23 settembre 1983 Palermo. Rosalia Pipitone, madre di un bimbo di quattro anni, venne fatta uccidere dal padre. Colpevole di voler dividersi dal marito, fu uccisa nel corso di quella che apparve come una rapina compiuta da balordi.

Foto tratta dal Venerdi di Repubblica del 28 Settembre 2012

Il 23 settembre 1983 Rosalia Pipitone, Lia, una ragazza di Palermo di 25 anni, madre di un bambino di 4 anni, entra in una sanitaria e si dirige verso il telefono a gettoni. Finita la telefonata si ritrova davanti due malviventi col volto coperto che si sono fatti consegnare dal titolare 250mila lire, l’incasso della giornata. Ma anziché andarsene col bottino, aspettano che la giovane si avvicini al bancone. Uno dei due le spara alle gambe. Fa per andarsene, poi torna sui suoi passi. «Mi ha riconosciuto», urla due volte, prima di sparare altri quattro proiettili che uccidono Lia.
La rapina è solo una messinscena, racconteranno nel 2003 i pentiti Francesco Marino Mannoia e Francesco Onorato. Ad ordinare la morte di Lia è stato il padre, Antonino Pipitone, boss dell’Arenella, quartiere dove vivono, protetto dai corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Lia aveva comunicato al padre la sua volontà di lasciare il marito ed andare a vivere per conto suo, contravvenendo alle leggi della mafia.
Il giorno dopo l’omicidio di Lia viene trovato morto anche Simone Di Trapani, un lontano cugino con cui Lia aveva un rapporto speciale. Per Simone, Lia era la sorella che non aveva mai avuto. Lei diceva spesso che Simone era il marito ideale.
Morto dopo un volo dal balcone di casa sua. Un suicidio, si disse. In realtà, un’altra messinscena dei sicari della mafia che prima di spingerlo giù dal quarto piano, lo costrinsero a scrivere un biglietto: «Mi uccido per amore».
Antonino Pipitone verrà assolto in tutti e tre i gradi di giudizio. Non che non ci fossero abbastanza prove, ma quei pentiti, stabilirono i giudici, raccontavano fatti de relato, per sentito dire.
La storia di Lia è raccontata nel libro “Se muoio sopravvivimi” scritto dal giornalista Salvo Palazzolo insieme al figlio di Lia, Alessio.

 

 

 

Articolo da L’Unità del 15 Luglio 1997
Fece uccidere la figlia adultera per difendere l’onore – Le rivelazioni di un pentito accusano un boss

Palermo, la donna aveva tradito il marito imposto dal padre mafioso che decise subito di farla giustiziare Il delitto venne commesso 14 anni fa e sarebbe stato eseguito da due sicari di Cosa Nostra che simularono una rapina  nella borgata Arenella. La rivelazione è stata fatta da Marino Mannoia al processo che si tiene nell’aula bunker di Rebibbia.
Dall’inchiesta sulle infiltrazioni mafiose nei cantieri navali di Palermo, che tre giorni fa è sfociata  nell’emissione di ventitré ordini di custodia cautelare, emerge la conferma di una storia, già tutta raccontata due  anni fa da Francesco Marino Mannoia,e ora riproposta dal pentito Francesco Onorato.
Ed è – questo si può scrivere senza temere di esagerare – una delle storie più atroci di Cosa Nostra, per le quali è  in corso il processo.
Una di quelle storie che spiega bene quali feroci logiche, quale lucida follia, quali micidiali leggi abbiano per anni dettato la vita quotidiana all’interno delle famiglie mafiose.

Il boss Antonino Pipitone, 66 anni, fece uccidere la figlia per «onore»: sì, è così. La fece uccidere per puro, «onore». La colpa della ragazza? Avrebbe tradito il marito impostole dal padre. Il delitto, che risale a quattordici anni fa, sarebbe stato eseguito da due sicari di Cosa Nostra che  simularono  una rapina.

La Procura della Repubblica di Palermo aveva aperto atti relativi sulle accuse di Marino Mannoia nel gennaio del 1995, dopo la deposizione del pentito nel processo «Golden Market». Durante quell’udienza, svoltasi nell’aula bunker di Rebibbia, Marino Mannoia sostenne che Pipitone aveva ordinato l’uccisione della propria figlia «perché tradiva il marito» ed aggiunse che per eseguirla «venne simulata una rapina».
Sulla base di queste dichiarazioni, ad Antonino Pipitone è stato notificato sei mesi fa un ordine di custodia cautelare per l’uccisione della figlia.
Il delitto fu compiuto alle 19,30 del 23 settembre del 1983. Rosalia Pipitone, sposata, madre di un figlio che allora aveva quattro anni, venne uccisa nel corso di quella che apparve come una rapina compiuta da balordi.
Furono abilissimi, i killer. Ladonna era all’interno di un negozio di articoli sanitari, nella borgata di Arenella, quando fecero irruzione due banditi, che intimarono al commerciante di consegnare l’incasso, appena 250 mila lire. Prima di uscire spararono un colpo di pistola, ferendo alle gambe Rosalia Pipitone, che stava telefonando da un apparecchio a gettoni. Alcuni istanti dopo i «rapinatori» rientrarono nel negozio ed uccisero la donna con altri tre  colpi a bruciapelo al petto.
L’inchiesta del tempo ritenne che rapinatori inesperti avessero compiuto il delitto temendo di essere stati identificati.
Vadetto che non è comunque l’unico caso di presunta vendetta per motivi di onore, interna a famiglie mafiose.
Il superkiller Giuseppe Lucchese è stato accusato di aver fatto uccidere la sorella Giuseppina e la cognata Luisa Gritti. Entrambe avrebbero pagato con la vita relazioni extraconiugali.
Sarebbe stato lo stesso Lucchese, che per non farsi riconoscere indossava una parrucca bionda, a sparare alla sorella. Il suo presunto amante, il cantante di musica napoletana Pino Marchese, venne trovato morto con i genitali  in bocca.
Uno dei più antichi ed eloquenti gesti simbolici di Cosa Nostra.

 

 

 

Articolo del 9 Gennaio 2003 da repubblica.it
Arrestato boss mafioso fece uccidere la figlia adultera
Antonio Pipitone, 70 anni, ordinò l’omicido nel 1983
Due sicari simularono una rapina in un negozio di sanitari
La verità è venuta a galla grazie alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia

PALERMO – Un vecchio boss palermitano, Antonio Pipitone, 70 anni è è stato arrestato con l’accusa di aver ordinato e fatto eseguire l’omicidio della figlia venticinquenne. Una questione d’onore. La ragazza, Rosalia Pipitone, sposata, aveva una relazione extraconiugale con un uomo, un cugino di secondo grado. Una condotta che secondo le arcaiche regole di Cosa nostra – che proibiscono l’adulterio – disonorava il padre, boss del quartiere Acquasanta di Palermo. Che decise così di far uccidere la figlia. Oggi l’ordinanza di custodia cautelare, consegnata a Pipitone che già si trova agli arresti domiciliari per altri reati.

Secondo la ricostruzione degli inquirenti, due sicari, simulando una rapina, uccisero Rosalia Pipitone il 23 settembre dell’83 all’interno di un negozio di sanitari in via Papa Sergio, a Palermo, nel pieno del “territorio” della famiglia mafiosa dell’Acquasanta. Gli esecutori materiali del delitto non vennero mai trovati. Il giorno dopo Simone Di Trapani, il cugino di secondo grado con cui la donna intratteneva la relazione, morì suicida gettandosi dal balcone della sua casa di Palermo.

In un primo momento le indagini avevano seguito la pista dell’omicidio a scopo di rapina. Poi è stata scoperta la verità. Un notevole contributo alle indagini che hanno portato all’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Antonino Pipitone è venuto dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Tra questi Calogero Ganci, Francesco Onorato, il boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca e Antonino Giuffrè, ex uomo di fiducia di Bernardo Provenzano.

Tra i boss di mafia non era un mistero. “In Cosa Nostra non va bene avere una relazione extraconiugale non va bene, ed è stata uccisa”, ha dichiarato agli inquirenti Calogero Ganci. Anche Francesco Onorato ha confermato i fatti: “Nino Pipitone – ha raccontato il pentito – ha consentito a fare uccidere la figlia, sua figlia, portando il discorso a Cosa Nostra. La figlia aveva l’amante, lui l’ha saputo e l’ha fatta uccidere. Se l’è sbrigata la famiglia dell’Acquasanta a ucciderla”, ha aggiunto Onorato.

E lo stesso Giovanni Brusca ha raccontato agli investigatori di aver appreso da altri uomini d’onore del delitto della ragazza. “Questa voce – ha riferito ai magistrati – girava in Cosa Nostra. Ho una conoscenza de relato – ha aggiunto – perchè era un fatto delicatissimo e venne fuori dopo che questa persona era stata uccisa. E’ stata uccisa in base alle regole di Cosa Nostra. Lei non ne faceva parte, ma il padre sì”, ha dichiarato Brusca confermando poi che Antonino Pipitone era stato il “mandante”.

Sugli esecutori materiali del delitto non è stata ancora fatta chiarezza. Nessuno dei collaboratori di giustizia ha saputo infatti dire chi siano stati i killer che spararono contro Rosalia Pipitone. Il delitto sarebbe stato gestito direttamente dalla famiglia dell’Acquasanta.

Nella storia della mafia siciliana degli anni Ottanta è la seconda volta che una donna viene uccisa dai suoi stessi familiari a causa di una vita sentimentale giudicata troppo libera. Giuseppe Lucchese detto “Lucchiseddu”, uno dei più efferati sicari di Cosa Nostra, uccise personalmente sua sorella, Giuseppina, e sua cognata Luisa Gritti, entrambe punite perché avevano relazioni extraconiugali. Anche in quell’occasione fu inscenata una finta rapina, in uno dei più noti bar di Palermo. Lucchese – che era latitante – per non farsi riconoscere dalla sorella aveva indossato una folta parrucca bionda. Morì più tardi, ucciso a suo volta, durante la guerra dei clan mafiosi.

 

 

 

Articolo del 10 gennaio 2003 da  cerca.unita.it
Ordinò la morte della figlia «adultera» Il boss mafioso fece uccidere la donna nel 1983, a rivelare il retroscena sono stati Brusca e Giuffré
di Marzio Tristano

Il copione di un film su Cosa Nostra non avrebbe potuto fare meglio: lei, giovane figlia del boss, sposata ad un uomo impostole dal padre, viene uccisa da due killer su ordine del genitore. Lui, il cugino-amante neanche tanto segreto, si suicida dopo pochi giorni con il cuore spezzato. Accade a Palermo nel 1983 e la storia di tutela dei valori dell’onore e della famiglia spinta sino all’orrore, nota alle cronache antimafia, ritorna a galla spinta dalla nuova legge sui pentiti, che impone al collaboratore Giovanni Brusca un ulteriore sforzo di memoria per raccontare ai magistrati tutti i delitti a cui ha partecipato o di cui ha sentito parlare. Le sue rivelazioni, unite alle parole di altri pentiti che in passato avevano già accennato all’omicidio, ha consentito ai magistrati di spedire agli arresti domiciliari il boss Antonino Pipitone, 70 anni, mafioso ormai in pensione dell’Acquasanta, borgata marinara a metà strada tra Palermo e Mondello. All’inizio degli anni ottanta aveva scoperto che la figlia, mamma di un bimbo di 4 anni, tradiva il marito che egli stesso le aveva imposto, incontrandosi con un cugino, un’onta che in Cosa Nostra si lava con il sangue. E l’anziano genitore, posto di fronte alla scelta di salvare la figlia rinunciando però all’onore ed al conseguente prestigio di capo famiglia, non ha avuto dubbi. Ha ordinato l’omicidio, una punizione esemplare.. Così il 23 settembre del 1983 due killer camuffati da rapinatori entrarono in una sanitaria del quartiere proprio mentre una cliente, Rosalia Pipitone, era impegnata in una telefonata da un apparecchio pubblico. I banditi si fecero consegnare il bottino dal titolare, appena 250 mila lire, poi iniziarono a sparare contro Rosalia, che cadde a terra in una pozza di sangue. E per essere sicuri di avere obbedito al mandato ricevuto, tornarono indietro per esplodere i colpi di grazia. Rosalia morì in ospedale, pochi giorni dopo il delitto, Simone Di Trapani, cugino-amante della donna, si suicidò gettandosi dal balcone di casa sua. Non aveva sopportato, racconteranno i pentiti, il dolore per la morte della sua donna. Quello di Rosalia, vittima della mafia e del suo codice d’onore, è uno degli oltre cinquanta omicidi dimenticati di cui Brusca svela mandanti e moventi, consentendo la riapertura del caso. Alle dichiarazioni dell’ ex boss di San Giuseppe Jato, nei mesi scorsi, si sono aggiunte quelle dell’ ultimo pentito eccellente di Cosa nostra, Nino Giuffre’. Entrambi sono concordi nell’ indicare in Antonino Pipitone il mandante del delitto e nel tradimento il movente dell’ agguato, un piano studiato nei dettagli per non «dare troppo nell’occhio», simulando la rapina. Quello della figlia del boss non è l’ unico delitto deciso da Cosa nostra per «onore». Nel 1984 altre due donne, Giuseppina Lucchese e Luisa Gritti, sorella e cognata del killer Giuseppe Lucchese, pagarono con la vita le loro storie extraconiugali. Anche allora ad ordinare gli omicidi fu un familiare. A sparare a Giuseppina sarebbe stato il fratello che per non farsi riconoscere avrebbe indossato una parrucca bionda. Il presunto amante della donna, Pino Marchese, un cantante di musica napoletana, venne invece trovato morto con i genitali in bocca. Anche questo un macabro rituale mafioso per lanciare un messaggio e allo stesso tempo un monito: le donne di Cosa Nostra non si toccano.

 

 

LA SENTENZA (16/07/2004) A QUESTO LINKritaatria.it
Antonino Pipitone fu assolto per non aver commesso il fatto.

 

 

 

SE MUOIO SOPRAVVIVIMI
di Alessio Cordaro e Salvo Palazzolo.

Articolo estratto dal Venerdi di Repubblica del 28 Settembre 2012
LA FIGLIA DELLA MAFIA UCCISA DAL PADRE PER ONORE
Un libro, scritto da un cronista di Repubblica, racconta, 30 anni dopo, la verità nascosta su un doppio delitto camuffatto da incidente. E i giudici riaprono l’inchiesta. di Piero Melati

PALERMO. Ogni città ha il suo baratro. La sua bocca dell’inferno. A Palermo è dalle parti di Fondo Pipitone, nella costa nord, tra l’Acquasanta e l’Arenella, storiche borgate marinare. Esse sorgono ai piedi del Monte Pellegrino che, con il suo Castello Utveggio, domina il capoluogo siciliano.  All’Acquasanta c’è il Gran Hotel Villa Igiea, residenza a cinque stelle di mafiosi e Gattopardi. Ninnoli Art Nouveau e manifesti Belle Époque: quelle stanze hanno ospitato, con gelida indifferenza, tanto Edoardo d’Inghilterra o il Kaiser di Prussia Guglielmo quanto le cerimonie di matrimonio del boss Leoluca Bagarella e del narcotrafficanteTommaso Spadaro.
Un inferno che sembra il paradiso. Proprio qui una ragazza di 25 anni, Rosalia Pipitone, per prima si strappò il burqa che Cosa Nostra cuce addosso alle sue figlie. Una ribellione che le costò la vita. Nata da un boss, Lia scappò di casa, si sposò contro il volere del padre, si distaccò dal marito, da cui ebbe un figlio, conobbe un amico del cuore e venne uccisa.
L’ordine lo dette il padre. E se non fu l’ordine, fu assenso silenzioso. Lia aveva violato le regole dell’onore. Per eseguire il delitto senza clamori, fu  inscenata una finta rapina. E l’indomani, l’amico del cuore fu gettato da un quarto piano, fingendo un suicidio per amore.

Fu la cronaca di una morte annunciata. Lia, prima di morire, chiese al marito e padre di suo figlio di non abbandonare mai il bambino, come sapesse che cosa  l’aspettava. E il suo sposo non tradì mai quel giuramento. A risalire il sentiero di questa tragedia, avvenuta nel 1983, la cui messinscena aveva superato indenne ben tre processi, sono stati il giornalista di Repubblica Salvo Palazzolo e il figlio di Lia, Alessio Cordaro. “Se muoio, sopravvivimi” è il titolo di una inchiesta scritta a quattro mani, un verso profetico tratto dalla poesia preferita di Lia, di Pablo Neruda. Un’indagine che oggi ha spinto la Procura a riaprire il caso, anche grazie alle nuove rivelazioni di un pentito. Angelo Fontana.

Siamo in una Palermo di altri tempi. Alla fine degli anni Settanta, dentro il baratro di vicolo Pipitone c’è un giardino.  Qui si incontravano picciotti che presto saranno famosi. Attorno a Pino Greco, detto Scarpazzedda, si riuniscono Madonia, Lucchese, Cucuzza, Carollo, Prestifilippo. Vivono all’ombra di Antonino Pipitone, il padre di Lia. Lui è cognato di Tommaso Cannella, consiglieri di Bemardo Provenzano e braccio destro dei Galatolo, alta aristocrazia mafiosa. I picciotti di vicolo Pipitone diventeranno lo «squadrone della morte» del clan dei corleonesi, il commando di killer più spietato della storia di Cosa Nostra. Si lorderanno di centinaia di delitti, come mistici votati all’omicidio. Un team allevato da Pino Greco, killer innamorato delle armi (portava smontato in una custodia il raro mitra Thompson col quale uccise il segretario del Pci, Pio La Torre) e un fanatismo da samurai (sgriderà Antonino Madonia per aver sparato per primo, al suo posto, quando massacrarono il generale Dalla Chiesa).
Lia Pipitene, ignara di tutto, nel 1975 frequenta il liceo Artistico. Ama le tonalità infinite dell’azzurro. Lo scoprirà il figlio Alessio, quando aprirà una scatola che conserva i suoi disegni di allora. Dentro ci sono l’anello, la collanina e un orologio ancora sporco di sangue. Lia ascolta Wish you were here dei Pink Floyd, perché in quegli anni, a Palermo, stanno cambiando anche le borgate. Si preparano, come in tutta Italia, le occupazioni nelle scuole e nelle università del ’76’-77. Legge Che Guevara, Levi, Pasolini. Sogna a occhi aperti. Nel frattempo, il clan di suo padre diventa potentissimo. Lo scopre il giudice Falcone quando, nel 1991, arresterà l’unico riciclatore professionista di denaro di mafia finora pizzicato.
Dalle borgate marinare di Palermo l’uomo aveva mosso in poco tempo 18 milioni di dollari. Con tanti soldi puoi corrompere chiunque. E infatti, inchieste e pentiti hanno rivelato che i clan della costa nord disponevano di talpe in questura e negli uffici giudiziari. il cui ruolo è stato decisivo in più di una occasione. Per esempio, è dall’Arenella che il boss Gaetano Scotto fa partire le tante telefonate che, tra il fallito attentato a Falcone dell’89 e le stragi del ’92, arrivano alle misteriose utenze della scuola per manager che ha sede nel Castello Utveggio. Telefonate a numeri che si scoprirà di pertinenza dei servizi segreti. Come poteva sapere tutto questo Lia, quando nel ’77 scappa di casa, sull’onda della nuova contestazione studentesca?
Non poteva nemmeno immaginare che, da quel baratro nei pressi della casa paterna, sarebbero partite le spedizioni del commando che, tra l’82 e l’85, videro cadere La Torre, Dalla Chiesa e il capo della squadra Mobile Ninni Cassarà. Qualcosa, però, comincia a sospettare. Durante la sua fuga, lo zio Tommaso Cannella usa modi spicci per chiedere in giro dove mai sia fuggita Lia.

Lei tira dritto. Si sposa con il fidanzatino conosciuto a scuola (ma non in chiesa, come voleva il padre), viaggia, ammira i tramonti nell’isola di Levanzo. Ma le illusioni del movimento giovanile del ’77 si stanno ormai spegnendo. Senza casa e lavoro,  nel settembre del ’78 gli sposini devono far ritorno all’Arenella, a casa Pipitone. Sono anni ruggenti, per la mafia. Le ditte Pipitone e Cannella strappano i lavori per l’abbattimento delle ville storiche della borgata Resuttana. Nei ristoranti del’Acquasanta i Galatolo pasteggiano a champagne con i narcos colombiani e i padrini americani. Il boss Vincenzo si vanta: «Se c’è un mandato di cattura, mi avvertono sempre prima». Fiumi di eroina escono dalle raffinerie e investono la città come uno tsunami. Intanto, la borgata mormora: Lia esce senza il marito, ha un nuovo amico. Il boss interroga la figlia. Lei gli dice che sta per separarsi. Pipitone urla, minaccia, le sputa in faccia.
Via Papa Sergio 61, ore 18 e 30 del 23 settembre ’83, davanti al negozio Farmababy. Entrano due uomini eleganti, parlano in perfetto italiano, sono armati di Smith e Wesson Special calibro 38. Prendono l’incasso ma poi, invece di fuggire, aspettano. Finché entra Lia. Le sparano alle gambe. Scappano. Uno rientra, urla: «Mi ha riconosciuto», e la finisce. Il giorno dopo, in piazza Cascino, due uomini salgono dall’amico di Lia. Gli fanno scrivere un biglietto: «Mi uccido per amore». Poi lo gettano dal quarto piano. Lia è solo l’85° omicidio dall’inizio dell’anno.
Settembre 2012: il baratro di Fondo Pipitone, tra l’Acquasanta e l’Arenella, è ancora in mano ai clan. Il figlio Alessio dice: «Mia madre voleva essere una donna libera, questo dava fastidio alla mafia».
Rosalia, ufficialmente, non è una vittima dei boss. Quante altre lapidi nascoste ci sono, nel cimitero di Palermo? Da oggi Rosalia le rappresenta tutte.

 

 

 

Articolo del 5 ottobre 2012 da  oggi.it
Alessio Cordaro: “Il nonno boss fece uccidere mia madre”. Il racconto choc
di Livio Colombo
Aveva solo 4 anni quando sua mamma, Lia Pipitone, morì in una strana rapina. In realtà, dice oggi, fu una messinscena per nascondere un delitto d’onore

Alessio Cordaro ha 33 anni, un piercing sul sopracciglio e un buco nel cuore. Perché sua mamma gliel’hanno ammazzata che era una ragazza, e lui un bambino piccolo. E perché a mandare due sicari è stato il nonno. Suo nonno: lui ne è convinto.

DELITTO D’ONORE – Delitto d’onore. Roba, forse, di un altro secolo. In effetti in quel settembre dell’83 c’erano ancora i telefoni a gettone. E Rosalia Pipitone fu proprio per chiamare qualcuno dall’apparecchio a muro che entrò nel negozio di sanitari di via Papa Sergio 61. Sfortunatamente, poco prima di due “rapinatori”.

LA VITTIMA NUMERO 85 – Un colpo, poi un altro e la venticinquenne Lia divenne la vittima numero 85, quell’anno, a Palermo e provincia. E tutti a portare le condoglianze a suo padre, Antonino Pipitone, uno che apriva cantieri, faceva affari, si prestava per trovare lavoro e, come disse lui al giudice, «faceva la cortesia di mettere pace»: insomma, un boss. Anzi, il boss, all’Arenella.

L’INCIDENTE CHE NON TORNA… – Un incidente? Peccato che di solito i rapinatori puntano alla cassa e non si attardano a guardare in giro, specialmente quando il negoziante se l’è già fatta sotto e ha messo l’incasso, 250 mila lire, sul bancone. E di solito se proprio sparano al malcapitato finito “nel posto sbagliato al momento sbagliato”, non dicono prima ad alta voce «mi ha riconosciuto!», neanche dovessero rendere conto di quello che fanno a un’intera città.

IL LADRUNCOLO INCAPRETTATO – Ma facciamo finta di credere alla rapina. Come si concilia la mancata individuazione dei responsabili con l’inesorabile legge del “di solito”? Di solito chi tocca un parente del boss paga per molto meno. Lì vicino fu scippata la moglie di Rosario Riccobono, che all’Aquasanta era “l’autorità”. Il ventenne ladruncolo Claudio Orlando fu subito individuato, si scusò, riportò la borsetta, si chiuse in casa. La prima volta che uscì, dopo giorni, finì incaprettato.

DONNA TROPPO RIBELLE – Quindi? Quindi non è assurdo pensare a quella rapina come a una messinscena. D’altronde, che si doveva fare con quella giovane donna da sempre troppo libera e pure ribelle, che già a diciott’anni era scappata di casa? La pecora nera della famiglia, questa Lia, sposata con un buon uomo ma troppo amica di un altro ragazzo, Simone. Un disonore per il padre, che era arrivato a sputarle in faccia durante una discussione, una minaccia per la credibilità di tutto il clan.

“PROMETTIMI CHE TI OCCUPERAI DI ALESSIO” – No, non è un film. Al marito, che la vedeva come in gabbia e cercava di non perderla concedendole più spazio, e le consentiva, lui sì, persino di andare a passeggiare da sola in centro, due giorni prima di morire Lia aveva detto: «Se mi accade qualcosa promettimi che ti occuperai di Alessio».

TUTTA LA STORIA IN UN LIBRO – Papà Gero l’ha fatto, e se n’è occupato bene, se adesso a raccontare la storia di mamma Lia in un bel libro scritto col giornalista di Repubblica Salvo Palazzolo c’è un uomo solido e socievole, paziente quando lavora al call center, scatenato quando si lancia col paracadute. All’incontro con Oggi, Alessio arriva su una Ducati 1199 Panigale, reduce da un viaggio che non si misura in chilometri. Perché è un viaggio dentro se stesso.

Quando è iniziata la sua ricerca della verità, Alessio?

«Non certo quando Salvo mi ha contattato su Facebook chiedendomi se fossi il figlio di Lia Pipitone e se avessi desiderio di provare con lui a reperire nuove informazioni. Il mio viaggio, in realtà, lo avevo già fatto, avevo già tirato le somme e mi ero arreso a ciò che avevo intuito, senza voler andare oltre. Arrivare al “chi ha ucciso” e al “perché è stata uccisa” tua madre non è un percorso così semplice».

Insomma, in realtà lei non voleva davvero sapere tutto su sua madre.

«Quando ho letto la proposta ho pensato di rispondere “mi spiace, non sono io”, e di chiuderla lì. Poi mi è venuta voglia di conoscere meglio mia madre. Non ne ho ricordi nitidi, e lo rimpiango: ero troppo piccolo, le immagini che ho di mamma sono frutto di narrazioni, comprensibilmente addolcite».

Suo padre, che cosa le disse di mamma Lia?

«La prima versione fu quella dell’incidente in bici. E per tanto tempo mi è stata bene».

E suo nonno?

«Lo vedevo quindici giorni all’anno, d’estate, e con lui non sono mai stato a mio agio. Sarà che con papà ci eravamo trasferiti dai nonni paterni, a 90 chilometri da Palermo ed ero abituato alla vita di paese, dove erano tutti più sereni… Sarà che era molto rigido, poco espansivo. Visitarlo era un dovere da assolvere. Come quello di andare a trovarlo in carcere, dove mi dicevano che era entrato per delle questioni fiscali o abusi edilizi, non so. Di lui, in famiglia, nessuno mi parlò mai male. Una volta gli dissi un “no”. Avevo 14 anni e volevo un motorino, sapeva che mi piaceva il Malaguti: mi fece trovare un’Aprilia. La lasciai lì. Ho sempre avuto difficoltà ad accettare qualcosa, anche se una volta mi ha trovato un posto da magazziniere: dopo tre mesi ho visto come mi trattavano, con troppo riguardo, e me ne sono andato».

Nel libro lei racconta che a un certo punto suo padre finalmente apre la scatola dei ricordi di sua madre e le mostra i ritagli di giornale sull’omicidio. Intanto alcuni pentiti, siamo nel 2003, fanno il nome di suo nonno come mandante del delitto, c’è il processo e lui viene assolto per insufficienza di prove. Possibile che lei non chiese spiegazioni?

«Ho avuto timore delle mie reazioni. Quante volte sono partito per chiederglielo e mi sono fermato all’ultimo momento! Credo di avere un carattere forte e di aver avuto un’autonomia superiore a quella dei miei coetanei ma la mia adolescenza non è stata semplicissima: lei sa cosa vuol dire quando a scuola riuniscono i genitori e tu vorresti avere lì tua mamma? In verità, parlavo poco di lei. Si capiva che c’era una ferita aperta solo quando, ritornato a Palermo a studiare alle superiori, succedeva che, anche scherzando, qualcuno dicesse “quella arrusa di to matri”. Puttana non è un complimento».

Scusi se insisto: ma almeno mettere alle strette sue padre? Lui, magari, sapeva…

«Io lo ammiro, perché o fai i bagagli con un figlio di quattro anni e vai dall’altra parte del mondo oppure in questo contesto sbatti contro vicende pesanti. Quando si è aperto con me e mi ha mostrato i fascicoli finalmente ha potuto condividere, penso, un peso. Io ho trovato conferma a quello che già sospettavo: mi era chiaro che qualcosa non tornava».

Sul nonno?

«Su Antonino Pipitone: dobbiamo sempre chiamarlo nonno?».

Pensa che suo padre non le abbia parlato prima per proteggerla?

«Indubbiamente. E poi lui è una persona ermetica. Era giovane, ha cercato la strada migliore per sopravvivere in un ambiente così, magari accettando compromessi. Io fino a prova contraria, credo che il nonno c’entri con quello che è successo. E penso che mio padre sia ancora più convinto di me. Di recente ha partecipato all’esperienza di Addio Pizzo contro il racket: è stato il suo modo di palesare finalmente alla società la sua opposizione a ingiustizie che ha vissuto sulla sua pelle».

All’inizio della sua ricerca verso la verità, non ha temuto di scoprire una mamma diversa, di intaccarne l’immagine?

«Indende “scoprire che tradiva mio padre”? No, nessuna paura. In un contesto del genere, se le cose con papà non andavano bene difficilmente avrebbe potuto parlargli e prendere un’altra strada. No, l’immagine che ho di lei è solo quella di vittima. Magari vittima di una banalità come un tradimento («Certo non è una banalità per la struttura sociale mafiosa», aggiunge Salvo Palazzolo, ndr)».

E con questo libro cosa rischia e cosa si propone?

«Avevo trovato un equilibrio nella mia vita e adesso invece dovrò ricostruirmi da zero. Ma spero che qualche vecchio amico di mamma si faccia vivo per darmi altri tasselli. E magari la magistratura potrà fare luce sul delitto: non ho scritto il libro per puntare il dito contro qualcuno ma se si scopre il “chi” e il “perché” avrei reso giustizia a mia madre».

Aggiunge Salvo Palazzolo: «Posso dire che uno degli ultimi atti del giudice Antonio Ingroia prima della sua partenza per il Guatemala è stata la riapertura delle indagini su Rosalia Pipitone. Chi è sospettato del delitto non è un killer di borgata ma Vincenzo Galatolo, oggi all’ergastolo per tanti omicidi e allora ai vertici di una cosca su incarico di Totò Riina, uno che ebbe un ruolo nella strage Chinnici, uno che fu custode del fondo da cui partirono i sicari di molti omicidi eccellenti. L’altro che i pentiti hanno indicato come killer fu ferito a morte in un conflitto a fuoco, e le sue ultime parole a un prete furono un’invocazione: “Dio potrà perdonarmi per quello che ho fatto?”».

 

 

 

Articolo del 16 Ottobre 2012 da  ctzen.it/
Se muoio sopravvivimi, storia di Lia la ribelle
Cercava la libertà, uccisa dal padre-boss

Di Salvo Catalano
Nella Palermo di inizio anni ’80 Lia Pipitone è una ragazza troppo libera. Soprattutto perché figlia di un boss vicino ai corleonesi. La decisione di lasciare il marito, l’ultima di tante scelte indipendenti, fa infuriare il padre padrone che ordina di ucciderla. E’ questo quanto raccontano alcuni pentiti. La storia di Lia, arricchita di testimonianze e di nuovi elementi che hanno fatto riaprire l’inchiesta dei magistrati, è raccolta nel libro Se muoio sopravvivimi, scritto dal figlio Alessio Cordaro e dal giornalista Salvo Palazzolo. «Uno dei misteri di Palermo che, come tante altre storie dimenticate, meritava di essere raccontato»

Lia Pipitone ha 25 anni nella Palermo insanguinata dei primi anni ’80. Ama le poesie di Pablo Neruda, le passeggiate in via Roma, il corso dello shopping palermitano, e il mare dell’Arenella, dove passa intere giornate con Alessio, il figlio di quattro anni. Un’immagine ritorna spesso nei suoi disegni: quella di due mani che spezzano una catena. Sette anni prima, quando ne aveva appena 18, si era innamorata tra i banchi di scuola e aveva deciso di scappare di casa per sposarsi. Una decisione azzardata e coraggiosa, come tutte quelle della sua vita, perché Lia ha un padre ingombrante. Si chiama Antonino Pipitone e dell’Arenella, il quartiere dove vivono, è il boss benedetto dai corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano.

I padrini, su indicazione del padre, si mobilitano per cercare la giovane coppia. La trovano in un paesino della provincia e Lia è costretta a tornare a Palermo, portandosi dietro la sua voglia di libertà. Che non si ferma neanche quando nel quartiere comincia a girare la voce che lei, la figlia del boss, esce troppo da sola e si frequenta con un altro uomo. Quando una sera a cena comunica al padre padrone che ha deciso di andare a vivere per conto suo senza il marito, Pipitone si alza e le sputa in faccia. È l’estate del 1983.

Il 23 settembre, poco prima delle sei e mezza del pomeriggio, Lia entra in una sanitaria e si dirige verso il telefono a gettoni. Finita la telefonata si ritrova davanti due malviventi col volto coperto che si sono fatti consegnare dal titolare 250mila lire, l’incasso della giornata. Ma anziché andarsene col bottino, aspettano che la giovane si avvicini al bancone. Uno dei due le spara alle gambe. Fa per andarsene, poi torna sui suoi passi. «Mi ha riconosciuto», urla due volte, prima di sparare altri quattro proiettili che uccidono Lia. La rapina è solo una messinscena, confesseranno alcuni pentiti nel 2003. Ad ordinare la morte di Lia è stato il padre, che però verrà assolto in tutti e tre i gradi di giudizio. Non che non ci fossero abbastanza prove, ma quei pentiti, stabilirono i giudici, raccontavano fatti de relato, per sentito dire.

Già, perché il clamore per quella morte fu tanto nel quartiere. Così come al tempo delle prime dichiarazioni dei testimoni di giustizia, dieci anni fa. Se ne parlò molto, ma per poco tempo. Poi la storia di Lia tornò nel dimenticatoio, tra i misteri di Palermo. A rendere più fitto il mistero si aggiunge quanto successo il giorno dopo dell’omicidio della giovane. Viene trovato morto Simone Di Trapani, il lontano cugino con cui Lia negli ultimi mesi si era confidata. Un rapporto speciale. Per Simone, Lia era la sorella che non aveva mai avuto. Lei diceva spesso che Simone era il marito ideale. Morto dopo un volo dal balcone di casa sua. Un suicidio, si disse. In realtà, un’altra messinscena dei sicari della mafia che prima di spingerlo giù dal quarto piano, lo costrinsero a scrivere un biglietto: «Mi uccido per amore».

«C’erano sette account su Facebook con il nome Alessio Cordaro. Ma solo in una pagina ho trovato le foto di un ragazzo che si lancia col paracadute, e poi da una gru alta cento metri con una fune attaccata ai piedi. In un’altra foto, Alessio Cordaro sfreccia su una moto Ducati. Oppure, tiene un serpente in mano. E poi ancora è agganciato al portellone di un aeroplanino fra le nuvole, mentre fa delle riprese con una telecamera. Ho subito pensato che fossi tu il figlio di Rosalia Pipitone, un tipo un po’ matto. E guardando quelle foto cominciavo a immaginare la giovane madre di Alessio e la sua voglia di libertà». Questa è la prima email che Salvo Palazzolo, giornalista di Repubblica, ha inviato ad Alessio Cordaro, il figlio di Lia Pipitone. «Avevo sentito parlare di questa storia, ma solo recentemente ho deciso di cercare Alessio», spiega Palazzolo. Da quel primo approccio, entrambi hanno iniziato un viaggio: per il cronista è stata un’inchiesta nella Palermo che assisteva all’ascesa al potere dei corleonesi. Per il figlio è stato un percorso alla ricerca della madre.

«Volevo rispondergli che non ero io la persona che cercava», spiega Alessio. Invece ha impiegato qualche giorno, ma alla fine ha accettato. Da quel sì è nato Se muoio sopravvivimi, un libro, edito da Melampo, scritto a quattro mani che ripercorre la storia della giovane Pipitone e che verrà presentato mercoledì pomeriggio alle 18 alla Feltrinelli di via Etnea a Catania. Il titolo è tratto da una poesia di Neruda, quella preferita da Lia. «Abbiamo raccolto testimonianze di amici e parenti – racconta Palazzolo – da cui emerge il ritratto di una ragazza ribelle». Nel corso della stesura del libro, viene fuori che un pentito dimenticato, Angelo Fontana, nell’ambito di un’altra inchiesta, aveva già fatto il nome dei due sicari, ma all’epoca non era scattata nessuna ulteriore verifica.

Oggi, grazie ai nuovi elementi raccolti nel volume, i pubblici ministeri Antonio Ingroia e Francesco Del Bene, che già aveva seguito il primo processo, hanno riaperto l’inchiesta. Ma come è possibile che per tanto tempo nessuno ha più parlato di questa storia? «Per Cosa nostra – racconta il giornalista nel libro – il vero lavoro sporco comincia dopo l’omicidio, perché c’è da rimuovere ogni traccia della vittima: ogni parola, ogni pensiero, ogni intuizione. Perché sono le parole, i pensieri, le intuizioni verso la verità che fanno davvero paura ai mafiosi e ai loro complici, spesso insospettabili». «In Sicilia – aggiunge Palazzolo – non ci sono solo magistrati e poliziotti che hanno fatto la lotta alla mafia, ma anche semplici siciliani che hanno combattuto per avere una vita normale e per questo sono morti. Vittime considerate di serie B, famigliari che portano dentro l’amarezza e le storie che devono essere raccontate».

Alessio in questi giorni è inseguito da tanti giornalisti, ma non è ancora riuscito a vincere l’emozione che lo pervade ogni volta che deve raccontare la stessa storia. Quella sua e di sua madre. «In tutti questi anni ho maturato una sorta di rifiuto per tutto quello che riguarda l’aspetto cronistico dei fatti», spiega. Quanto sa di sua madre lo ha ricostruito dai racconti degli amici e dei parenti. «Dicono che ho preso il 90 per cento da lei, soprattutto l’urgenza di affermare la mia libertà». Solo una cosa sembra non combaciare. Alessio non ama il mare. Anzi, lo evita proprio. Il perché lo racconta in queste righe di Se muoio, sopravvivimi:

«Stavamo intere giornate al mare, nella spiaggetta dell’Arenella. In quel tratto di mare mi hai insegnato a nuotare. Andavamo anche sott’acqua, da una parte all’altra, fino al molo delle barche dei pescatori. Io avanti, tu sempre dietro, per tenermi sotto controllo […] Sai, dopo la tua morte non sapevo più nuotare. E anzi, avevo anche una terribile paura dell’acqua. Provarono in tutti i modi. Prima con i braccioli. Poi, la zia tentò un sistema più brusco, lanciandomi dal gommone. Niente, ero terrorizzato dall’acqua. Forse il trauma di averti persa mi portava ad allontanarmi da ciò che più di tutto ci aveva uniti, la tua passione per il mare».

 

 

 

Foto da antimafiaduemila.com

 

 

 

Foto da: palermotoday.it

Fonte: palermotoday.it
Articolo del 17 luglio 2018
Uccisa perchè “libera”, due condanne a 30 anni per l’omicidio di Lia Pipitone
Per i boss Vincenzo Galatolo e Antonio Madonia anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’interdizione legale. Assassinata nel 1983 – col benestare del padre – perché non avrebbe voluto troncare una relazione extraconiugale

I boss Vincenzo Galatolo e Antonio Madonia sono stati condannati a 30 anni di reclusione, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e all’interdizione legale per l’omicidio di Lia Pipitone. Ai due mafiosi è stata imposta la libertà vigilata per 3 anni a pena espiata. Alle parti civili, marito e due figli della vittima assistiti dall’avvocato Nino Caleca, è stata riconosciuta una provvisionale di 20 mila euro ciascuno.

La richiesta del pm Francesco Del Bene era arrivata dopo la riapertura delle indagini inseguito alle dichiarazioni rilasciate dal collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo che hanno segnato una svolta nel caso. La morte della figlia del boss dell’Arenella, Antonino, avvenuta nel corso di una rapina in farmacia, è stata avvolta dal mistero per oltre 30 un mistero. Lo scorso 23 giugno, durante la prima udienza del processo per l’omicidio della donna, è arrivata la rivelazione choc di Francesco Di Carlo secondo il quale Lia Pipitone sarebbe stata assassinata perché non avrebbe voluto troncare una relazione extraconiugale. La rapina, quindi, sarebbe stata una messa in scena. “Era nata per la libertà ed è morta per la sua libertà”, ha rivelato recentemente il collaboratore di giustizia.

Lia Pipitone venne uccisa nel settembre del 1983 e dopo un primo processo conclusosi con l’assoluzione definitiva di suo padre, ora sono a giudizio i boss Vincenzo Galatolo e Nino Madonia. “Mio fratello ­ – dice Di Carlo ­ – mi ha riferito che il padre di Lia, dinnanzi alla resistenza della figlia a cessare una relazione extraconiugale con un ragazzo, aveva deciso di punirla perché il capomandamento non voleva essere criticato per questa situazione incresciosa. In quel periodo il capomandamento di Resuttana, da cui dipendeva l’Acquasanta, era Ciccio Madonia che però non prendeva decisioni in quanto o malato o detenuto. Invero, il comando era assicurato da Nino Madonia e dopo l’arresto di questi dal fratello Salvatore”.

E aggiunge il pentito: “Secondo la regola di Cosa nostra, Madonia ha convocato Nino Pipitone al quale ha comunicato la decisione di risolvere il problema eliminando la figlia. Circostanza a cui Pipitone non si è sottratto nel rispetto della mentalità di Cosa nostra che condivideva in pieno. Sempre secondo le regole di Cosa nostra ha convocato Galatolo, in quel periodo responsabile della famiglia era Vincenzo, al quale ha affidato l’esecuzione materiale dell’omicidio”. Le parole di Di Carlo ­ che spiega che la rapina sarebbe stata solo una messinscena, visto che Lia Pipitone in quel momento era in una cabina telefonica e che nulla sarebbe stato fatto poi da suo padre, con un ruolo di vertice in Cosa nostra, per vendicare la figlia – confermano quelle di altri collaboratori di giustizia ed anche le tesi della Procura.

 

 

 

Fonte: palermo.repubblica.it
Articolo del 16 gennaio 2019
“Lia Pipitone uccisa da Cosa nostra. Bastò il sospetto che tradiva il marito”
Le motivazioni della condanna a 30 anni per i mandanti, Madonia e Galatolo. La parte civile: “Sentenza che smaschera i falsi valori di Cosa nostra”.
di Salvo Palazzolo

“Meglio una figlia morta che separata”, ripeteva Antonino Pipitone, autorevole consigliere della famiglia mafiosa dell’Acquasanta. Non sopportava che la figlia Lia frequentasse un lontano cugino, diventato il suo migliore amico; nel quartiere si diceva che i due giovani avessero una relazione extraconiugale. E la conferma sembrò arrivare quando la giovane annunciò di voler lasciare il marito, per andare lontano da Palermo. Un affronto per la subcultura di Cosa nostra.

“L’omicidio era stato progettato all’interno dell’ambiente mafioso e doveva realizzarsi simulando una rapina”, scrive la giudice Maria Cristina Sala nelle motivazioni della sentenza che il 17 luglio scorso ha condannato a 30 anni i boss Vincenzo Galatolo e Nino Madonia. Il reggente della famiglia dell’Acquasanta e il capo del mandamento di Resuttana sono ritenuti i mandanti del delitto. “E il padre autorizzò l’omicidio”, ha raccontato il pentito Rosario Naimo.

“L’omicidio di Lia Pipitone maturò all’interno di Cosa nostra, in ossequio a delle regole ferree imposte dalla cultura mafiosa – si legge nelle 106 pagine della motivazione della sentenza – fu pianificato ed eseguito dalla stessa organizzazione mafiosa, con modalità tali da far apparire la morte della ragazza come l’epilogo tragico di una rapina, allo scopo di occultare le reali ed effettive motivazioni del delitto”. La uccisero il 23 settembre 1983. Lia aveva 24 anni. E voleva solo vivere la sua vita.

“Lia Pipitone fu uccisa per la sua voglia di libertà”, ha detto il pubblico ministero Francesco Del Bene durante la requisitoria. “È ora questa bella sentenza parla al cuore – commenta l’avvocato Nino Caleca, legale del figlio di Lia e del marito, Alessio e Gero Cordaro, che hanno fatto riaprire il caso e si sono costituiti parte civile contro i boss – Una sentenza che smaschera i falsi valori su cui è fondata Cosa nostra. Lia è morta per difendere la libertà di tutte le donne. Questa sentenza andrebbe studiata nelle scuole”.

Scrive ancora la giudice: “La presunta relazione extraconiugale della figlia del mafioso Pipitone, l’offesa all’onore ed al prestigio del padre si era tradotta, inevitabilmente, in una offesa all’onore ed al prestigio dell’intera articolazione mafiosa cui egli apparteneva. Da qui la decisione di uccidere Lia per lavare con il sangue l’affronto che, secondo le regole del codice mafioso, non poteva essere tollerato. Trattavasi, nella cultura mafiosa, di un fatto gravissimo, tra quelli che non potevano restare impuniti e che richiedevo una soluzione estrema”.

 

 

 

Dal libro: Dead Silent  Life Stories of Girls and Women Killed by the Italian Mafias, 1878-2018 di Robin Pickering Iazzi University of Wisconsin-Milwaukee, rpi2@uwm.edu

 

 

 

Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 2 aprile 2020
Lia, meglio morta che separata
di Alessio Cordaro
a cura di Alessia Pacini

“Meglio morta che separata”. La frase che accompagna la morte di Rosalia Pipitone, 25 anni, venne pronunciata dal padre, Antonino Pipitone, boss mafioso dell’Acquasanta, a Palermo. Non accettava che la figlia e suo marito si fossero lasciati, che lei, donna libera, potesse avere un altro uomo. Rosalia viene uccisa, con la messinscena per giunta di una rapina, il 23 settembre 1983. L’omicidio di Lia per molti anni rimane impunito.

Poi nel 2012, il figlio di Lia, Alessio Cordaro e il giornalista Salvo Palazzolo decideranno di raccontare insieme la storia della donna, con il libro “Se muoio sopravvivimi”. Documenti, ricordi e testimonianze. Il “caso di Lia” viene riaperto e con le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, si ricostruisce la vicenda: era stato Antonino Pipitone stesso a dare il proprio consenso a Antonio Madonia, capo del mandamento mafioso dell’Acquasanta, per la morte di Lia, la propria figlia, nel pieno rispetto delle regole di Cosa Nostra. E nel 2018 arrivano anche le condanne a 30 anni di carcere per Vincenzo Galatolo e lo stesso Madonia. Impossibilitato ad essere punito, invece, il padre di Lia: era morto poco prima.

Alessio ci racconta la sua storia…

Ho pochissimi ricordi di mia mamma, per non dire quasi nessuno. Ero molto piccolo, avevo quattro anni quando è stata uccisa. Ma sono fortunato perché al tempo mio padre era già fotografo e ho molti scatti che mi ritraggono insieme a lei. È nelle foto e nei pochi ricordi che ho di quel periodo che la ritrovo: torno a quando andavamo in spiaggia, un luogo che lei amava moltissimo, dove ho passato ogni giorno della mia vita fino all’evento che l’ha cambiata. Trascorrevamo lì le nostre giornate, in attesa che mio padre rientrasse a casa da lavoro. Andavamo all’Arenella, un quartiere di Palermo. Era il senso di libertà trasmesso dal mare che mia madre amava tanto.

Ma il mare non è sempre stato un luogo felice per me. Dopo la morte di mia madre non sapevo più nuotare, ne ero diventato riluttante. E allora mi sono spostato verso l’aria: sono andato ad alta quota per avvicinarmi a lei.
Ho dei flashback anche della serata stessa dell’omicidio. Ma non saprei dire se parte di questi ricordi sono reali o no. Non posso escludere che siano stati costruiti dalla mia mente tramite i racconti e le cose che ho letto e visto negli anni successivi. Quella sera, in attesa che arrivassero i soccorsi, mi presero in cura i miei vicini. Ricordo bene, penso in maniera reale, che ero sul balcone e vedevo arrivare le volanti della polizia.
È solo un frangente: c’erano l’ambulanza e molti lampeggianti per strada. E poi ricordo il dolore nei volti di chi mi era intorno. Tutti, tranne mio nonno materno. Come se non fosse colpito dalla cosa. Ma non ho la certezza che sia reale o meno: i ricordi si confondono ai racconti e negli anni mi è diventato impossibile separarli.

I primi anni non mi raccontarono cosa fosse successo, mi dissero che era stato un incidente. Capii la verità solo da adolescente. Mio papà raccoglieva da sempre tutti gli articoli di giornale dell’epoca in un raccoglitore, ad un certo punto della mia vita me lo consegnò. Quello è stato il momento in cui ho preso piena consapevolezza. Quando ero piccolo non avevo un bellissimo rapporto con la parentela materna, ma si trattava di una cosa a pelle, nessun motivo particolare. Fino al momento del raccoglitore: a quel punto non mi è rimasto che schierarmi. Istintivamente e per carattere, educazione, ho preso subito la mia posizione. Certo per noi due non è stato facile: sia io sia mio padre avremmo potuto subire delle ritorsioni, tanto è vero che decidemmo di trasferirci ad Agrigento dai nonni paterni. Volevamo andare via dall’ambiente infelice in cui ci trovavamo a Palermo.

Io non ho un ricordo tangibile, non ho l’idea esatta del momento in cui ho preso consapevolezza della morte di mia mamma. Credo che, in cuor mio, io abbia sempre saputo che suo padre avesse avuto un ruolo, direttamente o indirettamente, nella scomparsa di mia madre. Era già stato parecchi anni in carcere per dei problemi con la sua azienda di costruzioni e quando ero piccolo mi obbligavano ad andarlo a trovare. Che la situazione fosse complicata mi è stato chiaro da sempre. Ma il dubbio che in un modo o nell’altro lui fosse parte di un ambiente criminale mi ha sempre accompagnato. Ho sempre reputato che, in un modo o nell’altro, le scelte di vita di mio nonno lo avessero reso responsabile di quanto successo a mia madre. Quando presi consapevolezza che lo era in prima persona, andai direttamente da lui a chiedere spiegazioni. Ricordo bene che eravamo in casa e mi fece uscire sul terrazzo, sosteneva che in casa potessimo essere spiati con microspie, surreale per me. Uscimmo e mi disse che non aveva niente a che fare con la morte di mia madre. Non ritenni soddisfacente questa risposta: in un modo o nell’altro mi ero già dato le risposte che cercavo. Sapevo che non avrei ottenuto niente da parte sua, ma sentivo il dovere di chiedere in prima persona.

Quando mia mamma è stata riconosciuta come vittima innocente di mafia, per me non è cambiato molto. Ho sempre saputo come stessero le cose e non mi ha fatto differenza. Ho molta gratitudine verso coloro che mi hanno dato una mano nell’affrontare questo percorso e sono felice che alla memoria di mamma sia dato il giusto peso e valore per il suo percorso di vita, però sostanzialmente non mi ha cambiato molto.
La soddisfazione pià grande è stata sensibilizzare chi è entrato a conoscenza per la prima volta con la storia di mamma, l’apertura dei centri antiviolenza che le hanno intitolato, perché grazie a quelli stiamo dando una mano a donne e ragazze in difficoltà. Mi ha molto colpito il fatto che da un evento particolarmente infelice possa nascere qualcosa di positivo per aiutare altre persone, è ciò che mi dà la forza di andare avanti.

La storia di mia mamma è diventata anche un libro.
Fui contattato da Salvo Palazzolo tramite un social network, mi chiese se fossi realmente io. Aspettai qualche giorno a rispondere, su due piedi il fatto di dover tirare fuori tutto mi spaventava e lo vedevo troppo oneroso. Volevo quasi dirgli che fossi un omonimo. Nel momento giusto, però, ho capito che fosse arrivato il momento di parlare di mia madre. Poi, durante la scrittura ho pensato che potesse essere l’occasione buona per far riaprire il processo. E così è stato. Una delle motivazioni più forti era la speranza che potesse venire fuori qualcosa e che si potesse riaprire il caso indiziario. Ricordo che alla prima presentazione del libro partecipò anche il magistrato Del Bene che quasi mi ringraziò di aver richiesto la riapertura del caso: mi disse che sapeva fin dal principio come stessero le cose. Non nascondo che è stata una grande iniezione di forza ricevuta.

La gratificazione più grande è essere riuscito a sensibilizzare l’opinione pubblica. Una cosa che io sottovalutavo erano gli incontri nelle scuole. Ogni volta che torno a casa da un incontro con gli studenti mi rendo conto di aver ricevuto più di quanto ho in realtà dato. Parlarne, così che se ne possa prendere coscienza, è la sola parte piacevole di questo percorso.
Da un punto di vista emotivo, per me è stato sempre molto difficile raccontare la storia di mia mamma. Per anni e anni era una storia che tenevo chiusa in un cassetto: pensavo che fosse una battaglia troppo grande da affrontare, io ero un adolescente, credevo di non avere i mezzi adatti. Appena però ho avuto la possibilità di parlarne, grazie all’aiuto di Salvo ho pensato che fosse giunto il momento giusto. Da lì ho iniziato a dare onore alla vita e alla memoria di mia mamma, a tutto cioò che aveva passato. Quando si sono create le opportunità di incontrare i ragazzi nelle scuole, devo essere sincero, ho avuto un po’ di difficoltà perché non è facile parlare di un argomento così delicato. Io parlo con ragazzi di medie e superiori e a seconda dell’età cambia il modo in cui ci si rapporta con loro. Ma non nascondo che da parte mia c’è stata molta sorpresa nel vedere ragazzi così interessati e con così tanta voglia di rivalsa. Questo mi ha convinto che, al di là di tutto, vale la pena di portare avanti questa storia e farla conoscere.

Ho parlato soprattutto nelle scuole dell’hinterland siciliano e gli incontri sono nati dalla volontà dei professori, quindi molti dei ragazzi avevano avuto modo di affrontare l’argomento, avevano anche letto il libro dedicato a mia mamma e già conoscevano la sua storia.
Nelle scuole spesso i ragazzi rappresentano la vita di mamma, a volte con opere o video che racchiudono pensieri, riflessioni. Alcuni di loro hanno anche parlato della storia di mia mamma trasportandola ai giorni nostri: il mondo certo è diverso, ma il dominio mafioso e la violenza sulle donne sono sempre vivi. Argomenti, questi, che i ragazzi sentono molto nel vivo.

Tutte le rappresentazioni che i ragazzi hanno fatto della storia di mia mamma mi hanno colpito. Una, su tutte: una scuola elementare di Palermo mise in scena uno spettacolo su mia madre. È una scuola di una zona difficile, dove la criminalità è pane quotidiano e purtroppo ancora oggi viene instillata nei ragazzi, sicuramente un motivo in più per raccontare il bene e la possibilità di sconfiggere la realtà criminosa. Nello specifico, la maestra chiese un parere sulla criminalità organizzata e la violenza nei confronti delle donne a una bambina. In dialetto palermitano rispose: assolutamente no. Solo dopo l’insegnante mi ha raccontato: è figlia di un criminale.
Ecco perché racconto la storia di mia madre.

 

 

 

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Lia Pipitone
Era nata per la libertà e per questo Lia è stata uccisa. Ha avuto il coraggio e la forza di opporsi alla cultura mafiosa di cui era intrisa la sua famiglia. Lia da giovanissima fa le sue scelte e non ha paura di inseguire i suoi sogni, non si fa fermare dalle minacce. Ha voluto amore e ha saputo donarne tanto. E per questo non doveva rimanere in vita, altrimenti l’onore della famiglia si sarebbe macchiato per sempre.

 

 

 

 

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