco Massaro
“LA RAGAZZA POLIZIOTTO. STORIA DI EMANUELA LOI.”

 

 

 

Fonte: 19luglio1992.com
L´ultima lettera di Paolo Borsellino
di Salvatore Borsellino

Questa è l’ultima lettera di Paolo Borsellino, scritta alle 5 del mattino del 19 Luglio 1992, dodici ore prima che l’esplosione di un’auto carica di tritolo, alle 17 dello stesso giorno, davanti al n.19 di Via D’Amelio, facesse a pezzi lui e i ragazzi della sua scorta.
Paolo si alzava quasi sempre a quell’ora. Con quella sua ironia che riusciva a sdrammatizzare  anche la morte, la sua morte annunciata, diceva che lo faceva “per fregare il mondo con due ore di anticipo” e quella mattina cominciò a scrivere una lettera alla preside di un liceo di Padova presso il quale avrebbe dovuto recarsi a Gennaio per un incontro al quale non si era poi recato per una serie di disguidi e per i suoi impegni che non gli davano tregua.

La faida di Palma di Montechiaro che Paolo cita nella lettera la ricordo bene.
A Capodanno dello stesso anno ero con lui ad Andalo, nel Trentino dove avevamo passato insieme il Natale, per la prima volta da quando, nel 1969, ero andato via dalla Sicilia, ed avevamo deciso di ritornare passando per Innsbruck che avevamo entrambi voglia di visitare insieme con le nostre famiglie.
Non fu possibile perchè Paolo ricevette la notizia della strage di mafia che c’era stata a Palma di Montechiaro e dovette rientrare di fretta in Sicilia.
Fu l’ultima volta che vidi Paolo, da allora fino alla strage del 19 luglio ci sentimmo solo qualche volta al telefono e quando, dopo la sua morte, vidi le sue foto successive alla morte di Giovanni Falcone mi sembrò che in poco più di sei mesi fosse invecchiato di 10 anni.
La lettera è da leggere parola per parola, pensando proprio che sono le ultime parole di Paolo.
Quando dice che non riusciva in quei giorni neanche a vedere i suoi figli penso a quello che mi disse mia madre dopo la sua morte: le aveva confidato che non faceva più le coccole a Fiammetta la sua figlia più piccola e che stava cercando di allontanarsi affettivamente dai suoi figli perchè soffrissero di meno nel momento in cui lo avrebbero ucciso.
E che quel giorno lo avrebbero ucciso Paolo lo doveva quasi presagire, sapeva che a Palemo era già arrivato il carico di tritolo per lui. Lo sapeva anche il suo capo, Pietro Giammanco, che non gli aveva però riferito dell’informativa che gli era arrivato a questo proposito e Paolo, che invece lo aveva saputo per caso all’aeroporto dal ministro Scotti, aveva avuto con lui uno scontro violento.
Uno scontro che Paolo ebbe con Giammanco anche la mattina del 19 Luglio, quando quest’ultimo gli telefonò alle 7 del mattino, cosa che fino allora non era mai successa.
Forse anche Giammanco sapeva che quello era l’ultimo giorno di Paolo e per questo gli comunicò che gli aveva finalmente concessa la delega per indagare sui processi di mafia in corso di istruttoria a Palermo. Delega che avrebbe permesso a Paolo di interrogare senza più vincoli il pentito Gaspare Mutolo che in quei giorni aveva cominciato a rivelare le collusioni tra criminalità organizzata, magistratura, forze dell’ordine e servizi segreti.
Racconta la moglie di Paolo che Giammanco gli disse: “Ora la partita è chiusa” e Paolo gli rispose invece urlando “No, la partita comincia adesso”.
Dopo quella telefonata Paolo non scrisse più niente sul foglio e la lettera rimase incompiuta sul numero 4), dopo gli altri tre punti nei quali Paolo, rispondendo a delle domande postegli dai ragazzi del liceo, ci da tra l’altro, in maniera estremamente semplice e chiara, come solo lui era in grado di fare, una definizione della mafia che bisognerebbe  che tutti conoscessero e che fosse insegnata nelle scuole.
Dieci ore dopo un telecomando azionato da una stanza di un centro dei Servizi Segreti Civili, il SISDE, ubicato sul castello Utveggio, poneva fine alla vita di Paolo ma non riusciva ad ucciderlo, oggi Paolo è più vivo che mai, è vivo dentro ciascuno di noi e il suo sogno non morirà mai.


“Gentilissima” Professoressa,
uso le virgolette perchè le ha usato lei nello scrivermi, non so se per sottolineare qualcosa e “pentito” mi dichiaro dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli studenti del suo liceo per la mia mancata presenza all’incontro di Venerdì 24 gennaio.
Intanto vorrei assicurarla che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico (suppongo quello della Procura di Marsala) non foss’altro perchè a quell’epoca ero stato già applicato per quasi tutta la settimana alla Procura della Repubblica presso il Trib. di Palermo, ove poi da pochi giorni mi sono definitivamente insediato come Procuratore Aggiunto.
Se le sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero di telefono presso la Procura di Palermo è 091/***963, utenza alla quale rispondo direttamente.
Se ben ricordo, inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due volte a Roma nella stessa settimana e, nell’intervallo, mi sono trattenuto ad Agrigento per le indagini conseguenti alla faida mafiosa di Palma di Montechiaro.
Ricordo sicuramente che nel gennaio scorso il dr. Vento del Pungolo di Trapani mi parlò della vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità, che diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi affligevano. Mi preanunciò che sarei stato contattato da un Preside del quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito nessuno.
Il 24 gennaio poi, essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi disse di aver sentito alla radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò quale mezzo avessi usato per rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii che era stato “comunque” preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda non ebbi proprio il tempo di dolermene perchè i miei impegni sono tanti e così incalzanti che raramente ci si può occupare di altro.
Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente e non affidarsi ad intermediari di sorta o a telefoni sbagliati..
Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perchè frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente perchè dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati.

Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande.

1) Sono diventato giudice perchè nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribilie per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso.
Fui fortunato e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’ vero che nel 1975 per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali, ma otteni l’applicazione, anche se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle dispute legali, delle divisioni erediatarie etc.
Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Comm. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di infanzia Giovani Falcone e sin dall’ora capii che il mio lavoro doveva essere un altro.
Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi.
Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressocchè esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista perchè vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarantanni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta.

2) La DIA è un organismo investigativo formato da elementi dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza e la sua istituzione si propone di realizzare il coordinamento fra queste tre strutture investigative, che fino ad ora, con lodevoli ma scarse eccezioni, hanno agito senza assicurare un reciproco scambio di informazioni ed una auspicabile, razionale divisione dei compiti loro istituzionalmente affidati in modo promiscuo e non codificato.
La DNA invece è una nuova struttura giuridica che tende ad assicurare soprattutto una circolazione delle informazioni fra i vari organi del Pubblico Ministero distribuiti tra le numerose circoscrizioni territoriali.
Sino ad ora questi organi hano agito in assoluta indipendenza ed autonomia l’uno dall’altro (indipendenza ed autonomia che rimangono nonostante la nuova figura del Superprocuratore) ma anche in condizioni di piena separazione, ignorando nella maggior parte dei casi il lavoro e le risultanze investigative e processuali degli altri organi anche confinanti, e senza che vi fosse una struttura sovrapposta delegata ad assicurare il necessario coordinamento e ad intervenire tempestivamente con propri mezzi e proprio personale giudiziario nel caso in cui se ne ravvisi la necessità.

3) La mafia (Cosa Nostra) è una organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente strutturata, che si contraddistingue da ogni altra per la sua caratteristica di “territorialità”. Essa e suddivisa in “famiglie”, collegate tra loro per la comune dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono ad esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, deve esercitare, leggittimamente, lo Stato.
Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio principalmente con l’imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l’accaparramento degli appalti pubblici, fornendo nel contempo una serie di servizi apparenti rassembrabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro etc, che dovrebbero essere forniti esclusivamente dallo Stato.
E’ naturalmente una fornitura apparente perchè a somma algebrica zero, nel senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela dalle altre forme di criminalità (storicamente soprattutto dal terrorismo) è fornita attraverso l’imposizione di altra e più grave forma di criminalità. Nel senso che il lavoro è assicurato a taluni (pochi) togliendolo ad altri (molti).
La produzione ed il commercio della droga, che pur hanno fornito Cosa Nostra di mezzi economici prima impensabili, sono accidenti di questo sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione.
Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perchè venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale.
Alle altre organizzazioni criminali di tipo mafioso (camorra, “ndrangheta”, Sacra Corona Unita etc.) difetta la caratteristica della unitarietà ed esclusività. Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra. ma non hanno l’organizzazione verticistica ed unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore del “consenso” di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di questo tende a confondersi.

4)

 

 

 

 

L’agenda rossa di Paolo Borsellino
Roma, 26 settembre 2009. Scende in piazza il popolo delle agende rosse, guidato da Salvatore Borsellino.
Video a cura di Paolo Dimalio e Irene Buscemi

 

 

 

Articolo del 20 Giugno 2012 da palermo.repubblica.it
Via al nuovo processo Borsellino
alla sbarra il pentito Tranchina
di ROMINA MARCECA

E’ il collaboratore che ha riscritto l’eccidio di via D’Amelio insieme con Gaspare Spatuzza: verrà processato per concorso in strage. I familiari delle vittime parte civile

PALERMO – È il pentito che ha riscritto insieme con Gaspare Spatuzza la strage di via D’Amelio. Fabio Tranchina, ex autista del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, verrà processato con rito abbreviato per concorso in strage e sarà giudicato per il suo ruolo nell’eccidio del 19 luglio del 1992, in via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Lo ha deciso il gip di Caltanissetta, Lirio Conti, che ha accolto la richiesta dell’avvocato Monica Genovese e ha anche ammesso la costituzione di parte civile dei familiari delle vittime. In aula a rappresentare l’accusa ieri c’erano i sostituti della Dda nissena Nicolò Marino e Stefano Luciani.

Chiedono il risarcimento dei danni Maria Petruccia Dos Santos, compagna dell’agente Claudio Traina, e i familiari Dario Traina, Grazia Asta, Luciano Traina e Giuseppa Filomena, ma anche Angela, Alessandro, Tiziana e Mariano Li Muli, familiari dell’agente Fabio Li Muli, e poi Maria Claudia Loi, sorella di Emanuela Loi, Nella Cosliani e Oriana Cosina, parenti dell’agente Walter Cusina, e infine Emanuele, Rosalinda, Giulia, Emilia, Rosa Catalano, Salvatore, Giuseppa, Emilia Incandela e Giuseppe Gioè, i familiari di Agostino Catalano. Parte civile si è costituito
anche Antonino Vullo, l’unico agente di scorta sopravvissuto alla strage. Si trovava dentro alla blindata che stava parcheggiando poco distante dal condominio di via D’Amelio.

I familiari dei cinque agenti della scorta sono rappresentati dagli avvocati Roberto Avellone, Mimma Tamburello, Fabrizio Genco e Giuseppe Ferro.
Nell’elenco delle parti civili mancano solo i nomi dei figli e della moglie del giudice Borsellino che hanno deciso di non partecipare al processo.
L’avvocato Monica Genovese, legale dell’imputato, ha prodotto alcune sentenze già passate in giudicato, tra le quali quella per associazione mafiosa, e alcuni verbali relativi agli interrogatori resi da Tranchina agli inquirenti. Documentazione che valorizzerebbe l’apporto collaborativo di Fabio Tranchina. Il Gip ha anche accolto la richiesta avanzata dalla difesa di ascoltare nella prossima udienza, già fissata per il 18 ottobre, il collaboratore. Da decidere, e questo si saprà solo ad ottobre, se il collaboratore sarà sentito in aula o in videoconferenza. Tranchina si trova agli arresti domiciliari in una località protetta nella quale lo ha raggiunto anche la sua compagna.

Non è escluso, visto il rinvio a lungo termine, che il giudice decida di ricongiungere le posizioni di Tranchina, Spatuzza e di altri imputati.
La decisione di collaborare e le dichiarazioni di “Capello fermo”, il nomignolo affibbiato a Tranchina, 41 anni, assieme a quelle di Spatuzza, hanno portato il pool della Dda nissena a far riaprire le indagini su via D’Amelio.

Tranchina, che ha avuto un ruolo anche nel sequestro e nell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, omicidio per il quale ha anche chiesto
perdono alla famiglia del bambino, secondo l’accusa, avrebbe comprato il telecomando utilizzato per fare esplodere l’autobomba sotto casa della madre del magistrato e avrebbe accompagnato Graviano in via D’amelio per alcuni sopralluoghi poco prima della strage.
Ma c’è un’altra certezza, secondo la nuova inchiesta: il telecomando fu azionato dal boss Giuseppe Graviano, che era nascosto dietro al muro del giardino di via D’Amelio. L’ha rivelato proprio Tranchina, che è arrivato alla collaborazione con i magistrati nel maggio del 2011 dopo le rivelazioni di Gaspare Spatuzza, e dopo avere tentato il suicidio due volte.

“Più volte Graviano prima mi fece passare da via D’Amelio riaccompagnandolo e io non capivo  –  ha ricostruito il collaboratore nelle sue precedenti dichiarazioni  –  cosa dovesse vedere. Poi, mi chiese di trovargli un appartamento in via D’Amelio, ed infine, visto che non l’avevo trovato, ebbe a dirmi che allora si sarebbe messo comodo in giardino”.

 

 

 

Articolo del 18 Luglio 2013 da espresso.repubblica.it
Via D’Amelio, ancora troppi misteri
di Arianna Giunti
L’unico agente sopravvissuto alla strage mafiosa che il 19 luglio 1992 uccise il giudice e cinque uomini della scorta, Antonio Vullo,  è stato chiamato a deporre come primo testimone nel processo iniziato lo scorso marzo. ‘Sono sopravvissuto, ma non l’ho mai considerata una fortuna: i ricordi sono tutti lì’

Il giudice tira fuori dal pacchetto una sigaretta, l’ennesima della giornata. Il sole batte sull’asfalto e rende molle il cemento. Fa in tempo ad aspirare una sola boccata, sulle labbra ha impresso un sorriso, alza l’indice destro per suonare il citofono, e in un attimo Palermo si trasforma in Beirut. Un boato, una spinta d’aria che travolge, fumo, fiamme, sangue e pezzi di corpi: il sole si oscura per sessanta secondi.

I fotogrammi dell’orrore della strage di via D’Amelio sono noti a tutti, ma sono stampati nella mente di una sola persona: Antonio Vullo, agente della scorta di Paolo Borsellino, unico sopravvissuto alla mattanza e soprattutto unico testimone oculare dei misteri di quel pomeriggio del 19 luglio del 1992.

E’ lui, infatti, ancora oggi, a 21 anni esatti da quella esecuzione mafiosa che oltre al giudice antimafia è costata la vita a cinque agenti della scorta, l’unico depositario di alcuni dettagli rimasti sconosciuti. Ed è a lui, dunque, che i magistrati siciliani si sono rivolti per conoscere la verità.

Antonio Vullo oggi ha 53 anni. Non ha mai lasciato Palermo. E neanche la divisa della polizia di Stato, nonostante ormai in pensione, dopo un lungo congedo per via del profondo shock subito che lo ha costretto a sottoporsi per anni a cure fisiche e psicologiche. Non ha mai considerato l’essere sopravvissuto a quella strage “una fortuna”. Perché i ricordi di quel pomeriggio sono ancora tutti lì, uno in fila all’altro, come un esercito di spettri pronti a tendere un agguato. “Ancora oggi quando mi alzo di notte non riesco a camminare a piedi nudi”, racconta, “perché mi tornano in mente gli attimi subito dopo l’esplosione, mentre avvolto dal fumo mi facevo largo fra i detriti, non vedevo nulla, ho calpestato qualcosa di morbido. E mi sono reso conto che era il piede amputato di un collega”.

Un resoconto agghiacciante che trova conferma nei verbali dell’epoca: “Nel luogo della deflagrazione rinveniamo decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati”, si legge nella relazione di sopralluogo della Squadra Mobile palermitana datata 20 luglio 1992.

E così oggi le pieghe dei ricordi di quell’inferno di sangue e cemento, nella mente dell’unico testimone, per gli inquirenti assumono un’importanza cruciale. Soprattutto per chiarire tre dei punti fondamentali della strage, rimasti un mistero o addirittura depistati per più di un ventennio: l’agenda rossa di Borsellino, l’automobile rubata usata come bomba e il palazzo da dove i mafiosi osservarono la situazione e fecero esplodere il tritolo.

Dopo un lunghissimo silenzio, lo scorso aprile davanti ai giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta Vullo è stato chiamato a deporre come primo testimone nel “Borsellino quater”, il processo iniziato lo scorso marzo che oggi vede alla sbarra cinque imputati (due boss e tre falsi pentiti) accusati di essere gli autori del depistaggio che portò alla condanna all’ergastolo di sette innocenti accusati della strage di via D’Amelio, e che si basa sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Gaspare Spatuzza, Giovanni Brusca, Giuseppe Tranchina e Antonino Giuffrè. La deposizione di Vullo è stata lunga è precisa.

Ad assisterlo oggi c’è il suo avvocato Mimma Tamburello, storica amica di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, che dopo le stragi si è assunta la difesa di tutti i familiari delle vittime. “Si tratta di una persona ancora drammaticamente traumatizzata”, spiega il legale a l’Espresso, “che però è riuscita a ricostruire nei dettegli quel pomeriggio fornendo i tasselli mancanti che gli inquirenti andavano cercando da anni”.

I tasselli, dunque. Primo fra tutti, l’agenda rossa del giudice Borsellino, che secondo i suoi familiari custodiva i suoi ultimi e preziosissimi appunti, e che non fu mai più ritrovata. Né in casa né sul luogo della strage.

“Quel pomeriggio il signor giudice doveva accompagnare l’anziana madre dal medico e stava rientrando dalla sua abitazione al mare, Villa Grazia di Carini, dove andava quasi tutti i fine settimana per rilassarsi con la sua famiglia”, raccontato Vullo, “aveva sicuramente con sé una valigetta, e poi mi pare anche un’agenda di colore scuro, che teneva sottobraccio”. Ancora oggi, 21 anni dopo, gli inquirenti si sono battuti per capire se questa agenda – che conteneva le ultime confidenze fatte al giudice da un pentito – sia andata distrutta nella deflagrazione o se sia stata portata via dal luogo della strage nei concitati attimi dei primi soccorsi.

Vullo si è salvato dalla mattanza per un caso fortuito. “Quando siamo arrivati sotto via D’Amelio mi ha colpito la quantità di macchine che era posteggiata lì sotto, nonostante facesse tanto caldo e quasi tutti i palermitani nel fine settimana vanno al mare. Ma nessuno di noi ha detto nulla”. “I miei colleghi si sono messi a ventaglio dietro al giudice, come facevano ogni volta, come prevede la procedura. Io invece sono tornato indietro a posteggiare meglio la macchina, e ho fatto retromarcia. Mentre ero girato con il viso per fare manovra, ho sentito un’ondata di calore infernale. Solo dopo il boato. Sono sceso dall’auto che era già in fiamme. Intorno a me era tutto buio”.

Il poliziotto sopravvissuto ancora oggi pone l’accento su una stranezza, che è stata più volte fatta notare in questo ventennio di indagini, fra piste bruciate e abbagli investigativi. E che è emersa anche nel corso del processo di Caltanissetta. “Tutti a Palermo sapevano che dopo il giudice Falcone la prossima vittima sarebbe stata Borsellino”, racconta, “fra noi poliziotti circolava una voce: sei di scorta a Borsellino? Che Dio ti protegga. E così un mese prima hanno rafforzato la scorta ovunque. Tranne che in via D’Amelio”. Alla madre, infatti, il giudice faceva visita spessissimo, e con lei si metteva d’accordo per telefono. Aggiungere uomini al servizio di tutela in via D’Amelio non avrebbe impedito la strage, certo, ma qualcuno di loro facendo un controllo sulle targhe si sarebbe probabilmente accorto di quella Fiat 126 rubata (imbottita con 100 chili di tritolo) parcheggiata proprio davanti al palazzo.

Il terzo punto misterioso riguarda l’edificio in costruzione davanti al luogo della strage. Ed è legato a una telefonata anonima, che arriva alla Questura di Palermo il giorno dopo l’attentato mafioso. A telefonare è una donna, che spiega al poliziotto di turno alle volanti che in via D’Amelio c’è un palazzo in costruzione che appartiene alla famiglia Graziano, considerata vicina al clan dei Madonia. Da quel punto della strada, si ha una visuale perfetta del punto in cui fu fatta esplodere la bomba.

Così il giorno dopo gli agenti vanno a fare un sopralluogo. Per le scale, in effetti, incontrano uno dei fratelli Graziano. Ma a colpire i poliziotti è un altro particolare: sul tetto del palazzo, fatto a terrazza, è collocato un vetro scudato, molto robusto. E a terra ci sono decine di cicche di sigarette, come se qualcuno si fosse messo lì in attesa per molte ore. Diligentemente, gli agenti scrivono una relazione destinata alla Criminalpol di Palermo. Ma di quella relazione – come ha evidenziato di recente in aula in pubblico ministero Domenico Gozzo – non c’è nessuna traccia.

Saranno necessari vent’anni, quattro processi, decine di pentiti e undici innocenti in carcere di cui sette condannati all’ergastolo per capire il coinvolgimento di uno dei clan più potenti e radicati di Cosa Nostra, quello dei Madonia. Che oggi vede il boss “Salvuzzo” fra i principali imputati perché sospettato, insieme ad altri capimafia, di essere promotore e mandante di una strategia offensiva che aveva un solo obiettivo e che in via D’Amelio trova il suo acme più devastante: arrivare alla politica.

 

 

 

Foto e articolo del 19 Giugno 2014 da ilfattoquotidiano.it
Via D’Amelio, l’agenda rossa di Paolo Borsellino è la scatola nera delle stragi
Scomparve il 19 luglio 1992, pochi attimi dopo la deflagrazione che uccise il giudice palermitano. Da allora, un mistero che ancora oggi, dopo 22 anni, è lontano dall’essere risolto
di Giuseppe Pipitone

La scatola nera delle stragi, la chiave di volta della Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra è probabilmente un’ agenda dell’Arma dei Carabineri del 1992, di colore rosso, donata dai militari al giudice Paolo Borsellino. Nei mesi precedenti alla strage di via D’Amelio, il magistrato palermitano utilizza due agende: una è di colore grigio, la utilizza come un normale diario in cui annota gli spostamenti, le spese, gli impegni; nell’altra, quella rossa, appunta invece pensieri, riflessioni, soprattutto di notte o al mattino presto, ed è per questo che non se ne separa mai.

“L’agenda rossa, soprattutto dopo la morte di Falcone, camminava sempre con lui” ha raccontato l’ufficiale dei carabinieri Carmelo Canale. Borsellino non si separa dall’agenda rossa neanche neanche quella domenica 19 luglio, quando dalla casa al mare a Villagrazia di Carini torna a Palermo, per accompagnare la madre dal medico: l’ultimo gesto prima di finire assassinato in una delle stragi più misteriose di sempre. E’ proprio nell’inferno di via d’Amelio che l’agenda rossa, contenuta secondo diversi testimoni nella borsa di cuoio che il giudice lascia all’interno dell’auto blindata, scompare, svanisce, senza lasciare traccia: un mistero nel mistero rimasto ancora oggi senza soluzione.

Le immagini dell’epoca mostrano come a prelevare la borsa del magistrato dall’auto blindata, mezz’ora dopo l’eccidio, sia stato il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, che dopo essersi allontanato dal luogo della strage, torna poi nei pressi dell’esplosione. Arcangioli verrà accusato di aver sottratto l’agenda, finendo poi assolto dal tribunale di Caltanissetta: non c’è la prova che il diario fosse contenuto nella borsa del magistrato. Nell’autunno scorso, poi, è arrivata una lettera anonima alla procura di Palermo, in cui si racconta di come l’agenda fosse stata consegnata a un comando dei carabinieri, insieme a tutti i segreti che conteneva: l’ennesimo giallo di un mistero ancora oggi indecifrabile.

 

 

 

Articolo del 21 luglio 2014 da  temi.repubblica.it   
Via D’Amelio, 22 anni senza verità e giustizia
“Nonostante quattro processi ed indagini durate quasi un quarto di secolo, troppi aspetti della strage di via D’Amelio restano a tutt’oggi avvolti nel mistero. Una ferita aperta che rischia di divenire l’ennesima sconfitta di un paese incapace di fare i conti con i lati oscuri del proprio passato”. Pubblichiamo l’intervento del Procuratore Generale di Palermo in occasione della commemorazione di Paolo Borsellino e dei cinque agenti di scorta uccisi il 19 luglio 1992.

di Roberto Scarpinato, 18 luglio 2014

E’ trascorso quasi un quarto di secolo dalla strage di via D’Amelio ed ogni anno a causa dell’inesorabile fluire del tempo, si assottiglia per ragioni anagrafiche e sopravvenuti pensionamenti, il numero di coloro che all’interno del palazzo di giustizia di Palermo furono testimoni di quel tempo.

Di coloro che ebbero modo di conoscere personalmente Paolo Borsellino, di condividere con lui i patemi dei suoi ultimi mesi di vita, di attraversare quella tragica stagione di sangue quando tutto sembrava perduto, come ebbe a dire Antonino Caponnetto in un momento di sconforto e di verità, ed un intero popolo che si sentiva improvvisamente orfano, si riversava nelle piazze gridando il proprio sdegno nei confronti degli esponenti di una classe politica che appariva imbelle e di uno stato che si era rivelato incapace di proteggere da una morte annunciata i suoi figli migliori.

Ho ancora negli occhi l’immagine di un Presidente della Repubblica che venuto a Palermo dopo la strage di via D’Amelio, rimase prigioniero nella morsa di una folla immane; una folla che travolse nel suo incontenibile impeto i cordoni di protezione della polizia e dalle cui fila si alzava veemente il grido “assassini” rivolto all’indirizzo dei massimi esponenti delle istituzioni.

Ogni anno che trascorre mi chiedo quanto di questo vissuto sia rimasto e resterà nella memoria collettiva dei nuovi abitanti di questo palazzo, delle giovani generazioni di magistrati, di avvocati, di funzionari destinati a sostituirci.

Mi chiedo quale verità storica, prima ancora che verità processuale, noi lasciamo loro in eredità; quali chiavi di lettura del passato consegniamo loro perché nella staffetta delle generazioni, essi sappiano leggere nel presente i segni del passato e le possibili premonizioni del futuro.

Nel pormi questa domanda a proposito della strage di via D’Amelio, a volte resto perplesso, perché tanti, troppi aspetti di quella strage restano a tutt’oggi avvolti in un mistero impermeabile alle indagini; lo stesso mistero che avvolge, non a caso, quasi tutte le stragi che hanno insanguinato la storia del nostro paese.

A questo proposito consentitemi, rivolgendomi soprattutto ai più giovani, di tracciare un telegrafico sommario di alcuni aspetti che sembrano accomunare lo stragismo degli anni 1992-1993 a quello dei decenni precedenti, lasciando intravedere una inquietante linea di continuità storica.

Più volte mi è accaduto di ripetere che non vi è alcun paese europeo la cui storia nazionale sia stata contrassegnata da una sequenza così lunga e quasi ininterrotta di stragi come quella che ha caratterizzato la storia italiana del secondo dopoguerra.

L’atto di nascita della Repubblica italiana è tenuto a battesimo da una strage: la strage di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947, che vede interagire alta mafia e settori deviati delle istituzioni segnando l’inizio della strategia della tensione.

Una strategia che da allora scandirà tutta la successiva storia repubblicana interferendo pesantemente sulla dialettica politica, sugli equilibri di potere nazionale, e che si snoderà, oltre che in progetti di colpi di stato, nella sequenza delle stragi di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969, di Peteano del 31 maggio 1972, dell’Italicus del 4 agosto 1974, di piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974, di Bologna del 2 agosto 1980, del rapido 904 del 23 ottobre 1984 e di molte altre ancora che tralascio per ragioni di sintesi.

Una strategia della tensione che, come hanno dimostrato vari processi e condanne definitive ha coinvolto in varie occasioni i vertici della mafia, così come era già avvenuto in occasione della strage di Portella delle Ginestre.

Si pensi, solo per citare alcuni esempi, al coinvolgimento nel progetto di golpe Borghese del 1970, al coinvolgimento nella preparazione di attentati dinamitardi nel 1974, alla preparazione del progetto di colpo di stato nel 1979, alla strage del rapido 904 per la quale è stato condannato all’ergastolo Giuseppe Calò, testa di ponte a Roma della mafia per i rapporti con la massoneria deviata e la destra eversiva.

Alla luce di questa telegrafica retrospettiva storica, non è dunque forse un caso che lo stragismo così come aveva segnato l’incipit della prima repubblica tentando di interferire sul processo politico poco prima delle elezioni politiche nazionali del 1948, il cui esito appariva imprevedibile dopo la lunga parentesi del ventennio fascista, ne contrassegni negli anni 1992-1993 anche l’agonia finale in una fase storica nella quale il disfacimento del vecchio quadro politico apriva una stagione di transizione verso nuovi equilibri di potere, il cui futuro assetto appariva allora di incerto esito e che, a secondo dei suoi sviluppi nell’una o nell’altra direzione, rischiava di pregiudicare, se non direzionato con atti di forza, rilevantissimi interessi e garanzie di impunità che si erano fondati sugli equilibri di potere della prima repubblica.

La vera storia dello stragismo italiano è rimasta in larga misura nell’ombra a causa dell’impotenza della giurisdizione a fare luce sulle occulte causali politiche delle stragi, sui mandanti eccellenti, e, talora, persino sugli esecutori materiali.
Sono a tutt’oggi senza colpevoli, ad esempio, la strage di Piazza Fontana, la strage dei Brescia, la strage dell’Italicus.

Sappiamo anche quale sia stata una delle cause di questa singolare debacle della giurisdizione nell’ accertamento della verità.
Come è stato accertato in tanti dei processi concernenti le stragi, le indagini della magistratura sono state quasi sistematicamente depistate, così come era già accaduto per la strage di Portella della Ginestra, da esponenti di settori deviati delle istituzioni.

L’elenco dei casi accertati è troppo noto e lungo per farne menzione. Vorrei solo ricordare che sono stati condannati con sentenza definitiva per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna, tre vertici del Sismi e Licio Gelli, capo della loggia massonica P2.

Si tratta di una realtà storica talmente evidente che in questi giorni la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, dalla quale sono stato ascoltato il 25 giugno u.s., sta esaminando una proposta di legge (proposta C. 559 Bolognesi) che prevede l’introduzione nel nostro codice penale dell’art. 372 bis concernente il reato di depistaggio.

Ho voluto anteporre questa telegrafica premessa storica, perché la strage di via D’Amelio rischia di entrare nel triste novero delle stragi in buona misura avvolte dal mistero per motivi che, per certi versi, richiamano alla mente gli stessi motivi che hanno determinano l’impotenza della giurisdizione ad accertare la verità nelle altre stragi italiane che ho prima menzionato.

La strage del 19 luglio 1992 è infatti a tutt’oggi, nonostante la celebrazione di ben quattro processi ed indagini durate quasi un quarto di secolo, un mosaico nel quale mancano ancora troppe tessere determinanti perché sia possibile ricostruire una immagine finale nitida ed univocamente leggibile.

A tutt’oggi non sappiamo quale fu il motivo che determinò l’improvvisa brusca accelerazione dell’esecuzione della strage che colse di sorpresa persino molti capi di Cosa Nostra tenuti all’oscuro.
Una accelerazione autolesionistica per gli interessi di Cosa Nostra, perché l’esecuzione pochi giorni prima della scadenza del termine dell’ 8 agosto 1992 entro cui doveva essere convertito in legge il decreto Falcone dell’8 giugno 1992 che aveva introdotto il regime detentivo speciale del 41 bis ed altre incisive norme antimafia, determinò – come era chiaramente prevedibile – il subitaneo sblocco ed il superamento di tutte le resistenze dell’ampio e trasversale fronte parlamentare garantista sino ad allora contrario alla conversione in legge di norme ritenute lesive di diritti fondamentali.

Quali interessi superiori rispetto a quelli di Cosa Nostra imposero l’anticipazione autolesionistica della strage?
Quale era l’urgenza suprema non rinviabile per cui non si poteva attendere per l’esecuzione della strage neppure il decorso di quei 20 giorni che mancavano alla fatidica data dell’8 agosto, giorno di scadenza della conversione del decreto legge?

Cosa si temeva che Paolo potesse fare di tanto grave, di tanto irreparabile, in quei 20 giorni?
Forse mettere finalmente a verbale dinanzi alla Procura di Caltanissetta, dove da mesi insisteva per essere sentito, o formalizzare in interrogatori della Procura di Palermo, quel che aveva appreso sul “gioco grande” sotteso alla strage di Capaci e a quelle in fieri, all’interno di un complesso progetto politico stragista che – così come era avvenuto in passato per altre stragi – vedeva ancora una volta interagire la mafia con altre entità esterne?

Brandelli di verità che aveva appreso in quegli ultimi mesi della sua vita, spesi nella frenetica ricerca di chiavi di lettura per comprendere quanto era accaduto e quanto si preparava ad accadere, anche grazie alle rivelazioni di varie fonti tra le quali anche taluni collaboratori di giustizia. Fonti quali, ad esempio, il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, il quale sentito nel processo per la strage di via D’Amelio ha ammesso di avere anticipato a Paolo Borsellino – ma solo riservatamente, per timore della propria vita – quanto egli sapeva sul progetto macro politico stragista elaborato da intelligenze esterne e discusso dai massimi vertici regionali di Cosa Nostra riuniti in conclave segreto nella provincia di Enna, progetto rimasto poi celato alla manovalanza mafiosa e persino a molti vertici della Commissione provinciale di Palermo.

Quali che fossero le notizie apprese, doveva comunque trattarsi di rivelazioni che lo avevano lasciato sgomento, quasi avesse assunto consapevolezza di doversi misurare con un potere così grande da travalicare quello mafioso e dinanzi al quale non aveva difese.
Tanto sgomento da indurlo a confidare alla moglie che sarebbe stata la mafia ad ucciderlo ma solo quando altri lo avrebbero voluto.
Chi erano questi altri? Forse le tracce per individuarli erano annotate in quella agenda rossa dalla quale Paolo mai si separava e che custodiva gelosamente.
Ma questo è solo uno dei tanti tasselli mancanti del mosaico.

A tutt’oggi non sappiamo chi fu l’artificiere della strage, il soggetto cioè dotato delle sofisticate competenze tecniche necessarie per mettere a punto il congegno esplosivo e garantire la riuscita dell’operazione.
Ed ancora non sappiamo chi era il soggetto esterno a Cosa Nostra che, come ha dichiarato il collaboratore Gaspare Spatuzza, sovraintendeva alle operazioni di caricamento dell’esplosivo nell’ autovettura poi collocata in via D’Amelio.
Ed ancora non sappiamo a chi si riferisse Francesca Castellese, moglie del collaboratore di giustizia Mario Santo Di Matteo, quando disperata per il rapimento del loro figlio Giuseppe avvenuto il 23 novembre 1993, scongiurò il marito di non parlare ai magistrati degli infiltrati della Polizia implicati nella strage di via D’Amelio, come risulta da una intercettazione ambientale del colloquio tra i due coniugi del 14 dicembre 1993 agli atti del processo per la strage di via D’Amelio.
Potrei continuare con un lungo elenco di altre tessere ancora mancanti.
Sono dunque tanti i fatti rilevanti che non conosciamo e che sembrano chiamare in causa livelli di coinvolgimento nella esecuzione della strage che travalicano quello mafioso.

Livelli superiori che vengono evocati anche da altri fatti che invece conosciamo, pure ancora avvolti nell’ombra, e che dimostrano come le indagini sulla strage abbiano subito gravi interferenze esterne volte ad impedire il pieno accertamento della verità, replicando così quanto era già avvenuto in passato in quasi tutte le indagini relative alle stragi italiane, come ho prima ho ricordato.

Mi riferisco alla sottrazione dell’agenda rossa di Paolo e all’introduzione nel processo per la strage di via D’Amelio di falsi collaboratori di giustizia (Vincenzo Scarantino ed altri), che tutto ignoravano della strage, e che furono indottrinati per dire il falso ingannando i magistrati.

Se le considerazioni sin qui svolte hanno almeno in parte un fondamento, possiamo dunque concludere che a distanza di 22 anni dalla strage di via D’ Amelio, non sappiamo ancora che storia raccontare a noi stessi e ai nostri figli. Siamo privi della verità o di parti essenziali di essa. La privazione della verità non è solo un vulnus alla giustizia, perché non consente di accertare le responsabilità penali ed irrogare le giuste pene. Vi è un danno ancora più grande, se possibile. La privazione della verità non consente di elaborare il lutto per la perdita subita, non consente di acquietarsi consegnando questa ed altre vicende ad un passato tragico ma ormai concluso. La privazione della verità non consente alle ferite di chiudersi. La strage di via D’Amelio resta ancora una ferita aperta per l’intera nazione e rischia di divenire l’ennesima sconfitta di un paese che dinanzi all’ininterrotto stragismo che ha insanguinato la sua storia, si è sino ad oggi rivelato incapace di fare i conti con i lati oscuri del proprio passato.

Un passato che, quindi, sembra destinato ad essere rimosso nell’oblio, oppure ad essere coperto sotto il sudario di una retorica commemorativa secondo cui gli unici responsabili del male di mafia sono sempre e solo stati i macellai di Cosa Nostra.

A differenza di tante altre lapidi commemorative delle vittime delle mafia che recano frasi celebrative, la lapide posta in via D’Amelio reca solo i nomi di battesimo di Paolo, Agostino, Claudio, Emanuela, Vincenzo, Walter. Null’altro. Come se quella lapide ricordasse a tutti noi che ancora attendiamo di sapere quali siano le parole giuste da scrivere e quale fu la storia che quel terribile 19 luglio 1992 trascinò nel suo gorgo malefico le loro vite.

 

 

 

Articolo del 18 luglio 2017 da  ilfattoquotidiano.it
Paolo Borsellino, i misteri sulla strage di via d’Amelio 25 anni dopo: dal depistaggio senza colpevoli all’Agenda rossa
di Giuseppe Pipitone
A un quarto di secolo dal 19 luglio del 1992 sono quattro i processi celebrati per fare luce sull’assassinio del magistrato palermitano e dei cinque uomini della scorta. Eppure ancora oggi rimangono molteplici gli interrogativi che non hanno mai ricevuto una risposta: dalle modalità del depistaggio, a chi lo ha condotto, al motivo per cui sono state depistate le indagini. E poi la scomparsa dell’Agenda rossa, l’ipotesi sul coinvolgimento di soggetti esterni a Cosa nostra, l’accelerazione del progetto di morte eseguito solo 57 giorni dopo l’omicidio di Giovanni Falcone

Dieci processi, trenta giudici, altrettanti pubblici ministeri, una pletora di avvocati, decine di condanne. A snocciolare cifre e date dei procedimenti che hanno tentato di accertare la verità sulla strage di via d’Amelio sembra che lo Stato abbia impegnato tutte le sue forze migliori per ricostruire ogni dettaglio di quel botto spaventoso capace di spazzare via il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della sua scorta, che sono Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina.

E invece venticinque anni dopo, della strage di via d’Amelio si sa tutto ma anche niente. Più di venti ergastoli accertati per mandanti ed esecutori mafiosi sono sicuramente un risultato importante ma che rappresentano comunque solo un piccolo tassello di una verità più complessa. Di informazioni sul modo in cui venne assassinato Borsellino sono stracolmi i fascicoli processuali, i verbali dei collaboratori di giustizia, i giornali, i libri usciti a ritmo praticamente continuo. Solo che la metà di quelle informazioni è da considerarsi incompleta, se non completamente falsa. Falso era sicuramente Vincenzo Scarantino, il protopentito che si autoaccusò della strage sotto la minaccia di sevizie e torture. Falso era il suo status criminale, elevato per l’occasione da balordo di periferia che rubava gomme di auto scambiandole con dosi di eroina a quello di boss stragista. Falso era il teatrino di riscontri e testimoni che gli avevano costruito attorno, con pentiti altrettanto posticci come Francesco Andriotta, Salvatore Candura e Calogero Pulci, travestiti da complici reo confessi. Falsa, infine, era la colpevolezza degli imputati condannati sulla base delle dichiarazioni di Scarantino, che proprio alla vigilia dell’anniversario numero 25 si sono visti assolvere dall’accusa di strage nel processo di revisione: alcuni sono stati scagionati dopo 18 anni passati in regime di carcere duro, altri invece avevano già scontato integralmente la pena per reati minori collegati all’eccidio del magistrato palermitano.

Sul resto, sui mandanti e sui moventi di quella che è la carneficina più misteriosa del dopoguerra, vige ancora il buio pesto: non si sa perché Cosa nostra abbia accelerato l’uccisione di Borsellino, eliminato in modo rocambolesco soltanto 57 giorni dopo l’assassinio di Falcone. Era perché sapeva della Trattativa in corso con Cosa nostra e si era messo in mezzo? Allora è forse per questo che ancora oggi non si ha alcuna idea della fine che possa aver fatto l’Agenda rossa, il diario dove Borsellino annotava intuizioni, spunti e ipotesi d’indagine evidentemente fondamentali per decriptare quanto stava succedendo tra la fine della Prima Repubblica l’inizio della Seconda. Una traccia, o poco più, hanno lasciato i pupari, cioè i registi che hanno ideato e portato avanti il clamoroso depistaggio andato in onda sulle indagini della strage. Il risultato è che a un quarto di secolo da quel 19 luglio del 1992 della strage di via d’Amelio si sa davvero molto poco. E quel poco fino a pochi anni fa non era nemmeno tutto vero.

Nel 2008 c’è voluta la collaborazione di Gaspare Spatuzza per riscrivere la fase esecutiva dell’eccidio, sbugiardare definitivamente Scarantino (che negli anni si era smentito da solo più volte anche dentro alle aule dei tribunali, senza che alcun pm o giudice lo ascoltasse), scagionare 7 innocenti che da anni erano rinchiusi al 41 bis da stragisti quando invece – è il caso di Gaetano Murana – nella vita erano stati magari solo degli onestissimi operatori ecologici di borgata. Le dichiarazioni di Spatuzza – che per la verità sui falsi pentiti di via d’Amelio aveva parlato anche 10 anni prima – hanno portato al quarto processo sulla strage Borsellino, che per comodità gli inquirenti e gli addetti ai lavori hanno ribattezzato semplicemente Borsellino Quater, quasi fosse la quarta stagione di una serie televisiva. La speranza è che non sia l’ultima.

La parole di Fiammetta

A chiedere che le (poche) verità raggiunte fino a questo momento sull’omicidio di Paolo Borsellino non siano le uniche è stata di recente una testimone d’eccezione. Il 23 maggio del 2017 è l’anniversario numero 25 della strage di Capaci. Per l’occasione la Rai manda in onda uno speciale per ricordare Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino. La serata, condotta da Fabio Fazio, si trascina – come spesso capita in queste occasioni – tra testimonianze, ricostruzioni e un velo di retorica. A spezzare il ritmo di una narrazione istituzionale dei botti del 1992 arrivano, però, le parole di Fiammetta Borsellino: è la figlia minore di Paolo, aveva 19 anni quando le uccisero il padre, e da allora non ha quasi mai fatto sentire la sua voce durante eventi pubblici simili. Quel giorno, però, Fiammetta Borsellino decide di parlare. “Noi dobbiamo pretendere la restituzione di una verità che dia un nome e un cognome a quelle menti raffinatissime che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare questi servitori dello stato, quelle menti raffinatissime che hanno permesso il passare infruttuoso delle ore successive all’esplosione, ore fondamentali per l’acquisizione di prove che avrebbero determinato lo sviluppo positivo delle indagini”, ha detto Fiammetta Borsellino, pronunciando parole che hanno un peso specifico non indifferente. Poco più di un mese prima, infatti, la corte d’assise di Caltanissetta aveva emesso la sua sentenza alla fine del quarto processo sulla strage Borsellino. Sentenza che non fa altro che confermare quanto detto da Spatuzza: via d’Amelio non l’ha certo fatta Scarantino e i suoi poveri complici posticci, ma il gruppo di fuoco di Brancaccio, il mandamento guidato dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. E quindi ergastolo per i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, il primo mandante e il secondo esecutore della strage finora sfuggiti ai processi precedenti, dieci anni per i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia per aver avvalorato con le loro dichiarazioni il clamoroso depistaggio.

Borsellino quater, Scarantino indotto a mentire: ma da chi?

Più controverso il caso Scarantino: per la pubblica accusa si sarebbe inventato di volta in volta “bugie e falsità, accogliendo i suggerimenti degli investigatori e fornendo le risposte che si aspettavano per un tornaconto personale consistente nell’uscire dal carcere e avere dei benefici”. Un passaggio che aveva fatto scoppiare un pesante botta e risposta tra i pm e l’avvocato di parte civile, Fabio Repici: secondo la lettura dell’accusa, infatti, il depistaggio sarebbe stata opera esclusiva di Scarantino, un seminalfabeta bocciato tre volte in terza elementare, imparentato con un mafioso ma considerato un poveraccio persino dai suoi stessi vicini di casa alla Guadagna, una borgata a sud di Palermo.

Poteva un tipo del genere inventarsi da solo un avvelenamento dei pozzi di tale portata, capace di prendere in giro decine di investigatori, magistrati e giudici? Per la pubblica accusa nissena sì, dato che Scarantino nella requisitoria era stato definito un “soggetto criminale” abbastanza “scaltro” da imbastire da solo il copione di bugie sulla ricostruzione della strage. Alla fine i giudici se la sono cavata applicando il comma terzo dell’articolo 114 del codice penale: l’attenuante cioè della “determinazione al reato” che, diminuendo la pena prevista per la calunnia, ha fatto scattare la prescrizione. In pratica il balordo della Guadagna è stato indotto a fare le sue false accuse. Già ma da chi? I giudici nisseni non lo dicono. Lo faranno probabilmente nelle motivazioni della loro sentenza, con la quale hanno ordinato anche la trasmissione in procura dei verbali dell’udienza. Formula che indica come i magistrati insistano ancora una volta nell’indagare sulla matrice istituzionale del depistaggio. Una pista che fino a questo momento è stata osteggiata da più parti. È come spesso capita in indagini del genere, ha portato a poco. Cristallizzati, però, rimangono alcuni fatti, che comprendono alcune domande mai risolte.

Un “orsacchiotto con le batterie”: cronaca di un depistaggio

Il primo quesito lo pongono i giornalisti ai magistrati subito dopo l’arresto di Scarantino ed è abbastanza ovvio: è normale che la mafia si affidi a un balordo per compiere una strage importante come quella di via d’Amelio? “Non ci siamo posti la domanda. I fatti, secondo noi, si sono svolti in un certo modo, Scarantino non è uomo da manovalanza”, risponderà Gianni Tinebra, all’epoca procuratore capo di Caltanissetta. È il 29 settembre del 1992, dalla strage di via d’Amelio sono trascorsi appena settantuno giorni e il colpevole era già stato “scelto”: era, appunto, Scarantino. “Un’offesa alla nostra intelligenza”, lo definirà più volte l’avvocato Rosalba Di Gregorio. L’infimo livello culturale del balordo della Guadagna era fin troppo evidente già subito dopo l’arresto per fare anche solo ipotizzare che Cosa nostra avesse affidato ad un simile soggetto un incarico tanto importante. La situazione peggiora quando il giovane diventa addirittura un collaboratore di giustizia e inizia a lanciare accuse che fanno scattare arresti a raffica.

“Ma a questo come gli date ascolto?Attenzione, state attenti: è falso, non credete nemmeno a una virgola di quello che vi sta dicendo. A questo qua queste parole gliele hanno messe in bocca, gli hanno fatto una lezione e ora la sta ripetendo”, dirà di Scarantino un pentito di rango come Salvatore Cancemi, durante un confronto davanti ai magistrati. I verbali di quel confronto non saranno resi disponibili agli avvocati, mentre Scarantino a ritrattare ci ha provato più volte: con un’intervista telefonica a un giornalista di Studio Aperto nel 1995, e addirittura in aula, a Como, durante un’udienza del Borsellino bis nel 1998. Niente da fare però: mentre il balordo confessa tra le lacrime la sua impostura, i giudici di ben tre processi (Borsellino 1, 2 e 3) e in tutti e tre i gradi di giudizio metteranno il bollo sulla sua autenticità.

“Sono stato usato come un orsacchiotto con le batterie costretto con le minacce a prendere in giro lo Stato, in galera ho mangiato anche i vermi, le guardie mi dicevano che mentre ero in carcere mia moglie andava a battere, e facevano allusioni al suicidio di Gioè”, dirà anni dopo, raccontando per l’ennesima volta le violenze subite: “Io non sapevo neanche dov’era via D’Amelio. Ho parlato solo per paura: mi torturavano, mi picchiavano, mi facevano morire di fame”.

I poliziotti che non ricordano

Dichiarazioni che – dopo la sentenza del Quater – rilanciano l’interrogativo principale di questa storia nera: chi e perché torturava Scarantino con il fine di farlo diventare un falso pentito?  Mario Bo e Vincenzo Ricciardi sono due dei funzionari di polizia che gestirono la sua. Sono stati a lungo indagati e poi archiviati per lo sviamento delle indagini insieme al loro collega Salvatore La Barbera. Citati per ben due volte a testimoniare al processo Borsellino Quater, la prima volta si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, visto che erano ancora indagati. La seconda, invece, sono stati autori di una serie di dichiarazioni talmente piene di amnesie che persino il pm Stefano Luciani ha manifestato in aula la sua insofferenza: “Trovo inaccettabile che funzionari dello Stato vengano in aula a dire una fila interminabile di non ricordo”. Oltre a Bo, Ricciardi e La Barbera, la procura di Caltanissetta ha indagato – l’inchiesta è ancora in corso – anche altri sei sottufficiali di polizia accusati di aver “vestito il pupo”, preparato cioè Scarantino ai vari interrogatori, in modo che il suo status di collaboratore venisse avvalorato dalle dichiarazioni rese davanti ai pm.

Dichiarazioni che – dopo la sentenza del Quater – rilanciano l’interrogativo principale di questa storia nera: chi e perché torturava Scarantino con il fine di farlo diventare un falso pentito?  Mario Bo e Vincenzo Ricciardi sono due dei funzionari di polizia che gestirono la sua. Sono stati a lungo indagati e poi archiviati per lo sviamento delle indagini insieme al loro collega Salvatore La Barbera. Citati per ben due volte a testimoniare al processo Borsellino Quater, la prima volta si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, visto che erano ancora indagati. La seconda, invece, sono stati autori di una serie di dichiarazioni talmente piene di amnesie che persino il pm Stefano Luciani ha manifestato in aula la sua insofferenza: “Trovo inaccettabile che funzionari dello Stato vengano in aula a dire una fila interminabile di non ricordo”. Oltre a Bo, Ricciardi e La Barbera, la procura di Caltanissetta ha indagato – l’inchiesta è ancora in corso – anche altri sei sottufficiali di polizia accusati di aver “vestito il pupo”, preparato cioè Scarantino ai vari interrogatori, in modo che il suo status di collaboratore venisse avvalorato dalle dichiarazioni rese davanti ai pm.

Servizi, 007 e Facce da mostro per la strage nera

Ad assegnare le indagini sulla strage di via d’Amelio al gruppo “Falcone-Borsellino”, guidato da La Barbera, fu un decreto urgente della presidenza del consiglio, su iniziativa del prefetto Luigi De Sena, che in quel momento dirigeva un dipartimento del Sisde e poi sarebbe diventato un senatore del Pd, prima di morire nel 2015. De Sena, tra l’altro è l’uomo che fa entrare nei servizi Emanuele Piazza (ex poliziotto scomparso nel nulla a Palermo nel marzo del 1990), su indicazione del suo autista, Vincenzo Di Blasi, poi condannato per favoreggiamento ai boss di Brancaccio. Il futuro senatore del Pd è anche l’uomo che “ingaggia” al Sisde La Barbera, collaboratore del servizio d’intelligence con lo pseudonimo Rutilius, attività durante la quale il poliziotto non produrrà neanche una relazione. Interrogato sul punto, De Sena non offrirà un contributo granché utile ai magistrati, non ricordando neanche le relazioni del Sisde che già il 13 agosto del 1992 individuavano i ladri della Fiat 126 poi trasformata in autobomba. Una sorta di marchio di fabbrica del depistaggio.

Era al vertice del Sisde all’epoca anche Bruno Contrada, più volte indicato come presente nei pressi di vai d’Amelio subito dopo la strage – notizie mai confermate – e di recente protagonista di una controversa sentenza della Cassazione, che ne ha annullato la condanna per concorso esterno a Cosa nostra. È stato a lungo collaboratore di Contrada, Lorenzo Narracci che dalla procura di Caltanissetta è stato indagato per più di cinque anni con l’accusa di concorso nella strage di via d’Amelio. Nel 2010 Spatuzza lo ha riconosciuto durante un confronto all’americana come l’uomo esterno a Cosa nostra presente nel garage di via Villasevaglios, dove la Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti venne trasformata in autobomba da far brillare in via d’Amelio. “Non era un ragazzo, né un vecchio ­doveva avere 50 anni. Non l’avevo mai visto prima, né lo vidi dopo quella volta. Di certo non era di Cosa nostra. Ma non mi allarmò la presenza di quell’uomo perché se era lì era perché Giuseppe Graviano lo voleva”, ha raccontato il pentito di Brancaccio che non si è detto sicuro al 100 per 100 quando ha indicato Narracci. La posizione dello 007 è stata dunque archiviata nel 2016 mentre non si sa ad oggi chi sia quell’uomo indicato da Spatuzza: c’era davvero un uomo esterno alla mafia nella preparazione dell’autobomba che uccise Borsellino? E se sì, chi era? E che fine ha fatto? E con la strage di via d’Amelio, c’entra nulla – come sostiene il pentito di ‘ndrangheta, Nino Lo Giudice – Giovanni Aiello, alias Faccia da Mostro, l’ex poliziotto indagato da tre procure come killer al servizio di Cosa nostra ma con il tesserino dei servizi segreti in tasca?

La scomparsa dell’Agenda rossa, la scatola nera

E se rimangono irrisolte molteplici domande legate al depistaggio e alle modalità con cui venne messa in scena la strage, sconosciuta è la fine di uno dei principali pezzi mancanti di questa storia: che fine ha fatto l’Agenda rossa che Borsellino portava sempre con sé fino all’ultimo? “Il giorno della sua morte, vidi mio padre mettere nella borsa, tra le altre cose, un’agenda rossa da cui non si separava mai”, ha detto Lucia Borsellino in aula, rievocando quel pomeriggio del 19 luglio 1992, quando il magistrato – dopo pranzo – si spostò da Villagrazia di Carini a Palermo per andare a prendere la madre e portarla dal medico. “Non so perché la usasse – ha aggiunto – o cosa ci fosse scritto perché non ero solita chiedergli del suo lavoro”. Secondo le varie ricostruzioni, il magistrato uscendo di casa inserì nella sua borsa un’agenda marrone (che utilizzava come rubrica telefonica), il costume da bagno, le chiavi di casa e le sigarette, oltre appunto all’agenda rossa dei carabinieri, che utilizzava come diario di lavoro. “Tre mesi dopo la strage – ha spiegato sempre Lucia – la borsa ci venne riconsegnata dal questore Arnaldo La Barbera, ma mancava l’agenda rossa. Mi lamentai subito della mancanza di quell’agenda rossa. Ho avuto una reazione scomposta e La Barbera, rivolgendosi a mia madre, le disse che probabilmente avevo bisogno di un supporto psicologico perché era particolarmente provata. Mi fu detto che deliravo”.

Sulla scomparsa del diario di Borsellino è già stato celebrato a Caltanissetta un processo (concluso con l’assoluzione) a Giovanni Arcangioli, il carabiniere immortalato pochi attimi dopo la strage mentre si muove da via d’Amelio con in mano la borsa del giudice. I filmati dell’epoca mostrano Arcangioli che si dirige lontano da via d’Amelio e cioè verso via Autonomia Siciliana con la borsa in mano. Poco dopo, però la valigia ricompare poi nei pressi dell’automobile di Borsellino. In venticinque anni di inchieste, in pratica, non si è riuscito a stabilire nemmeno l’esatto percorso fatto dalla borsa, passata da più mani, anche a causa di decine di testimonianze che entrano in contraddizione tra loro (come quelle del magistrato Giuseppe Ayala, che ha fornito quattro versioni differenti sul tema). Mistero anche sulle parole di Franca Castellese, la madre del piccolo Giuseppe Di Matteo, il bambino rapito e sciolto nell’acido. La donna è stata ascoltata durante il processo Borsellino Quater per spiegare il contenuto di un’intercettazione del 14 dicembre del 1993. Poche settimane dopo il rapimento del figlio, Castellese è nei locali della Dia per incontrare il marito, Mario Santo Di Matteo, mafioso che si  era appena pentito. “Qualcuno che è infiltrato nella mafia. Tu devi pensare alla strage Borsellino, a Borsellino c’è stato qualcuno infiltrato che ha preso…”, dice quel giorno incontrando il marito. Interrogata sul punto, però, oggi ha negato di ricordare quella conversazione. Dalla quale si evince chiaramente come la donna – in quel momento terrorizzata dal rapimento del figlio – dia per scontata praticamente dal nulla la presenza di soggetti infiltrati a Cosa nostra nella strage di via d’Amelio. Personaggi che avrebbero preso qualcosa. Se fosse o meno l’agenda non è ovviamente dato sapere.

La verità di Spatuzza 10 anni prima: ma nessuno fece niente

La scomparsa dell’Agenda rossa, il depistaggio, gli autori, il movente: la storia di via d’Amelio è in pratica un puzzle dal quale mancano ancora tante, troppe tessere. E dire che alcune sarebbero potute andare al proprio posto prima, molto prima che i giudici condannassero all’ergastolo degli innocenti. Già dieci anni prima di diventare formalmente un collaboratore di giustizia, infatti, Gaspare Spatuzza aveva raccontato a Piero Grasso che la storia della strage di via D’Amelio raccontata da Scarantino, era una bugia. È il 26 giugno del 1998 e l’allora procuratore nazionale antimafia, Pierluigi Vigna, va a trovare Spatuzza nel carcere dell’Aquila insieme al suo vice, che era all’epoca Grasso. In gergo si chiamano colloqui investigativi: gli inquirenti incontrano boss mafiosi per sondare una loro disponibilità a collaborare e acquisire informazioni utili alle indagini ma inutilizzabili durante un processo. Non si sa quanti furono gli incontri tra Vigna, Grasso e Spatuzza ma da quel verbale nel carcere dell’Aquila si evince che altri colloqui erano stati già svolti. È già in quell’occasione, però, che il killer di Brancaccio scagiona totalmente Scarantino e gli altri.

“Scarantino in questa cosa che cosa che c’entra?”, chiede Grasso. “Non esiste completamente“, risponde Spatuzza. “E scusi, com’è che allora le cose che lui ha detto che sa?”, è la replica del pm. “Lui era a Pianosa – spiega Spatuzza – ha ammazzato un cristiano che doveva ammazzare, e ci ficiru diri chiddu ca nu avia adiri (gli hanno fatto dire quello che doveva dire ndr)”. Poi il killer fa un nome: “Toto La Barbera“. Come abbiamo visto i La Barbera coinvolti nell’inchiesta su via d’Amelio sono almeno due: il questore Arnaldo, e il poliziotto Salvatore, indagato e archiviato a Caltanissetta proprio per la gestione del falso pentito. In quell’occasione, però, né Grasso e nemmeno Vigna chiedono a Spatuzza a quale La Barbera si riferisse. Le informazioni raccolte durante quel colloquio investigativo, in pratica, avrebbero potuto neutralizzare in diretta il depistaggio sulla strage Borsellino ma nessuno nel breve periodo fece nulla: non la procura nazionale Antimafia e nemmeno quella di Caltanissetta. “Certo a leggere oggi quel verbale qualche rammarico viene. Forse se si fosse battuto più su questa strada alcune cose sarebbero venute fuori tempo fa e la verità su persone innocenti sarebbero emerse prima”, ha commentato l’ex procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari. Quel documento infatti è rimasto segreto fino al 2013, quando Il Fatto Quotidiano lo pubblica: essendo un colloquio investigativo non aveva valore processuale ma la procura di Caltanissetta lo ha inserito per errore all’interno del fascicolo del pm, cioè tra le carte accessibili agli avvocati. E infatti Flavio Sinatra, legale di Madonia e Tutino, se ne accorge e chiede l’ammissione del documento agli atti del processo. Richiesta rigettata nel 2013 e autorizzata soltanto quattro anni dopo. Quando sono ormai trascorsi vent’anni da quella volta in cui Spatuzza raccontò la verità su via d’Amelio quasi in diretta. Ma nessuno mosse un dito.

 

 

 

 

Paolo Borsellino, l’ultima stagione

Il pomeriggio del 23 maggio 1992 il giudice Giovanni Falcone muore in un attentato a Capaci insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli uomini della sua scorta. Iniziano allora i 57 giorni più difficili del magistrato che più di altri ha condiviso con lui i successi e le difficoltà della stagione di lotta contro la mafia: l’amico Paolo Borsellino. Borsellino si lancia nel lavoro d’indagine. Vuole fare luce sulla morte dell’amico, scoprendone le cause e trovandone i responsabili. Ma l’uomo che ha visto morire Falcone tra le braccia, non è più quello di prima: è indurito, chiuso e si isola persino da amici e familiari. A raccontarlo è “Paolo Borsellino, l’ultima stagione” di Tommaso Franchini e Alessandro Chiappetta con la regia di Graziano Conversano che Rai Cultura propone martedì 18 luglio alle 21.10 su Rai Storia per “Diario Civile”, con l’introduzione del Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti.

Ai colleghi, Borsellino annuncia: ”Sappiate che questo è anche il nostro destino”. Sa che lui sarà il prossimo obiettivo di Cosa Nostra e un attentato sembra ogni giorno più inevitabile. I carabinieri ricevono informative sull’arrivo di tritolo destinato al giudice mentre alcuni pentiti svelano oscuri legami tra Cosa Nostra e uomini delle istituzioni che non fanno un gioco pulito.

Borsellino viene anche informato che uomini dello Stato hanno iniziato un dialogo con i boss mafiosi per arrestare le stragi e avverte attorno a sé un clima di crescente isolamento.

Vive 8 settimane di rabbia e inquietudine durante le quali ricorda con amarezza gli anni delle prime indagini di mafia, il sacrificio degli amici come il Capitano dei Carabinieri Emunuele Basile e il magistrato Rocco Chinnici, ripercorre i successi del Maxiprocesso istruito insieme a Falcone ma a anche le delusioni per le successive critiche e delegittimazioni che miravano a smantellare il Pool Antimafia e mortificare Falcone.

Diventato Procuratore Capo di Marsala Borsellino subisce l’attacco del famoso articolo di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia” ma reagisce alle delegittimazioni con una durissima intervista pubblica che gli procura un procedimento disciplinare davanti al Csm.

Nel suo ultimo discorso tenuto alla Biblioteca Comunale di Palermo nel giugno del 1992, Borsellino afferma che la morte di Falcone era iniziata in quella stagione di veleni e parla di “giuda” che lo hanno ingannato. Dimostra di sapere dunque che esistono persone pronte ad abbandonare anche lui, e in un drammatico episodio ricordato da una sua collega, Borsellino per la prima volta parla di aver saputo di “amici che tradiscono”.

Dimostra però un senso inflessibile della lealtà e decide di non venire meno a ciò che considera un dovere ineludibile, un obiettivo da perseguire anche in solitudine e fino in fondo, a costo di rinunciare a tutto.

 

 

 

 

 

Nuove ipotesi sul furto dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino

Angelo Garavaglia – Pubblicato il 23 lug 2018
Il 19 luglio 2018 abbiamo presentato il documentario a palermo in via d’amelio, con immagini prese dal video proiettato durante il Borsellino Quater.
In questo documento si tenta di dare nuove piste di indagine sul furto dell’agenda rossa da parte di uomini dello stato.

 

 

 

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