15 Ottobre 1976 Torino. Adriano Ruscalla, Imprenditore 51enne, rapito non se ne è saputo più nulla.

Foto da La Stampa del 16 Ottobre 1976

Il 15 Ottobre 1976 a Torino viene rapito Adriano Ruscalla, imprenditore 51enne, appartenente a una famiglia di noti costruttori. Quattro banditi hanno fatto irruzione all’interno dell’ufficio vendite di un cantiere in corso Telesio Impresario, pistole in pugno, hanno afferrato la vittima e l’hanno trascinata fuori caricandola su un’Alfetta – Testimoni del rapimento (il quindicesimo in Piemonte) una donna e il titolare di un’officina: hanno visto l’impresario dibattersi e lo hanno sentito urlare. Mai più tornato a casa, nonostante i parenti avessero pagato un riscatto di mezzo miliardo di lire.

 

 

 

Articolo di La Stampa del 16 Ottobre 1976
Impresario sequestrato da quattro armati
Alle 18,15, all’interno dell’ufficio vendite di un cantiere in corso Telesio Impresario sequestrato da quattro armati.
È Adriano Ruscalla, 51 anni, appartiene a una famiglia di noti costruttori – I banditi hanno fatto irruzione, pistole in pugno, hanno afferrato la vittima e l’hanno trascinata fuori caricandola su un’Alfetta – Testimoni del rapimento (il quindicesimo in Piemonte) una donna e il titolare di un’officina: hanno visto l’impresario dibattersi e lo hanno sentito urlare – L’uomo ha 3 figli, abita in un’elegante villa di corso Giovanni Lanza – Fino a tarda notte nessun contatto con i rapitori.

Ancora un rapimento a Torino. Ieri alle 18,15, quattro banditi armati hanno sequestrato un costruttore edile di 51 anni, Adriano Ruscalla, titolare con un fratello di una nota società con parecchi cantieri e trenta dipendenti. Lo hanno prelevato all’interno dell’ufficlo-vendite di un nuovo complesso residenziale in corso Bernardino Telesio 8. Due giovani hanno fatto irruzione nei locali al pianterreno. L’hanno agguantato trascinandolo nella strada. Poi l’hanno spinto a forza dentro un’Alfetta bianca dove li attendevano altri due complici. L’uomo è stato subito immobilizzato sui sedili, la vettura è partita a tutta velocità. Le urla della vittima che si dibatteva tentando di resistere, si sono mescolate al rumore del motore imballato. L’episodio si svolge fulmineamente. Il corso è semideserto. Pochi i passanti. Adriano Ruscalla a quest’ora si trova eccezionalmente in ufficio. È solito « staccare » alle 18. Ai dipendenti ogni sera dice: « Abbiamo fatto l’orario, andiamo via ». È un uomo abitudinario. Inizia sempre alle 14, e così anche ieri. Ha tardato perché doveva ricevere un cliente per uno degli ultimi dieci alloggi ancora invenduti sui 250 costruiti dalla sua impresa nel palazzo. Ma il possibile acquirente non si fa vivo. Decide di attendere ancora qualche minuto. Un istante dopo arrivano i banditi. La scena viene osservata dalla strada da una testimone.

È una giovane donna ferma in auto, una 850, in attesa del marito che è andato in un negozio. Vede prima ì banditi a volto scoperto che scendono dall’Alfetta, e si dirigono verso l’ufficio-vendite. L’istinto le fa capire che c’è qualcosa che non va. Capirà tutto un minuto dopo, di fronte alla scena del Ruscalla che si dibatte fra i suoi rapitori. La testimonianza è precisa: « Impaurita, mi sono chinata, temevo che sparassero. Quell’uomo gridava in modo straziante, come una bestia ferita. Mi sono voltata ed ho fatto appena in tempo a scorgere l’Alfetta che si allontanava. Ho potuto però leggere i numeri della targa ». Subito dopo la donna, che è incinta al sesto mese, ha una crisi isterica, scoppia in un pianto irrefrenabile. Così, in lacrime e scossa dai singhiozzi, la trova pochi secondi dopo Claudio Micai, titolare d’una officina al numero 6 di corso Telesio: « Ero accorso sull’uscio dopo aver sentito una voce d’uomo che gridava ed il rombo di una macchina. Ho visto solo il cofano posteriore di un’Alfetta che fuggiva in lontananza e quella donna sconvolta ».

D’improvviso il marciapiede di fronte all’ufficio-vendite del rag. Ruscalla si anima. Esce anche il portinaio del nuovo stabile, Gaetano De Gregorio la cui guardiola è adiacente all’ufficio stesso: « Pochi minuti prima delle 18 avevo visto la luce accesa dal ragioniere, sono entrato per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa. Lui mi ha risposto: ” No grazie, attendo un cliente e me ne vado “. Io, subito dopo, sono sceso in cantina a controllare la caldaia ». Arriva la polizia con il capo della Criminalpol Montesano e quello della Mobile, Fersini, 1 carabinieri del nucleo Investigativo, con il colonnello Calabrese e il capitano Lotti.

Si iniziano le prime indagini quando la famiglia del rapito è ancora all’oscuro di tutto: non sa nulla il figlio maggiore, Gianni, di 24 anni, che abita con la moglie Rosalba Borello, a poche centinaia di metri dal cantiere del padre, in corso Telesio 14; non sanno nulla la moglie del rapito, Carla Cena, 48 anni ed i due figli minori. Paolo, 19 anni e Andrea di 15. Sono i giornalisti a comunicare il sequestro a Gianni Ruscalla. Il giovane impallidisce, poi chiede con un filo di voce: « Ma hanno sequestrato mio padre o mio zio? Lavorano insieme da trent’anni, potevano essere tutti e due in quell’ufficio ». Corre alla finestra, si affaccia e guarda in strada. Vede, posteggiata davanti al numero 8, la « Beta » blu del padre, grida: « È lui, hanno preso lui ». Poi aggiunge: « Da parecchi mesi temeva d’essere rapito, ogni volta che leggeva di un sequestro diceva: “Speriamo che non tocchi a me”. Ma era un uomo preciso: sempre gli stessi orari, sempre gli stessi percorsi. Speriamo che non gli facciano del male ». Angoscia anche nella villa di corso Lanza 101 dove Carla Ruscalla ed i due figli si straziano in ipotesi drammatiche: « È malato di reni, ha bisogno di attenzioni continue ». Intanto è arrivato anche il legale di famiglia, aw. Simonetti. Nella casa, fra mobili di sogno, quadri e tappeti antichi ci si osserva sgomenti, quasi increduli. Ma gli occhi di tutti già corrono al telefono: si aspetta uno squillo, una voce che proponga l’ignobile baratto d’ogni sequestro di persona: un pugno di milioni contro la vita d’un uomo.

Il rapimento di Adriano Ruscalla è il quindicesimo sequestro di persona compiuto in Piemonte. Il primo avvenne a Torino il 3 gennaio ’73, vittima Tony Carello. Dopo il giovane industriale sono stati rapiti Bruno Labate, sindacalista; il manager Luigi Rossi di Montelera; Ettore Amerio, capo del personale Fiat; Fabio Broglia, 18 anni, figlio del primario neurologo di Casale; Pietro Garis, 6 anni, il primo bambino sequestrato; Renato Lavagna, impresario edile; Emilia Blangino Bosco, imprenditore; Antonio Cagna Vallino, studente, figlio di un imprenditore edile; Mario Ceretto, industriale, ucciso dagli aggressori; Marco Cava, figlio di un industriale di Orbassano; Vittorio Vallerino Gancia, industriale; Carla Ovazza, suocera di Margherita Agnelli; infine, Enrico Campidonico, figlio del maggiore commerciante di combustibili della città. È stato rapito il 3 di settembre. Con il sequestro di Adriano Ruscalla, i banditi colpiscono per la terza volta una famiglia che svolge attività nel settore dell’edilizia.

Servizio di: Massimo Boccaletti, Claudio Giacchino, Ezio Mascarino, Renato Rizzo e Renato Romanelli.

 

 

 

Articolo da l’Unità del 17 ottobre 1976   PAG. 5
Finora nessuna notizia 
Di Giovanni  Fasanella
Mano della mafia nel rapimento del costruttore edile a Torino 
Caricato   a forza  su  una « Alfetta » bianca  rubata  sei  mesi  fa
I familiari: «Occorre fare presto.  È malato»

TORINO.   18
Sarebbe opera della mafia il rapimento del costruttore edile  Adriano  Ruscalla,  avvenuto   ieri   sera   a   Torino.   È questa l’ipotesi attorno alla quale stanno lavorando gli inquirenti. Dell’impresario ancora nessuna notizia. I suoi familiari hanno trascorso la notte in ansiosa attesa di qualche messaggio telefonico, ma i rapitori non si sono fatti vivi.

Al rapimento hanno assistito due ragazzi e una signora in stato interessante, di cui non sono stati   rivelati i nomi.  Ecco il racconto che hanno fornito ai carabinieri e  alla     polizia.  «Erano le 18,45. A un certo punto abbiamo visto tre   giovani che con la forza   stavano costringendo un uomo a salire su un’«Alfetta» bianca.  L’uomo, che urlava   e invocava aiuto, è stato sospinto sull’auto, che è subito partita a gran velocità. Abbiamo    pensato si trattasse di un sequestro ed abbiamo avvertito i carabinieri».

Adriano Ruscalla è stato rapito nell’ufficio vendita di uno stabile appena costruito dall’impresa di cui egli è titolare.

Le    indagini     si     muovono     seguendo una pista abbastanza   precisa: la   mafia.   Vediamo   su   quali   elementi   poggia   questa    ipotesi.    Innanzitutto, l’«Alfetta» bianca è stata rubata nel   giugno    scorso   e   i quattro   rapitori   hanno   agito   a    viso    scoperto.   Questo    significa   che   il piano del rapimento era stato preparato almeno   da   sei   mesi   e che   esisterebbe un’organizzazione non improvvisata, con ampie   ramificazioni al Nord come al  Sud.

In   secondo   luogo, il   fatto   che   anche   questa    volta    sia    stato rapito un   impresario   edile, fa    ritenere   agli    inquirenti   che   il   progetto   del   sequestro    Ruscalla    sia    maturato negli   stessi ambienti  in cui   si   decisero   quelli   di   Ceretto, Cagna   Vallino, Gari   e   così   via.  Si pensa   quindi   all’«anonima sequestri», legata   alla   mafia   dell’edilizia.

Sequestro a scopo di   estorsione?   Tutto, allo   stato attuale delle cose, farebbe ritenere   di   sì.  C’è,  tuttavia, chi   non    esclude    possa    trattarsi    di   un   rapimento   per   vendetta, per   intimorire   o —  come avvenne per Ceretto —  eliminare    un    temibilissimo    concorrente.   Quest’ultima    ipotesi, appare abbastanza   improbabile, almeno stando alle dichiarazioni    dei   familiari    del    costruttore.

La famiglia   di Adriano Ruscalla   opera   nel   settore   edilizio   da   almeno   tre    generazioni.  All’inizio degli anni   ’50.   quando   il   padre   Giovanni    e   lo zio Costantino   cominciarono a mettere uno sull’altro i   primi mattoni, la    loro    era    un’impresa   ancora   a   carattere   artigianale.   In   seguito   al «boom» edilizio del dopoguerra.  fino   alla   prima   metà   degli anni   ’60.  la ditta   si   è   ingrossata.  è diventata un   vero e   proprio   impero.   A   Torino, e forse in tutta la regione, la «Giovanni Ruscalla Costruzioni Edili   S.p.A.», è diventata   la   più   nota   e anche   la più   grossa.   Palazzi    lussuosi    costruiti   un   po’ dappertutto: è facile immaginare quali   ingenti ricchezze abbia accumulato    in   trent’anni    d’attività    la   famiglia    Ruscalla.

«Non   ci   sono   giunte   telefonate con richieste — ha   affermato   Sergio   Ruscalla   stamane   durante   la   conferenza   stampa     —   Attendiamo    con   ansia   un   messaggio dei   rapitori     Li   preghiamo    soltanto    di    fare    presto, perché    mio    fratello    è   ammalato, ha    bisogno di cure e di molta   tranquillità.    Io   stesso    sono    disposto alla trattativa.   Li preghiamo   soltanto   di   fare   presto: per   noi   la   vita   vale   più   di ogni altra   cosa».

 

 

Articolo di La Stampa del 18 Ottobre 1976
Ai Ruscalla telefonano gli sciacalli i veri rapitori continuano a tacere
Cresce l’angoscia per il sequestro dell’impresario edile. Ricostruiti col “fotofit” i volti di due banditi – Secondo gli inquirenti, è possibile identificarne uno.

Nel sequestro di Adriano Ruscalla forse i banditi sperimentano una nuova tecnica. Per aggirare l’ostacolo di un eventuale blocco della somma destinata al riscatto da parte della magistratura, non si servono dei telefoni che. sanno come sempre controllati. Probabilmente hanno escogitato qualche altro mezzo per comunicare con la famiglia. Non si esclude neppure la possibilità che il contatto avvenga in un’altra città, Milano per esempio, dove i Ruscalla hanno rapporti d’affari con parenti che lavorano nel settore edilizio. Intanto però le ore passano e l’angoscia cresce. La moglie e stata colta da un collasso. I familiari passano le ore accanto al telefono della villa di corso Giovanni Lanza e nell’ufficio di via Cesare Lombroso 25. Anche l’avvocato Angelo Simonetti è rimasto in casa nell’eventualità che i banditi si rivolgano a lui. Sono arrivate soltanto cinque telefonate di sciacalli. La prima, la notte stessa del sequestro. Lo sconosciuto chiedeva 50 milioni. C’è stato qualche attimo di agitazione, ma è stato subito chiaro che si trattava di qualcuno che cercava di speculare ignobilmente sul dramma che sconvolge la famiglia Ruscalla.

La tecnica di prolungare il silenzio è stata usata altre volte: spacca i nervi e rende più docili le vittime. Inoltre popola la fantasia di timori tremendi: insinua il dubbio che possa trattarsi di un sequestro atipico, per una assurda vendetta, o per qualunque altro motivo, e la richiesta del riscatto diventa, allora, addirittura una « liberazione ». Le indagini intanto proseguono senza sosta. Ogni minimo indizio è seguito. Gli stessi investigatori, tuttavia non si nascondono le immense difficoltà che si accumulano. Sanno di avere a che fare con una organizzazione agguerrita, perfettamente collaudata. Ci sono precisi elementi che dimostrano che non ci si trova di fronte a dilettanti. In primo luogo il fatto che il « commando » dei rapitori abbia agito a viso scoperto (due hanno atteso per quasi un’ora, appoggiati ad un’auto davanti al cantiere, l’uscita di Adriano Ruscalla) fa ritenere che gli autori del sequestro siano giunti da un’altra città, attinti chissà dove dall’organizzazione.

Poi c’è l’«Alfetta» rubata il 16 settembre scorso, e tenuta per lungo tempo nascosta: un altro indizio di preparazione accurata. Le descrizioni che i testimoni (e sono numerosi) hanno fatto dei banditi, hanno portato alla costruzione di due « fotofit », definiti molto somiglianti. Per uno di essi, scuro di capelli, ricciuto, con il naso schiacciato e le labbra « grosse e carnose », si parla addirittura di possibile identificazione. Sopralluoghi e perquisizioni sono stati compiuti nella « cintura » dove si sospetta possa essere situata la « prigione » dell’impresario. E’ stato anche ricostruito un tratto del percorso compiuto dall’« Alfetta » dei banditi mentre si allontanavano dal luogo del sequestro: da corso Bernardino Telesio la macchina si sarebbe immessa in corso Appio Claudio, un’arteria ampia e percorsa da scarso traffico, e di qui si sarebbe diretta al Parco della Pellerina, dove probabilmente sarebbe avvenuto il cambio di auto.

 

 

Articolo di La Stampa del 29 Novembre 1976
“Sto accanto al telefono, è un’attesa terribile sono 15 giorni che i banditi non si fanno vivi”
di Nevio Boni
Intervista con la moglie di Adriano Ruscalla, rapito 44 giorni fa “Sto accanto al telefono, è un’attesa terribile sono 15 giorni che i banditi non si fanno vivi”

Sono ormai trascorsi 44 giorni dal rapimento dell’imprenditore edile Adriano Ruscalla, sequestrato sotto il suo cantiere di via Bernardino Telesio da quattro banditi a viso scoperto. «Una operazione condotta senza alcuna paura — hanno detto gli inquirenti —. Il commando dei sequestratori, è evidente che fa parte di una agguerrita organizzazione». «E’ probabile che l’Anonima Sequestri abbia usato per questo rapimento gente che non ha alcun timore di venire riconosciuta. Arrivano dalla Calabria, compiono il sequestro senza mascherarsi e poi tornano tranquillamente sull’Aspromonte. Il rapito ciene “rilevato” da un secondo gruppo che lo accompagna alla prigione dove subentrano i “carcerieri”». Cosi spiegano gli investigatori l’organizzazione dell’Anonima Sequestri. Le indagini basate sulle testimonianze abbastabza precise di persone che avevano visto in volto i rapitori di Adriano Ruscalla non sono approdate a nulla. Intanto la famiglia Ruscalla vive nell’angoscia.

Ci ha detto la moglie dell’imprenditore: «Vivo accanto al telefono. Aspetto sempre che da un mumento all’altro qualcuno si faccia vivo e invece nulla. Sono passati 15 giorni dall’ultima comunicazione. Questo silenzio ci logora i nervi e ci terrorizza. E’ stato rotto il silenzio stampa con affermazioni inesatte — ha continuato la donna —. Si è detto che i banditi hanno chiesto 6 miliardi. Non è vero.non è vero nulla. Noi aspettiamo ancora che i rapitori facciano delle richieste precìse». Come ha saputo che la telefonata era quella giusta? «E’ stato durante i primi giorni dopo il sequestro. La voce al telefono ha descritto perfettamente l’orologio al polso di mio marito: il cinturino, la cassa, la marca. E’ stata la prova. Nei giorni successivi sono arrivate altre telefonate, ma brevissime che non hanno praticamente detto nulla. L’ultima è di quindici giorni fa. Terribile».

Sembra però che in una delle ultime comunicazioni i banditi abbiano chiesto seicento milioni. La famiglia Ruscalla sarebbe in grande difficoltà e trovare una cifra del genere «Dobbiamo svendere ma anche così facendo saremo lontani da una tale somma». Pare che i milioni disponibili ammontino a un centinaio e sarebbero stati raccolti con l’aiuto di amici e conoscenti. Si attende in queste ore dunque la telefonate decisiva. La battuta della polizia e dei carabinieri di due giorni fa, nella campagna fra Volvera e Orbassano aveva gettato una luce di speranza. «L’informazione è giusta — avevano spiegato — Chi ci ha detto che era in una certa cascina la prigione di Adriano Ruscalla, è persona attendibilissima».

Invece la vasta operazione non aveva dato alcun risultato. Chi aveva colto una «strana» conversazione in un bar che parlava di «imprenditore rapito in un vecchio cascinale a Orbassano», si era sbagliato. La psicosi dei sequestri fa fare numerose telefonate e tutte devono essere prese in considerazione. I carabinieri si dibattono così in un dedalo di informazioni confuse che non fanno altro che aumentare la tensione e costringono i militi a un grande dispendio di energie. «Per un momento avevamo sperato — ha detto la signora Ruscalla — e invece Adriano è ancora prigioniero di quella gente che, chissà perché, non si fa più viva».

 

 

Articolo di La Stampa del 31 Dicembre 1976
Capodanno da incubo
Ruscalla e Rosso ancora sequestrati Capodanno da incubo. L’impresario edile è prigioniero dal 15 ottobre, il titolare della Usa Express dal 30 novembre – Indagini sulla mafia calabrese

Ancora una volta in Piemonte le vittime di un sequestro si preparano a trascorrere un Capodanno da incubo, ostaggi Inermi In mano ai rapitori, mentre s’accresce durante i giorni di festa l’angoscia delle loro famiglie. Era toccato in precedenza a Luigi Rossi di Montelera, nel 1973, ed alla consuocera di Agnelli, Carla Ovazza, liberata proprio all’alba del 1976, l’anno nero che in un crescendo di paura vide nove persone imprigionate a scopo d’estorsione. Oggi sono nelle mani dei banditi il costruttore edile Adriano Ruscalla, di 51 anni, sequestrato 11 15 ottobre, e l’industriale Romano Rosso, di 46 anni, rapito nel tardo pomeriggio del 30 novembre.

Le vittime.
Adriano Ruscalla appartiene a una nota famiglia di costruttori ed è titolare, col fratello, di una società con parecchi cantieri e trenta dipendenti; sposato e padre di tre figli abita in una villa di corso Giovanni Lanza 101, poco distante dalla palazzina della famiglia di Pietro Garis, il bimbo rapito nella primavera del ’75.
Nella stessa zona esclusiva della collina, in corso Alberto Picco 35, abita l’Industriale Romano Rosso: anch’egli sposato, con tre figli (1 maschio e 2 gemelle), è proprietario della lisa Express (industria laminazione stampaggio alluminio) di corso Pastrengo 46 a Collegno. / sequestri.

Per molti versi simile appare l’azione del banditi che hanno preso in ostaggio i due uomini, strappandoli alla loro vita quotidiana quasi alla stessa ora, al termine di una giornata lavorativa.

Adriano Ruscalla viene prelevato verso le 18,15 nell’ufficio vendite di un nuovo complesso residenziale in corso Teleslo 8 da un commando di rapitori che lo trascina di forza su una «Alfetta»: unica testimone, una passante ferma in attesa del marito su una «850», che vede la vittima dibattersi e gridare disperatamente.

Nessuno Invece assiste al sequestro di Romano Rosso, bloccato dai banditi sulla propria auto mentre rincasa dall’ufficio, poco dopo le 18: solo mezz’ora dopo (alle 18,45) un dipendente della lisa Express trova la «Renault» dell’industriale vuota e bloccata col fari accesi In via del Brucco, a Collegno. Una lieve strisciata sul fianco sinistro della vettura e tracce di frenata sull’asfalto non lasciano dubbi, è il sedicesimo rapimento in Piemonte.

Le trattative.
Con il « silenzio stampa» richiesto dalle famiglie, giornali e televisione hanno tentato di contribuire ad una rapida liberazione degli ostaggi. Polizia e carabinieri non si sono mossi avventatamente per non costringere i rapitori a reazioni inconsulte, lo stesso atteggiamento ha tenuto per ora la magistratura. Ma, alla vigilia di Capodanno, Adriano Ruscalla e Romano Rosso sono ancora tenuti prigionieri.

Da chi, in quale cella o cascinale, quanto pretendono i banditi? Domande senza risposta, come rimangono insoluti gli Interrogativi che riguardano la matrice del sequestri, 1 manovali reclutati per l’azione ed i loro mandanti.

Si parla ancora di mafia calabrese, di indagini condotte fino nei contrafforti dell’Aspromonte: dopo l’esempio di un milanese rapito e trasferito verso la Calabria in una betoniera — commentano gli inquirenti — nessuna ipotesi può essere esclusa. Poco o nulla, comunque, trapela dal riserbo che i familiari mantengono sulle trattative. Più avanzate sembrano quelle per la liberazione del Ruscalla, in cui sarebbe stato raggiunto l’accordo per un acconto di 600 milioni: ma il silenzio seguito al primi approcci telefonici ha fatto temere il peggio, mettendo persino in dubbio il vero movente del sequestro (vendetta invece che estorsione?).

Ancora più misteriosa la sorte di Romano Rosso che non potrebbe, secondo affermazioni dei congiunti, versare cifre esorbitanti per il riscatto: dopo un’unica telefonata anche su questa trattativa è scesa una cortina di atroce silenzio. ro. re.

 

 

Articolo da L’UNITÀ del 16 gennaio 1979
Chiesto a Torino  il  rinvio a giudizio di una «anonima »
In 46 per tre sequestri, omicidi e furti
Chilometrico capo d’imputazione per i membri della pericolosissima banda – Rapirono la Ovazza, la Blangino Bosco e Ruscalla – Liti e ammazzamenti per il bottino – Uno spaccato della mala piemontese.

TORINO —  Tre sequestri   di persona (uno dei   quali   si   è   probabilmente concluso con la morte dell’ostaggio), due tentati sequestri   quattro   tentativi   di   omicidio, due omicidi presunti, associazioni   per delinquere.   furti    e   altri    reati    per   un totale   di   125 capi   di   imputazione, cento imputati per 46 dei quali è stato richiesto il rinvio a giudizio, sono l’oggetto della   imponente    inchiesta    che   si    è    conclusa   ieri a Torino con il deposito della requisitoria   del   dr.  Livio Pepino.  Di qui a un mese il giudice istruttore dott.  Marcello Maddalena dovrebbe firmare   l’ordinanza   di   rinvio   a giudizio: il tempo materiale per adempiere alle ultime formalità prima di passare i voluminosi   fascicoli   al   tribunale per la celebrazione del processo.

I  tre sequestri di persona sono quelli di Emilia Blandino Bosco, titolare  della  ditta di   import-export di carni Stalea di Villastellone, rapita il 16 aprile ‘75 e rilasciata il 24 dello stesso   mese dopo il pagamento di oltre 230 milioni di riscatto; di Carla Ovazza, consuocera di Gianni Agnelli, rapita il 26 novembre 1975 e rilasciata la notte di Capodanno del ’76 dopo il pagamento  di  oltre 600 milioni; quello di Adriano Ruscalla, imprenditore edile, rapito il 15 ottobre ’76 e  non   ancora rilasciato. Si ritiene, pur non avendone raggiunto la prova certa (cioè il rinvenimento del cadavere) che il Ruscalla sia stato ucciso dopo che numerosi appartenenti all’organizzazione erano stati arrestati dai carabinieri. Gli arresti, infatti, furono eseguiti il 22 gennaio ’77 e dopo un paio di mesi nei quali le trattative subirono un brusco rallentamento.  I contatti   si interruppero definitivamente il 5 marzo ‘77.

Oltre a questi episodi, sicuramente   i   più   clamorosi, nella    lunga    requisitoria    del    dr.  Pepino (167 cartelle) vengono   alla    luce   una   enorme   quantità   di    fatti «minori» (sparatorie, furti, riciclaggio del denaro «sporco», ricettazione) che hanno costellato la vita di Torino e dei suoi dintorni in questi tre anni.  Fatti che, quando salirono all’onore delle cronache (ma il più delle volte   rimasero   sconosciuti) fecero interrogare a lungo inquirenti   e   opinione   pubblica   sul loro reale significato.  Valga   come esempio un incidente   stradale   avvenuto   in   via   Sacchi, a Torino, la sera del 16 novembre 76.  Due giovani, a   bordo di   una motocicletta   di grossa cilindrata, dopo aver urtato un’altra   auto ed   essere rotolati in terra, spararono numerosi colpi di arma da fuoco e scapparono precipitosamente abbandonando la moto (che risultò avere   la   targa rubata) e un fucile a canne mozze. Come mai? Ci si chiese allora. Valeva la pena di rischiare di uccidere qualcuno a rivoltellate per un incidente di poco conto, per il furto di una moto? In realtà i due erano del «clan» che aveva rapito Ruscalla poche settimane prima. Oppure l’omicidio del carabiniere Gian Corrado Basso e il   ferimento   del commilitone Rocco Scaramuzzino avvenuti il 2 ottobre ’76 a San Carlo Canavese. I   due, dopo   una   segnalazione, si recarono nelle campagne di San Carlo per bloccare due ladri che erano stati visti scaricare un camion anch’esso rubato.  I carabinieri   puntarono   i   loro fucili intimando ai malviventi di non muoversi, ma furono sorpresi da uno di essi.   Michel   Chartier (alto, grosso, oltre 120 chili di peso) che strappò loro le armi di mano e fece fuoco.
L’omicida fu arrestato pochi   giorni   dopo (è già   stato rinviato a giudizio al termine di un’altra   inchiesta) ma alla luce delle indagini sui tre sequestri si è scoperto che faceva parte, dell’organizzazione, che oltre ai sequestri, aveva in mano il «giro» dei furti dei TIR. Una banda spietata, dunque, che non ha esitato di fronte a nulla pur di salvaguardare i propri traffici e i propri «affari».

Si spiega quindi, come mai, due dei presunti complici del sequestro Ovazza, Luigi Chiarello ed Ernesto Brandetini, il primo carceriere identificato dalle impronte digitali lasciate su un messaggio scritto dalla donna, il secondo telefonista della banda, siano spariti senza lasciare traccia.  E   più   che probabile che siano stati uccisi dai loro stessi complici   per interrompere   le   e piste» che   seguivano   gli    inquirenti.  Dell’omicidio di Chiarello, soprannominato Mimmo il catanese, parla un teste durante un interrogatorio, affermando   che   un carceriere   di   Ruscalla, un certo Mimi, fu ucciso da uno dei   capibanda, Lorenzo Racca, con   un colpo di accetta.  Ma un’affermazione così   poco   circostanziata, oltre alla quale   non   è   emerso altro, non ha permesso   di   formulare   alcun   capo   di imputazione.  Ma le indagini hanno fatto scoprire anche due altri sequestri che erano stati organizzati ma che non furono compiuti proprio per la tempestività dell’intervento degli agenti di polizia.  Uno doveva essere ai danni di un non meglio precisato «miliardario di Stupinigi» (un paese a pochissimi chilometri da Torino).  L’altro contro la figlia del titolare di supermercati nella zona di Novi Ligure, Paola Francesca Degli Antoni.

L’attività della banda — un giro   vorticoso di   milioni —  non poteva   non causare dissidi interni oltremodo violenti. Michele Guerrisi, uno dei carcerieri della   Ovazza, dopo il sequestro pretese    100 milioni   anziché i 30 pattuiti, e —  già che c’era   —  insidiò la   cognata di Michele Facchineri, uno dei capi.  Sorpreso dal Facchineri in questo ultimo, inequivocabile atteggiamento, Guerrisi gli sparò contro e fuggì. Il Facchineri gli scagliò contro sia   il   suo   clan (ben otto sono i Facchineri   implicati   a vario titolo) sia    il   suo «entourage» di guardaspalle e complici, e per ben tre volte tra il 2 ottobre e il 15 novembre 1976, Guerrisi fu al centro di agguati e sparatorie.

Per riciclare il denaro «sporco» la banda si appoggiava sia su banche, sia su ricettatori, sia acquistando cascine e stabili in paesi…   (illeggibile).

 

 

 

Fonte: L’UNITÀ del 12 febbraio 1980
Forse  trovati quattro corpi di sequestrati
Lo scavo sospeso provvisoriamente riprenderà oggi – Trovati i soldi di un altro riscatto

CATANZARO –    Le ruspe dei carabinieri hanno scavato ieri, per tutta la giornata, nelle campagne di Mammola, sui contrafforti dell’Aspromonte in quello che gli inquirenti ritengono un «cimitero della mafia». Poi il lavoro è stato interrotto nel tardo pomeriggio quando si cominciava ad avvertire   nello scavo un forte sentore di cadavere.  Si continuerà a lavorare oggi.

Finora, l’unica scoperta è stato il motoscooter del pastore Cosimo Trichilo, forato da numerosi pallettoni, ma si lavora alacremente alla ricerca dei corpi di alcuni sequestrati da anni rapiti e mai ritornati a casa.

È questa infatti l’ipotesi seguita e che rilancia in grande stile il ruolo e il peso della ‘ndrangheta Calabrese nell’industria nazionale dei sequestri di persona. I corpi che i carabinieri cercano sono   quelli della signora Mariangela Passiatore Paoletti, rapita quattro anni fa nella sua villa di Brancaleone; del   farmacista di Mammola Vincenzo Macrì, ma anche di due persone il cui rapimento è stato portato a termine nel nord Italia, per la precisione a Torino e a Milano.

In questa direzione, precisi riscontri sarebbero stati trovati, in queste ore, in casa di alcuni dei dodici   arrestati nell’operazione di venerdì scorso che aveva avuto un seguito sabato con il fermo, poi tramutato in arresto, di altri quattro elementi facenti parte delle cosche che operano sulla costa ionica-reggina.

Le indiscrezioni filtrate ieri, parlano dell’industriale torinese Adriano Ruscalla. sequestrato il 15 ottobre del ’76 e che non ha mai fatto ritorno a casa e del banchiere di Ginevra David Beissah, 65 anni, rapito a Milano l’8 marzo del ‘78. In particolare, dei 400 milioni pagati per la liberazione dell’uomo di affari svizzero, buona parte sarebbe stata ritrovata nelle abitazioni di alcuni degli arrestati e inoltre pare vi sia la certezza che il pagamento del riscatto sia avvenuto proprio in Aspromonte.
Da   qui   l’ipotesi che anche la prigione di Ruscalla e di Beissah sia stata preparata negli anfratti e nelle boscaglie della montagna reggina.

Altro elemento che porta alla conclusione che ci si trova dinanzi ad una vera e propria centrale   operativa dell’anonima sequestri, è il rinvenimento, sempre in casa degli arrestati, di tende, tute   mimetiche, passamontagna, l’armamentario cioè necessario per portare a compimento un sequestro    di   persona, mentre  è di ieri pomeriggio la scoperta, sempre vicino Mammola, della prigione del piccolo Fabio Sculli, il bambino di otto anni rapito a Ferruzzano nel luglio dell’anno scorso.

Le  indagini   dei   carabinieri   avevano  portato  al   sequestro   di   banconote   provenienti   anche   dal    riscatto    pagato   per   la  liberazione  di  Annarita  Matarazzi  (una studentessa 17enne  di  Siderno rapita l’agosto scorso),  per  cui  la  conclusione  alla  quale  si  è  giunti  è  che  —  dopo   l’operazione   del   30   dicembre   del   ’79  con   l’emissione   di   120  ordini   di   cattura   —  finalmente si  è colpita una delle centrali operative delle cosche mafiose della costa jonica, soprattutto dell’industria dei sequestrati di persona.

E   tutto   ciò, inevitabilmente, ha fatto emergere il «ruolo nazionale» della mafia calabrese in questa attività criminosa, i ramificati collegamenti con le bande che operano nel nord Italia se è vero che, oltre a Ruscalla e a Beissah, gli arresti di venerdì scorso permettono   un   collegamento   anche   col   sequestro e col successivo assassinio dell’industriale torinese Mario Ceretto.

In carcere sono infatti finiti, fra gli altri, i fratelli Antonio e Pietro La Scala, indiziati di tentato omicidio nei confronti di un giovane di Locri che si sarebbe rifiutato di testimoniare a   favore    di    un altro La Scala, condannato a 18 anni dalla Corte di Assise di Torino per il sequestro Ceretto.

È il metodo   tipicamente   mafioso   di punire chi «sgarra» o non rispetta   le regole del gioco e   negli ultimi tre anni molti sono stati i testimoni scomodi che hanno visto o hanno rotto    il    muro    di    omertà e che per questo sono stati uccisi.  Nel cimitero della mafia si cercano, ora.  anche i loro corpi.  F.V.

 

 

 

Articolo del 26 Luglio 1989 da La Repubblica
CUNEO, EVADE UN CAPO DELL’ ANONIMA

CUNEO È evaso dal carcere di Fossano (Cuneo) Lorenzo Racca, 55 anni, condannato a 30 anni di carcere come capo di una banda di sequestratori che rapì tre torinesi: Carla Ovazza, consuocera di Giovanni Agnelli, e gli imprenditori Emilia Blangino Bosco e Adriano Ruscalla. Ruscalla morì durante la prigionia e il suo corpo non fu mai ritrovato. Racca, che è originario di Sommariva bosco (Cuneo), non è rientrato da un permesso di cinque giorni, che scadeva il sette luglio scorso. Prima di scomparire ha lasciato, nella casa della moglie, a Baldissero d’Alba (Cuneo), due lettere. In esse minaccia la donna per essersi separata e chiede scusa ai parenti per la sua vita. I tre sequestri per i quali è stato condannato avvennero tra il ‘ 75 e il ‘ 76. Lorenzo Racca e il fratello Giovanni,anch’ egli arrestato e condannato a 30 anni di prigione, erano a capo di una organizzazione calabro-piemontese. Polizia e carabinieri sospettano che Racca abbia mantenuto contatti con elementi mai identificati della banda e che possa essersi rifugiato in Calabria. Nella regione infatti gli investigatori ritengono possano trovarsi alcuni degli uomini che presero parte ai rapimenti.

 

Fonte: adnkronos.com 

Nizza. Arrestato il latitante Lorenzo Racca, ricercato per il sequestro dell’imprenditore Adriano Ruscalla, rapito a Torino nel 1976 e mai piu’ tornato a casa, nonostante i parenti avessero pagato un riscatto di mezzo miliardo di lire. Racca, condannato a 28 anni di reclusione, era fuggito dal carcere in cui era detenuto al termine di una licenza premio.

 

 

 

One Comment

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *