22 Aprile 1999 Favara (AG). Resta ucciso il piccolo Stefano Pompeo, in un agguato mafioso,

Foto archivio Giornale di Sicilia da: centropasolini.it   

Favara (AG). Una vita spezzata a soli 11 anni. Quella di Stefano Pompeo, vittima della mafia e della barbarie umana. La tragedia di Stefano Pompeo si consuma la sera di mercoledì 22 aprile 99. Il piccolo decide di accompagnare il padre, impegnato nella macellazione di un maiale da cucinare e da consumarsi nella campagna di proprietà di Carmelo Cusumano, ritenuto capo di una cosca di Favara, con altre persone. I due arrivano poco dopo le 18. Alle 20,40 Stefano decide di salire sul Fuoristrada del Cusumano, guidata da Vincenzo Quaranta, per andare a comperare il pane. È troppa la sua voglia di fare un giro su quella Jeep. Poco dopo, però, l’auto viene colpita da tre colpi di fucile. Stefano viene raggiunto alla testa. Arriverà già morto in ospedale. I killer sbagliano bersaglio. Credono che sull’auto vi sia proprio Carmelo Cusumano ed invece spengono la piccola esistenza di Stefano. Un delitto che suscita profonda commozione in tutt’Italia. Un anno dopo la risposta dello Stato con l’operazione Fratellanza che decima le due famiglie mafiose di Favara in guerra: quella dei Cusumano e quella dei Vetro. A Stefano Pompeo, Favara il 29 settembre 2002 intitola la villa del paese. Stefano è oggi riconosciuto vittima della mafia dallo Stato. Ed anche vittima di una società in cui il valore della vita umana, anche quella di un bambino, conta poco o nulla. Un sacrificio, quello di Stefano, che deve servire da monito. (Nota di Televideo Agrigento del 2003)

 

 

 

Fonte: Televideo Agrigento
Favara. La triste storia di Stefano Pompeo.
Notiziario di Mercoledì 26 Febbraio 2003

Un dolore ancora vivo, una ferita aperta quella tragica sera del 22 aprile del 99. Una vita spezzata a soli 11 anni. Quella di Stefano Pompeo, vittima della mafia e della barbarie umana. La tragedia di Stefano si consuma la sera di mercoledì 22 aprile 99. Il piccolo decide di accompagnare il padre, impegnato nella macellazione di un maiale da cucinare e da consumarsi nella campagna di proprietà di Carmelo Cusumano, ritenuto capo di una cosca di Favara, con altre persone. I due arrivano poco dopo le 18. Alle 20,40 Stefano decide di salire sul Fuoristrada del Cusumano, guidata da Vincenzo Quaranta, per andare a comperare il pane. E’ troppa la sua voglia di fare un giro su quella Jeep. Poco dopo, però, l’auto viene colpita da tre colpi di fucile. Stefano viene raggiunto alla testa. Arriverà già morto in ospedale. I killer sbagliano bersaglio. Credono che sull’auto vi sia proprio Carmelo Cusumano ed invece spengono la piccola esistenza di Stefano. Un delitto che suscita profonda commozione in tutt’Italia. Un anno dopo la risposta dello Stato con l’operazione Fratellanza che decima le due famiglie mafiose di Favara in guerra: quella dei Cusumano e quella dei Vetro. A Stefano Pompeo, Favara il 29 settembre scorso intitola la villa del paese. Stefano è oggi riconosciuto vittima della mafia dallo Stato. Ed anche vittima di una società in cui il valore della vita umana, anche quella di un bambino, conta poco o nulla. Un sacrificio, quello di Stefano, che deve servire da monito.

 

 

Articoli da L’Unità del 23 Aprile 1999
“Non stupiamoci dell’orrore”
Fava: “La peggiore minaccia mafiosa è la capacità di letargo”
di Claudio Fava

Esiste un modo elegante e feroce per tornare a parlare di mafia: aspettare l’offesa di un’altra morte ignobile. Per uscirsene poi con una battuta su Sagunto: mentre nei cenacoli romani si discute sulla fine ormai prossima di Cosa Nostra, in Sicilia le cosche continuano a sparare addosso ai ragazzini.
Il fatto è che quei bambini giustiziati non aggiungono nulla all’oltraggio mafioso. Nemmeno il ragazzino di Favara, nemmeno lui riesce a regalarci orrore: un agguato, una rosa di pallettoni, lamira un po’ rozza dei guappi di provincia e pazienza se ci va di mezzo un ragazzino di 11 anni, peggio per lui che s’è fatto trovare nel posto sbagliato e nel momento sbagliato…
Fa parte del gioco. Un gioco senza regole, dove ogni scorciatoia è permessa, ogni pena è esclusa. L’errore, il nostro errore, sta in questa periodica ellisse di stupore, come se l’alfabeto di Cosa Nostra conoscesse misure o pudori.
L’errore nel nostro bisogno di statistiche, di conforto dei numeri che ci spiegano quanti morti in meno o in più dall’ultima mattanza mafiosa.
I morti sono diminuiti, dicono oggi le cifre. Le cosche decimate, i baroni mafiosi in galera, i picciotti allo sbando.
Abbiamo svuotati i covi, abbiamo riempito le aule di tribunale. Poi, ammazzano un bambino e quell’artificio di numeri d’improvviso evapora.
Ecco il vizio: questo eterno oscillare tra un improvviso bisogno di emergenza e la pigrizia dei vincitori. Senza comprendere che la più grave minaccia della mafia sta proprio nella sua capacità di letargo.
In questo tempo lento che tiene insieme tritolo e silenzio, le improvvise fiammate di violenza con lunghe pause di armistizio. Non so quanta strategia vi sia e quanta necessità; so che è la fisiologia del comportamento mafioso, la loro abitudine a misurare i passi e i gesti. Senza mai celebrazioni e senza lutti.
A noi non è concesso. A noi tocca il peso dei lutti e l’orgoglio delle fiaccolate. A noi resta il privilegio dello stupore, quando scopriamo che non ci sono più regole, che non ce ne sono mai state e anche quelle cartoline sugli uomini d’onore (loro che almeno rispettavano donne e infanti) erano monete false, come falsa e stolta l’idea di averli finalmente costretti alla resa. Ma a Favara, il paese in cui hanno ucciso quel bambino di 11 anni, qualche mese fa avevano accolto il procuratore Caselli dando fuoco alla scuola in cui avrebbe dovuto parlare. Ci mandano a dire che non ci sono zone franche nella sfida mafiosa: o noi o loro.

 

 

Stefano, undici anni assassinato dalla mafia
di Walter Rizzo
Il bimbo era con un amico del padre a bordo di un’auto a Favara – Lo ha ucciso un colpo alla testa.
L’incredibile silenzio del paese  – A scuola e nella classe del ragazzino ieri niente lutto ma lezioni regolari.

AGRIGENTO Un bambino di 11 anni ammazzato con una raffica di pallettoni alla testa. Ancora un orrore, ancora una «normale» giornata di violenza folle che non guarda in faccia nessuno, che spezza una vita che non ha avuto il tempo di gustare il sapore del mondo.
Ancora una volta un bambino. Ancora una volta in Sicilia, dove molti Farisei dicono che la mafia è ormai battuta e che il suo potenziale di pericolo è solo un lontano ricordo. Era accaduto pochi giorni prima a Randazzo, dove i sicari dovevano ammazzare un commerciante e invece hanno colpito al cuore e alla testa un ragazzino di 13 anni, che solo per un miracolo non è morto. Fortuna, solo fortuna, hanno detto i medici che hanno strappato Alessio alla morte. Una fortuna che non ha avuto invece Stefano Pompeo, il ragazzino di Favara che mercoledì sera è stato falciato da una scarica di lupara mentre si trovava a bordo del fuoristrada di un pregiudicato, Carmelo Cusumano. Un personaggio imparentato con uomini d’onore della mafia agrigentina, che sicuramente era già stato condannato a morte. Solo che sulla sua vettura c’era un giovanotto di 29 anni, Enzo Quaranta, che aveva preso a bordo il piccolo Stefano. Stefano ci teneva a fare un giro sul grosso Toyota e la commissione affidata a Quaranta era stata l’occasione buona. Insieme erano partiti per andare a comprare del pane al villaggio Mosé, mentre nella villetta di Cusumano si consumava il rito barbaro della macellazione in casa di un maiale, per festeggiare con una colossale abbuffata l’acquisto di una cava da parte del pregiudicato. Un uomo ricco, anche se in odor di mafia, che ci teneva a celebrare degnamente l’aumento della sua «roba ». Il padre di Stefano, che lavora come macellaio, era stato reclutato per sgozzare l’animale e si era portato dietro il ragazzino.
Il fuoristrada percorre pochi chilometri fino alla contrada «Ciavola Costa d’Inverno». Stefano è affascinato dalla vettura e, forse, neppure si accorge delle due auto che, d’improvviso, tagliano la strada al mezzo, costringendo Enzo Quaranta ad una brusca frenata. Poi partono le scariche e la vita di Stefano finisce in un attimo. Inutile la corsa fino all’ospedale di Agrigento. I carabinieri non hanno dubbi: l’obiettivo era certamente Cusumano. L’imprenditore sessantacinquenne è infatti imparentato con uno degli esponenti di spicco della famiglia agrigentina di Cosa Nostra, finito in galera l’anno scorso nel corso dell’operazione «Akragas», contro una delle famiglie mafiose più antiche e pericolose di Cosa Nostra. La mafia agrigentina ha da sempre un peso non indifferente nell’organigramma criminale siciliano e non è stato certo per un caso che Giovanni Brusca avesse scelto come suo ultimo rifugio una tranquilla
villetta a pochi chilometri da Agrigento. Ma non solo. La mafia agrigentina alcuni mesi fa proprio a Favara, aveva lanciato un sinistro messaggio a Giancarlo Caselli, bruciando il teatro dove il giorno seguente il procuratore avrebbe dovuto tenere una conferenza. Per tutta la notte e per l’intera giornata Cusumano e Quaranta sono stati interrogati dai carabinieri e dal sostituto procuratore Giulia Lavia che conduce l’inchiesta. Sulla pista mafiosa non vi sono dubbi. «Occorrono risposte e fatti concreti – dice Franca Imbergamo, il magistrato della Dda di Palermo che segue i fatti di  mafia ad Agrigento – la mafia agrigentina è tra le più forti e coese, lo ha dimostrato più volte». Il deputato  agrigentino Giuseppe Scozzari non usa mezzi termini e punta l’indice dritto verso l’inadeguatezza delle strutture antimafia. «Non è tollerabile – dice il deputato – che a Favara vi siano solo pochi carabinieri, senza neppure una caserma e che ad Agrigento da un anno sia vuoto il posto di procuratore della Repubblica». Il risveglio di Favara è stato a dir poco surreale. La vita, il mattino dopo l’agguato, scorre tranquillamente. Persino nella scuola frequentata da Stefano, sembra non sia accaduto nulla. «Ci ha avvertito il professore di matematica – racconta un compagno di classe di Stefano – ci ha detto che Stefano non era più con noi, era morto perché qualcuno gli aveva sparato. Lo abbiamo saputo così. Ci siamo messi a piangere. Poi la giornata è andata avanti come tutte le altre. Solo ad un certo punto è entrato il preside insieme ad un uomo con una telecamera». Una giornata normale anche per il resto del grosso comune agricolo. Solo il sindaco, Carmelo Vetro, cerca di proporre ai cronisti l’improbabile immagine di una città che reagisce di fronte  all’orrore. «La Favara onesta – dice – saprà reagire». Una reazione che al momento sembra esistere solo nelle parole del primo cittadino.

 

 

 

Fonte: mediapolitika.com
Articolo del 23 aprile 2014
Cosa Nostra uccide anche i bambini. La storia di Stefano Pompeo, vittima di undici anni
di Marta Silvestre

Il 22 aprile a Favara, in provincia di Agrigento, è una normale giornata di violenza folle che non guarda in faccia nessuno.

La vittima della mafia e della barbarie umana, questa volta, è Stefano Pompeo, un ragazzino di 11 anni.

Il piccolo decide di accompagnare il padre nella campagna di proprietà del pregiudicato Carmelo Cusumano, imparentato con uomini d’onore della mafia agrigentina e ritenuto capo di una cosca di Favara.

Padre e figlio arrivano intorno alle 18, ma verso le 20.40 Stefano decide di salire sul fuoristrada di Cusumano, guidato da Vincenzo Quaranta, per andare a comprare del pane al villaggio Mosè. Il ragazzino è spinto ad andare, in particolar modo, perché è affascinato dalla possibilità di fare un giro su quella jeep e la commissione affidata a Quaranta è l’occasione buona.

Intanto, nella villetta di Cusumano si consuma il rito barbaro della macellazione in casa di un maiale per festeggiare, con una colossale abbuffata, l’acquisto di una cava da parte del pregiudicato. Cusumano è un uomo ricco in odor di mafia che ci tiene molto a celebrare degnamente l’aumento dei propri beni. Il padre di Stefano, che lavora come macellaio, è reclutato per sgozzare l’animale e si porta dietro il ragazzino.

Il fuoristrada percorre pochi chilometri fino alla contrada Ciavola Costa d’Inverno e viene colpito da tre colpi di fucile. Un agguato, una rosa di pallettoni, la mira un po’ rozza dei guappi di provincia; e pazienza se ci va di mezzo un ragazzino di soli 11 anni, anzi peggio per lui che si è fatto trovare nel posto sbagliato nel momento sbagliato.

Stefano viene raggiunto alla testa dai colpi e, in ospedale, arriva già morto. I killer hanno semplicemente confuso il bersaglio: credono che sull’automobile vi sia proprio il legittimo proprietario Carmelo Cusumano.

Con quello che per loro è, banalmente, uno sbaglio, si spegne l’esistenza di Stefano.

E’ come se perfino questo genere di ‘imprevisto’ facesse, in fondo, parte del gioco, di un gioco senza regole, dove è permesso qualsiasi tipo di scorciatoia e dove è esclusa qualsiasi forma di pietà.

Il paese di Favara ha dedicato a Stefano la villa comunale; lo Stato lo ha riconosciuto come vittima di mafia. Ma Stefano è soprattutto vittima di una società in cui il valore della vita umana, anche quella di un ragazzino, conta poco o nulla.

L’unica speranza è che questo sacrificio possa, almeno, servire da monito.

Tutti dobbiamo continuare a stupirci degli orrori e non abituarci all’offesa delle morti ignobili. La morte di questi ragazzini assassinati dovrebbe aggiungere qualcosa di forte all’oltraggio, già grave, di tipo mafioso.

Il nostro errore, in quanto cittadini responsabili e perennemente coinvolti, sta nella periodica eclissi di stupore e di sdegno che, saltuariamente, ci fa illudere del fatto che l’alfabeto di Cosa Nostra possa conoscere pudori di qualche tipo o misure logiche.

Un altro nostro errore si cela dietro la necessità di ragionare sempre con l’esigenza di avere le statistiche alla mano che ci permettano di confrontare i numeri che danno conto delle mattanze mafiose.

Attualmente, le cifre ci dicono che i morti sono diminuiti, le cosche sono state decimate, i baroni mafiosi sono finiti in carcere, i picciotti sono rimasti senza punti di riferimento, i covi sono stati svuotati e le aule dei tribunali sono state riempite.

Eppure, quando ammazzano un bambino o quando riaffiora alla memoria il ricordo di un omicidio come quello di Stefano, allora quell’artificio di numeri improvvisamente perde il valore fittizio che aveva acquisito.

Il salto di qualità davvero importante e significativo sarebbe quello di superare la viziosa oscillazione fra il bisogno di emergenza per essere spinti all’azione e la pigrizia nei momenti in cui il tempo sembra lento e silenzioso.

Del resto, ormai è chiaro che una delle più grandi minacce della mafia sta proprio nella sua capacità di letargo.

 

 

 

 

Stefano Pompeo – Foto da tpi.it

Fonte: tpi.it
Articolo del 26 aprile 2019
La storia del piccolo Stefano Pompeo, ucciso dalla mafia 20 anni fa, diventa un documentario
di Davide Lorenzano
Per l’omicidio dell’undicenne a Favara, avvenuto nel 1999, non c’è ancora nessun colpevole. Il docufilm “Quasi 12” ripercorre la sua vicenda.

“C’era una volta un bambino che amava le automobili”. Poteva cominciare così il racconto di una storia per ragazzi, che invece è finita malissimo: nell’inchiostro melmoso della piovra mafiosa.

Quando il 22 aprile del 1999 i notiziari passarono la notizia dell’omicidio del piccolo Stefano Pompeo, l’Italia aveva appena subìto il colpo dell’uccisione di Giuseppe Di Matteo, rapito e tenuto prigioniero per quasi tre anni finché, l’11 gennaio del 1996, all’età di quindici anni, non fu torturato, ucciso e il corpo sciolto nell’acido. Stefano, invece, aveva appena undici anni quando il suo delitto si consumò nelle campagne di Favara, in provincia di Agrigento.

Quella sera, tre colpi di fucile furono esplosi contro un fuoristrada di proprietà di Carmelo Cusimano, fratello di Giuseppe, ritenuto il boss locale di Cosa nostra, il vero obiettivo dell’agguato. L’autista, Vincenzo Quaranta, rimase miracolosamente illeso, sul mezzo però s’era intrufolato, ignaro, il piccolo Stefano.

Il suo, un desiderio semplice: fare un giro in jeep. Per questo insisté con Quaranta per accompagnarlo ad acquistare il pane per la cena, mentre suo padre stava partecipando al sezionamento di un suino su richiesta di alcuni compaesani.

I sicari – rimasti senza identità –, convinti di avere centrato il nemico, eliminarono il bambino innocente, scrivendo la parola fine su una giovane vita, su un figlio di una famiglia perbene che con la criminalità non aveva nulla a che fare.

Un infanticidio in piena regola, senza nessun indagato, senza nessun colpevole. Un’altra vittima della brutalità mafiosa dimenticata, già da quel funerale a cui lo Stato negò la sua presenza: nessun rappresentante delle Istituzioni si unì al cordoglio della famiglia Pompeo per garantire l’impegno di un’azione decisa contro l’incubo mafioso.

Vent’anni dopo, la memoria del piccolo Stefano rivive in un documentario dal titolo “Quasi 12” scritto e diretto dal giornalista Gero Tedesco, prodotto da Fuori Riga. Presentato in prima visione presso il Cinema Astor di Agrigento martedì 23 aprile, hanno partecipato anche la mamma e il papà della vittima, Carmelina Presti e Giuseppe Pompeo, accolti da un fragoroso applauso: “Amava la vita, sua e dei suoi cari. È sempre presente a casa. Anche i suoi cuginetti ne parlano, nonostante non l’abbiano conosciuto. Nella nostra famiglia si parla di Stefano in qualsiasi ricorrenza” è la testimonianza di Carmelina, con un lieve tono di voce e gli occhi lacrimosi.

“La giustizia non è stata capace di fare giustizia – è l’affondo di Giuseppe, con l’impeto di chi a un’occasione pubblica di riscatto e denuncia non ci credeva più – La speranza si va perdendo, ma c’è ancora. Queste manifestazioni fanno piacere. È una serata emozionante” ha concluso il papà di Stefano, ringraziando il regista per l’opera di grande servizio pubblico.

“Il guaio è che noi uomini non sappiamo più a parlare di amore. Nonostante queste storie, queste tragedie che ci feriscono, continuiamo a macinare malvagità” ha detto l’Arcivescovo metropolita di Agrigento e Cardinale Francesco Montenegro, che ha lanciato una rigida provocazione: “Una frase non riesco ad accettare, ‘Stefano era al momento sbagliato e al posto sbagliato’. Chi lo ha ucciso era al posto giusto e al momento giusto? Perché il cittadino non può sentirsi libero di andare in campagna, di andare al mare o per le strade e il mafioso ha il diritto di togliere la vita? Come cittadino, cercando di vivere la mia libertà e rispettando quella degli altri, sono al posto giusto. Stefano era al suo posto. Un bambino che voleva provare l’ebbrezza di un’automobile. Quegli uomini che hanno sparato erano al posto sbagliato. Non dovevano stare là e non dovevano stare in nessun posto”.

Torna perciò a tamburo battente l’appello affinché lo Stato colmi il debito con la famiglia Pompeo, per cercare verità e restituire giustizia. Vent’anni dopo.

 

 

 

 

XX omicidio Stefano Pompeo: un documentario per non dimenticare
L’Amico del Popolo Agrigento 24 apr 2019
Questo video riguarda la presentaione del documentario scritto e diretto da Gero Tedesco “Quasi 12. Nessun colpevole” (edizioni Fuoririga) che nel XX dall’uccisione ripercorre la videnda del piccolo Stefano #Pompeo​, ucciso a quasi 12 anni, dalla mafia a Favara.

 

 

 

Quasi12 – nessun colpevole TRAILER
Fuoririga 26 mag 2019
Trailer del documentario “Quasi12 – nessun colpevole”, la tragica vicenda del piccolo Stefano Pompeo, ucciso dalla mafia 20 anni fa a Favara.

 

 

 

 

Fonte: lasicilia.it
Articolo del 9 maggio 2019
Omicidio di Stefano Pompeo, il racconto del boss pentito e la vendetta studiata dalla mafia
di Franco Castaldo
Maurizio Di Gati, ex capo di Cosa nostra ad Agrigento oggi collaboratore di giustizia ha fatto i nomi dei sicari del bambino e svelato come la mafia intendeva punirli

Palermo. C’è voglia di giustizia, voglia di non lasciare impunito l’omicidio di Stefano Pompeo che proprio l’altroieri avrebbe festeggiato il suo compleanno.

E il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Caltanissetta, Laura Vaccaro, favarese, ha detto che chiamerà il procuratore di Palermo per sapere a che punto sono le indagini sul delitto affinché tale orrore non resti senza colpevoli.

La Direzione distrettuale di Palermo, con la squadra che si occupa dei reati mafiosi della provincia di Agrigento (l’aggiunto Paolo Guido e i sostituti Alessia Sinatra, Claudio Camilleri e Calogero Ferrara) riparte dalle dichiarazioni di Maurizio Di Gati, l’ex barbiere di Racalmuto divenuto il rappresentante provinciale di Cosa nostra.

È il collaboratore di giustizia più importante della provincia di Agrigento (come lui solo Alfonso Falzone) perché ha vissuto da protagonista un ventennio di storia di mafia locale e regionale. Prima da soldato e poi da killer spietato. Sino ad arrivare al comando per poi essere spazzato via dal campobellese Giuseppe Falsone voluto ai vertici di Cosa nostra dall’allora capo dei capi Bernardo Provenzano.

Dopo un decennio di latitanza, Di Gati, nel novembre 2006, ha intrapreso la strada della collaborazione con la giustizia consegnandosi ai carabinieri. Aveva già contribuito alla causa di Cosa nostra perdendo il fratello Diego nella prima strage di Racalmuto ed il fratello Roberto, morto suicida subito dopo il pentimento dell’ex barbiere. Soprattutto, Di Gati aveva compreso di essere divenuto bersaglio da abbattere ad opera del suo acerrimo antagonista di Campobello di Licata.

E le sue dichiarazioni, alcune poco valorizzate, sono state devastanti scoperchiando santuari mai violati, raccontando non solo di dolore e morte ma anche di rapporti tra mafia, politica, imprenditoria e massoneria.

Anche la vicenda dell’omicidio di Stefano Pompeo lo vedono assoluto protagonista per avere agito, nell’interesse della mafia, in prima persona. Nulla racconta de relato. È lui che interviene direttamente sulle dinamiche del dopo delitto organizzando e capeggiando persino tre squadre di sicari che contemporaneamente avrebbero dovuto uccidere gli assassini di Stefano Pompeo.

Un’azione eclatante da mostrare al mondo intero per rafforzare il potere dell’organizzazione criminale e da divenire monito per quanti violano le regole di Cosa nostra,

Il racconto di Di Gati è crudo e ricco di nefandezze e particolari. Talvolta suggestivo e feroce ma è il suo racconto, da protagonista assoluto. Ai giudici il compito di valutarne la fondatezza e l’attendibilità. Ad oggi, il suo contributo è stato definito eccezionale da Tribunali e Corte d’Assise.

E da questa valutazione si ritorna indietro nel tempo di vent’anni. Dal giorno in cui è stato ucciso il piccolo Stefano. Un’inchiesta al contrario, se si vuole, dato che questa volta, come si capisce dalle dichiarazioni di Di Gati, si parte da un delitto ma vengono già indicati il movente e gli autori.

Le dichiarazioni più importanti sulla morte di Stefano sono del 19 aprile 2007 (e successivamente integrate con altri interrogatori).

Davanti ai pubblici ministeri Fernando Asaro e Gianfranco Scarfò, allora in servizio alla Dda di Palermo, l’ex boss afferma: «Dell’omicidio Pompeo posso dire che avvenne mentre io ero in latitanza insieme a Giuseppe Vetro. Debbo riferire di Carmelo Cusumano di Favara, uno che aspirava ad entrare nella “famigliedda” di Presti. Aveva chiesto il pizzo a tale Signorino di Villaggio Mosè, che vende macchine con la ditta Sibo. Signorino chiese ragione a Francesco Vella ed andarono da Giuseppe Vetro che era latitante con Giuseppe Fanara. Il fratello di Cusumano è un vecchio uomo d’onore di Favara, già arrestato nella prima operazione Akragas. Vetro chiese a Fanara che fare, prospettando l’omicidio di Cusumano. Fanara decise prima di cercarlo per farlo dissuadere da questa attività illecita non autorizzata ed incaricò Vetro. Vetro andò da Presti e tale Alba che faceva parte della famigliedda dove aspirava di entrare Cusumano. L’incontro tra Vetro, Alba, Presti ed un certo Nino, avviene verso Palma di Montechiaro. Vetro disse che doveva essere comunicato a Cusumano di non ripetere le condotte già fatte, altrimenti gli sarebbe stato «tirato il collo». Cusumano aveva fatto “domanda” di entrare nella famigliedda ma Alba non voleva Cusumano, mentre Presti era disponibile. Cusumano a questo punto fece sparare alla porta di casa di Alba. Alba si spaventò e, per questo motivo, fece entrare Cusumano nella famigliedda. Ma Alba mantenne risentimento e rancore per questa vicenda ai suoi danni.

Poi, Di Gati, entra nel dettaglio: «Il bambino andò nella cava Lucia insieme con il padre Giuseppe per fare una mangiata dopo aver ucciso un animale, forse un maiale. C’erano anche Vincenzo Quaranta, il genero di Cusumano detto Totò Vallanzasca, Carmelo Cusumano. Giuseppe Pompeo per come so io, appartiene alla “famigliedda” di Giuseppe Rizzo. Questo me lo disse Giuseppe Vetro che mi aggiunse che il padre del bambino si era messo a disposizione per favorire la latitanza di Giuseppe Vetro. Ad un certo punto mancava il pane ai commensali. Vincenzo Quaranta, allo scopo, prese la macchina di Cusumano, una jeep. Solitamente Cusumano si faceva guidare la macchina da un autista. Quaranta si prese la macchina del Cusumano e si portò il ragazzo. Andavano veloci perché la carne era quasi pronta e dovevano prendere il pane. A questo punto ci fu la sparatoria».

Maurizio Di Gati spiega ciò che avvenne subito dopo l’omicidio: «Io e Vetro lo sapemmo dalla televisione. Subito, Vetro chiamò Pasquale Alaimo per far dire al padre del bambino che Cosa nostra non c’entrava niente e che lo avrebbe fatto vendicare. Pasquale Alaimo accertò che erano stati i due fratelli Alba e Vincenzo Quaranta che vende macchine e che faceva parte della famigliedda Presti. Quindi fu un errore perché pensavano di uccidere Cusumano».

Poi, come se nulla fosse, afferma: «Dovevamo andare ad ammazzare gli autori dell’omicidio, ma prima che ci organizzassimo, i carabinieri arrestarono queste persone. Giuseppe Vetro mandò Gioacchino Licata a comprare le divise dei carabinieri a Roma per fare quest’omicidio. Queste divise ce le aveva Gioacchino Licata. Dovevano partecipare “forestieri” come me, Stefano Fragapane, Aquilina ed altre persone. Il progetto era per tre squadre che dovevano operare in contemporanea ed uccidere i tre soggetti. Fra questi c’erano Pasquale Alaimo, Nobile, Francesco Vella. Altre fonti della mia conoscenza è stato proprio il Vincenzo Quaranta che guidava la macchina che mi disse che ha visto scappare tre persone, ma non li aveva riconosciuti. Ho parlato anche con il padre del ragazzo che spingeva per la vendetta. Questa vendetta poteva poi rivolgersi uno dei due Alba che poi si era messo a lavorare a Realmonte. Gerlandino Messina non ha fornito collaborazione sul punto. Questi Alba e Vincenzo Quaranta, “assassini” secondo Cosa nostra, adesso sono liberi. Io parlando con Pasquale Alaimo fino all’ultimo momento ho sempre insistito di dover uccidere queste persone. Ma i favaresi, non se la sentivano in particolare il Pasquale Alaimo per paura di essere identificati dalle forze dell’ordine. Peraltro sotto questo profilo si sentiva la mancanza di Giuseppe Vetro e della sua autorità. Certamente queste persone sono condannate per Cosa Nostra. Se esce Giuseppe Vetro, queste persone sono morte».

Giuseppe Vetro non uscì mai dal carcere. Almeno da vivo. Morì a 53 anni, da detenuto, a causa di un male incurabile un anno dopo le dichiarazioni di Di Gati. E tutto è rimasto come prima in assenza dell’agire di Cosa nostra e, fino ad oggi, dello Stato.

 

 

Fonte:  lasicilia.it
Articolo del 12 luglio 2019
A 20 anni dall’omicidio tre indagati per il delitto di Stefano Pompeo, il 12 enne ucciso per sbaglio dalla mafia
Svolta nell’inchiesta recentemente riaperta sull’uccisione del dodicenne di Favara assassinato il 12 aprile del 1999 mentre si recava al Villaggio Mosè.

FAVARA – Tre avvisi di garanzia e contestuale richiesta di interrogatorio. Giunge alla svolta tanto auspicata l’inchiesta, riaperta recentemente dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, sull’omicidio del piccolo Stefano Pompeo, 12 anni da compiere, di Favara ucciso per errore durante un agguato mafioso il 12 aprile del 1999 mentre si recava nel quartiere di Villaggio Mosè per comprare il pane insieme ad un amico del padre a bordo di una Jeep Toyota.

Il provvedimento è stato firmato dal sostituto procuratore della Repubblica di Palermo – Dna – Alessia Sinatra che ha delegato la Squadra Mobile di Agrigento guidata da Giovanni Minardi, a notificare l’atto giudiziario e ad occuparsi dell’interrogatorio. Riguarda i fratelli Pasquale e Gaspare Alba e Vincenzo Quaranta, tutti di Favara.

Sempre la Squadra mobile di Agrigento ha ricevuto delega di indagine sull’omicidio di Stefano Pompeo tornato prepotentemente alla ribalta della cronaca nell’aprile scorso con la proiezione di un docu-film di Gero Tedesco, sull’assassinio del piccolo Pompeo e con un’inchiesta giornalistica de “La Sicilia” pubblicata agli inizi dello scorso maggio.

Caposaldo della vicenda investigativa è Maurizio Di Gati, l’ex boss ed ex barbiere di Racalmuto che, una volta pentitosi, raccontò per filo e per segno quanto sapeva in relazione all’omicidio del ragazzino indicando persino i nomi di chi, a suo parere, materialmente partecipò all’agguato (poi compiutamente individuati dal personale della Squadra mobile di Agrigento).

Di Gatì spiegò agli investigatori: «Dell’omicidio Pompeo posso dire che avvenne mentre io ero in latitanza insieme a Giuseppe Vetro. Il bambino andò nella cava Lucia insieme con il padre Giuseppe per fare una mangiata dopo aver ucciso un animale, forse un maiale. C’erano anche Vincenzo Quaranta, il genero di Cusumano detto Totò Vallanzasca, Carmelo Cusumano. Ad un certo punto mancava il pane ai commensali. Vincenzo Quaranta, allo scopo, prese la macchina di Cusumano, una jeep. Solitamente Cusumano si faceva guidare la macchina da un autista. Quaranta si prese la macchina del Cusumano e si portò il ragazzo. Andavano veloci perché la carne era quasi pronta e dovevano prendere il pane. A questo punto ci fu la sparatoria». «Io e Vetro lo sapemmo dalla televisione. Subito, Vetro chiamò Pasquale Alaimo per far dire al padre del bambino che Cosa nostra non c’entrava niente e che lo avrebbe fatto vendicare. Pasquale Alaimo accertò che erano stati i due fratelli Alba e Vincenzo Quaranta che vende macchine e che faceva parte della famigliedda Presti. Quindi fu un errore perché pensavano di uccidere Cusumano».

E da queste dichiarazioni sono ripartite le indagini. Fascicolo riaperto, Di Gati nuovamente sentito e dichiarazioni inedite di Giuseppe Quaranta, ultimo pentito agrigentino (e favarese) in ordine di tempo, che sul delitto sembra sapere più di un particolare. A questo punto, inevitabile, l’avviso di garanzia e interrogatorio dei tre indagati tutti già coinvolti nell’operazione “Fratellanza”, volto ad acquisire elementi utili per mettere in chiaro le dinamiche dell’omicidio.

Procedura che almeno ad uno degli indagati, Vincenzo Quaranta, non è piaciuta al punto che ha già comunicato che non si sottoporrà ad interrogatorio sino a quando non conoscerà esattamente quanto gli viene contestato dato che l’avviso di garanzia fa riferimento solo ed esclusivamente all’omicidio Pompeo senza indicare movente, dinamiche e mandanti. Con ogni probabilità, anche gli altri indagati faranno la medesima scelta.

Inquietante la chiusura del primo interrogatorio di Di Gati: “Questi Alba e Vincenzo Quaranta, “assassini” secondo Cosa nostra, adesso sono liberi. Io parlando con Pasquale Alaimo fino all’ultimo momento ho sempre insistito di dover uccidere queste persone. Certamente queste persone sono condannate per Cosa Nostra. Se esce Giuseppe Vetro, queste persone sono morte».

 

 

 

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Articolo del 7 maggio 2020

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