22 Febbraio 1948 Gibellina (TP). Assassinio dell’Avv. Vincenzo Campo. Candidato DC alle elezioni dell’aprile 1948, in contrasto con la corrente supportata dai gruppi mafiosi.

Vincenzo Campo – Foto da malgradotuttoweb.it

Vincenzo Campo Ingrao, esponente della DC, avvocato penalista di Alcamo, vicesegretario regionale del partito, dirigente dell’azione Cattolica e candidato al Senato su richiesta del vescovo agrigentino Giovanni Battista Peruzzo per la sua dirittura morale e per la vicinanza al movimento contadino, fu ucciso il 22 febbraio 1948. Nella Fiat Topolino guidata dal figlio si stava recando a Sciacca per tenere un comizio. Appena fuori dall’abitato di Gibellina, una raffica di mitra lo colpì al cuore mentre recitava il rosario. Aveva apertamente contrastato notabili sospettati di legami con mafiosi. Il delitto rimase impunito.
Fonte:  vivi.libera.it

 

 

Fonte:  archivio.unita.news 
Articolo del 24 febbraio 1948
Sullo stradale Alcamo Gibellina  
Un dirigente democristiano ucciso da banditi

Palermo. Il vicesegretario della DC avv. Vincenzo Campo è stato ucciso domenica scorsa verso le 12,30 sullo stradale Alcamo Gibellina Castelvetrano, zona malfamata, teatro di rapine, aggressioni ed agguati.

L’avv. Vincenzo Campo, insieme con il figlio, proveniente da Alcamo si recava a Sciacca con un furgoncino di sua proprietà.

Ad una curva, da un muretto, ignoti aprivano il fuoco sulla macchina ed esplodevano alcuni colpi di fucile raggiungendo il Campo che si abbatteva nel fondo del furgoncino, pochi minuti dopo lo sparamento.

Il motivo del delitto rimane ancora oscuro sebbene la polizia abbia iniziato pronte indagini.

Viene escluso tuttavia possa trattarsi di movente politico.

Oggi all’Assemblea regionale nel corso della seduta, il presidente Capella ha espresso il rincrescimento a nome dell’assemblea per il delitto che ha impressionato tutta la cittadinanza.

 

 

 

Fonte: gruppolaico.it
pubblicato il 22 febbraio 2019
IL DOVERE DELLA MEMORIA:
22 febbraio. Il coraggio di un candidato.

Il 22 febbraio 1948 viene ucciso a colpi di mitra dalla banda di Salvatore Giuliano sulla strada tra Alcamo e Castelvetrano nei pressi di Gibellina (TP) VINCENZO CAMPO avvocato e vicesegretario regionale della DC.

Campo era candidato alla Camera nelle elezioni nazionali del 18 aprile 1948 ma la sua candidatura era fortemente contrastata da un’altra corrente del suo stesso partito legata agli interessi dei mafiosi locali. Venne ucciso mentre tornava da un comizio.

Questo delitto rientrava nelle strategie della mafia per un pieno controllo della DC siciliana in funzione anticomunista e dirette quindi contro gli esponenti democristiani (come Campo) più aperti al dialogo e al confronto politico e sociale con altre forze politiche e sindacali.

 

 

 

Fonte:  heraldeditore.it

TRIBUTO DI TOGA

Editore: Herald, 2019

Anche l’Avvocatura vuole commemorare i suoi caduti, anche l’Avvocatura vuole ricordare i suoi martiri, vite spese a difendere piccoli e grandi diritti, una rassegna di eroismi quotidiani senza scorta, senza difesa e senza paura.

La vogliamo dedicare ai nostri colleghi, a quelli che la storia rammenta, ai tanti che nessuno ricorda più, a quelli che abbiamo conosciuto e non ci sono più, a quelli che incontriamo ogni giorno e magari non conosciamo, a quelli che verranno e a quelli che andranno via, scegliendo altre strade, perché abbiano comunque un memoriale ideale nel quale riconoscersi, nel quale onorare il loro Tributo di Toga, quel sangue nero e dorato che indossano tutti gli Avvocati e che anche per un solo giorno di gloria hanno sentito scorrere nelle vene.

 

 

 

 

Fonte:   malgradotuttoweb.it
Articolo del 10 giugno 2020
“Vincenzo Campo, mio nonno, e il suo omicidio archiviato e dimenticato”
di Vincenzo Campo

“Era un avvocato valente, mio nonno, particolarmente noto e apprezzato, fiero d’essere avvocato. Questa la sua storia”.

1948, 22 febbraio. Il 18 aprile successivo in Italia si sarebbe votato per eleggere il primo Parlamento della Repubblica che era nata appena due anni prima, il 2 giugno del 1946. Il clima era più che caldo e si profilava lo scontro tra i socialisti e comunisti del Blocco del Popolo e i democristiani; strettamente connessi agli interessi più schiettamente politici, naturalmente, gli interessi economici e sociali; in Sicilia lo scontro fra agrari e contadini. Era il tempo delle occupazioni delle terre, ed era ovvio ritenere che in quelle e con quelle elezioni si giocava l’indirizzo politico e sociale del Paese, si segnava la linea che il futuro del Paese avrebbe seguito.

In Sicilia, non solo la mafia “non esisteva”, ma neanche se ne pronunciava la parola; neanche i sodali la nominavano, che per loro era la “Cosa nostra” e gli altri, il resto dell’umanità la sottintendeva soltanto, non ne pronunciava il nome: non sia mai, Signore, dire “mafia”.

Mi viene in mente un episodio che non c’entra nulla con la storia che sto per raccontare, ma solo con quello che ho appena detto: ero ragazzo, in campagna, d’estate, nella prima metà degli anni sessanta; ad un certo punto passò proprio sotto casa una 600 bianca con a bordo tre o quattro persone, nella nostra campagna e non sulla strada pubblica; a quei tempi, d’estate, quando non si sarebbero danneggiate le coltivazioni, s’usava passare per le terre d’altri, generalmente con la mula, ma chi passava, giunto nei pressi delle case, rallentava, dava voce e salutava, in segno di ringraziamento e per significare di non avere male intenzioni. Quella 600 sfrecciò sotto la casina e si diresse per la sua strada. Mia nonna, che era una donna più che energica, s’affacciò sul terrazzino e prese a sbraitare contro quei maleducati. Se non altro per sottolineare la mala creanza. Intervennero immediatamente i contadini a frenarla e a indurla a smettere: “pi’ carità, signù, la finissi! sunnu chiddri… si zitissi, era ‘u professuri!” – capii dopo che si riferivano al professore, asserito capo mafia di Raffadali, che aveva un terreno confinante col nostro. È tutto detto, credo.

Ma torniamo a noi alla storia che vi voglio raccontare, che è storia nella quale pure c’è un’automobile, un’altra Fiat: una 500 c, nota come Topolino; in particolare era una Topolino furgonata. Quest’automobile rimase nel garage di casa nostra, in via Bac Bac, sempre ferma a riempirsi di polvere, mai toccata da nessuno e mai guardata fino a dopo la morte di mio padre, che avvenne nel 1966 e quando mia nonna decise di venderla per ferro vecchio.

Quel 22 febbraio del ‘48, quella Topolino, guidata da mio padre, che si chiamava Totò, e con a fianco mio nonno, che era Vincenzo, percorreva la strada che da Alcamo porta a Sciacca; ad un certo punto, in un tratto tutto curve, tra Gibellina e Santa Ninfa, mio padre sentì un colpo di fucile ma non ci fece caso: erano tempi in cui tutti, in campagna, andavano col fucile e non come si pensa per spararsi come nel Far West, come certa iconografia ama rappresentare Sicilia e siciliani, ma semplicemente per non perdere l’occasione di sparare a qualche coniglio e rimediare una cena di carne, che non era cosa da poco.

Non ci fece caso, ma sentì che la vettura non teneva più la strada, che il retrotreno sbandava, e pensò alla cosa più ovvia: una panne di gomma; a quel punto rallentò, magari con l’intenzione d’accostarsi per cambiarla. Sentì allora un secondo colpo di fucile e s’insospettì: forse non era un cacciatore occasionale a sparare; toccò il padre, che era accanto a lui, e si accorse che non c’era più: assorto nel rosario che stava recitando in silenzio fra sé e sé – come faceva tutti i giorni- non aveva neanche fatto caso alla prima fucilata. La seconda non ebbe il tempo di capire che era per lui, perché lo prese esattamente al cuore. Il primo sparo era servito per fare rallentare l’andatura dell’automobile e consentire al cecchino di prendere al meglio la mira. Il secondo per uccidere mio nonno. Un ottimo piano, studiato da chi conosceva bene i luoghi e un ottimo cecchino. Aveva funzionato.

Fin qui, storia di ordinaria delinquenza, un omicidio ben studiato che dimostra la volontà di colpire solo uno dei due occupanti la Topolino: se non fosse stato così, se l’intenzione non fosse stata di uccidere solo mio nonno e lasciare illeso mio padre, non sarebbe stato più facile pararsi sulla strada dietro una curva e tirare una raffica di mitra che avrebbe sicuramente colpito la vittima? Certamente sì. Ma non è cosa di mafia, che tende a colpire la vittima designata e nessun altro. Chi fu il cecchino non si è mai saputo e meno che meno si è mai saputo chi lo avesse mandato lì a fare quel lavoro, che è la cosa più importante da sapere.

Chi era la vittima, però, lo sappiamo. Era un avvocato che viveva ad Agrigento. Era nato ad Alcamo, ma era emigrato con tutta la sua famiglia in Tunisia prima e in Algeria dopo. Aveva frequentato il liceo italiano a Tunisi e poi, rientrato in Italia, si era laureato in legge a Palermo. Lì aveva conosciuto Cesare Sessa, un suo collega di Raffadali che sarebbe stato tra i fondatori del Partito comunista a Livorno nel ‘21, perseguitato politico durante il fascismo, commissario prefettizio di Agrigento alla fine della seconda Grande guerra, deputato regionale alla prima Assemblea del 1947 e anche senatore della Repubblica. Massone come lui.

Cesare, immagino, in considerazione del fatto che mio nonno non aveva familiari in Sicilia se non uno zio prete che si chiamava Alberto Ingrao, lo invitò a passare un periodo a Raffadali, a casa sua, in quello che ora si chiama Cortile Sessa e che non so proprio come si chiamasse all’epoca. Lì conobbe una nipote di Cesare, più o meno loro coetanea, che si chiamava Olimpia, e se ne innamorò. Ho qualche dubbio che mia nonna Olimpia si fosse innamorata di lui, ma certo è che di lui s’innamorò il futuro suocero, il veterinario Vincenzo Cuffaro, che sicuramente notò le grandi qualità di quell’uomo. I due si sposarono e andarono a vivere ad Agrigento, in via Bac Bac, al secondo piano del Palazzo Serroj, dove tuttora vivono mia madre e una delle mie sorelle.

Era un avvocato valente, mio nonno, particolarmente noto e apprezzato, fiero d’essere avvocato. Mi raccontava l’avvocato Grillo, che mi fu maestro nella professione, che quando aveva da trattare qualche causa penale, usciva da casa già con la toga in dosso. Nell’esercizio della sua professione, com’era ovvio che facesse qualunque buon avvocato che non può e non deve temere ritorsioni, difese chiunque si fosse rivolto alle sue cure: solo per fare degli esempi, da un falegname comunista perseguitato politico dal fascismo e arrestato alla vigilia di ogni manifestazione fascista, che era Gaetano Gaglio, a un campiere realmontino imputato di omicidio e certamente mafioso, del quale non faccio il nome per non recare un dispiacere ai suoi nipoti che sono vivi e vegeti e pure amici miei, ad una parte civile in un processo alle assise di Sciacca contro la mafia di quelle zone. L’arringa di questa causa fu pure pubblicata sull’Eloquenza siciliana.

Ad un certo punto incontrò un padre Redentorista e da massone che era, diventò fervente cattolico e braccio destro del vescovo della diocesi di Agrigento, Monsignor Giovanni Battista Peruzzo. In quel tempo, che la sociologia era vista nella Chiesa come una bestia nera, Peruzzo istituì un corso di Sociologia al seminario e ne affidò l’insegnamento a lui. Insegnò anche Economia e pure Cultura militare all’Istituto tecnico. Fu tra i fondatori del Partito della democrazia cristiana, sturziano, e nel 1948 quando fu ucciso era il vice segretario regionale di quel partito. Era designato quale candidato alle elezioni che si sarebbero svolte il 18 aprile di quell’anno e quel 22 febbraio, il giorno che morì, era stato ad Alcamo per una riunione elettorale e da lì sarebbe andato a Sciacca dove avrebbe tenuto un’altra riunione elettorale, se il cecchino non l’avesse fermato.

Al funerale, officiato da monsignor Peruzzo, ci fu una enorme partecipazione di popolo con bandiere nazionali e cittadine e guardie civiche in alta uniforme. Quello fu il primo e l’ultimo tributo, il solo, che la mia città, che era la sua di adozione, manifestò a lui: dopo il funerale, l’avvocato Campo e il suo omicidio furono archiviati e posti accuratamente a dimenticare.

Sì, lo dico convintamente e non a caso: fu volutamente messo a dimenticare: le cose che non si ricordano di fatto è come se non fossero mai esistite. Che fu un omicidio politico è indubbio, come indubbio è che fu un omicidio di mafia e certamente non di mafiosi contro altri mafiosi, ma di mafiosi contro un temuto avversario certamente non mafioso: tutta la sua vita parla e ce lo spiega senza lasciare spazio al benché minimo dubbio.

Come dicevo prima, erano tempi in cui non si pronunciava neppure la parola “mafia”, e poi, anzi prima perché fatto più importante, nessuno aveva interesse a parlare di quell’uomo e di quell’omicidio. Interesse non ne avevano le sinistre, i comunisti e i socialisti che, impegnati in una strenua lotta contro la Democrazia cristiana, certo non avevano interesse a sottolineare un evento che avrebbe esaltato la figura di una persona che apparteneva al fronte contrario. Ma interesse non ne aveva neanche il Partito della democrazia cristiana.

Se è vero che quell’omicidio fu un delitto politico, e altre ragioni certamente non ce ne sono, bisogna chiedersi a chi faceva comodo che non esistesse più quell’avvocato che aveva parte rilevante nel partito, che aveva un non indifferente seguito di popolo per notorietà e stima personale e che aveva l’appoggio incondizionato della Chiesa; bisogna chiedersi a chi dava politicamente fastidio quell’uomo.

Vincenzo Campo, avvocato, autore di questo articolo è nipote dell’Avvocato Campo.

 

 

 

Per approfondimenti si rimanda alla fonte:

Frà Diavolo e il governo nero

“Doppio Stato” e stragi nella Sicilia del dopoguerra

di Giuseppe Casarrubea

Ed. Franco Angeli Storia

 

 

 

 

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