26 Giugno 1983 Torino. Ucciso il Magistrato Bruno Caccia. Indagava sul “Clan dei calabresi” e sui mafiosi catanesi operanti nel Nord Italia.

Foto da: cascinacaccia.acmos.net

Bruno Caccia, procuratore capo a Torino indagava sul “Clan dei calabresi” e sui mafiosi catanesi operanti nel Nord Italia e diede un contributo di fondamentale importanza per contrastare la ferocia del terrorismo. Grazie alla sua opera, la Procura instituì i primi processi ai capi storici di Br e Prima linea. Il lavoro di Bruno Caccia in Procura fece vacillare le basi del dominio malavitoso imperante tra Torino e Provincia. Era un vero uomo delle istituzioni che non si poteva corrompere. La malavita lo sapeva e decise di eliminarlo. Bruno Caccia venne freddato con diversi colpi di pistola sotto casa il 26 giugno del 1983.
Domenico Belfiore è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio.

 

 

 

Fonte: cascinacaccia.acmos.net

Bruno Caccia, procuratore capo. Torino 26 Giugno 1983
Indagava sul “Clan dei calabresi” e sui mafiosi catanesi operanti nel Nord Italia.

Nato a Cuneo nel 1917, Bruno Caccia dedicò la sua vita a far rispettare la legge.Iniziò la sua carriera in magistratura nel 1941 nel Palazzo di giustizia torinese. Nel capoluogo piemontese ci rimase sino al 1964 ricoprendo la carica di Sostituto Procuratore, per poi passare ad Aosta come Procuratore della Repubblica. Nel 1967 Caccia ritornò nelle aule torinesi con l’incarico di sostituto Procuratore della Repubblica e, nel 1980, gli fu affidato il compito di presiedere l’organo giudiziario all’ombra della Mole.Caccia era un uomo scrupoloso, attento ai dettagli, inflessibile, fedele al ruolo di tutore della legge. Queste caratteristiche lo hanno portato a portare a termine brillanti inchieste. Nel 1974 istituì un’indagine che portò alla luce lo scandalo delle tangenti delle giunte rosse del comune di Torino.

Diede inoltre un contributo di fondamentale importanza per contrastare la ferocia del terrorismo. Grazie alla sua opera, la Procura instituì i primi processi ai capi storici di Br e Prima linea. Il lavoro di Bruno Caccia in Procura fece vacillare le basi del dominio malavitoso imperante tra Torino e Provincia.

Nel capoluogo piemontese era arrivato un vero uomo delle istituzioni che non si poteva corrompere. La malavita lo sapeva e decise di eliminarlo. Bruno Caccia venne freddato con diversi colpi di pistola sotto casa. Domenico Belfiore è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio. Era il 26 giugno del 1983, giorno in cui Bruno Caccia pagò con la vita la sua fedeltà al dovere di magistrato. L’ennesima vittima di mafia in Italia.

 

 

 

Tratto da Wikipedia

La memoria

La memoria di Bruno Caccia, al pari di quella di Antonino Scopelliti, è stata largamente e vergognosamente abbandonata, specialmente nella terra dove egli nacque e morì tragicamente. In pochi infatti ricordano tutt’oggi il suo sacrificio e questo a causa della poca sensibilità che il nord ha riservato al tema della mafia. Nonostante di recente la magistratura di Torino abbia avviato delle indagini su presunte infiltrazioni ‘ndranghetiste in diverse amministrazioni pubbliche, la lotta all’ndrangheta in Piemonte da parte dei cittadini è ancora lontana dal suo nascere.

A Bruno Caccia sono stati intitolati il Palazzo di Giustizia di Torino “Bruno Caccia” nonché un cascinale a San Sebastiano da Po(TO), Cascina Bruno e Carla Caccia, quest’ultimo sequestrato proprio alla famiglia Belfiore, più precisamente a Salvatore Belfiore, fratello di Domenico, grazie alla legge 109/96. Cascina Caccia viene tuttora gestita dall’associazione Libera, associazione che si occupa di tutto ciò che viene recuperato dalla lotta alle mafie.

È stato inoltre dedicato da Giulio Cavalli un monologo, intitolato “Il sorriso di Bruno Caccia”, un “testo scritto e recitato per” l’evento di chiusura del festival “Libera Quanto Basta Per”, svoltosi proprio a Cascina Caccia ed eseguito il 17 Maggio 2009.

 

 

 

Articolo della Stampa del 25 Giugno 2009
Caccia, un omicidio ancora senza firma
di Niccolò Zancan
Cinque processi non hanno cancellato tutti i misteri.
Preso il mandante, mancano i killer e il vero movente

TORINO. Ventisei anni dopo in via Sommacampagna, fra il Po e la collina torinese, resta una targa sotto la fronda di un glicine: «Il 26 giugno 1983 qui è caduto, stroncato da mano assassina, nel pieno della sua lotta contro il crimine, Bruno Caccia. Procuratore della Repubblica, medaglia d’oro al valor civile, strenuo difensore del diritto, luminoso esempio di coraggio e fedeltà al dovere». Era la sera delle elezioni politiche. Craxi stava per diventare presidente del Consiglio. Il magistrato più importante della città, quello che si occupava di lotta al terrorismo, poteri forti, tangenti, mafia e criminalità organizzata, uscì di casa senza scorta. Come un cittadino qualunque. Doveva portare fuori il cane. Erano le 23,15. Due killer lo stavano aspettando.

La prima relazione della polizia è precisa: «Il conducente della Fiat 128, con rapida manovra, si avvicinava al magistrato. Bloccata l’autovettura, gli esplodeva contro alcuni colpi di arma da fuoco che ne provocavano la caduta sul marciapiedi. Contemporaneamente, il passeggero scendeva dalla 128, e chinatosi sul corpo del dottor Caccia, gli esplodeva contro altri tre colpi». Diciassette proiettili in tutto. Di questo omicidio, che ha cambiato la storia di Torino, c’è una verità processuale. Il pentito «Ciccio» Miano, catanese, ha raccolto e registrato la rivendicazione di un boss calabrese orgoglioso del suo lavoro: «Per Caccia, dovete ringraziare solo me…». Cinque gradi di giudizio hanno stabilito che il mandante dell’assassinio è proprio Domenico Belfiore, tutt’ora in carcere. Mai pentito.

Ma c’è anche una verità storica, più difficile da mettere a fuoco, ancora sospesa. «Una zona grigia», l’hanno definita alcuni investigatori. Mancano gli esecutori materiali, nonostante l’identikit tracciato sulla base di due testimonianze. Mancano, forse, soprattutto, alcuni passaggi che hanno portato alla condanna a morte del procuratore Caccia. Dove «la sua colpa» sembra riassunta in una frase della sentenza della V sezione penale della Cassazione, datata 23 settembre ’92: «I calabresi lo consideravano uomo di particolare durezza e di particolare pericolo per loro, nella sua inavvicinabilità». Era rigoroso, ostinato. Estremamente riservato. Teneva sempre con sé la chiave della cassaforte della Procura. La notte dell’omicidio però non fu trovata.

Di tutto questo si occupa domani la puntata di «La Storia Siamo Noi» condotta da Giovanni Minoli (alle 8,05 su Rai Tre, alle 22 su Rai Storia). Il documentario firmato da Sergio Leszczynsky si intitola «Torino Criminale. Il caso Caccia». È una ricostruzione scrupolosa, punteggiata dalle voci dei protagonisti. La figlia Paola Caccia: «Io credo che non sia emersa tutta la verità su questo caso». Il magistrato Francesco Gianfrotta: «Il procuratore era un personaggio pericoloso per gli interessi criminali». Il magistrato Marcello Maddalena: «Sicuramente mancano dei tasselli. Anche sul piano dei moventi possibili». La figlia Cristina Caccia: «Mi è sembrato strano che fosse solo questione di dare noia a una banda di criminali… Che si potesse decidere di uccidere così un procuratore…».

Chi aveva benedetto quella decisione? Durante i processi sono emersi aspetti inquietanti. «Le bobine che contenevano le registrazioni del pentito Miano furono alterate e manipolate», spiega il procuratore Laudi. L’avvocato Badellino: «Si è detto che fossero soppressioni volontarie, per questo la Cassazione dichiarò inutilizzabili le conversazioni». Ma la Procura di Torino aveva fatto copia dei nastri originali. Riuscì a salvare l’attendibilità delle dichiarazioni del pentito. Rimasero molti dubbi. Alcuni conducono proprio a Palazzo di Giustizia. Ai legami fra clan malavitosi e certa magistratura. Rapporti che passavano per il bar «Monique», gestito dal pregiudicato Gianfranco Gonella, proprio di fronte alla vecchia Procura.

Nella sentenza si legge: «Le disposte intercettazioni avevano consentito di accertare l’esistenza di rapporti di familiarità ed amicizia fra il Gonella ed il dottor Moschella (Procuratore della Repubblica di Ivrea) e la dottoressa Carpinteri (giudice del Tribunale penale di Torino). Senza contare la perfetta conoscenza che il Moschella aveva delle attività del Gonella… Gonella aveva riposto particolare attenzione nel rendere favori e servigi, era persino riuscito ad imporre deferenza ai suoi amici magistrati… Il solito Gonella si era incessantemente interessato presso il procuratore Moschella delle vicende processuali di Belfiore…». C’è anche questo, nella zona grigia. Si sa che Bruno Caccia è stato ucciso perché il suo impegno disturbava l’attività della ‘ndrangheta a Torino. Mancano i killer della 128, mancano troppi pezzi di verità.

 

 

 

Fonte Giustiziacarita.it

BRUNO CACCIA

26 giugno 1983- 26 giugno 2001

di Marcello Maddalena

E’ con grande commozione che prendo la parola, in questo Palazzo di giustizia che porta il Suo nome, per commemorare Bruno Caccia nel 18° anniversario della sua tragica fine. Il dedicare questo Palazzo di giustizia a Bruno Caccia non rende soltanto giusto e doveroso omaggio alla Sua memoria, ma riveste un profondo significato per tutti coloro che sono chiamati ad operare nel mondo delle istituzioni e, in particolare, della giustizia. Perché Bruno Caccia è stato e continua ad essere un simbolo. E come tale  vive  e continuerà a vivere in questo Palazzo, nella mente e nell’animo di tutti coloro che hanno la giustizia nel cuore.

Perché Bruno Caccia è stato, fino in fondo, uomo dello Stato, uomo delle istituzioni, uomo di giustizia. Mi perdoneranno i familiari e i colleghi di un tempo se, in questa occasione, tralascerò gli accenni all’ “uomo privato”, al marito, al padre, al collega, al compagno delle ore libere: tutti aspetti che meriterebbero un’altra  commemorazione. Ma oggi è dell’“uomo pubblico” Caccia che si deve parlare. Perché è a Lui, magistrato e uomo delle istituzioni, che questo Palazzo è dedicato; e perché è stato il suo modo di essere magistrato e uomo delle istituzioni che hanno reso la sua figura un simbolo di come deve essere un uomo di giustizia. Che non vuol dire essere “freddi”, “disumani” e “ottusi” così come “fredde” “disumane” e “ottuse” vengono spesso rappresentate  le istituzioni (anche perché talora sono così). Ma che significa essere sì ricchi di intelligenza, di calore e di comprensione umani ma nel rispetto del proprio ruolo e nell’osservanza dei propri doveri. E di calore, di intelligenza  e di rispetto umani era permeato il famoso senso dello Stato di Bruno Caccia che traeva origine in lui da un sentimento e da una convinzione più profondi: che la vita degli esseri umani è, per sua essenza, vita sociale; che l’uomo vive e convive con altri uomini; che solo la convivenza pacifica è convivenza civile; e che solo nella civile e pacifica convivenza possono trovar sviluppo altri valori quali libertà, solidarietà, eguaglianza, fratellanza, giustizia. E però la pacifica convivenza necessita di regole; di regole che debbono essere osservate. E come funzione del diritto (e quindi compito del legislatore) è quello di stabilire le regole della pacifica convivenza, così compito del magistrato è di farle osservare. E  ogni cedimento, ogni debolezza, ogni (falso) pietismo implicano la rottura del patto sociale, delle regole di pacifica convivenza; ed aprono la strada alla sopraffazione. Del più forte sul più debole, del criminale sulla vittima. E quindi il “rigore”, il  famoso rigore, la famosa severità, la talora asserita “durezza” di Bruno Caccia, nel pretendere l’applicazione delle regole, altro non era se non il semplice ed umile richiamo, nei limiti delle funzioni che nell’arco del tempo la società gli ha affidato, al rispetto delle regole che consentono la pacifica convivenza dei cittadini e impediscono o almeno cercano di impedire la sopraffazione del più forte sul più debole e cercano di riparare ai torti subiti dalle vittime.

Uomo non di potere,  a cui  – per indole personale –  sarebbe stato refrattario, non se ne sottrasse quando gli toccò di esercitarlo, anche per la affettuosa insistenza di chi  giustamente vedeva in Lui l’uomo giusto per la guida della Procura della Repubblica di Torino. E il potere lo esercitò con naturalezza, con  semplicità e con  la serenità e  tranquillità di coscienza di chi non lo considera né un riconoscimento né un traguardo personale ma una responsabilità in funzione di un servizio; e che per questo ritiene che il non esercitarlo o l’esercitarlo timidamente rappresenti non un segno di “democrazia” ma di debolezza e cedimento morale ed ideale. E il potere (potere-dovere) lo esercitò con assoluta imparzialità, nei confronti dei ricchi e dei potenti e dei meno ricchi e dei meno potenti; non per capriccio, arbitrio od affermazione di propri personali convincimenti o teorie, ma per doverosa riaffermazione e testimonianza che la legge è “eguale per tutti” e da tutti va rispettata.

Così come va rispettata la verità. La verità dei fatti. Senza acrimonia, senza astio, con il distacco che si conviene ad un magistrato. Ma va rispettata. E riaffermata. In questo spirito, ai tempi in cui le Brigate rosse venivano fatte passare per “nere” ed alcuni magistrati che troppo indagavano sul traliccio di Segrate venivano invitati a fare “autocritica” da altri colleghi,  così serenamente scriveva Bruno Caccia nella requisitoria al termine della istruzione formale contro il nucleo storico delle Brigate rosse: “Dell’esistenza di tale associazione (che taluni, non si sa se in buona fede, si sono ostinati a chiamare “fantomatiche” o “sedicenti”) parlano di per sé i fatti….come sempre la storia si ripete, ma mai in modo identico, le ideologie e le prassi si mescolano e si confondono; onde non può destare meraviglia che molte azioni delle Br abbiano un contenuto prettamente squadristico del più classico stampo  del fascismo dei primi anni, mentre l’estrazione degli associati è tutta di estrema sinistra e le loro pubblicazioni hanno tutte una ispirazione nettamente marxista o, come essi la qualificano, comunista”. Oggi affermazioni del genere paiono del tutto scontate e persino banali; a quell’epoca  per dirle e soprattutto per scriverle ci voleva del coraggio. Ed i testimoni del tempo lo sanno.

Analogamente, pochi mesi dopo il suo insediamento quale Procuratore della repubblica di Torino, avviò – dopo anni di silenzio e con equilibrio e prudenza – dapprima delle indagini e poi un procedimento per reprimere i fatti di reato, le violenze ed i pestaggi, che puntualmente si verificavano in occasione di ogni sciopero, per impedire, in omaggio a tale diritto di alcuni,  il diritto di lavoro. Fu, nel settore, il primo segno di presenza dello Stato dopo anni di non indolore assenza.  Ma segno che, unitamente a pochi altri, bastò a rincuorare qualcuno; e far sì che quarantamila ritrovassero, di lì a qualche mese,  il coraggio di manifestare le proprie idee. Marciando. Sia pure  in silenzio. Ma fu l’inizio di una svolta. Di una svolta di legalità.

Poco più di tre anni restò Bruno Caccia alla guida della Procura della Repubblica. Mani assassine ne stroncarono la vita il 26 giugno 1983 perché  – si legge nella sentenza di condanna di uno degli imputati – “era uno di quei magistrati che non veniva a patti con la criminalità…era accanito contro la delinquenza organizzata…”. In questo breve arco di tempo, vi furono i processi contro il terrorismo, contro i sequestratori di persona a scopo di estorsione, contro i clan dei catanesi e di “Cosa nostra”, contro i responsabili dello scandalo delle scarcerazioni facili per motivi di salute o dello scandalo dei petroli e vi fu, infine, l’avvio del famoso “processo Zampini”, primizia dei processi  di Tangentopoli di dieci anni dopo.

Uomo dello Stato aveva dello Stato e delle istituzioni una concezione ad un tempo sacrale e personale.

Concezione sacrale perché tutto quello che atteneva al buon funzionamento, alla efficienza, alla buona amministrazione, al rispetto della “cosa pubblica” era per lui sacro.  Sacro al punto che, quando l’A.N.M. proclamò uno sciopero dei magistrati, per motivi sacrosanti e da lui pienamente condivisi, non esitò tuttavia a dare le dimissioni dalla associazione. Perché per lui non era concepibile che un potere dello Stato, una funzione pubblica potessero scioperare. Nello stesso spirito, ad un dirigente di un importante ufficio di polizia giudiziaria che si era lamentato perché quell’ufficio non era stato coinvolto in un certo atto istruttorio (disotterramento del cadavere di un sequestrato),  così rispondeva, al termine di una lunga lettera: “per finire e per rendere in tutto chiaro il mio pensiero, non intendo affatto escludere che singoli funzionari di polizia giudiziaria, ed in particolare i capi di importanti uffici di polizia giudiziaria, possano esprimermi direttamente lagnanze concernenti la conduzione delle indagini di polizia giudiziaria o perfino istruttorie; ma ad  una condizione: che le osservazioni siano dirette ad un migliore impiego delle forze disponibili e a un più approfondito accertamento dei fatti. Ritengo invece inaccettabili lagnanze che attengano a questioni di prestigio personale o di corpo; giacchè questo ufficio, nelle sue determinazioni e nelle sue scelte, si muove esclusivamente nell’interesse superiore del miglior possibile esito dell’attività inquirente”.

Concezione  personale perché era convinto che lo Stato siamo noi, ciascuno di noi, individualmente preso, individualmente considerato. Con la conseguenza che prima di ergersi a censore delle manchevolezze e delle colpe altrui e farsi rivendicatore di diritti e di pretese, ciascuno dovrebbe farsi l’esame di coscienza, riflettere su se stesso e domandarsi se ha fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per far andar meglio le cose e, se uomo pubblico, dalla sua opera lo Stato ha tratto guadagno o nocumento in termini di credibilità e affidabilità. Senso dello Stato, quindi; che è però anche senso della responsabilità individuale. Per sé, prima di tutto; ma anche per gli altri, convinto come era che, dietro lo scudo protettivo della “responsabilità collettiva o sociale”, si nascondano il disimpegno, l’ignavia, la pavidità. Non per nulla per lui non esistevano suggestioni di folle in tumulto, comode arrendevolezze, mode imperanti, precetti o slogans o pretese di intellighenzie culturali, sociali, economiche. Non per nulla, quando un sostituto ritornava da una impegnativa udienza o da una stressante requisitoria, non gli chiedeva se avesse ricevuto congratulazioni o complimenti, ma gli domandava semplicemente: “Ti sei piaciuto?”, convinto come era che il miglior giudice di noi siamo noi stessi, ad onta di ogni lusinga, di ogni adulazione, di ogni piaggeria, verso cui dimostrava sempre una sana e robusta diffidenza.

Schietto e sincero fino ai limiti della convenienza, non praticava “corridoi” e non aveva né avversari né scopi né pensieri occulti: quel che pensava e aveva da dire lo diceva apertamente, senza arroganza e senza iattanza, ma senza infingimenti, chiaramente e fino in fondo. Con i colleghi, con gli avvocati, con il personale, con i cittadini. Non ha avuto bisogno di lasciare diari. Non ha lasciato dietro di sé né veleni né rancori.

Ha lasciato solo a coloro che gli sono succeduti, gli succedono e gli succederanno il peso e la responsabilità della sua eredità: che fa tremare le vene e i polsi.

Unitamente all’avv. Fulvio Croce (altro martire della giustizia per le istituzioni e la riaffermazione del  principio di legalità che doverosamente onoriamo in questo Palazzo nell’aula a lui dedicata) e alla collega Gabriella Lo Moro (anche lei creatura dolcissima, che ricordiamo come grande e indimenticabile collega, commovente vittima del senso del dovere e dello spirito di servizio  fino al limite estremo delle capacità e delle sofferenze umane, cui abbiamo altrettanto doverosamente intitolato la biblioteca del nuovo Palazzo), Lo invocheremo, Li invocheremo perché, con il loro  ricordo e il loro esempio, ci illuminino  e continuino ad illuminarci.

LA STORIA SIAMO NOI: IL CASO BRUNO CACCIA

Bruno Caccia, il Procuratore della Repubblica di Torino impegnato ad indagare sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nel capoluogo piemontese, viene ucciso il 26 giugno 1983 da sicari della ‘ndrangheta. Ricordiamo un magistrato integerrimo, un uomo con la giustizia nel cuore.

 

 

 

Fonte:  lucarinaldi.blogspot.com
Articolo del 13 Giugno 2011
Quel giorno in cui Torino conobbe la ‘ndrangheta (ma non se ne accorse)

Vi fu un giorno in cui Torino conobbe la ‘ndrangheta. Ma non se ne accorse. E ancora oggi tanti torinesi probabilmente ignorano quel giorno di 28 anni fa, quando il procuratore della Repubblica di Torino, Bruno Caccia, cadde proprio per mano della ‘ndrangheta.

Era il 26 giugno del 1983, verso le 23.30, quando Caccia porta a spasso il proprio cane, una volta tanto senza scorta. Era domenica e il procuratore aveva deciso di lasciare a riposo i suoi angeli custodi. Durante la passeggiata Bruno Caccia viene affiancato da una macchina con a bordo due uomini che, senza scendere dall’auto, esplodono in tutto diciassette colpi verso il procuratore che schianta sul marciapiede morto. A Torino un morto di ‘ndrangheta, ma nessuno, o pochissimi se ne accorgono.

Sono gli anni di piombo e le indagini prendono subito la direzione del terrorismo rosso su cui Caccia sta indagando. La pista rossa, viene abbandonata, anche in assenza di una rivendicazione e di riscontri significativi, così come quella sul terrorismo nero, altro versante su cui Caccia stava indagando. Così gli investigatori aprono una terza pista investigativa, quella di mafia.

Da quando il procuratore arriva a Torino inizia a muovere uomini sulle orme della ‘ndrangheta, che con la cosca Belfiore ha iniziato a costruire l’alveare per gettare le basi della colonizzazione di stampo ‘ndranghetistico. Così, anche sulla base della testimonianza del pentito Francesco Miano, gli inquirenti arriveranno all’arresto di Domenico Belfiore, boss della ‘ndrangheta di Gioiosa Ionica. Motivo? “Con Caccia non si poteva trattare”, disse lo stesso Belfiore.

Scrissero i giudici della Corte d’Assise di Milano, dieci anni dopo nella sentenza con cui riconoscono Domenico Belfiore colpevole dell’omicidio di Bruno Caccia: “Egli [Bruno Caccia, nda], potè apparire ai suoi assassini eccessivamente intransigente soltanto a causa della benevola disposizione che il clan dei calabresi riconosceva a torto o a ragione in altri giudici. Perché questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati”. Erano i Belfiore, che al mattino alzavano anche la saracinesca del bar sotto il tribunale di Torino insieme ai Gonnella, soci di Cosa Nostra.

Oggi a poco meno di due settimane dal ventottesimo anniversario dell’omicidio di Bruno Caccia, Torino torna a guardare in faccia la ‘ndrangheta. Avere sepolto nella memoria il ricordo di Bruno Caccia e di quel 26 giugno 1983 è stato, per Torino un errore imperdonabile. Forse oggi, sotto la Mole, le nove ‘locali’ di ‘ndrangheta scovate dagli investigatori, avrebbero meno potenza di fuoco o meno contatto diretto con quella politica che traffica in voti e appalti. O forse, non sarebbe una sorpresa per tanti torinesi e tanti piemontesi, scoprirsi abitanti di una regione malata di ‘ndrangheta, che già vide sciogliersi il comune di Bardonecchia proprio per infiltrazioni mafiose. Ma qui siamo già al presente, eppure la memoria è già svanita, in fondo parliamo di 16 anni fa.

Qualcuno, fortunatamente, mantiene vivo il ricordo di Bruno Caccia proprio all’interno di una delle ville sequestrate e poi confiscate ai Belfiore, oggi divenuta ‘Cascina Caccia‘. Il gruppo ‘Abele’ e Libera hanno rilevato l’immobile a San Sebastiano da Po, risistemandolo perché lasciato in condizioni strutturali pessime. Il Piemonte dovrebbe ricordare più spesso Bruno Caccia, e tutto il nord dovrebbe sempre tenere a mente quell’omicidio del lontano 1983.

 

 

 

Articolo del 1 Luglio 2013 da .ildispaccio.it 
Omicidio giudice Caccia: quei misteri calabro-siciliani
di Claudio Cordova

Una calamita per le vicende torbide e i misteri. Il nome del magistrato Olindo Canali, per tanti anni in servizio presso la Procura della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto, appare – in maniera sospetta – in diverse vicende siciliane. La sua figura è strettamente collegata a quella di un altro magistrato, Franco Cassata: i due finiranno al centro di una serie di scandali a Barcellona Pozzo di Gotto e dintorni che riguarderanno, peraltro, l’uccisione del giornalista Beppe Alfano e il suicidio del professore Adolfo Parmaliana. Cassata chiuderà la carriera in magistratura alcuni mesi fa, con una condanna in primo grado per diffamazione nei confronti di Parmaliana, che, da segretario dei Democratici di Sinistra di Terme Vigliatore, denuncerà una serie presunte gravi responsabilità di magistratura e politica nel messinese. Canali è stato di recente assolto dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria (dopo essere stato condannato in primo grado) dal reato di falsa testimonianza aggravato dalle modalità mafiose: secondo l’accusa avrebbe detto il falso nel processo “Mare Nostrum” contro la mafia barcellonese, proprio per favorire i clan del luogo.

Ma in occasione del trentesimo anniversario dell’uccisione del procuratore di Torino, Bruno Caccia, il nome di Canali è ritornato prepotentemente all’attualità.

Caccia verrà assassinato il 26 giugno del 1983 e per il suo omicidio verrà condannato il solo Domenico Belfiore, ritenuto un personaggio di alto livello tra le cosche torinesi. L’indagine, condotta dal pubblico ministero Francesco Di Maggio potrà avvalersi delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Miano, detto Jimmy, che – in uno dei suoi diversi soggiorni in carcere – sarebbe stato convinto dai Servizi Segreti ad acquisire e registrare (con un registratore fornito proprio dagli 007) informazioni sull’omicidio del giudice Caccia. Miano completerà la missione, portando sul tavolo del Sisde una frase auto-accusatoria del boss Belfiore, che lascerà intendere di aver avuto un ruolo nell’omicidio, senza però indicare movente, dinamiche e complici.

Sul delitto del procuratore di Torino – comunque – rimarranno sempre irrisolti alcuni misteri.

In quegli anni, infatti, l’egemonia (ormai acclarata) delle ‘ndrine su larghe fette del territorio settentrionale (prova ne siano le ultime indagini “Infinito”, “Minotauro” e “Maglio”) non si è ancora stabilizzata: in quel periodo le famiglie siciliane sono all’apice della propria forza criminale. Tuttavia, tra le tante ipotesi portate avanti è che il procuratore Caccia stesse lavorando a documenti scottanti sui rapporti tra le ‘ndrine e gli ambienti istituzionali. Nel suo libro “Toghe Rosso Sangue”, che ricostruisce la vita dei giudici assassinati in Italia, il giornalista Paride Leporace definisce così Bruno Caccia: “Un piemontese tutto d’un pezzo che non si piega. Si sta occupando con determinazione di un fenomeno che non ha titoli e attenzioni dai giornali. La ‘ndrangheta. Torino è la città con più calabresi d’Italia. Sono arrivati con i treni del Sole e le valigie di cartone ai tempi del boom economico. La gran parte è costituita da brave persone che hanno contribuito alla crescita economica della capitale dell’industria italiana. Ma da Gioiosa Jonica, Siderno, Gioia Tauro sono arrivate anche famiglie che hanno codici e rituali antichi. Che rimodellano su abitudini metropolitane per conquistare le ricchezze del Nord. Sono tribù spietate. Godono dell’impunità che si conquista con il colore dei soldi. Controllano magistrati e hanno alleati insospettabili con le scarpe lucide […] Il procuratore Caccia è per loro un serio pericolo. Si è messo di traverso a una nuova emergenza, ma l’opinione pubblica nazionale di questo fenomeno non conosce nulla”.

Intuizioni, quelle di Bruno Caccia, che sarebbero state premiate diversi anni dopo.

Proprio questi dubbi, questi sospetti, questi misteri, spingono, da diverso tempo ormai, i figli del procuratore a chiedere verità sull’uccisione del padre, per troppo tempo “bollata” quasi come una vicenda personale con Belfiore. Ma come entra il nome di Olindo Canali nella vicenda? Da tempo è ormai agli atti un’affermazione in cui Canali rivelerà del ritrovamento effettuato all’interno dell’abitazione dell’avvocato mafioso Rosario Pio Cattafi della falsa rivendicazione che le Brigate Rosse faranno dell’omicidio di Bruno Caccia, circa un’ora dopo il fatto di sangue. Un’informazione che Canali avrebbe appreso nei suoi anni da giovane uditore presso la Procura di Milano. Anni in cui imparerà il mestiere dal pubblico ministero Francesco Di Maggio, il magistrato che indagherà sull’omicidio del procuratore di Torino. Un dato non di poco conto che però, secondo quanto risulta, non entrerà mai nelle carte che porteranno all’attuale verità giudiziaria sull’omicidio di Bruno Caccia.

Per motivi diversi, tanto Cattafi, quanto Canali, sono personaggi a dir poco controversi. Il primo, originario proprio di Barcellona Pozzo di Gotto, è un avvocato, ma anche un personaggio chiave della storia criminale siciliana. Pienamente “operativo” fin dagli anni ’70, si lega ben presto a uomini d’onore di Cosa Nostra, ma anche ad ambienti della destra eversiva e della ‘ndrangheta. Diversi collaboratori di giustizia lo indicano come un soggetto dalle mille entrature, sia sotto il profilo economico e finanziario, sia sotto quello investigativo, viste le aderenze nel mondo dei Servizi Segreti. Cattafi sarà anche indagato per il sequestro dell’imprenditore Giuseppe Agrati, poi rilasciato in seguito al pagamento di un riscatto. A indagare sarà ancora una volta il pm Di Maggio che arriverà a chiedere l’archiviazione per l’avvocato barcellonese: un decreto di archiviazione che svelerà una presunta mediazione di Cattafi per la cessione di una partita di cannoni della Oerlikon Suisse all’emirato di Abu Dhabi, ma anche la versione di un sedicente funzionario dei Servizi Segreti che dichiarerà di aver ricevuto una versione da Cattafi sull’omicidio del giudice Caccia, con particolare riferimento all’autore materiale del delitto, mai individuato (Belfiore sarà condannato come mandante). Personaggio dai contatti e dalle amicizie nazionali e internazionali, Cattafi verrà arrestato nel 2012 nell’operazione “Gotha 3” e subito posto al 41bis: secondo gli inquirenti – anche sulla scorta delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia – grazie alle proprie connivenze istituzionali, Cattafi sarebbe diventato un soggetto potentissimo in seno alla mafia siciliana, rappresentando l’anello di congiunzione, la cerniera, tra il mondo criminale e quello economico e istituzionale. In tal senso si inquadra la sua presenza tra gli indagati dell’inchiesta sui “Sistemi Criminali” – condotta alcuni anni fa dal pubblico ministero Roberto Scarpinato sulla strategia della tensione dei primi anni ’90 – ma sfociata in un’archiviazione complessiva per personaggi del calibro del gran maestro della P2, Licio Gelli, il terrorista nero Stefano Delle Chiaie, i boss mafiosi Totò Riina e i fratelli Graviano, ma anche l’avvocato Paolo Romeo, avvocato reggino condannato in via definitiva per mafia nel processo “Olimpia” e considerato un’eminenza grigia delle dinamiche ‘ndranghetiste. Nell’udienza preliminare al cospetto del Gup di Messina, celebrata una dozzina di giorni fa, lo stesso Cattafi chiederà lo spostamento del processo proprio a Reggio Calabria.

Senza successo.

Canali, parimenti, entra in vicende altrettanto oscure. Nell’informativa dei Carabinieri redatta nell’ambito di un’inchiesta siciliana denominata “Tsunami”, vengono sottolineati i rapporti “quantomeno sconvenienti” di diversi personaggi istituzionali, tra cui lo stesso Canali, con Salvatore Rugolo, ritenuto un elemento di spicco della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto. Nell’informativa “Tsunami”, Rugolo viene definito così: “Grazie allo schermo protettivo di cui beneficia per via della sua professione di medico, parrebbe dirigere ponendosi in un ruolo di vera e propria “cerniera” tra gli ambienti criminali e quelli istituzionali”. Personaggio di livello, insomma, anche in virtù delle parentele: è infatti figlio di Francesco Rugolo, assassinato nel 1987 nell’ambito della guerra di mafia barcellonese, ma è soprattutto cognato del boss Giuseppe Gullotti, ritenuto il mandante dell’omicidio del giornalista Beppe Alfano. Quel Giuseppe Gullotti considerato in maniera unanime come un “figlioccio” di Cattafi. Quel Giuseppe Gullotti che farà parte di un circolo, la Corda Fratres (di cui diffiderà Beppe Alfano) fra i cui soci hanno militato insieme Domenico Nania, l’ex sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca (anch’egli barcellonese), lo stesso Rosario Cattafi, ma anche il giudice Franco Cassata, promotore del circolo. Su queste strane amicizie, su questi inquietanti intrecci, indaga, qualche anno fa, un giovane sostituto procuratore, De Feis che, però, ben presto riceve delle pressioni da parte di Franco Cassata, sostituto procuratore generale della Corte di assise e d’appello di Messina, da parte di Rocco Sisci, procuratore capo del tribunale di Barcellona, e dallo stesso Olindo Canali, che nonostante gli elementi compromettenti emersi a suo carico, sarebbe stato informato più volte proprio da Sisci, affinché le indagini venissero bloccate, insabbiate. I Carabinieri che lavoreranno all’inchiesta “Tsunami” parleranno chiaramente dei “tentativi di interferenza sulle indagini” operate da alcuni magistrati: “In particolare, un riferimento è andato al dr. Olindo Canali, anziano ed esperto Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto, ed al dr. Franco Cassata, Procuratore Generale F.F. presso la Procura Generale di Messina” è scritto nell’informativa. Negli scorsi anni verrà anche ascoltato – in qualità di testimone – dal pubblico ministero Antonino Di Matteo, uno dei magistrati che indaga sulla “Trattativa Stato-Mafia”. Nel processo contro il generale dei Carabinieri, Mario Mori, Canali parlerà per diverse ore dell’omicidio di Beppe Alfano e del periodo di latitanza che il celebre boss Nitto Santapaola avrebbe trascorso proprio a Barcellona Pozzo di Gotto, la città di Saro Cattafi. Nel medesimo processo, peraltro, sarà ascoltato anche lo stesso Cattafi, che tirerà in ballo i magistrati Di Maggio e Canali, con riferimento alla “Trattativa”, uno dei più grandi misteri d’Italia.

Ma i nomi di Cattafi, Di Maggio e Canali ritornano anche in un altro caso oscuro della storia d’Italia: l’omicidio del giudice Caccia, ancora discusso a trent’anni di distanza.

 

 

 

Foto da: dailystorm.it

Foto e Articolo del 1 Luglio 2013 da dailystorm.it
Bruno Caccia, trent’anni dalla morte. Quando il nord dimentica i suoi eroi
di Andrea Contratto

Il 26 giugno del 1983 erano circa le 23 quando una Fiat 128 su cui viaggiavano almeno due uomini apre il fuoco contro un passante che stava portando a spasso il suo cane. Così fu ucciso dall’ndrangheta il primo e unico magistrato al nord: Bruno Caccia. La verità processuale ha portato alla condanna di Domenico Belfiore all’ergastolo, ma per i 30 anni della sua morte una nuova pista si fa largo e potrebbe far riaprire le indagini.

L’ANNIVERSARIO – Sono passati 30 anni da quella sera in via Sommacampagna quando Bruno Caccia fu ucciso mentre portava a spasso il suo cane. A ritrovarlo, la figlia, scesa in strada per vedere cosa fossero quei colpi di pistola. Così morì il primo magistrato ucciso al Nord dall’Ndrangheta, in una calda serata estiva. Quest’anno per il suo trentesimo anniversario sono state molteplici le iniziative nel capoluogo piemontese tra cui la presentazione di un documentario sulla vicenda, “Bruno Caccia, una storia ancora da scrivere”,  prodotto da Libera e ACMOS, il libro “Il giudice dimenticato”, la commemorazione in Sala Rossa e infine un evento nel Tribunale a lui dedicato con Saviano e il Procura Gian Carlo Caselli. Saviano durante il suo intervento ha sottolineato l’importanza di essere a Torino in questa data perchè si ricordi la figura di un magistrato definito incorruttibile puntando il dito contro le autorità nazionali, completamente latitanti da tutte le manifestazioni.

LA VERITA’ PROCESSUALE – Il percorso del processo dell’omicidio Caccia è stato fin da subito occultato da una nebbia di depistaggi. Pochi minuti dopo l’omicidio giunge la prima rivendicazione da parte delle Brigate Rosse. Nelle telefonate a varie testate nazionali si parli di vendetta contro il “servo dello stato”. La lotta alle Brigate Rosse è stato uno dei capisaldi del lavoro del Procuratore a Torino e per questo fu subito diramato l’ordine di perquisire tutte le celle del carcere dove risiedevano alcuni brigatisti per trovare conferme ai sospetti. I giorni successivi sono giorni di fuoco: i brigatisti prima trincerati in un assordante silenzio iniziano a dichiarare che non è stata la mano brigatista ma di altri.

Le indagini si spostano su delinquenza comune e sulla pista delle organizzazioni criminali. Solo dopo un anno, nel 1984, alcuni Catanesi inizieranno a collaborare e fare il nome del boss Belfiore. In particolare sono le parole di Roberto Miano, affiliato al clan dei Catanesi, a fine 1984 parla di un contatto tra lui e Belfiore, che all’epoca era il capo del clan dei Calabresi in Piemonte. Il boss lo aveva contatto per fargli recuperare un fucile di precisione proprio per l’omicidio del giudice.

TRA TANGENTI E PENTITI – Proprio il caso Caccia unì le due compagini e una terza, molto meno conosciuta. Infatti il contabile dei calabresi era un certo Franco Gonnella, conosciuto negli ambienti per essere amico di alcuni magistrati. Il Belfiore in un colloquio con Miano, capo del clan dei catanesi pentito e diventato collaboratore, assicurò che una volta ucciso il procuratore, sarebbe stato sostituito da un magistrato più malleabile. Il clan dei Calabresi, di cui Belfiore era a capo, puntava alla liberazione di alcuni suoi membri ma con Caccia a capo della procura non sarebbe stato possibile avere alcuna riuscita.

Il procuratore infatti viene sempre descritto come una persona riservata e integerrima che in particolare non frequentava il bar del palazzo di giustizia, descritto da molti come il luogo in cui si incontravo diversi volti della medesima medaglia. Il punto di svolta lo troviamo proprio in queste vicende perchè secondo le fonti il caso potrebbe essere riaperto proprio seguendo il filone di indagini che porta non solo alla galassia ‘ndranghetista ma anche verso quella dei colletti bianchi. Caccia era supervisore di un processo decisamente imporante per l’epoca come lo scandalo dei petroli, che tra gli altri coinvolgeva due generali della Finanza e diversi membri di quella che poi passerà alla storia come la P2. Intrecci che non fanno altro che complicare il quadro dell’omicidio del giudice “impassibile” e che si spera abbiano nuovi risvolti anche alla luce di queste nuove scoperte. “Bruno Caccia è stato ucciso per il futuro” queste le parole enigmatiche dell’ex procuratore di Aosta Mauro Vaudano, che di Caccia fu collega, lasciano un ampio spazio a considerazioni. Parlare di Bruno Caccia non è semplice memoria. E’ futuro, e tante righe dovranno essere ancora scritte.

 

 

 

Articolo da  La Repubblica del 25 Giugno 2013
Un nuova ipotesi: i killer forse arrivati da Milano

E se i killer di Bruno Caccia fossero arrivati da Milano? E se Francesco “Ciccio” Miano, allora uno dei capi della mafia catanese a Torino, avesse volutamente circoscritto le sue “indagini” in carcere, sostenute dal Sisde che gli aveva fornito microfoni e coperture, lasciando fuori alcuni tra i responsabili? E se sullo sfondo ci fossero i boss di maggior rilievo della storia criminale italiana di quegli anni, come Angelo Epaminonda e Nitto Santapaola? E se infine la gara d’ appalto, in corso proprio nel periodo dell’ omicidio del procuratore capo di Torino, per aggiudicarsi il Casinò di San Remo fosse all’ origine di tutto? Sono soltanto alcune delle domande che un intraprendente avvocato siciliano, Fabio Repici, siè posto mentre si trovava a rappresentare i familiari di un’ altra vittima di mafia, il giornalista Beppe Alfano. «Tra le testimonianze raccolte dai magistrati di Milano che indagarono sull’ omicidio Caccia ce n’ è una che fa nome e cognome di un possibile killer, che in quel momento era a piede libero – dice Repici – Ebbene, questa testimonianza non è mai stata approfondita». Ma Repici, che pure negli anni scorsi è stato protagonista di appelli e di polemiche intorno a processi importanti, come quello sull’ attentato a Borsellino, denunciandone i tentativi di insabbiamento, oggi non cerca la polemica. «La verità che cerchiamo, e le ulteriori indagini che intendiamo chiedere, non sono alternative a quello che sappiamo già. E’ possibile che Domenico Belfiore (il giovane boss che aveva trent’ anni all’ epoca della morte di Caccia e che fu condannato all’ ergastolo come mandante, ndr) sia colpevole e che altri nomi possano emergere». Sottotraccia, l’ ipotesi di un intreccio trai servizi segreti e la criminalità organizzata, gli indizi del quale sarebbero stati trovati anche nelle pieghe del processo palermitano sull’ accordo Stato-mafia.
(v.sch.)

 

 

Articolo del 2 lug 2015 da stampalibera.it
BRUNO CACCIA, “rete criminale dei casinò dietro l’omicidio del procuratore”. La verità ufficiale delle sentenze messa in discussione dalla controinchiesta condotta dall’avvocato FABIO REPICI. Secondo il quale non fu solo il boss Belfiore a entrare in scena, ma un gruppo interessato alla gestione delle case da gioco, composto da Santapaola, Epaminonda, SARO CATTAFI e Miano

di Elena Ciccarello – ilfattoquotidiano.it

“È tempo di riaprire il processo per fare definitivamente chiarezza su una delle pagine più buie della storia torinese e nazionale”. Con le parole pronunciate da Fosca Nomis, giovane e tenace presidentessa della commissione antimafia torinese, oggi per la prima volta il capoluogo piemontese spazza via la storia ufficiale dell’assassinio di Bruno Caccia, procuratore capo di Torino ucciso il 26 giugno del 1983. L’unico magistrato ammazzato dalla ‘ndrangheta nel nord Italia stando alla versione ufficiale scritta nelle sentenze. Ma secondo la nuova denuncia presentata pochi giorni fa alla Procura di Milano dal legale della famiglia Fabio Repici, che ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare, Caccia è stato invece vittima di un’unica e più ampia “rete criminale che aveva pressoché fagocitato la gestione dei Casinò del nord Italia e della Costa Azzurra, sotto il controllo di esponenti delle mafie catanesi, palermitane, calabresi, corse e marsigliesi”. Una rete che ha goduto di inspiegabili “trattamenti di favore” da parte di alcuni esponenti delle istituzioni nel corso delle indagini.

Nella nuova denuncia che chiede la riapertura del caso, presentata il 17 giugno e indirizzata al pm di Milano Marcello Tatangelo, l’avvocato Repici elenca una serie di elementi che rafforzano l’ipotesi investigativa già contenuta nei due esposti precedenti, chiedendo alla magistratura milanese di sentire nuovi testimoni sul delitto. A partire da quel Domenico Belfiore, unico condannato come mandante dell’uccisione, boss della ‘ndrangheta scarcerato da pochi giorni a causa di gravissimi problemi di salute, che sulla morte del procuratore si è sempre dichiarato innocente.

L’attenzione del legale, che ha lavorato alle indagini difensive insieme al magistrato in pensione Mario Vaudano, già giudice istruttore a Torino sotto la guida di Caccia, è puntata su alcune anomalie contenute nelle indagini che negli anni Novanta hanno condotto alla versione ufficiale sulla morte del capo della procura torinese e che erano condotte dall’allora campione dell’antimafia, pm Francesco Di Maggio (il cui nome ritorna nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia). “La principale (quasi esclusiva) fonte di prova sulla quale venne fondata l’intera impalcatura accusatoria, cioè il collaboratore di giustizia Francesco Miano, era stato un prodotto di attività del Sisde” scrive Repici. “Nella storia dei processi alla criminalità organizzata Miano è probabilmente l’unico pentito che risulta ufficialmente essere reclutato dal Sisde”.

La sua collaborazione, nel 1984, scrive la parola fine sulla pista investigativa che fino a quel momento conduceva al Casinò di Saint Vincent e che la procura di Bruno Caccia aveva individuato come una delle basi per il riciclaggio dei proventi dei sequestri di persona. Per questo la denuncia invita l’autorità giudiziaria ad ascoltare anche alcuni magistrati che “possano riferire sulle anomalie che hanno accompagnato l’azione giudiziaria a Milano negli anni Ottanta nei confronti di Cattafi”. Il riferimento è a Rosario Pio Cattafi, boss siciliano indicato dai pentiti come trait d’union tra cosa nostra e servizi segreti e che il documento indica come ulteriore ipotetico mandante del delitto.

Altre anomalie, secondo la denuncia, riguardano “esplicite ingerenze” del pm Di Maggio “nei confronti di altri magistrati” titolari di altri processi per sequestri di persona. Interventi “inspiegabili e tutti all’apparenza coerentemente tesi a tenere nascosti elementi indiziari a carico di Cattafi”. Come quello operato da Di Maggio sulle intercettazioni eseguite a carico del boss Cattafi nell’ambito del processo per il sequestro Agrati e sottratte in maniera anomala dal procedimento.

Nuovi elementi all’indagine giungono anche da Carlo Calvi che nel corso degli accertamenti sulla morte del padre Roberto, avrebbe raccolto prove documentali “circa il controllo esercitato dalla loggia P2 sul casinò Ruhl, diretto, in quel quadro, da Jean Dominique Fratoni” e sulla frequentazione di quel casinò da parte di “personaggi calabresi coinvolti nel sequestro Mazzotti”. Dati non secondari, non solo perché Dominique Fratoni è stato indicato dai pentiti (ma mai condannato per questo) come boss della mafia Corsa, ma anche perché lo stesso Cattafi risulta tra i frequentatori del casinò e con lui, tra i calabresi coinvolti nel sequestro di Cristina Mazzotti, il pluriomicida Demetrio Latella, quel “Luciano” Latella che la denuncia indica come uno degli ipotetici esecutori materiali dell’omicidio Caccia.

“Si sono rinvenute tracce documentali di canali di finanziamento dal banchiere Roberto Calvi, dietro l’interessamento di Licio Gelli e Umberto Ortolani, a esponenti impegnati nella gestione del Casinò Ruhl di Nizza che sono risultati legati anche ai personaggi interessati alla gestione del Casinò di Saint Vincent e alla rete criminale operante intorno a quella struttura” si legge nel documento. Una rete che coinvolgeva i mafiosi “Benedetto Santapaola, Luigi Miano, Rosario Pio Cattafi e Angelo Epaminonda” e di cui sarebbero provati i rapporti con Domenico Belfiore.

“Sappiamo che Latella continuava a delinquere in carcere, accrescendo il suo ruolo criminale, grazie ai rapporti con l’amministrazione penitenziaria” ha detto in commissione antimafia a Torino Repici, “vogliamo capire se c’è un qualche nesso tra la sua mancata iscrizione nel registro degli indagati nel procedimento Caccia, nonostante i diversi indizi a suo carico, e il trattamento di favore di cui ha goduto successivamente”. Latella, nonostante il suo passato giudiziario, dal 2007 è in libertà. Di nuovo nomi che scompaiono dal fascicolo Caccia. E, di nuovo, che godono di benefici in cerca di spiegazione.

Il cerchio si chiude con il tentato omicidio del Pretore di Aosta Giovanni Selis, anch’egli nei primi anni Ottanta impegnato in indagini sul Casinò e oggetto di un attentato dinamitardo da cui rimase miracolosamente illeso il 13 dicembre 1982. Solo sei mesi prima dell’uccisione di Bruno Caccia e con esplosivo di origine francese. Selis stesso, sentito dai magistrati di Milano, aveva indicato nelle sue indagini sul casinò uno dei possibili moventi dell’attentato a suo carico e di un possibile “collegamento fra le mie indagini e quelle del collega Maddalena (della procura di Torino, ndr.), aventi ad oggetto riciclaggio di denaro proveniente dai sequestri di persona”.

L’origine dell’attentato non venne mai scoperta, né il pretore Selis venne mai sentito nell’inchiesta sull’omicidio Caccia, “fino a che ciò divenne impossibile, nella primavera del 1987, per il suo tragico suicidio”. La sua testimonianza resta confinata alla parole del Pretore ai giornali. Pochi mesi dopo l’assassinio del Procuratore di Torino dichiarò che “Caccia era un caro amico” e di essere “rammaricato” per come l’attentato di cui era stato oggetto “fosse stato minimizzato”. Selis disse al cronista che “non si era riflettuto sui fatti”. Il punto è che per la famiglia di Caccia, per il suo legale e adesso anche per la città di Torino, si è continuato a non farlo fino ad oggi, per più di 30 lunghi anni.

 

 

 

 

Articolo del 25 Agosto 2015 tratto da Il Fatto Quotidiano
Fonte: antimafiaduemila.com
Mafia, casinò e spioni Perché è morto Caccia
di Davide Milosa

La storia riparte trentadue anni dopo. E cambia radicalmente. Sul tavolo un caso di cronaca clamoroso: la morte del procuratore capo di Torino, Bruno Caccia, ucciso con 17 colpi di pistola la sera del 26 giugno 1983. Chi paga? Nel 1993 viene condannato all’ergastolo il calabrese Domenico Belfiore. Lui, secondo i giudici, il mandante di un’esecuzione ordinata per tutelare gli affari della ‘ndrangheta all’ombra della Mole. Ignoti i killer. Questa, ad oggi, la versione ufficiale che si basa sulle dichiarazioni del collaboratore Francesco Miano legato ai servizi segreti. La storia, però, ora rischia di essere ribaltata dalla nuova inchiesta dell’antimafia di Milano. L’inedito copione cancella l’ombra delle ‘ndrine e punta sugli interessi di Cosa Nostra per i casinò del nord Italia e i rapporti con i servizi segreti.
Attualmente nel fascicolo milanese compaiono due indagati. Si tratta del calabrese Demetrio Latella, detto Luciano, già legato alla banda di Angelo Epaminonda. Secondo la ricostruzione della famiglia Caccia avrebbe partecipato all’omicidio del magistrato. Il secondo nome, invece, è quello di Rosario Pio Cattafi, personaggio equivoco, condannato in primo grado per mafia, testimone nel processo sulla trattativa Stato-mafia e fin dagli anni Ottanta ritenuto molto vicino al boss catanese Nitto Santapaola. Stando alle carte dell’inchiesta Cattafi, originario di Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina, risulta vicino agli ambienti che avrebbero ideato l’omicidio. La nuova indagine è nata dopo che Fabio Repici, legale della famiglia Caccia, ha depositato in procura tre esposti che ruotano attorno a un’unica ipotesi: il magistrato fu ucciso perché stava indagando sugli affari di Cosa Nostra nei casinò. Ipotesi su cui pesa l’attentato dinamitardo all’ex pretore di Aosta Giovanni Selis il quale indagava sul casinò di Saint Vincent. La bomba esplose il 13 dicembre 1982 pochi mesi prima della morte di Caccia. Gli attentatori non furono mai individuati. Alla base di questa nuova versione del caso Caccia c’è un’intercettazione del 2009. Il magistrato Olindo Canali, parlando con un giornalista, ricorda quando in casa di Cattafi fu sequestrato un finto volantino delle Br che rivendicava l’omicidio.

All’epoca, Canali era uditore del pm Francesco Di Maggio titolare del fascicolo su Caccia. Di quel volantino non si ha traccia. Tra gli atti depositati da Repici, c’è, però, la prova della perquisizione. E del resto nel fascicolo sull’omicidio il nome di Cattafi compare diverse volte, spesso associato a uomini legati ai servizisegreti.Traquestil’imprenditore milanese Giancarlo Mariani, al quale “tale colonnello Bertella” chiede di trovare informazioni sull’esecuzione. Mariani così si rivolge allo stesso Cattafi. Il 10 settembre 1984 Mariani mette a verbale: “Fui io a chiedere a Cattafi se ne sapesse qualcosa. Ciò avvenne mentre stavo redigendo il rapporto da consegnare al colonnello Bertella. Senza alcuna esitazione il Cattafi mi riferì le notizie da me trascritte nel rapporto”. Il documento di cui parla Mariani è agli atti del fascicolo sull’omicidio. Spiega Mariani: “Al punto 19 del rapporto più volte richiamato indico il giudice Caccia come architetto Caccia Dominioni”. Ecco allora il testo preciso: “L’architetto Caccia Dominioni è stato fatto fuori non dai calabresi (…) ma da un gruppo capeggiato da Epaminonda (catanese). Sempre come sfondo vi è la questione (…) inerente Saint Vincent, Sanremo, Campione (…) era convinto che tutti i soldi sporchi arrivassero lì”. Sul killer soprannominato Luciano sempre Cattafi riferisce a Mariani di potergli fare avere una sua foto pubblicata sul Corriere della Sera. Secondo la procura e la ricostruzione dell’avvocato Repici si tratta di Demetrio Latella, calabrese, coinvolto e mai condannato per il sequestro di Cristina Mazzotti, rapita nel 1975 e fatta morire di stenti.
La nuova ricostruzione, inoltre, rischia di far riaprire un altro omicidio irrisolto e collegato a Cattafi. Si tratta della morte del broker milanese Giancarlo Ginocchi ucciso il 14 dicembre 1974 nella sua casa milanese. Casa, mette a verbale Mariani, “dove ho conosciuto Saro Cattafi”. E ancora: “Mi è nota la circostanza che ogni qual volta Cattafi raggiungeva Milano dalla Sicilia trovava alloggio nell’appartamento di Ginocchi”, il quale fu coinvolto nel sequestro dell’imprenditore Giuseppe Agrati del 1975. Per il collaboratore di giustizia Federico Corniglia “Ginocchi era un riciclatore di Stefano Bontate”.

 

 

 

Articolo del 3 Novembre 2016 da  antimafiaduemila.com
Processo Caccia, ispettore: ”Ecco come è stato incastrato il killer”
di Francesca Mondin
Respinti i teste chiesti dalla famiglia Caccia, tra questi agenti segreti e magistrati

Virus informatico per ascoltare le conversazioni del boss e lettere anonime false usate come esche, così gli inquirenti incastrarono Rocco Schirripa, unico imputato al nuovo processo per l’omicidio del procuratore capo di Torino Bruno Caccia, ucciso ben 33 anni fa da killer legati alla ’ndrangheta.
A raccontarlo è stato l’ispettore Massimo Cristiano, tra i primi teste dell’accusa che ieri a processo ha ricostruito la parte “tecnica” delle indagini.

Schirripa, arrestato lo scorso 22 dicembre nella sua abitazione nel quartiere Parella dove faceva il panettiere, è accusato di essere l’esecutore materiale dell’omicidio avvenuto la sera del 26 giugno del 1983. Per ben 32 anni l’uomo ha potuto girare liberamente indisturbato senza che il suo nome finisse tra i possibili esecutori dell’omicidio. Finché, dopo la richiesta di apertura delle indagini da parte della famiglia Caccia, grazie ad alcuni escamotage investigativi gli uomini della squadra mobile torinese hanno raccolto alcune prove contro di lui.
Per sollecitare gli affiliati alla cosca Belfiore a parlare dell’omicidio di 33 anni fa gli inquirenti inviarono alcune lettere anonime con all’interno alcuni ritagli di quotidiani dell’epoca con dietro scritto: “Omicidio Caccia: se parlo andate tutti alle Vallette. Esecutori: Domenico Belfiore – Rocco Barca Schirripa. Mandanti: Placido Barresi, Giuseppe Belfiore, Sasà Belfiore”. Un trucco che fece uscire il nome Schirripa dal silenzio. Nei dialoghi con Placido Barresi, il boss Domenico Belfiore, condannato all’ergastolo come mandante e scarcerato nel giugno 2015 per motivi di salute, appariva preoccupato per la presenza del nome del panettiere tanto che si attivò per capire chi poteva averne parlato. L’ispettore Massimo Cristiano ieri ha raccontato come il virus informatico inoculato nel tablet di Belfiore “È stato l’unico modo utile per ottenere risultati. Con i sistemi tradizionali di indagine, non saremmo mai arrivati ad alcun risultato, visto lo spessore dei personaggi”.
Il fratello di Domenico, Giuseppe Belfiore, ha invece ricordato il periodo in cui arrivò la lettera anonima utilizzata come “trappola” dagli investigatori. Lettera che invece l’ex narcos Rocco Piscioneri, gravemente malato, ha affermato di non aver mai visto, diversamente da quanto sembrano dire le intercettazioni.
Nella prossima udienza, fissata per il 9 novembre, sarà ascoltato il boss Domenico Belfiore che per gravi motivi di salute sta scontando ai domiciliari la condanna in via definitiva come mandante.

Respinti i testimoni della difesa della famiglia Caccia
Come spesso accade negli omicidi eccellenti non fu immediata la connessione con la ‘ndrangheta nell’assassinio di Bruno Caccia. Furono aperti differenti filoni e non si può dire, a distanza di 33 anni, di essere giunti ad una verità completa. Il legale della famiglia Caccia Fabio Repici infatti, nel richiedere la riapertura del processo, aveva incentivato i magistrati ad andare oltre le ‘ndrine, evidenziando gli interessi di Cosa Nostra per i casinò del nord Italia e i rapporti con i servizi segreti e denunciando i depistaggi che si sono susseguiti, oltre alle inerzie nelle indagini da parte di alcuni magistrati torinesi e milanesi.
Per i famigliari del procuratore di Torino assassinato nell ’83 il processo odierno è l’occasione per comprendere in profondità le vicende che all’epoca portarono a quell’omicidio e giungere ad una verità non più parziale. Ora questa possibilità sembra allontanarsi dopo che la Corte a deciso di respingere gran parte delle richieste dell’avvocato Repici.
Nella lista testimoni presentate dal difensore c’erano anche numerosi esponenti dei servizi di sicurezza dello Stato in azione all’epoca, oltre agli inquirenti che seguirono le indagini successivamente. La Corte invece sembra volersi concentrare sulle questioni emerse più recentemente dal momento che ha deciso che saranno ascoltati solo i testimoni di epoca più recente e che riguardano le ultime indagini compiute su Caccia.

 

 

 

Articolo del 3 Novembre 2016 da ilfattoquotidiano.it
Omicidio Bruno Caccia, perché dopo 33 anni manca ancora la verità
di Federica Fabretti

“Vorrei che questo processo si svolgesse in mezzo a una piazza. Così tutti potrebbero assistere a quello a cui stiamo assistendo noi familiari in questo processo. E’ da 33 anni che aspettiamo la verità: è ancora troppo presto per esaminare tutti gli elementi che già sono – ed in buona parte erano da tempo – a disposizione dell’inquirente?”
Queste sono le parole con cui Paola Caccia, figlia del procuratore di Torino Bruno Caccia, ha commentato le prime udienze del processo (l’ultima svoltasi ieri) che vede imputato, quale presunto esecutore materiale dell’omicidio del padre, il calabrese Rocco Schirripa (nella foto mentre sale in macchina).

Quello in corso è il secondo processo che riguarda l’omicidio di Bruno Caccia (avvenuto il 26 giugno 1983); il primo si celebrò alla fine degli anni Ottanta e si concluse con la sentenza che condannò all’ergastolo per il delitto di omicidio premeditato l’imputato, Domenico Belfiore, riconosciuto organizzatore e mandante di quell’omicidio, mentre fu assolto il coimputato Placido Barresi (cognato di Belfiore). I due esecutori (Caccia venne assassinato sotto la sua abitazione da due killer) allora rimasero sconosciuti.

L’avvocato della famiglia Caccia, Fabio Repici, all’apertura dell’udienza dibattimentale, ha evidenziato alcune “peculiarità” del primo processo: la sentenza d’appello venne, la prima volta, annullata con rinvio dalla Cassazione, che “censurò in modo particolare la lacunosità degli accertamenti sulla causale del delitto. (…) Nella sentenza a carico di Belfiore emerge che tutta l’attività istruttoria, sia quella dibattimentale e sia quella della fase istruttoria e dell’istruttoria formale, ha plasticamente omesso ogni tipo di accertamento sull’attività che, nel periodo precedente al delitto di cui fu vittima, era stata svolta dal procuratore della Repubblica di Torino”.

Il primo processo, inoltre, non ha visto testimoniare i colleghi di Caccia sulle attività svolte dal magistrato, vuoto che la parte civile ha chiesto di riempire chiamandoli a deporre ora, non essendosi mai visto, nella storia giudiziaria italiana, “un processo, relativo all’omicidio di un magistrato, nel quale non fossero stati sentiti i colleghi d’ufficio della vittima e i colleghi più vicini alla stessa”. L’avvocato di parte civile, inoltre, sempre all’udienza del 10 ottobre 2016, ha fatto notare come le lacune, presenti nelle prime indagini e nel primo dibattimento, non abbiano consentito di arrivare al completo accertamento della causalità dell’omicidio, che andrebbe ricercata, secondo lui, negli “interessi della mafia calabrese e della mafia siciliana insieme nei casinò e che riguardano anche il gruppo Belfiore di cui, nella prospettazione accusatoria, Rocco Schirripa è partecipe”. Non per niente, infatti, il pubblico ministero stesso ha qualificato Schirripa come “imputato di omicidio in concorso con Domenico Belfiore e altri”, allo Stato ancora ignoti.

Nei decenni trascorsi dall’assassinio del procuratore, infatti, emersero di tanto in tanto risultanze sull’omicidio Caccia in altre sedi, ma – ha sostenuto Repici – “Mai nessuno si era preso l’onere di raccoglierle, di metterle insieme. Erano rimaste come detriti da non utilizzare in altre sedi processuali. Noi riteniamo che questa sia la sede nella quale tutte le risultanze devono essere portate in una istruttoria dibattimentale, perché la Corte possa emettere nei confronti dell’odierno imputato una sentenza avendo il quadro più completo e chiaro possibile”.

Eppure per il pubblico ministero dell’attuale processo per l’omicidio Caccia questi temi “non sembrano essere rilevanti per la posizione dell’imputato Rocco Schirripa, perché è un tema che riguarda la causale, è un tema che riguarda Domenico Belfiore” e perché “questo è un processo che riguarda una singola persona fisica, Rocco Schirripa, accusato di essere uno degli esecutori materiali. Una sentenza definitiva ha già accertato che Domenico Belfiore era l’organizzatore e una sentenza definitiva ha già stabilito anche le causali dell’omicidio”.

Capire i moventi, riempire le lacune e correggere le inesattezze, se ve ne furono, del primo processo, quindi, sembra non essere importante per il dibattimento in corso a Milano, nonostante esso tratti un omicidio fondamentale per la storia italiana, nonostante esso processi l’attuale imputato per un reato commesso “in concorso con” il mandante imputato e condannato nel primo processo. Per il pubblico ministero c’è un diritto superiore: “Il diritto dell’imputato di avere un processo in tempi rapidi”. Come se le garanzie da assicurare all’imputato circa la ragionevole durata del processo debbano essere in contrapposizione all’acquisizione degli elementi necessari per ricostruire il quadro dei moventi del delitto.

Elementi che, a quanto pare, sembrano essere non così irrilevanti se un collega di Bruno Caccia, il dottor Francesco Saluzzo, attuale Procuratore generale di Torino, non più tardi dello scorso 28 giugno (come riportato da Ansa e Repubblica), disse pubblicamente che uccisero Caccia “mentre aggrediva un tessuto criminale insidiosissimo, contro il quale non si era fatto nulla per tanti anni. Oggi si sente dire che di ‘ndrangheta in Piemonte non si è mai parlato, ma non è vero: i processi ai suoi protagonisti, così come le indagini su quello che fu il ‘patto di sangue’ tra calabresi e catanesi, li facevamo già alla fine degli anni Settanta”, arrivando a citare anche quegli “ambienti che prosperavano vicino alla procura, con la complicità o la non opposizione di magistrati opachi per non dire di peggio”.

Forse è per questo che Paola Caccia avrebbe voluto che questo processo si svolgesse in una pubblica piazza. Perché, allo stato degli atti, solo in quel contesto sembrerebbe possibile avere speranza di ricostruire un quadro tanto necessario quanto, dopo 33 anni, anche dovuto.

 

 

 

 

Articolo del 3 Aprile 2017 da  espresso.repubblica.it
Bruno Caccia, un omicidio senza giustizia
di Fabrizio Gatti
La famiglia del magistrato ucciso nell’83 accusa: «L’indagine di Milano non ha trovato i veri colpevoli. E il caso va riaperto». La controinchiesta commissionata dai figli arriva a conclusioni precise: non è stato soltanto un delitto di ’ndrangheta

I fantasmi di quei temibili anni Ottanta riaffiorano ovunque. Perfino negli oggetti di cui a Milano è disseminata l’aula della Corte d’assise: il televisore Philips a tubo catodico da cui gracchia la testimonianza del pentito Vincenzo Pavia, il pavimento di linoleum con le venature rosse finto marmo, la vernice delle sbarre consumata da tre decenni di tormenti all’altezza delle mani. Riportano a quell’epoca anche i quadretti rossi e bianchi che dentro la gabbia danno un tocco roseo alla camicia di Rocco Schirripa, 63 anni, l’unico imputato: il panettiere calabrese nato a Gioiosa Ionica è accusato di essere uno dei due killer che spararono al procuratore di Torino, Bruno Caccia, assassinato sotto casa la sera di domenica 26 giugno 1983, in uno dei periodi più sanguinosi della Guerra fredda italiana.

Sul processo in corso in questi giorni a Milano si è diviso un pezzo di magistratura. Da una parte il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia (Dda) Ilda Boccassini, il suo sostituto procuratore Marcello Tatangelo, ma anche il presidente della Corte d’assise, Ilio Mannucci Pacini e il giudice a latere, Ilaria Simi de Burgis, convinti che dietro l’agguato ci sia soltanto la ’ndrangheta. Dall’altra, i figli di Bruno Caccia e il loro consulente Mario Vaudano, magistrato legato alle indagini più delicate contro criminalità e corruzione, che con una dettagliata controinchiesta hanno evidenziato il coinvolgimento della mafia catanese di Nitto Santapaola e dei suoi presunti colletti bianchi, che allora tentavano di riciclare nel casinò di Saint-Vincent i guadagni della droga e dei sequestri di persona.

Quella della famiglia Caccia è una denuncia circostanziata, che riporta la testimonianza di un altro storico sostituto procuratore milanese, Margherita Taddei: eppure per ben due volte la Dda l’ha invece iscritta tra gli atti non costituenti notizia di reato, tanto da provocare l’intervento severo del procuratore generale reggente, Laura Bertolè Viale, sull’ufficio di Ilda Boccassini.

Proprio davanti ai giudici, sul banco della Corte d’assise, torreggia il faldone con le carte delle indagini. Lì in mezzo è depositato il foglio numero 507, verbale di istruzione sommaria che è già uno spartiacque: «Era accaduto», racconta il primo marzo 1984 Bruno Masi, amministratore delegato del casinò di Saint-Vincent, interrogato dall’allora sostituto procuratore Francesco Di Maggio, «che dovendo organizzare un convegno di magistrati sul tema magistratura e potere, insieme con il dottor Simi de Burgis, procuratore della Repubblica di Voghera, manifestai anche a costui le mie preoccupazioni circa l’opportunità di occuparmi io della organizzazione… Ricordo in una occasione, nel mese di settembre, che il dottor de Burgis, commentando con me la vicenda nella quale ero rimasto coinvolto, ipotizzò che mi si potesse attribuire (disse testualmente “quale novello Mefisto”) tutti i mali della Valle d’Aosta e comunque la responsabilità dell’attentato al dottor Selis e dell’assassinio del procuratore della Repubblica di Torino, dottor Caccia».

L’allora procuratore di Voghera, Romeo Simi de Burgis, poi assolto in istruttoria con formula piena dalle accuse del boss catanese Angelo Epaminonda, è il papà del giudice a latere nel processo a Rocco Schirripa.

È questo il terzo dibattimento sull’omicidio del procuratore Caccia. Il primo si è concluso con una sentenza passata in giudicato nel 1992: ergastolo come mandante per il capoclan della ’ndrangheta Domenico Belfiore, esecutori rimasti sconosciuti e il movente piuttosto generico secondo cui il magistrato è stato ucciso perché non si era piegato alle pressioni della criminalità. Il secondo processo, interrotto per un grave vizio procedurale nel 2016, è quello contro Schirripa: un cognome indicato trentadue anni dopo l’omicidio in una lettera anonima autorizzata dalla procura di Milano e spedita dalla squadra mobile di Torino al boss Belfiore. Il terzo processo, l’attuale, è il replay che deve rimediare al vizio procedurale. Indizi e prove, fantasmi e mostri di quegli anni Ottanta resteranno comunque fuori dalle nuove udienze.

Lo ha deciso la Corte d’assise con un’ordinanza che addirittura circoscrive la futura testimonianza dei figli di Bruno Caccia «limitatamente al loro ruolo di danneggiati». Il pubblico ministero Tatangelo e gli stessi giudici condividono la premessa secondo cui nessuno può mettere in discussione la sentenza definitiva su mandante e movente. E nemmeno la stessa attività investigativa di Francesco Di Maggio, morto nel 1996, magistrato che molti famosi colleghi di oggi considerano il loro maestro. Così, ancora una volta, Guido Caccia molto probabilmente non potrà riferire in aula quello che il padre gli ha confidato poche ore prima di essere ucciso.

La famiglia del procuratore assassinato, grazie a un’indagine difensiva affidata all’avvocato Fabio Repici e al magistrato in congedo Mario Vaudano, ha infatti scoperto che Belfiore e la ’ndrangheta sono soltanto una parte della trama. Sopra di loro e accanto a loro si muoveva la mafia catanese che a Milano, Torino e Saint-Vincent in quegli anni rispondeva a Nitto Santapaola, ora in carcere a vita per le stragi di Cosa nostra. Il consorzio tra ’ndrangheta e mafia aveva un interesse comune: riciclare attraverso l’ufficio cambi del casinò della Valle d’Aosta i miliardi di lire incassati con i riscatti dei sequestri di persona e il colossale traffico di droga verso la Francia. Un piano che, se scoperto, avrebbe portato alla chiusura della casa da gioco.

Non è una pista alternativa, ma integrativa della condanna contro Belfiore: perché è già tutto scritto negli atti del primo processo, anche se poi la sentenza si è accontentata di una diversa valutazione. Per questo i figli Guido, Cristina e Paola Caccia hanno chiesto nuove indagini sui due nomi già identificati nero su bianco nelle carte depositate. Il primo nome, come ipotetico mandante, è Rosario “Saro” Cattafi: 65 anni, ex estremista di destra, ex intermediario tra industrie e governi nella compravendita di armamenti, sempre sospettato di essere l’ambasciatore degli affari di Stato nel clan Santapaola o viceversa, attualmente è imputato a piede libero in un procedimento per associazione mafiosa. L’altro, denunciato come ipotetico killer, è Demetrio Latella, 63 anni, Luciano per amici ed ex complici: già fornitore di pezzi di ricambio alla marina militare e alla guardia di finanza, in quegli anni sicario calabrese al servizio dei catanesi a Milano e Torino, Latella è un ergastolano premiato con la libertà anche quando trent’anni dopo la polizia ha scoperto la sua partecipazione, mai confessata prima, al sequestro di Cristina Mazzotti. La ragazza di 18 anni, rapita nel 1975 in provincia di Como, uccisa nonostante i genitori avessero pagato il riscatto di un miliardo.

Dopo anni di ricerche negli archivi giudiziari, la famiglia Caccia presenta la sua prima denuncia nell’estate 2013. E la Direzione distrettuale antimafia, diretta dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, dimostra subito di non condividere la richiesta di nuove indagini, rese invece possibili dall’esistenza in vita di gran parte dei protagonisti. Pur trattandosi dell’omicidio di un magistrato, la denuncia è iscritta dalla Dda milanese a modello 45: «Atti non costituenti notizia di reato». Un trattamento di solito riservato a esposti palesemente inventati come l’eventuale furto del Colosseo, che permette l’archiviazione da parte della Procura senza sottoporre il caso all’esame di un giudice. Infatti la prima denuncia viene archiviata.

Guido, Cristina e Paola Caccia non si arrendono. Raccolgono altre notizie e testimonianze. E nell’estate 2014 consegnano alla Procura di Milano la seconda denuncia aggiornata con i nuovi indizi contro Cattafi e Latella. Ma la Dda iscrive nuovamente il fascicolo come atto privo di notizie di reato. Passa quasi un altro anno senza risultati. Il consulente della famiglia, il magistrato Mario Vaudano, si rivolge alla Procura generale e ottiene l’intervento severo dell’allora procuratore reggente, Laura Bertolè Viale. Si scopre così che il pm Tatangelo ha eseguito le direttive del procuratore aggiunto Boccassini e la prassi della Procura di Torino, da dove Tatangelo proviene. Solo grazie al rimprovero della Procura generale, Cattafi e Latella vengono finalmente iscritti nel registro degli indagati. Da lì a qualche mese, però, a fine 2015 Ilda Boccassini annuncia a sorpresa l’arresto del panettiere Rocco Schirripa. Mentre a fine gennaio di quest’anno il pm Tatangelo chiede l’archiviazione per Cattafi e Latella. Richiesta contro cui la famiglia Caccia ha presentato opposizione.

Il convincimento di un magistrato è insindacabile al di fuori dei riti del giudizio. Ma le osservazioni dei figli del procuratore assassinato sulle scelte investigative dell’allora pubblico ministero, Francesco Di Maggio, trovano conferma nelle migliaia di pagine, che L’Espresso ha potuto esaminare: «Il pm aveva raccolto elementi indizianti ben significativi su soggetti diversi da quelli poi sottoposti a processo», spiega l’avvocato Repici: «La rilevante mole di fonti probatorie relative a Rosario Cattafi, a uno dei presunti killer e al possibile movente del delitto rimase però del tutto trascurata. Su di essa fu omessa ogni valutazione, anche solo finalizzata a destituirla di fondamento».

Secondo gli atti depositati dallo stesso Di Maggio e dai colleghi di allora, la mafia comincia a colpire il 13 dicembre 1982. Giovanni Selis, 45 anni, pretore di Aosta, tira la levetta di accensione della sua 500 e l’auto esplode. Il magistrato resta incredibilmente illeso. La sera del 17 dicembre provano ad ammazzarlo sotto casa. Suonano al citofono per farlo uscire. Lui si insospettisce e si chiude dentro. In tutte e due le azioni, viene segnalata un’auto verde con targa francese. Anche l’esplosivo era di produzione francese. Da settembre Selis sta indagando sul casinò di Saint-Vincent: «Come possibile movente», mette a verbale il pretore davanti al sostituto procuratore di Milano, Corrado Carnevali, «richiamo le indagini che avevo in corso presso la casa da gioco… in particolare tra l’ufficio fidi della casa e taluni prestasoldi. Da tempo mi ero interessato all’attività di taluni personaggi. Mi riferisco in particolare a un certo avvocato Valentini di Milano… Aggiungo ancora che una specifica indagine demandata alla guardia di finanza aveva a oggetto l’individuazione della causale di un assegno emesso da un certo ingegner Mariani in favore di Masi, amministratore delegato della Sitav, società che ha la gestione del casinò».

«Dopo l’attentato ai miei danni», aggiunge Selis, «mi telefonò il collega Marcello Maddalena, sostituto procuratore a Torino, chiedendomi un colloquio riservato. In esito a questo colloquio sono legato al segreto istruttorio. Posso però affermare che potrebbe sussistere un collegamento fra le mie indagini e quelle del collega Maddalena, aventi a oggetto riciclaggio di denaro proveniente da sequestri di persona». Nella primavera 1983 il genero del procuratore Caccia, Gianvi Fracastoro, oggi professore al Politecnico di Torino, viene contattato da un ex compagno di scuola conosciuto durante gli studi a Catania.

L’amico ritrovato, Ettore Impellizzeri, una sera lo invita al ristorante “Giudice”, fuori città. Si presenta su una Porsche. A cena Impellizzeri gli rivela di conoscere Nitto Santapaola. E dice che in caso di furto dell’auto, il boss gliel’avrebbe fatta restituire. Poi a bruciapelo l’ex compagno di scuola chiede se il dottor Caccia è avvicinabile: «È uno con cui si può parlare?». Il genero del procuratore non risponde. Lì per lì pensa a una smargiassata. Dopo l’omicidio, l’amico ritrovato non si farà più sentire.

Dal 17 maggio al 13 giugno di quell’anno, Bruno Caccia affida al suo sostituto Maddalena le indagini e il sequestro della documentazione sui conti correnti del casinò di Saint-Vincent, dei suoi amministratori e di alcuni cambiavalute. La guardia di finanza passa al setaccio uffici, case e banche, tra cui le sedi di Novara, Aosta e Milano della Banca Popolare di Novara. I mandati di perquisizione sono inequivocabili. Quei verbali ancora oggi ci ricordano che indagando sul riscatto per il sequestro degli imprenditori Tullio Fattorusso e Lorenzo Crosetto «risulta come le operazioni di riciclaggio venissero effettuate presso il casinò di Saint-Vincent, attraverso un meccanismo che potrebbe coinvolgere responsabilità di persone che operano sia all’interno che all’esterno del casinò, in qualità di cambiavalute o addirittura come responsabili dell’ufficio fidi».

In quegli stessi giorni ad Alessandria si incontrano per parlarne quattro persone: l’amministratore delegato del casinò Masi; Franco Mariani, l’ingegnere messo sotto inchiesta dal pretore Selis nonché commerciante di armamenti e produttore di motori per i mezzi delle forze armate; il suo collaboratore Rosario “Saro” Cattafi e il capitano Rossi, alias Enrico Mezzani, un informatore del Sisde, il servizio segreto interno, in contatto con la guardia di finanza.

Secondo Cattafi, poi interrogato da Di Maggio, Masi era alla ricerca di qualcuno ben introdotto nelle istituzioni capace di bloccare l’iniziativa giudiziaria: «Era anche preoccupato per talune pressioni che, nel corso della cena, disse di avere ricevuto da ambienti siciliani che avevano di mira l’accaparramento dell’ufficio cambi del casinò», sostiene Cattafi. Senza però rivelare che quegli “ambienti siciliani” sono i suoi. Lo racconterà mesi dopo, sempre a Di Maggio, il primo boss pentito Angelo Epaminonda: «Saro, un siciliano, sui 35 anni: dopo i primi convenevoli, nel corso dei quali Saro mi spiegò di essere legato strettamente a Nitto Santapaola, mi feci indicare i termini del progetto. Saro disse che agiva in società con altra persona ben introdotta nel casinò di Saint-Vincent e che si poteva impiantare nel casinò il lavoro del cambio assegni».

Il pomeriggio di domenica 26 giugno, poche ore prima dell’agguato, Bruno Caccia e la moglie Carla Ferrari vanno a casa del figlio Guido. Hanno ospitato i nipotini nel fine settimana e gli riportano i bambini: «Si parlava di malaffare», racconta oggi Guido Caccia, «e papà disse: vedrete cosa verrà fuori tra qualche giorno, qualcosa di davvero grosso, ci sarà una bella sorpresa. Ricordo perfettamente il senso della frase. E ricordo anche la mia di sorpresa, perché papà non parlava mai del suo lavoro. Quella frase e l’assenza dopo qualche giorno di quel qualcosa di grosso annunciato mi hanno sempre accompagnato da allora. Ma su questo non sono mai stato interrogato».

 

 

 

La famiglia del magistrato ucciso nell’83 accusa: «L’indagine di Milano non ha trovato i veri colpevoli. E il caso va riaperto». La controinchiesta commissionata dai figli arriva a conclusioni precise: non è stato soltanto un delitto di ’ndrangheta

Fonte:  espresso.repubblica.it
Articolo del 29 novembre 2018
Omicidio Caccia, un giallo senza finale. «Ignorate le indicazioni della famiglia»
Mario Vaudano, ex collega del procuratore assassinato: respinte da Ilda Boccassini le richieste di indagini formulate dai figli. Inchiesta trasferita d’autorità alla Procura generale. I misteri sul ruolo del Sisde

L’omicidio del procuratore di Torino, Bruno Caccia, da trentacinque anni attende giustizia. L’ultimo colpo di scena è della scorsa settimana: la Procura generale ha avocato l’inchiesta togliendola alla Procura di Milano per presunte lacune nelle indagini. La versione ufficiale circolata nel Palazzo di giustizia sostiene che l’attuale capo della Direzione distrettuale antimafia (Dda), Alessandra Dolci, e il sostituto procuratore Paola Biondolillo abbiano chiesto l’archiviazione del fascicolo, senza approfondire il ruolo di Francesco D’Onofrio, indagato come esecutore dell’agguato. Un fascicolo aperto dal precedente capo della Dda, Ilda Boccassini, e affidato al pubblico ministero, Marcello Tatangelo. Ma non è andata esattamente così. La realtà dei fatti è stata ripristinata da Mario Vaudano, storico giudice istruttore di Torino, nonché amico e allora “discepolo” di Bruno Caccia.

Alessandra Dolci ha infatti ereditato l’inchiesta da Ilda Boccassini quando il termine per le indagini era già scaduto: quindi non poteva fare altro che chiederne l’archiviazione. Vaudano è intervenuto sulla pagina Facebook dedicata ad Agnese Borsellino, moglie di Paolo Borsellino, il magistrato ucciso dalla mafia con la sua scorta nella strage di via D’Amelio a Palermo il 19 luglio 1992. «Per correttezza di informazione», scrive Vaudano, ora in congedo per limiti d’età, «devo indicare che si menziona il merito dei magistrati inquirenti Boccassini e Tatangelo. Tuttavia la responsabilità delle indagini lacunose a cui è dovuta l’avocazione (da parte della Procura generale, ndr) è stata di questi stessi e non dei loro successori. Purtroppo la precedente gestione della Direzione distrettuale antimafia aveva infatti respinto tutte le richieste di indagini formulate con precisione dalla parte civile, la famiglia Caccia e dall’avvocato Repici».

Aggiunge l’ex giudice istruttore: «È sempre difficile e talora molto triste, ma deve essere detto per onestà intellettuale. Il ruolo dei veri amici è di dire anche quello che non si condivide. Anche da parte di uno come me che vanta una lunga amicizia con Ilda Boccassini…».

Sull’omicidio del procuratore di Torino, assassinato a 65 anni il 26 giugno 1983, alla vigilia di una colossale indagine sul riciclaggio degli incassi della mafia catanese nei casinò italiani, si sono celebrati tre processi. L’ultimo si è concluso lo scorso anno con la condanna all’ergastolo del panettiere Rocco Schirripa, 64 anni, che l’inchiesta condotta dal pm Tatangelo indica come uno degli esecutori. Il secondo procedimento, sempre contro Schirripa, era stato interrotto per vizi procedurali. Il primo processo era invece terminato con una sentenza passata in giudicato nel 1992: condanna a vita come mandante per il capoclan della ‘ndrangheta, Domenico Belfiore, e il movente piuttosto generico secondo cui Bruno Caccia è stato ucciso perché non si era piegato alle pressioni della criminalità.

Sia Tatangelo, sia l’allora capo della Dda, Ilda Boccassini, non hanno invece trovato riscontri sul presunto coinvolgimento di Francesco D’Onofrio, ex militante dell’organizzazione terroristica “Comunisti organizzati per la liberazione proletaria” e oggi accusato di essere un affiliato alla ‘ndrangheta torinese, tuttora in attesa del giudizio in Appello per il processo “Minotauro”. Di lui aveva parlato un collaboratore, Domenico Agresta, riferendo notizie apprese in carcere secondo le quali Schirripa e D’Onofrio sono gli assassini del procuratore.

Bruno Caccia è l’unico magistrato ucciso dalla criminalità organizzata al Nord. I processi si sono svolti a Milano, poiché è il Tribunale competente per i reati che coinvolgono i pubblici ministeri e i giudici del distretto torinese. Ma esiste un ulteriore fascicolo per il quale il pm Tatangelo con il visto del capo Boccassini ha chiesto l’archiviazione, senza sentire i testimoni segnalati: è la denuncia circostanziata presentata dai figli del procuratore assassinato nei confronti di Rosario “Saro” Cattafi, 66 anni, indicato come presunto mandante, e Demetrio “Luciano” Latella, 64 anni, descritto come uno degli esecutori. Cattafi è un ex intermediario tra industrie e governi nella compravendita di armamenti, sospettato di essere l’ambasciatore degli affari di Stato nel clan catanese di Nitto Santapaola e viceversa: attualmente è libero sull’orlo della prescrizione, in attesa che la Corte d’Appello di Reggio Calabria ridetermini la pena, dopo che la Cassazione ha accolto il suo ricorso in merito a una condanna per associazione mafiosa, per fatti avvenuti prima del 2000. Latella è invece un ex fornitore di pezzi di ricambio alla Marina militare, ex sicario calabrese al servizio dei catanesi a Milano e Torino: un ergastolano premiato con la libertà anche quando trent’anni dopo la polizia ha scoperto la sua partecipazione, mai confessata prima, al sequestro di Cristina Mazzotti, rapita a 18 anni nel 1975 e uccisa, nonostante i genitori avessero pagato un miliardo di lire come riscatto.

I nomi di Cattafi e di Latella emergono dalla lunga indagine condotta sull’omicidio del procuratore dal magistrato di Milano, Francesco Di Maggio. I figli di Bruno Caccia, assistiti dall’avvocato Fabio Repici e come consulente gratuito da Mario Vaudano, per anni hanno cercato e studiato negli archivi giudiziari. E hanno scoperto che è già tutto scritto nella mole di documenti depositata da Di Maggio: Bruno Caccia stava per avviare un’indagine sul riciclaggio della mafia catanese nel casinò di Saint Vincent, dopo l’attentato al pretore di Aosta, Giovanni Selis, sopravvissuto all’esplosione della sua Fiat 500. Solo che tutte queste informazioni sono rimaste chiuse nei faldoni. E l’indagine di Francesco Di Maggio, storico nome dell’antimafia milanese scomparso nel 1996, ha portato a una ricostruzione molto più limitata nei fatti e alla condanna del boss della ‘ndrangheta, Domenico Belfiore. Ricostruzione ufficiale che, ancora oggi, esclude il coinvolgimento della mafia catanese.

La prima denuncia circostanziata dei figli del procuratore contro Cattafi e Latella viene presentata nell’estate 2013. Ma Ilda Boccassini dimostra subito di non condividere i risultati della controinchiesta suggerita dalla famiglia Caccia. Tanto che, pur trattandosi dell’omicidio di un magistrato, il fascicolo viene iscritto a modello 45: «Atti non costituenti notizia di reato». I figli Guido, Cristina e Paola Caccia non si arrendono e nell’estate 2014 consegnano alla Procura di Milano una seconda denuncia, con nuovi indizi contro Cattafi e Latella. Ma la Direzione distrettuale antimafia di allora iscrive nuovamente il fascicolo come atto privo di notizie di reato. Passa quasi un altro anno senza risultati. Il magistrato Mario Vaudano si rivolge alla Procura generale e ottiene l’intervento severo dell’allora procuratore reggente, Laura Bertolè Viale.

La denuncia dei familiari viene finalmente iscritta come omicidio. Ma nel giro di qualche mese, a fine 2015, la Direzione distrettuale antimafia arresta Rocco Schirripa mentre per Cattafi e Latella viene chiesta l’archiviazione. «In conclusione», scrive il pm Tatangelo, «gli elementi acquisiti, per le ragioni esposte, paiono del tutto inidonei a sostenere adeguatamente l’accusa in giudizio, sia per Cattafi, sia per Latella». Arriviamo così a oggi. L’11 settembre scorso, durante l’udienza preliminare, i figli di Bruno Caccia si oppongono all’archiviazione della loro denuncia. Da quel giorno il giudice si è riservato la decisione e non si è ancora espresso.

Secondo l’avvocato Repici, sarebbe stato doveroso sentire la testimonianza dei colleghi con cui il procuratore lavorava: Francesco Marzachì, Marcello Maddalena, Francesco Saluzzo, Giorgio Vitari e Ugo De Crescienzo. Perché potrebbero tuttora aiutare a capire cosa intendesse Bruno Caccia quando, poche ore prima di essere ucciso, si confidò con il figlio Guido: «Si parlava di malaffare», racconta oggi Guido Caccia, «e papà disse: vedrete cosa verrà fuori tra qualche giorno, qualcosa di davvero grosso, ci sarà una bella sorpresa. Ricordo perfettamente il senso della frase. E ricordo anche la mia sorpresa, perché papà non parlava mai del suo lavoro. Quella frase e l’assenza dopo qualche giorno di quel qualcosa di grosso annunciato mi hanno sempre accompagnato da allora».

Ma né il figlio né i colleghi di Bruno Caccia sono mai stati sentiti in Procura. Il procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso, e il suo sostituto procuratore generale, Galileo Proietto, hanno ora la possibilità di estendere l’inchiesta. A cominciare dal ruolo del Sisde, l’allora servizio segreto civile che, come ricorda il legale della famiglia Caccia, per la strage di via D’Amelio è oggi sinonimo di depistaggio: mentre a Torino fin dai primi mesi dopo l’agguato gli 007 del Sisde, con la loro partecipazione diretta e abusiva alle indagini, hanno potuto contribuire alla versione ufficiale della vendetta personale del boss Domenico Belfiore. Una versione che secondo i familiari è smentita dalle carte, dimenticate nei faldoni del primo processo. Basterebbe leggerle.

 

 

 

Fonte: ilfattoquotidiano.it 
Articolo del 14 febbraio 2019
Bruno Caccia, confermato l’ergastolo per Rocco Schirripa. La figlia del magistrato ucciso: “Cercare gli altri colpevoli”
Secondo le indagini della Dda milanese, l’omicidio del magistrato fu una dimostrazione di fedeltà data da Schirripa ai boss i quali sarebbero stati irritati dall’estremo rigore del magistrato torinese. Per l’omicidio è già stato condannato Domenico Belfiore, considerato un boss della ‘ndrangheta

La corte d’assise d’appello di Milano ha confermato l’ergastolo a Rocco Schirripa per l’omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia (nella foto), ucciso il 26 giugno del 1983. Anche in primo grado all’imputato era stato inflitto il fine pena mai. Il panettiere pluripregiudicato era stato arrestato il 21 maggio 2016, a oltre 30 anni dal delitto. Secondo le indagini della Dda milanese, l’omicidio del magistrato fu una dimostrazione di fedeltà data da Schirripa ai boss i quali sarebbero stati irritati dall’estremo rigore del magistrato torinese. Ipotesi condivisa dal sostituto pg di Milano, Galileo Proietto, che aveva chiesto la conferma del verdetto di primo grado.

La sentenza di oggi, però, è solo una parte della verità sulla morte del magistrato. Almeno secondo la figlia, Paolo Caccia. “Sono contenta che sia finita così, anche se mi dispiace molto perché mi è sembrato che ci fosse una certa fretta di concludere. Non mi sembra che sia stato dato di nuovo abbastanza spazio a quello che stava intorno a questo imputato”, dice la figlia del magistrato. “Questa sentenza conferma la responsabilità di uno dei colpevoli, bisogna cercare gli altri”, ha spiegato l’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia che si è costituita parte civile. Proprio i familiari di Caccia, infatti, ha sempre insistito affinché si indagasse su una cosiddetta ‘pista alternativa‘ che intreccia mafia e servizi segreti: il magistrato è stato ucciso perché stava indagando su casi di riciclaggio di denaro sporco al Casinò di Saint Vincent. Per l’omicidio del magistrato è già stato condannato in passato all’ergastolo Domenico Belfiore, considerato un boss della ‘ndrangheta.

L’imputato si è sempre dichiarato non colpevole. “Non ci sto più a stare in carcere da innocente” e “mi fa veramente rabbia che queste persone si vendichino su di me per avere i loro benefici”, aveva detto Schirripa nell’udienza del 5 febbraio scorso, parlando dei pentiti di ‘ndrangheta che hanno fatto il suo nome nel dibattimento di primo grado in cui era stato condannato all’ergastolo. L’imputato aveva reso dichiarazioni spontanee dopo la requisitoria del sostituto pg Galileo Proietto che ha chiesto la conferma della condanna al carcere a vita inflitta nel luglio 2017. Schirripa era stato arrestato nel dicembre 2015, a oltre 30 anni dal delitto. Tra le prove dell’inchiesta del pm di Milano Marcello Tatangelo (ora sostituto pg a Torino) alcuni dialoghi intercettati tra Domenico Belfiore e altri ‘ndranghetisti, tra cui Placido Barresi, boss ed ergastolano, ora in semi-libertà.  “Rocco Schirripa non c’entra niente e non lo dico io, ma i fatti”, aveva aggiunto l’imputato parlando di se stesso in terza persona. “Hanno studiato a tavolino per trovare un capro espiatorio e hanno scelto me perché ero una preda facile: sono compare di Domenico Belfiore, sono pregiudicato e sono calabrese. Non mi sono mai macchiato di fatti di sangue, lo grido con tutte le mie forze: sono innocente”.

Per la procura di Torino a condannare la toga fu proprio il suo rigore. Ipotesi condivisa dal sostituto pg Galileo Proietto che nella sua requisitoria, aveva illustrato i diversi passaggi dell’indagine, a partire dalla lettera anonima che era stata inviata a Domenico Belfiore, già condannato all’ergastolo per il delitto, alla fine di agosto del 2015. Lettera che spinse Belfiore, Barresi e l’imputato, come risulta dalle intercettazioni, a parlare del delitto Caccia. Dialoghi, questi, considerati una prova decisiva. Proietto aveva poi citato la testimonianza di Domenico Agresta, 30enne pentito di ndrangheta che rivelò prima agli inquirenti e poi al processo a Milano, di avere saputo dal padre e boss di ‘ndrangheta Saverio Agresta, che Rocco Schirripa e l’ex militante di prima linea Francesco D’Onofrio facevano parte del gruppo di fuoco che uccise il magistrato torinese. Secondo il pg, il figlio del boss è attendibile anche perché “è nato ‘ndranghetista, ha respirato ‘ndrangheta sin da quando è nato e suo padre è un nome di spicco della ‘ndrangheta piemontese. Quella di primo grado – aveva sostenuto Proietto, che nel novembre scorso ha avocato la nuova indagine sull’omicidio Caccia a carico di D’Onofrio – è una sentenza giusta, che ha preso in considerazione le esigenze di tutte le parti. Dopo 30 anni è stato fatto un primo passo verso la giustizia, speriamo che non ne passino altri 30 perché sia fatta completamente. Bruno Caccia non è stato dimenticato, la sentenza è stata un passo importante”.

 

 

 

Fonte: antimafiaduemila.com
Articolo del 16 aprile 2019
La Corte d’Assise d’Appello di Milano deposita le motivazioni della sentenza
di Aaron Pettinari

Sono state depositate le motivazioni del processo sull’omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia, ucciso nel giugno 1983. Secondo la Corte d’Assise d’Appello di Milano l prova della colpevolezza dell’imputato, Rocco Schirripa, condannato all’ergastolo lo scorso 14 febbraio è “coriacea”.
Secondo i giudici, la prova della responsabilità del panettiere, “ponendosi in armonia con gli altri elementi fattuali, ha retto in tutti i suoi segmenti” e per contrastarla non sono bastati “gli espedienti dialettici o i virtuosismi lessicali”.
Riguardo al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, i giudici spiegano che “l’imputato ha vissuto per tutta la sua esistenza nella illegalità, è affiliato, senza ‘pentimenti’ di sorta, a una organizzazione mafiosa tra le più pervasive e perniciose”. Inoltre, secondo la Corte, sussiste l’aggravante della premeditazione: si legge nel documento che è di “lapalissiana evidenza” che il mandante dell’omicidio Caccia sia stato il boss e a capo dell’omonimo clan Domenico Belfiore. E dunque che anche i “prescelti esecutori” del delitto, cioè Rocco Schirripa, abbiano “logicamente” preso parte alla “preordinazione” dell’agguato anche per via della sua “lunga progettazione (con pedinamenti, controlli a distanza, ricerca del luogo più idoneo ad eseguirlo, reiterati sopralluoghi)”.
I giudici, nelle motivazioni, hanno sottolineato che Rocco Schirripa è “uomo di ‘Ndrangheta” e hanno ricordato che quando l’imputato ha reso dichiarazioni spontanee prima della sentenza ha sostenuto di essere un “capro espiatorio” e “bersaglio di calunnia” dei “soliti pentiti” che “inseguendo personali benefici, lo avrebbero scelto come candidato ideale su cui riversare le accuse”. Secondo la Corte, invece, l’ex panettiere di Nichelino (Torino) non ha dato “nessuna spiegazione di quanto egli personalmente diceva conversando con il Barresi, che è la primigenia e principale fonte d’accusa a suo carico: molto
meglio, dal suo punto di vista, tentare di spostare l’attenzione dell’ascoltatore dalla luna al dito, dolendosi del poco che ‘i pentiti’, in cambio di imprecisati benefici, hanno detto di lui”.
Già in primo grado i dialoghi intercettati tra Schirripa e Barresi erano stati considerati come rilevanti .
Successivamente la Corte si è anche espressa confutando la tesi del legale della famiglia Caccia, Fabio Repici, rispetto al ruolo di Placido Barresi. “Io ritengo che Placido Barresi sia stato un agente provocatore – aveva detto l’avvocato durante la propria arringa – e nonostante abbia violato più volte le prescrizioni del magistrato di sorveglianza non ha mai perso il beneficio della semi libertà”. In quell’occasione aveva chiesto la riapertura del dibattimento per sentire alcuni testimoni, tra cui Marcello Maddalena, l’ex procuratore capo di Torino che lavorò per anni con Bruno Caccia e il collaboratore di giustizia Daniel Panarinfo. Riapertura che è stata negata dalla Corte. I giudici nelle motivazioni della sentenza scrivono che nella “improbabile ipotesi” che Barresi sia stato non un “genuino conversatore ma un agente sotto copertura, fuori di metafora una sorta di ‘trojan horse’ (cavallo di Troia, ndr) vivente, conducendo le conversazioni laddove voleva fossero condotte”, allora “nulla muterebbe nella posizione processuale di Rocco Schirripa perché ciò che depone contro l’imputato sono le sue stesse parole e non ciò che altri ha affermato di lui”. Una pura “insinuazione” secondo i giudici che è “una delle tante – spiace dirlo – che si sono volute inserire nel tracciato processuale che è invece ontologicamente incompatibile con l’illazione e il sospetto”.
Un’osservazione abbastanza gratuita, quest’ultima, tenuto conto che l’accertamento della verità dovrebbe essere compiuto vagliando tutti gli aspetti.
“Finora – aveva commentato Repici il giorno della sentenza – l’omicidio Caccia rimane l’unico assassinio di un magistrato nella storia della Repubblica per il quale nessun collega d’ufficio della vittima sia stato sentito come testimone, nella prima istruttoria, nelle indagini di questi ultimi anni, nei dibattimenti. Si tratta di una imperdonabile patologia sulla quale la società deve interrogarsi per capirne le ragioni. Io penso che verità e giustizia camminino insieme. Altri evidentemente pensano che si possa celebrare giustizia senza ogni possibile accertamento della verità”.
E pensare che i giudici di primo grado avevano condiviso “le osservazioni della difesa sull’ambito del non detto, sul vero motivo delle preoccupazioni di Belfiore e Barresi”. “Infatti – aggiungevano – risulta logico ritenere che le preoccupazioni degli stessi avessero riguardato non solo Schirripa, ma anche gli altri soggetti che erano stati coinvolti nell’omicidio”. Secondo i giudici, per, “questo nulla toglie al fatto che le loro preoccupazioni sul fatto che Schirripa avesse ‘parlato’ fossero autentiche, anche se non dirette solo a lui”. Inoltre, sempre la Corte d’assise di Milano, senza entrare nel merito, aveva registrato le critiche che il legale della famiglia Caccia aveva rivolto verso l’operato della magistratura.

Piste aperte
Per l’omicidio del Procuratore di Torino tuttora resta indagato Francesco D’Onofrio, ex militante di Prima Linea ed ora ritenuto vicino alla ‘ndrangheta. Si è sempre professato estraneo, ma lo ha tirato in ballo il baby-pentito Domenico Agresta, il quale ha dichiarato di aver appreso dal padre e dal boss Aldo Cosimo Crea che “a farsi il procuratore” erano stati Schirripa e D’Onofrio.
Lo scorso marzo si è tenuto un incidente probatorio davanti al Gip di Milano, Stefania Pepe, con la deposizione dell’ex collaboratore di giustizia Vincenzo Pavia.
Un altro fascicolo di indagine riguarda Rosario Pio Cattafi, boss siciliano indicato dai pentiti come trait d’union tra cosa nostra e servizi segreti, e di Domenico Latella. La famiglia Caccia ha chiesto di non archiviare l’indagine ma ancora non vi è una risposta. La speranza è che Speriamo anche in questo caso che non sia vana la nostra richiesta di non archiviare. La speranza è che possa essere fatta definitivamente luce sul delitto perché, come ha detto Paola Caccia dopo la pronuncia dei giudici contro Schirripa, “questa sentenza può essere un passo avanti ma l’accertamento completo della verità è un’altra cosa e lascia sgomento il dover constatare che spesso siamo noi familiari a dover lottare affinché sia fatta definitivamente giustizia”.

 

 

 

Fonte: antimafiaduemila.com
Articolo del 27 maggio 2019
Caso Caccia, nell’inchiesta su D’Onofrio sentiti i figli e l’ex giudice Vaudano
di Aaron Pettinari
Nuovo atto istruttorio per la Procura generale

La settimana scorsa il Procuratore generale di Milano, Galileo Proietto, si è recato a Torino nell’ambito dell’inchiesta, avocata lo scorso novembre, nei confronti dell’ex militante di Prima Linea Francesco D’Onofrio, accusato di essere stato uno dei partecipanti all’agguato che il 26 giugno 1983 uccise il Procuratore capo di Torino, Bruno Caccia.

Come ha riportato oggi il quotidiano La Repubblica il magistrato milanese ha messo a verbale le dichiarazioni dei figli di Caccia, che da tempo chiedevano di essere sentiti, ma anche quelle di Mario Vaudano, giudice istruttore a Torino e collaboratore dello stesso procuratore capo ucciso nel 1983.

Secondo quanto emerso Vaudano avrebbe parlato dell’esistenza di una cartellina, oggi sparita, che si trovava nel “cassetto centrale della scrivania del suo ufficio” in cui Caccia avrebbe conservato le informazioni delicate che riguardavano alcuni magistrati torinesi. “L’ho vista con i miei occhi – ha detto l’ex giudice istruttore che ha ricordato l’indagine condotta assieme al Procuratore sullo scandalo petroli, dove si manifestavano grandi interessi ed intrecci anche con i massimi vertici della Guardia di Finanza – Un giorno mi trovai un bigliettino in ufficio, firmato dal collega Luigi Moschella. C’era scritto ‘Caro Mario, sei bravissimo con le tue indagini. Ma statti attento’. L’ultima frase era sottolineata. Diedi quel bigliettino a Caccia. Lo conservava in quel cassetto della scrivania. Ecco perché dico che ho visto la cartellina con i miei occhi”.

Di quel cassetto si parla anche in un libro scritto da Paola Bellone. In particolare si dà atto in quelle pagine che il 29 giugno 1983, durante il primo sopralluogo ufficiale del procuratore capo di Milano, Mauro Gresti, e dell’allora sostituto procuratore Armando Spataro, cui in un primo momento era stata assegnata l’inchiesta sul delitto, non fu possibile aprire il cassetto in quanto non si trovavano le chiavi né della scrivania né dell’armadio blindato. Chiavi che, era noto anche ai familiari, lo stesso Procuratore teneva sempre con sé. Misteriosamente quelle chiavi ricomparvero a luglio. Ma quando si riuscì ad aprire il cassetto, all’interno si rinvenne solo una cartellina con la scritta “petroli”.

In un documentario prodotto da Libera, Vaudano disse: “Guardate che l’omicidio Caccia non è un omicidio che guarda al passato, non è stato commesso per il passato, è un omicidio che guarda al futuro, è stato commesso per ottenere benefici, per salvare, per il futuro, interessi, per impedire che il procuratore Caccia potesse mettersi in posizione di annichilimento di quegli interessi criminali”.
Sicuramente l’ex giudice istruttore avrà approfondito quella considerazione e avrà offerto anche chiavi di lettura su altre vicende che fino ad oggi non sono entrate nei processi.

Lo scorso maggio, durante un convegno organizzato a Torino dalle Agende Rosse e dalla Commissione legalità del Comune, intitolato “Bruno Caccia – Ucciso per il futuro” Vaudano ha anche parlato di alcuni contatti con ambienti massonici che erano emersi nel corso di alcune sue inchieste ma anche delle frequentazioni dubbie di alcuni magistrati che furono anche indagati e processati, anche se ne uscirono indenni, se si esclude qualche sanzione disciplinare, come il magistrato Luigi Moschella, oggi deceduto, che fu indagato per associazione a delinquere insieme a Gianfranco Gonella, Mimmo Belfiore e Placido Barresi (cognato di Belfiore, processato e assolto dall’accusa di aver preso parte all’omicidio Caccia), che poi venne prosciolto nonostante la conferma di quei legami.

Su questo fronte la Procura di Milano sta anche vagliando 21 nastri che Moschella custodiva in casa in cui erano registrate conversazioni con i magistrati del Palazzo di giustizia di Torino.

Per l’omicidio Caccia sono stati condannati all’ergastolo come mandante Domenico Belfiore, capo clan dell’omonima ‘ndrina operante in Piemonte, e come esecutore Rocco Schirripa (sentenza d’appello nello scorso febbraio). Inoltre resta aperto il capitolo d’indagine nei confronti di Rosario Pio Cattafi, soggetto ritenuto vicino all’estrema destra e alla mafia siciliana, e Demetrio Latella (entrambi iscritti nel registro degli indagati per il delitto dal 2 luglio 2015).

Un’indagine che di fatto inquadra l’omicidio dell’ex Procuratore capo di Torino all’interno delle indagini che stava svolgendo sul riciclaggio di denaro della mafia al Casinò di Saint Vincent. Il Gip di Milano deve ancora decidere se archiviare o meno l’inchiesta dopo la richiesta avanzata dalla Procura di Milano e l’opposizione presentata dalla famiglia Caccia tramite l’avvocato Fabio Repici.

 

 

 

Fonte:  ilfattoquotidiano.it
Articolo del 20 febbraio 2020
Delitto Bruno Caccia, Cassazione conferma l’ergastolo a Schirripa. La famiglia del magistrato: “Solo mezza verità”
L’ex panettiere legato alla ‘ndrangheta è accusato di aver fatto parte del gruppo di fuoco che la sera del 26 giugno 1983 sparò e uccise il procuratore di Torino, 65 anni, uscito di casa a portare a spasso il cane.

“Quanto è stato accertato fin qui dai processi è solo una mezza verità”. È la riflessione di Guido, Paola e Cristina Caccia, figli del procuratore di Torino Bruno Caccia ucciso dalla ‘ndrangheta, dopo la conferma in Cassazione dell’ergastolo a Rocco Schirripa, accusato di aver fatto parte del gruppo di fuoco che la sera del 26 giugno 1983 uccise il magistrato. “Mancano ancora – dicono i famigliari – i nomi degli altri esecutori e non è stata fatta piena luce su movente e mandante”.

Shirripa, l’ex panettiere legato alla ‘ndrangheta accusato di aver fatto parte del gruppo di fuoco che la sera del 26 giugno 1983 sparò e uccise il procuratore di Torino, 65 anni, uscito di casa a portare a spasso il cane. Secondo l’accusa, con questo omicidio il boss calabrese Domenico Belfiore aveva eliminato il magistrato che costituiva un ostacolo agli interessi della criminalità organizzata nel capoluogo piemontese. Caccia poco prima di essere ammazzato aveva disposto perquisizioni al casinò di Saint Vincent per il sospetto di riciclaggio di capitali mafiosi.

Con il verdetto emesso dalla Prima sezione penale della Suprema Corte è diventato definitivo il carcere per l’imputato così come deciso dalla Corte d’assise d’appello di Milano il 14 febbraio 2019. Anche in primo grado l’imputato era stato condannato all’ergastolo e si trova in cella dal 2015. “Non conosciamo l’identità degli altri mandanti e delle altre persone che hanno sparato“, aveva detto subito dopo il verdetto l’avvocato Fabio Repaci che rappresenta i familiari di Caccia, insistendo perché si faccia piena luce sul delitto rimasto a lungo un cold case riaperto dalle intercettazioni tramite un trojan e da elementi raccolti nel processo ‘Minotauro’ a clan della ‘ndrangheta.

Per le indagini considerate lacunose della Dda di Milano, il procedimento sull’omicidio di Caccia venne avocato dalla procura generale del capoluogo lombardo. “Questa inchiesta sulla morte di un magistrato l’unico caso nel quale l’attività processuale si è rifiutata di sentire i colleghi di Caccia e i suoi familiari”, ha ricordato Repaci. Nella sua requisitoria il pg della Cassazione Alfredo Viola aveva definito l’uccisione di Caccia come connotata da ” trame ampie e complesse”. “Caccia è stato un servitore dello Stato con una condotta fuori dall’ordinario non per i passi fatti in avanti ma per i passi indietro fatti da altri, e con le parole di Giovanni Falcone ricordo che ‘si muore perché spesso si è privi delle necessarie alleanzè”. Caccia, ha poi aggiunto Viola , “è la prima vittima di mafia al nord “. Il Pg inoltre ha sottolineato che le misure di protezione disposte per tutelare Caccia – magistrato di punta alla Procura di Torino -“purtroppo si sono rivelate non stringenti”.

 

 

 

 

 

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