2 ottobre 1976 San Carlo Canavese (TO). Ucciso Gian Corrado Basso, carabiniere di 21 anni, in uno scontro a fuoco con dei ladri di Tir.

Foto da: archivio.unita.news

Gian Corrado Basso, Carabiniere di 21 anni, viene ucciso il 2 ottobre 1976, nelle campagne di San Carlo Canavese (TO), mentre, insieme ad altri due colleghi, stava controllando i documenti di un individuo sorpreso a trasbordare elettrodomestici da un Tir ad un altro autocarro, risultati poi rubati.

 

 

 

Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 3 ottobre 1976
UCCISO UN CARABINIERE DI  20 ANNI
Presso Torino da un bandito al quale controllava i documenti
Era accorso sul posto insieme a dei colleghi   dopo la segnalazione di un cittadino che aveva sorpreso alcuni ladri intorno a un autotreno – Vana caccia agli assassini – Forse banditi francesi coinvolti nel traffico di TIR – Un altro milite ferito.  

TORINO. 2. Un carabiniere poco più che ventenne ucciso con una raffica di carabina automatica sparatagli a bruciapelo, un altro ferito.  Con un terzo milite, stavano    controllando i documenti di un individuo sorpreso a trasbordare refurtiva da un «Tir» rubato a un   altro autocarro.

È accaduto stamane, poco dopo le 5,  su una strada fuori mano del basso canavese, tra prati e boschi.  Spinti da un generoso entusiasmo, i tre militi,  tutti molto giovani, erano partiti di loro iniziativa dalla stazione dell’arma a Cirio in seguito alla segnalazione di un cittadino.

Per garantirsi l’impunità, i ladri  hanno reagito uccidendo, poi si sono dati alla fuga.

È un altro anello della sanguinosa catena di violenza che da tempo accompagna le attività di una malavita sempre più spietata, pronta a tutto.

Ma è molto probabile che questa volta gli assassini siano chiamati a render conto del loro crimine: quello che ha ucciso ha lasciato cadere una fotografia attraverso la quale si starebbe per giungere alla   Identificazione dei delinquenti.

Ecco come si sono svolti i fatti. Andando al lavoro, in auto,  un operaio nota stamane alcuni  individui che armeggiano attorno a due autocarri sulla strada di raccordo che collega la provinciale San Carlo Canavese-Barbania alla strada per San Francesco al Campo.

Si tratta di un «Tir» con targa francese e di un «Fiat 650» targato Caserta.  Il primo dei due veicoli è   fermo su un viottolo che conduce al terreno del poligono d’artiglieria di San Carlo. Alcuni uomini   vanno da un automezzo all’altro trasportando frigoriferi e altri elettrodomestici.

La cosa non può non insospettire, e l’operaio, appena può, telefona alla stazione dei carabinieri di Ciné. È ancora notte. I militi Gian Corrado Basso, 21 anni, da Pordenone, e Rocco Scarmozzino,  ventiduenne, da Acquaro di Catanzaro, decidono di agire subito.

Da tempo  nella   zona  è  stato  segnalato un vasto traffico di  «Tir»  rubati che si dice  faccia capo ad  alcuni  «boss» della   mafia   calabrese.   Anche   nelle    indagini sulla morte dell’industriale Mario Ceretto di Cuorgnè, rapito e poi  ritrovato ucciso in un campo, la  polizia si era occupata della «gang dei Tir». Questa potrebbe forse essere l’occasione per trovare i fili che conducono ai capi dell’organizzazione.

Ai due amici si unisce un terzo carabiniere, Pasquale Di Garbo, ventenne, sebbene sia in licenza di convalescenza per un infortunio a un braccio.
Sulla «128» rossa del Di Garbo, i tre militi — in abiti civili, armati di pistole e carabine automatiche «Winchester» — piombano nel luogo indicato. Ma i ladri hanno visto i fanali della vettura che si avvicinava   e si sono nascosti.   Attorno ai due veicoli sembra che non ci sia nessuno.  Il Di Garbo accende una torcia elettrica, lo Scarmozzino e il Basso controllano il «Tir» e l’altro veicolo,  si scrutano attorno nell’oscurità.  Sta piovendo. All’improvviso, da dietro un cespuglio, vicino al «Fiat 650» compare la sagoma di un uomo alto, corpulento, «Ah! Vi ho beccati!», esclama rivolgendosi ai tre con l’aria di chi sta cogliendo in flagrante dei malviventi. «Siamo carabinieri. Lei chi è?» chiedono i militi.  La risposta è pronta: «Sono il padrone del camion». I   tre carabinieri sono davanti all’individuo che, con aria tranquilla, estrae di tasca i documenti di identificazione e li porge al milite più vicino. Nello stesso momento si avvicina al gruppo una «Mercedes» verde con quattro o cinque persone a bordo. Più indietro, nell’oscurità, pare si siano arrestate anche una «Mini» e forse una terza vettura.

In pochi attimi, si svolge l’epilogo sanguinoso della vicenda. Il carabiniere Scarmozzino allunga la mano per prendere i documenti, ma l’individuo, rapidissimo, lo colpisce violentemente con una mano mentre con l’altra gli strappa la carabina. Il carabiniere cade a terra. Il collega Basso, che gli sta dietro di qualche passo, mette mano alla rivoltella, ma non ha tempo di usarla: il bandito gli spara addosso da un paio di metri, colpendolo nella zona cardiaca e a un braccio, poi rivolge l’arma contro lo Scarmozzino che si sta rialzando e lo ferisce al piede. Il terzo carabiniere, il Di Garbo, che ha ancora il braccio ingessato e naturalmente è impacciato nei movimenti, riesce a malapena a gettarsi di lato prima di essere raggiunto dai colpi. Sul posto verranno poi ritrovati nove bossoli. La visibilità è ridottissima, e tutto si svolge in pochi attimi. L’assassino sale sulla «Mercedes» che parte di scatto.  Pare che uno degli uomini a bordo della vettura inveisca contro di lui: «Disgraziato, che hai combinato…». A terra, rantolante in mezzo alla strada, c’è il Basso: lo Scarmozzino gli resta accanto cercando di portargli   soccorso mentre il Di Garbo corre alla stazione di Ciriè a dare l’allarme.

Le ricerche scattano subito, tutte le strade che conducono alla zona vengono bloccate. Ma l’assassino e i suoi complici hanno avuto abbastanza tempo per sparire.
Gli assassini sono professionisti del crimine, e le ricerche sarebbero orientate principalmente verso il «giro» delle bande che rubano i Tir.

Il grosso automezzo francese accanto al quale si è svolta la tragica sparatoria era stato rubato ieri sera in via Giordano Bruno, a Torino, verso le 19. Trasportava elettrodomestici. Solo una terza parte del   carico è stata ritrovata sui due veicoli abbandonati accanto al poligono di San Carlo Canavese: se ne potrebbe dedurre che l’assassino e i suoi compari fanno parte di una grossa organizzazione   che in poche ore era già riuscita a smistare buona   parte   dell’ingombrante refurtiva. Se ne dovrebbe sapere di più nelle prossime ore. L’autista del Tir. Jean Claude Personne, aveva subito presentato la denuncia del furto.  Stamane è stato informato del ritrovamento. L’altro autocarro, il Fiat 650, era stato rubato nella notte a Cine. La «Mercedes» verde è stata ritrovata stamani, verso le 7, a Settimo Torinese, una ventina di chilometri dal luogo del delitto.   V. b.

 

 

 

Foto da archiviolastampa.it

Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 3 ottobre 1976
Un carabiniere è ucciso e un altro ferito dal ladro sorpreso a scaricare un camion
Servizio di: Clemente Granata, Arturo Rampini o Marco Marello
Allarme alla stazione di Ciriè, una pattuglia accorre e scoppia la tragedia.
Un automobilista aveva segnalato: “Stanno scaricando un Tir in un prato” – Partono tre militari, uno affronta, armato di fucile, quattro giovani – Ma un bandito gli strappa l’arma, lo ferisce e fulmina il commilitone che estrae la pistola – L’assassino identificato: un francese coinvolto in loschi traffici

Un carabiniere è caduto sotto il fuoco di un bandito e un altro è stato ferito. È avvenuto ieri alle 5,30 vicino a Ciriè lungo una strada di campagna frustata dalla pioggia tra sterpi e cespugli. I militi vi si erano recati per indagare su un autotreno Tir sospetto, segnalato da un automobilista e 11 sono stati affrontati da quattro individui, uno di loro ha sparato. È già identificato: un francese implicato in loschi traffici, specializzato in furti di camion. SI sa che guidava il Tir, dopo che l’autotreno era stato rubato.

La vittima è Gian Corrado Basso, 22 anni, originario di Pordenone, da circa 11 mesi in servizio presso la stazione di Cirié. Con Basso c’erano Rocco Scarmozzino, 19 anni, da Catanzaro, rimasto ferito a un piede e Pasquale Di Garbo, 20 anni, palermitano. Si sono mossi dalla caserma alle 5 su una «124». Un automobilista poco prima aveva detto al carabiniere di guardia: «Lungo la strada da San Francesco al Campo a San Carlo Canavese, vicino al poligono militare, ho visto due autocarri, alcune persone trasportavano qualcosa dall’uno all’altro. Mi sembra una faccenda poco chiara».

Cosi i carabinieri partono. Basso ha la pistola, Scarmozzino un «Winchester». A loro si unisce Di Garbo. Ha un braccio ingessato e non porta armi, ma la sua presenza è utile perché conosce a perfezione la zona boscosa, attraversata da una strada in terra battuta. L’auto dei carabinieri percorre una decina di chilometri, poi si ferma all’altezza di uno spiazzo oltre il quale c’è un sentiero che termina davanti al cancello del poligono di tiro. Piove a dirotto, è buio. Lungo il sentiero i carabinieri intravedono le sagome di due automezzi, un «Tir» e un «Lupetto» sistemati a una decina di metri l’uno dall’altro.

Scendono Basso e Scarmozzino, Di Garbo rimane sulla macchina. Qualcuno ha scaricato dal Tir macchinette per la distribuzione automatica del caffè, coperte e attrezzature da laboratorio sistemandole sull’altro autocarro. I carabinieri compiono una perlustrazione: nessuno, silenzio. Passa qualche minuto di tensione, poi si sente il rombo di un motore. È una «Mercedes» scura che a fari spenti imbocca il sentiero e si ferma dietro il «Lupetto». Scende un individuo, basso e robusto. Ora c’è una sequenza convulsa che sarà ricostruita attraverso il racconto di Di Garbo.

I carabinieri si avvicinano all’automobilista, si qualificano (perché indossano abiti borghesi) e gli chiedono i documenti. L’altro risponde: «Sono il proprietario del Tir». Scarmozzino che imbraccia il «Winchester» insiste: «Ci dia i documenti». L’automobilista infila la mano nella tasca posteriore, estrae il portafoglio e si avvicina al carabiniere. È un attimo. Si lancia contro Scarmozzino e lo colpisce alla gola con un pugno. II carabiniere cade nel fango, il «killer» gli strappa il fucile e incomincia a sparare. I colpi si susseguono in rapida successione (per terra saranno trovati cinque bossoli). Scarmozzino è colpito a un piede.

Basso, che ha portato la mano verso la fondina della pistola, cade fulminato: vicino all’autocarro una pallottola lo ha ferito a un braccio, la seconda gli ha trapassato il cuore. Di Garbo vorrebbe intervenire, ma è lontano e disarmato. Dalla Mercedes gridano al bandito: «Basta Luciano, vieni». L’assassino sale In macchina impugnando ancora il «Winchester», in breve la Mercedes è lontana. Ora c’è di nuovo silenzio. Si sentono soltanto i lamenti di Scarmozzino e lo scrosciare della pioggia. Di Garbo soccorre il ferito, mette in moto la «124» e va a Ciriè per dare l’allarme.

Giungono col maresciallo Piras i capitani Calisti e Lo Grano, poi sarà la volta dei colonnelli Galvaligi, comandante della Legione carabinieri e Calabrese, comandante del gruppo e del pretore di Ciriè, dott. Di Palma. Primi accertamenti: a chi appartengono i due automezzi? Il Tir è di una società francese, la «Transports G. Bouzac» di Nanterre. Il conducente ne ha denunciato il furto alla questura di Torino. Il «Lupetto» è intestato a un commerciante di frutta e verdura, Pasquale Garbato, 52 anni, da Gragnano in provincia di Napoli, residente a Ciriè in via Remmert 38. Il Garbato tre giorni fa è partito per Grosseto e ha affidato l’autocarro a Domenico Dellipaoli, 32 anni, anch’egli di Ciriè. Non è necessario andare a cercarlo. È lui stesso che alle 7,30, due ore dopo il delitto, si presenta ai carabinieri: «Ho lasciato il camion in piazza Castello a Ciriè venerdì alle 23,30. Ora non c’è più. Me l’hanno rubato».

È ritenuto un teste importante e interrogato. Ma nel frattempo le indagini prendono un indirizzo preciso. Gli inquirenti sono in possesso di una fotografia caduta dalla tasca del «killer» quando ne ha estratto il portafoglio fingendo di prendere i documenti. Ma c’è di più. Il capo della squadra mobile di Aosta dott. Zingales si ricorda di aver fermato tempo fa un francese, abitante a Torino pregiudicato e implicato in loschi traffici su autocarri Tir tra Marsiglia, Aosta e Torino, la cui fisionomia corrisponde alla descrizione che dell’assassino ha fatto il carabiniere Di Garbo. Il francese era riuscito a fuggire dalla questura di Aosta, ma aveva dimenticato la sua carta d’identità e altre fotografie.

Il dott. Zingales con il capo della «mobile» torinese dott. Fersini va a Ciriè dove sono riuniti gli inquirenti e mostra a Di Garbo le fotografie dimenticate dal fuggitivo. Pare che il carabiniere non abbia dubbi: «Sì, è lui l’assassino». Chi è il francese? La polizia ne conosce il nome (pare anche che In questura ci sia un fascicolo sul suo conto), ma per ora non intende rivelarlo. Nel frattempo, mentre le indagini prendono all’improvviso un ritmo convulso e probabilmente decisivo, il corpo del giovane carabiniere caduto sotto i colpi del «killer» è composto in una camera ardente dell’ospedale di Ciriè. Sulla bara mettono una bandiera tricolore. In serata dal Friuli giungono i genitori e i fratelli. Non parlano, se ne stanno chiusi nel loro dolore.

 

 

 

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Articolo dell’11 ottobre 1976
Terrorizzata l’amica di Borgna “Non parlo se no mi uccidono»
Elide Rinaldi è finita in carcere per favoreggiamento

I carabinieri del Nucleo Investigativo braccano Gian Paolo Borgna, l’uomo che sabato scorso era presente a San Carlo Canavese mentre l’autista francese Michel Chartier uccideva a colpi di Winchester il carabiniere Gian Corrado Basso e feriva il commilitone Rocco Scarmozzino. Il giorno in cui è stato arrestato Michel Chartier, Gian Paolo Borgna aveva deciso di costituirsi. «Il peso di un omicidio era troppo grande anche per uno del calibro del Borgna — hanno spiegato gli inquirenti —. Voleva spiegare come lui non c’entrava con l’assassinio: quella di sparare e uccidere era stata una iniziativa personale di Chartier. Poi, evidentemente, qualcosa l’ha trattenuto e non si è più visto». Gian Paolo Borgna sarebbe uno dei capi del «gruppo esecutivo» della banda dei Tir rubati, la nuova organizzazione che da mesi era entrata in concorrenza con quella ben più agguerrita e diretta da «pezzi da 90» della mafia calabrese. Spiegano gli investigatori: «Gian Paolo Borgna era addetto a reperire i Tir da rubare (e questo avveniva per mezzo dei suoi uomini, quattro o cinque in tutto) e il suo compito finiva nel momento in cui piazzava la merce ai ricettatori. L’omicidio del carabiniere ha scompaginato i piani della banda e nei luoghi dove di solito avvenivano le contrattazioni della merce rubata sugli automezzi internazionali, non si trova più nessuno». Il cervello della nuova organizzazione sarebbe una persona irreprensibile che vive in una villa della collina. In questo momentp i carabinieri, al comando del capitano Lotti, Sechi e Lograno stanno compiendo delicate indagini per potere mettere le mani su tutta la banda. Cinque componenti sarebbero già stati identificati e la loro cattura sarebbe imminente. Si è venuti a conoscenza che l’amante di Gian Paolo Borgna, Elide Rinaldi, di 25 anni, si è chiusa nel più assoluto mutismo per paura della vendetta dell’organizzazione. «Non parla ed è stata arrestata per favoreggiamento. Riteniamo sappia molto su tutto quanto il giro», hanno spiegato al Nucleo Investigativo. «E’evidente che è terrorizzata». Il traffico dei Tir rubati ha reso milioni. Quando gli investigatori sono andati nell’elegante appartamento del Borgna in corso Corsica, la portinaia dello stabile ha detto: «Il signor Gian Paolo implicato in un delitto? E’ impossibile: così gentile, educato, pieno di premure. Credevo fosse un serio professionista che guadagnava molto». L’organizzazione dunque usava persone che sapevano comportarsi bene e che non potevano essere sospettate. «Anche se vanno in locali notturni, non assumono mai atteggiamenti sospetti — dicono i carabinieri —. E’ tutta gente che frequenta anche ambienti di stimati professionisti». L’unico neo, l’unica pecca nella banda, il rozzo Michel Chartier, assoldato dalla banda per la sua capacità di guidare i Tir dopo averli rubati e per la sua facilità di farsi passare come legittimo proprietario dell’automezzo perché, essendo francese, era in grado di rispondere in questa lingua a qualche pattuglia dei carabinieri. «Ma i complici non sospettavano che perdesse la testa e uccidesse — hanno aggiunto al Nucleo —. Eppure il francese ha proprio sparato per ammazzare. Dopo avere strappato la carabina al carabiniere Rocco Scarmozzino, ha ucciso con freddezza il collega Gian Corrado Basso; lo Scarmozzino è rimasto solo ferito perché si è buttato sotto il Tir rubato», n. b.

 

 

 

La Stampa del 9 novembre 1976

 

 

 

Articolo da L’UNITÀ del 16 gennaio 1979
Chiesto a Torino il rinvio a giudizio di una «anonima »
In 46 per tre sequestri, omicidi e furti
Chilometrico capo d’imputazione per i membri della pericolosissima banda – Rapirono la Ovazza, la Blangino Bosco e Ruscalla – Liti e ammazzamenti per il bottino – Uno spaccato della mala piemontese.

TORINO —  Tre sequestri   di persona (uno dei   quali   si   è   probabilmente concluso con la morte dell’ostaggio), due tentati sequestri   quattro   tentativi   di   omicidio, due omicidi presunti, associazioni   per delinquere.   furti    e   altri    reati    per   un totale   di   125 capi   di   imputazione, cento imputati per 46 dei quali è stato richiesto il rinvio a giudizio, sono l’oggetto della   imponente    inchiesta    che   si    è    conclusa   ieri a Torino con il deposito della requisitoria   del   dr.  Livio Pepino.  Di qui a un mese il giudice istruttore dott.  Marcello Maddalena dovrebbe firmare   l’ordinanza   di   rinvio   a giudizio: il tempo materiale per adempiere alle ultime formalità prima di passare i voluminosi   fascicoli   al   tribunale per la celebrazione del processo.

I  tre sequestri di persona sono quelli di Emilia Blandino Bosco, titolare  della  ditta di   import-export di carni Stalea di Villastellone, rapita il 16 aprile ‘75 e rilasciata il 24 dello stesso   mese dopo il pagamento di oltre 230 milioni di riscatto; di Carla Ovazza, consuocera di Gianni Agnelli, rapita il 26 novembre 1975 e rilasciata la notte di Capodanno del ’76 dopo il pagamento  di  oltre 600 milioni; quello di Adriano Ruscalla, imprenditore edile, rapito il 15 ottobre ’76 e  non   ancora rilasciato. Si ritiene, pur non avendone raggiunto la prova certa (cioè il rinvenimento del cadavere) che il Ruscalla sia stato ucciso dopo che numerosi appartenenti all’organizzazione erano stati arrestati dai carabinieri. Gli arresti, infatti, furono eseguiti il 22 gennaio ’77 e dopo un paio di mesi nei quali le trattative subirono un brusco rallentamento. I contatti si interruppero definitivamente il 5 marzo ‘77.

Oltre a questi episodi, sicuramente   i   più   clamorosi, nella    lunga    requisitoria    del    dr.  Pepino (167 cartelle) vengono   alla    luce   una   enorme   quantità   di    fatti «minori» (sparatorie, furti, riciclaggio del denaro «sporco», ricettazione) che hanno costellato la vita di Torino e dei suoi dintorni in questi tre anni.  Fatti che, quando salirono all’onore delle cronache (ma il più delle volte   rimasero   sconosciuti) fecero interrogare a lungo inquirenti   e   opinione   pubblica   sul loro reale significato.  Valga   come esempio un incidente   stradale   avvenuto   in   via   Sacchi, a Torino, la sera del 16 novembre 76.  Due giovani, a   bordo di   una motocicletta   di grossa cilindrata, dopo aver urtato un’altra   auto ed   essere rotolati in terra, spararono numerosi colpi di arma da fuoco e scapparono precipitosamente abbandonando la moto (che risultò avere   la   targa rubata) e un fucile a canne mozze. Come mai? Ci si chiese allora. Valeva la pena di rischiare di uccidere qualcuno a rivoltellate per un incidente di poco conto, per il furto di una moto? In realtà i due erano del «clan» che aveva rapito Ruscalla poche settimane prima. Oppure l’omicidio del carabiniere Gian Corrado Basso e il   ferimento del commilitone Rocco Scaramuzzino avvenuti il 2 ottobre ’76 a San Carlo Canavese. I due, dopo una segnalazione, si recarono nelle campagne di San Carlo per bloccare due ladri che erano stati visti scaricare un camion anch’esso rubato.  I carabinieri   puntarono i loro fucili intimando ai malviventi di non muoversi, ma furono sorpresi da uno di essi.  Michel Chartier (alto, grosso, oltre 120 chili di peso) che strappò loro le armi di mano e fece fuoco.
L’omicida fu arrestato pochi   giorni dopo (è già stato rinviato a giudizio al termine di un’altra inchiesta) ma alla luce delle indagini sui tre sequestri si è scoperto che faceva parte, dell’organizzazione, che oltre ai sequestri, aveva in mano il «giro» dei furti dei TIR. Una banda spietata, dunque, che non ha esitato di fronte a nulla pur di salvaguardare i propri traffici e i propri «affari».

Si spiega quindi, come mai, due dei presunti complici del sequestro Ovazza, Luigi Chiarello ed Ernesto Brandetini, il primo carceriere identificato dalle impronte digitali lasciate su un messaggio scritto dalla donna, il secondo telefonista della banda, siano spariti senza lasciare traccia.  E   più   che probabile che siano stati uccisi dai loro stessi complici   per interrompere   le   e piste» che   seguivano   gli    inquirenti.  Dell’omicidio di Chiarello, soprannominato Mimmo il catanese, parla un teste durante un interrogatorio, affermando   che   un carceriere   di   Ruscalla, un certo Mimi, fu ucciso da uno dei   capibanda, Lorenzo Racca, con   un colpo di accetta.  Ma un’affermazione così   poco   circostanziata, oltre alla quale   non   è   emerso altro, non ha permesso   di   formulare   alcun   capo   di imputazione.  Ma le indagini hanno fatto scoprire anche due altri sequestri che erano stati organizzati ma che non furono compiuti proprio per la tempestività dell’intervento degli agenti di polizia.  Uno doveva essere ai danni di un non meglio precisato «miliardario di Stupinigi» (un paese a pochissimi chilometri da Torino).  L’altro contro la figlia del titolare di supermercati nella zona di Novi Ligure, Paola Francesca Degli Antoni.

L’attività della banda — un giro   vorticoso di   milioni —  non poteva  non causare dissidi interni oltremodo violenti. Michele Guerrisi, uno dei carcerieri della Ovazza, dopo il sequestro pretese  100 milioni anziché i 30 pattuiti, e —  già che c’era —  insidiò la cognata di Michele Facchineri, uno dei capi.  Sorpreso dal Facchineri in questo ultimo, inequivocabile atteggiamento, Guerrisi gli sparò contro e fuggì. Il Facchineri gli scagliò contro sia il suo clan (ben otto sono i Facchineri implicati a vario titolo) sia il suo «entourage» di guardaspalle e complici, e per ben tre volte tra il 2 ottobre e il 15 novembre 1976, Guerrisi fu al centro di agguati e sparatorie.

Per riciclare il denaro «sporco» la banda si appoggiava sia su banche, sia su ricettatori, sia acquistando cascine e stabili in paesi…   (illeggibile).