31 Dicembre 1991 Strage di Palma di Montechiaro (AG) al “Bar 2000”. Tra gli avventori resta ucciso Giuseppe Aliotto.

Giuseppe Aliotto stava probabilmente bevendo un caffè al bancone del bar 2000 di Palma di Montechiaro (AG) poco dopo le 20 del 31 dicembre 1991. All’improvviso un uomo armato di una mitraglietta fece irruzione nel bar e sparando all’impazzata, incurante della presenza di altra gente oltre al suo obiettivo, Felice Allegro. Sette feriti e tre morti, tra cui lo stesso killer, in quella che le cronache definirono la Strage di Capodanno nel paese agrigentino in cui da sette anni era in corso una sanguinosa faida. Tra queste tre persone rimaste uccise dall’agguato anche Giuseppe, di soli 30 anni. (Fonte: vivi.libera.it )

 

 

(Filippo Alotto o Filippo Allotto o Giuseppe Alotto nei giornali dell’epoca)

 

Articolo da L’Unità del 2 Gennaio 1991
Strage di San Silvestro ad Agrigento
Di Wladimiro Settimelli

Commando fa irruzione in un bar, tre morti e sette feriti – Terrificante sparatoria, la sera di fine d’anno, in un bar di Palma di Montechiaro in provincia di Agrigento. Il bilancio è terribile tre morti e sette feriti. Tra loro un bambino di nove anni che ora si trova in gravi condizioni all’ospedale. Si tratterebbe di una spedizione punitiva mafiosa nell’ambito dello scontro tra i clan Ribisi-Allegro di Palma e Iocolano di Gela. Scotti invia sul posto il prefetto Finocchiaro

Il «Bar 2000» è un piccolo locale lungo il corso principale di Palma di Montechiaro. Dentro la sera della fine dell’anno mentre un gruppo di avventori stavano scambiandosi gli auguri è arrivata una spedizione punitiva mafiosa che ha fatto strage a raffiche di mitraglietta e di pistola. Il bilancio è terribile, tre morti e sette feriti tra i quali un bambino di nove anni.  Anche uno degli uomini del commando assassino è rimasto ferito dai colpi di pistola di una guardia carceraria che si trovava nel bar e che ha reagito prontamente. L’uomo più tardi dopo essere stato interrogato dalla polizia è morto nonostante un lungo intervento operatorio. Prima di cedere alle gravi ferite riportate ha fatto in tempo a raccontare di essere entrato casualmente nel bar per un caffè e di essere stato coinvolto nella sparatoria.

Non è stato creduto. Anzi cosi affermano i carabinieri era stato proprio lui a sparare con la mitraglietta che ha seminato la morte nel bar.

Il regolamento di conti sarebbe scaturito dalla lunga faida che contrappone da tempo il clan Ribisi-Allegro (questi ultimi proprietari del bar della strage a Palma) e quello degli Iocolano di Gela. La ricostruzione della sparatoria e della strage è ancora ai primi passi e passerà del tempo prima di capirne le varie fasi.

Da quello che si è potuto sapere comunque le cose sarebbero andate cosi. La sera di San Silvestro alle 20 circa nel Bar 2000» si trovava un gruppo di persone che stavano scambiandosi gli auguri per il nuovo anno. Alcuni avventori invece si trovavano vicino al bancone dopo avere ordinato il caffè. Palma di Montechiaro uno dei paesi più poveri della Sicilia negli anni Cinquanta era stato teatro di grandi lotte civili per lo sviluppo della zona (un concentrato di analfabetismo e di miseria). Poi c’era stato un po’ di decollo nell’ occupazione e nello sviluppo. Con la ricostruzione di parte del paese e delle zone limitrofe si era sviluppata purtroppo anche la mafia e la prepotenza di chi voleva arricchirsi rapidamente alle spalle del prossimo. In queste condizioni erano subito esplose faide terribili per spartirsi  la torta degli appalti e dei lavori pubblici della costruzione di strade e di scuole. Dagli anni Settanta e Ottanta il paese era poi piombato totalmente nelle mani della delinquenza organizzata con conseguenze terribili.

Già il 1 novembre 1989, nella piazza principale del paese era stato assassinato Rosario Allegro di 51 anni parente dei proprietari del «Bar 2000» contigui ai Ribisi  considerati «perdenti». Con lui era stato finito dai killer anche Traspadano Anzalone, di 54 anni. Il 20 marzo scorso con due colpi di fucile venne ucciso un altro degli Allegro Pietro di 19 anni. Ancora il 2 maggio 1991 era toccato ad un altro Allegro a cadere sotto ì colpi degli assassini Carmelo di 29 anni che passeggiava insieme a Giovanni Lombardo di 36 anni rimasto fulminato all’istante da una scarica. In provincia di Agrigento nel 1991, gli uccisi di mafia sono stati ben 76.

L’ altra sera dunque, nel bar degli Allegro si trovava un mucchio di gente. All’improvviso con alcune «sgommate» allarmanti davanti al bar, era arrivata un auto con alcune persone a bordo (quattro secondo certe testimonianze). Il commando aveva guadagnato di un balzo l’ingresso del bar e uno dei killer con una mitraglietta in mano aveva cominciato a sparare raffiche terribili all’interno. Un altro degli uomini del commando con una pistola in pugno, aveva fatto ugualmente fuoco. Filippo Alotto di trent’anni, si era subito accasciato vicino al banco. Un istante dopo anche Felice Allegro, di 60 anni padre del gestore del bar era caduto, ferito a morte in un angolo. In mezzo alla feroce sparatoria al rumore rabbioso delle raffiche e al fumo, anche gli altri avventori si erano ritrovati per terra tra i tavolini e sedie, feriti e sanguinanti. Tra di loro c’era anche il piccolo Felice Allegro di nove anni figlio di Ignazio Allegro proprietario del locale. Mentre all’interno avveniva il finimondo fuori era un fuggi fuggi generale. Nel bar comunque l’unico a non perdersi d’animo è stato un agente di custodia che si trovava in attesa di un caffè. Il giovane riparandosi dietro il bancone dopo avere estratto la pistola d’ordinanza apriva il fuoco contro il killer che  impugnava la mitraglietta della strage. Lo aveva colpito a più riprese tanto che lo sconosciuto aveva mollato l’arma e si era diretto trascinandosi a malapena verso l’auto dei complici che era subito ripartita a grande velocità. I feriti nel locale ad uno ad uno venivano intanto soccorsi e trasportati all’ospedale di Licata dove rimanevano ricoverati i tre Allegro il «patriarca» Felice suo figlio Ignazio e il nipotino Felice. Il vecchio moriva poco dopo. Il corpo di Filippo Alotto invece non veniva neanche rimosso. Il trasporto in ospedale infatti era del tutto inutile.  Il totale dei feriti ad un primo conteggio risultava essere di sette persone. Pare che qualcuno però si sia allontanato con mezzi propri. Poco dopo la svolta. Davanti all’ospedale di Camastra veniva abbandonato ferito Salvatore Caniolo di 20 anni. Dopo l’ospedale di Canicattl finiva a quello di Enna. I carabinieri lo interrogavano subito. Poi il decesso. Secondo i militari era proprio lui il killer della mitraglietta ferito dai colpi dell’agente di custodia.

Caniolo era già stato inquisito per la strage del 27 novembre del 1990 a Gela. Quel giorno sulla piazza del paese, colpite dalle raffiche di un’altra mitraglietta erano morte otto persone e sette erano rimaste ferite. Sulla strage di Palma ovviamente le indagini continuano. Saranno difficilissime.

Il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti di fronte alla nuova strage di mafia ha inviato in Sicilia l’Alto commissario per la lotta contro la criminalità prefetto Finocchiaro che sarà accompagnato dai vertici operativi della Dia forza di polizia unificata.

 

 

 

Articolo dal Corriere della Sera del 2 gennaio 1992 
Il killer assassinato dopo la strage a colpi di mitra in un bar, 2 morti e 7 feriti; una guardia carceraria ha sparato al sicario, Caniolo Salvatore 20 anni   
di Enzo Mignosi

l’ agguato la sera di San Silvestro: le vittime sono Allegro Felice 61 anni e Alotto Giuseppe 30 anni.
La violenza esplode a San Silvestro, la Superprocura palermitana avvia le indagini

PALMA DI MONTECHIARO (Agrigento) . L’ anno delle stragi di mafia si chiude con i botti di un nuovo massacro. A Palma di Montechiaro, terra di vecchi nobili e di boss rampanti, i fuochi esplodono con quattro ore d’ anticipo rispetto alla mezzanotte. Alle 8 della sera, sulla soglia del bar “2000” in via Roma, a un passo dal palazzo del Gattopardo, un giovane killer armato di mitraglietta apre i festeggiamenti con una raffica di colpi che lasciano a terra due cadaveri e sette feriti. Una guardia carceraria replica uccidendo l’ assassino con cinque pallottole partite dalla pistola d’ ordinanza. In Sicilia il ‘ 92 arriva sugli echi dell’ ennesimo eccidio, un’ esecuzione spietata che riporta sotto i riflettori questo frammento d’ Italia flagellato dalla violenza mafiosa e fa calare a Palma i giudici della Superprocura di Palermo, mentre l’ arcivescovo Salvatore Pappalardo, informato della strage poco prima della rituale celebrazione della messa di Capodanno al Comune, sfoga davanti ai giornalisti la sua amarezza. Speranza “L’ odio continua a prevalere sulla ragione . commenta il cardinale . ma non bisogna scoraggiarsi. Abbiamo, anzi, il dovere di sperare proprio per loro, per questa gente dal cuore cosi’ duro e oscurato”. Le sequenze del massacro di San Silvestro sono da Oscar della cinematografia sulla mafia. Lo squadrone di killer arriva da Gela, altra roccaforte dei boss teatro di sanguinose sparatorie tra la folla. Sono in quattro stipati dentro una Fiat Uno bianca rubata ad Agrigento un paio di settimane fa. L’ utilitaria si ferma intorno alle 20 davanti al bar “2000”. Due sicari restano in auto, gli altri due scendono e mentre il piu’ giovane, Salvatore Caniolo, vent’ anni, irrompe nel locale con il mitra in pugno, l’ altro resta di guardia per strada tenendo una pistola nascosta sotto il giubbotto. Nel locale ci sono pochi avventori. In fondo alla sala, attorno a un tavolo, discutono una decina di persone. Un summit di mafia, sospettano gli investigatori, una riunione che vede insieme i superstiti della “famiglia” Ribisi, clan decimato dalla guerra tra le cosche. L’ inferno scoppia in pochi secondi. Le sventagliate sembrano innocui petardi, ma dentro il bar si muore. Cadono Felice Allegro, 61 anni, e Giuseppe Alotto, 30. L’ assassino spara all’ impazzata. La mitraglietta, una Cobra calibro 9, vomita duecento pallottole. Rimangono feriti in maniera non grave il fratello di Allegro, Ignazio, 39 anni, gestore del locale, il figlio Felice, 9, i cugini Angelo e Gioachino Castronovo, 34 e 38 anni, Pasquale Bordino, 27, Calogero Martinello, 37, Francesco Vinci, 29. Mentre la gente cerca scampo sotto i tavolini e si rintana nel bagno, un agente di custodia estrae la sua 7,65 e risponde al fuoco. Centrato al torace, Caniolo getta l’ arma e fugge lasciandosi dietro una scia di sangue. I complici che lo raccolgono sulla Fiat Uno fanno presto ad accorgersi delle sue disperate condizioni. Lo abbandonano mezz’ ora piu’ tardi in fin di vita davanti alla guardia medica di Camastra, a venti chilometri. Bugie Da qui il killer viene portato in ambulanza prima all’ ospedale di Canicatti’ , poi a quello di Enna. All’ agente in servizio al pronto soccorso farfuglia poche parole: “Ero andato a Palma per un appuntamento con un amico. Mentre aspettavo al bar, e’ entrato un tizio che ha cominciato a sparare…”. Il poliziotto insiste, vorrebbe saperne di piu’ , ma Caniolo muore proprio mentre dice l’ ultima bugia. I magistrati sono certi che il ragazzo ha partecipato alla mattanza di Gela, la sera del 27 novembre del ‘ 90. Una spedizione con otto morti e sette feriti. Durante una perquisizione compiuta all’ alba di ieri nella sua casa, la polizia ha trovato una Magnum 357. Un killer in missione per conto delle cosche agrigentine, sostiene il sostituto procuratore Stefano Manduzio, il magistrato che ha diretto le prime indagini e che stamane passera’ l’ inchiesta al procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, capo della nuova struttura investigativa che si occupera’ anche della mafia di Agrigento.

 

 

 

Da La Stampa del 2 Gennaio 1991
San Silvestro non ferma la faida
di Antonio Ravidà
Palma di Montechiaro: muore uno dei killer, colpito anche un bambino di nove anni . Agguato nel bar, tre vittime e sette feriti

AGRIGENTO I sicari della mafia hanno insanguinato anche la notte di San Silvestro. Prima del brindisi, hanno compiuto l’ennesima strage, uccidendo tre persone e ferendone altre sette, compreso un bambino di nove anni. E’ accaduto a Palma di Montechiaro, in provincia di Agrigento, teatro da sette anni di una sanguinosa lotta fra clan costata la vita già a cinquanta persone. Il killer che con una mitraglietta ha sparato sull’uscio di un bar nel centro del paese è rimasto ucciso nell’agguato: lo ha colpito un agente carcerario che era nel locale e che è rimasto illeso. Si chiamava Salvatore Caniolo, 20 anni, indicato dagli inquirenti come un «picciotto» della cosca Iannì-Iocolano di Gela. Il giovane è spirato all’alba di Capodanno, nell’ospedale di Enna. I complici dell’agguato, lo avevano abbandonato ormai ferito gravemente davanti alla guardia medica di Camastra, un paesino a pochi chilometri da Palma di Montechiaro dove un mese e mezzo fa in un altro agguato fu eliminato Salvatore Curto, capogruppo del psi alla Provincia di Agrigento, accusato di associazione mafiosa. Interrogato dalla polizia, il giovane ha provato a difendersi fino all’ultimo, prima di spirare con un polmone perforato. Caniolo ha sostenuto di essersi trovato per caso nel bar al momento della sparatoria. Ha aggiunto di essere andato a Palma di Montechiaro per incontrare un amico che poi l’aveva piantato. Ma alcuni testimoni hanno inchiodato Caniolo indicandolo come il killer che ha fatto irruzione nel bar «Duemila» di via Roma, spalleggiato da complici all’esterno. Caniolo, colpito dalla guardia carceraria, aveva lasciato cadere sul pavimento la mitraglietta con cui aveva compiuto la strage. I complici avrebbero sparato numerosi colpi per coprirsi la fuga su una Fiat «Uno» rubata dieci giorni fa ad Agrigento e che hanno incendiato in un’impervia località di campagna fra Camastra e Palma di Montechiaro dopo essersi «disfatti» del ferito. Gli inquirenti non hanno dubbi: nel mirino della spedizione c’era la famiglia Allegro che gestisce il bar «2000». E il primo a cadere è stato Felice Allegro, 60 anni, seguito da un cliente, Filippo Allotto di 30. Per loro non c’è stato niente da fare. I feriti non sono gravi: il bambino Felice Allegro e suo padre Ignazio di 35 anni (rispettivamente nipote e figlio dell’ucciso) Francesco Vinci di 25, Pasquale Bordino di 27 e Gioachino Castronovo di 38, sono stati ricoverati in ospedale nella vicina Licata. Gli altri due – Angelo Castronovo, 34 e Calogero Martinello, 37 – sono stati trasferiti all’ospedale «San Giovanni di Dio» ad Agrigento perché al pronto soccorso licatese il servizio medico era andato in tilt per il contemporaneo arrivo di tanti feriti. Per quanto sospettati di essere invischiati nella guerra di mafia mai cessata in paese, essendo amici della famiglia Ribisi (decimata nello scontro con i clan vincenti di Palma, alleatisi con quello Iannì-Iocolano di Gela), gli Allegro sono incensurati. Lo era pure Felice Allegro. E Salvatore Caniolo? «Un killer gelese», ha risposto senza esitazioni uno degli investigatori della Criminalpol che, con le squadre mobili di Agrigento e Caltanissetta e i carabinieri, sta cercando di venire a capo di questo nuovo sconvolgente capitolo criminale, ennesima testimonianza dell’irriducibile vitalità della mafia. La mitraglietta sarà esaminata in laboratorio a Roma: e si sospetta che abbia sparato anche il 27 novembre del 1990 nella strage di Gela (otto morti e sette feriti) per la quale Caniolo era stato a lungo interrogato. Gli investigatori adesso indagano sugli Allegro, sulle loro parentele e amicizie, sui loro affari. E naturalmente anche sui loro nemici, che non sono pochi né di scarso peso. Se il clan Ribisi è stato scompaginato (i due superstiti di cinque fratelli sono fuggiti da tempo), gli Allegro hanno subito anch’essi perdite consistenti. Il primo novembre del 1989 un fratello minore di Felice Allegro, Rosario di 53 anni, che da un po’ di tempo si atteggiava a boss, fu assassinato in piazza con un amico. Il 20 marzo scorso fu il turno di Pietro Allegro, 19 anni, figlio minore di Rosario, mentre il 20 maggio scorso è caduto il loro cugino Carmelo Allegro di 29 anni sorpreso con Giovanni Lombardo di 35 nel centro di Agrigento. Nella provincia di Agrigento il 1991 si è chiuso con il pesante bilancio di 76 omicidi, moltissimi specie se rapportati alla popolazione, inferiore al mezzo milione di abitanti fra capoluogo e paesi. E di questa spirale di violenza nel segno della mafia, Palma di Montechiaro – dove ieri è arrivato il capo della procura distrettuale antimafia Pietro Giammanco, procuratore di Palermo – è diventato il simbolo.

 

 

 

Da La Repubblica del 2 Gennaio 1992
STRAGE NEL PAESE DEL GATTOPARDO
di Attilio Bolzoni

PALMA DI MONTECHIARO – Un giuda ha cercato vendetta nella sera di San Silvestro. L’ ultimo dell’ anno per uccidere i superstititi di una banda di sciacalli, i sopravvissuti di una guerra passata alle cronache come la “faida del Gattopardo”. Summit di mafia con tradimento nel paese di Palma di Montechiaro, il volto della Sicilia più povera e miserabile, dove le case sembrano bunker e le strade sono fogne a cielo aperto. Summit con strage finale in un “famigerato” bar che si affaccia sulla grande piazza, massacro a colpi di mitraglia a pochi metri dalle scalinate che portano nell’ antico palazzo dei Tomasi di Lampedusa. Trenta secondi per uccidere e per venire uccisi dentro una sala piena di fumo, tra le pallottole che rimbalzano sui muri, tra le bottiglie di vino che vanno in frantumi, tra gli uomini che gridano e che sparano. Trafficanti e assassini A terra sono rimasti due morti, sette feriti e 200 bossoli. Ma anche uno dei killer s’ è trascinato a fatica fuori dal bar, i suoi complici l’ hanno caricato su un’ auto e abbandonato davanti a una guardia medica. Un paio d’ ore dopo è morto pure lui. Quello che è avvenuto alle 21,40 del 31 dicembre dell’ anno scorso nel bar “2000” di Palma di Montechiaro è l’ atto finale di uno scontro tra due gang di trafficanti e di assassini, un regolamento di conti firmato da uno “specialista”, uno chiamato da fuori per cancellare per sempre il potere dei vecchi boss del paese. Ricordate la strage di Gela? Ricordate quando un paio di sicari entrarono in una sala giochi sparando nel mucchio e uccidendo otto ragazzini? A Palma è andata così, perché uno di quei killer di Gela l’ altra sera ha “lavorato” in trasferta, è arrivato in paese insieme ad altri due sicari, ha infilato il caricatore nella sua mitraglietta calibro 9, ha aspettato dietro l’ angolo del bar solo qualche minuto. E poi ha spalancato la porta, ha camminato per tre metri lungo un corridoio buio, ha superato le tre cabine del telefono, ha superato anche il bancone pieno di cannoli di ricotta, è passato sotto la scala a chiocciola e ha cominciato a sparare. Sventagliate di mitra contro tutti, sventagliate di mitra ad altezza d’ uomo mentre lui, Salvatore Caniolo, trenta anni appena compiuti, se ne stava a gambe larghe al centro della sala con le spalle coperte dai suoi compari. Il primo bersaglio del sicario era Felice Allegro, il proprietario del “2000”, un mafioso fratello di mafiosi e imparentato con altri mafiosi. Prima raffica, primo morto. Accanto al vecchio Felice c’ era il figlio Ignazio. Un proiettile lo centra alla spalla ma Ignazio non si preoccupa della ferita, si preoccupa del bimbo che sta con lui, suo figlio Felice. Lo spinge, lo butta sotto un tavolo, lo salva. Un attimo dopo un proiettile sfiorerà anche il braccio di Felice, 9 anni, “probabilmente l’ unico innocente dentro quel bar”, racconteranno i primi testimoni che entrano al “2000” molto tempo dopo la strage. Ma il bimbo non era proprio l’ unico innocente, dentro la sala in quel momento c’ era anche una guardia carceraria, un uomo che si trovava lì per caso e del quale per ovvie ragioni di sicurezza non è stata rivelata l’ identità. E’ lui che ferisce a morte Salvatore Caniolo quando il killer di Gela ammazza un altro uomo. Si chiama Filippo Allotto, un pregiudicato tornato dalla Germania dove era emigrato tanti anni fa. Spara, spara ancora Salvatore Caniolo, spara fino a quando le sue gambe si piegano e le sue mani lasciano la calibro 9, fino a quando il sangue gli sporca la giubba di pelle. Dalla pistola d’ ordinanza dell’ agente di custodia parte un colpo preciso, al torace. Questa, almeno, la versione ufficiale fornita dalla polizia. C’ è chi dice che di quelle pallottole della 7,65 della guardia carceraria ne sono state trovate nel bar cinque o sei, ma nessuno conferma. Un mistero nel mistero, si saprà qualcosa di più dopo le prime perizie balistiche. Quando il sicario venuto da Gela è fuori dal bar “2000” nella sala due uomini sono immobili e altri sette si rotolano a terra. C’ è anche Angelo Castronovo, un altro mafioso amico di Felice Allegro e dei Ribisi, i cinque “terribili fratelli” che fino a due anni fa dettavano legge a Palma di Montechiaro. Ma Salvatore Caniolo è già lontano, sdraiato sul sedile posteriore di una Fiat Uno che corre sulla provinciale che porta a Camastra. E’ ferito, i suoi due complici sanno che ne ha per poco. E lo scaricano davanti alla guardia medica di Camastra quando non sono ancora le dieci di sera, poco prima di bruciare la Uno nelle campagne intorno a Licata. Salvatore Caniolo è moribondo quando i primi poliziotti lo scortano verso l’ ospedale di Enna. L’ ultima notte del killer, l’ ultima notte e l’ ultimo atto di omertà prima di morire. Con un filo di voce racconta a un commissario: “Degli amici mi avevano dato un appuntamento in quel bar, sono entrato, ho visto un killer, ho sentito degli spari e poi sono fuggito…”. Sulla mitraglietta calibro 9 hanno trovato le impronte di Salvatore Caniolo, nella sua casa di Gela i carabinieri hanno sequestrato una pistola, una 357 Magnum. Un killer che viene da Gela rimescola le carte negli equilibri di mafia di Palma di Montechiaro. “Apre un nuovo fronte questo scambio di manovalanza criminale tra le province di Agrigento e di Caltanissetta”, spiega Peppe Cucchiara, il giovane capo della squadra mobile di Agrigento che è stato il primo poliziotto del commissariato di Ps di Palma. Ma perché far regolare i conti proprio da un “estraneo”, perché ingaggiare un sicario della cosca degli Iocolano di Gela per far fuori gli Allegro e i Castronovo? Gli investigatori non lo spiegano, come d’ altronde non forniscono molti particolari sulla “riunione” che era in corso la sera di San Silvestro in una sala del bar “2000”. C’ è solo una voce che gira, la voce di un summit che qualcuno ha “pubblicizzato”, che qualcuno ha fatto sapere ai nemici. Una storia di tradimenti Una storia di tradimenti per intrappolare Felice Allegro, una fedina penale con sopra una grande “M”, la classificazione per riconoscere i mafiosi. Un suo fratello, Rosario, due anni fa fu ammazzato sulla grande piazza davanti al bar. Così come un paio dei fratelli Ribisi, quelli accusati di avere assassinato il giudice Antonino Saetta. Mafia contro mafia ma con uno “stile” nuovo, la strage “alla gelese”, la carneficina a tutti i costi per avvertire un paese intero, per far capire a tutti che quella gente non comanda più. E questo è proprio il rebus della provincia di Agrigento, di paesi come Palma, come Camastra, dei piccoli comuni che circondano Canicattì. Nel 1991 qui ci sono stati 76 omicidi, un numero spaventoso di morti caduti in una non sempre decifrabile guerra di cosche. Un contesto che da oggi sarà esplorato dalla nuova procura distrettuale antimafia. E’ arrivato ieri sera a Palma il procuratore capo di Palermo Piero Giammanco accompagnato dal suo vice Vittorio Aliquò, l’ inchiesta sull’ ultimo massacro mafioso è nelle loro mani.

 

 

 

Articolo da L’Unità del 3 Gennaio 1991 
Strage col marchio di Cosa Nostra
Di Walter Rizzo

Agrigento, l’assalto per imporre il nuovo «governo» mafioso –  La strage di Palma di Montechiaro sarebbe l’ultimo attacco delle cosche vincenti contro i superstiti della famiglia Ribisi . Doveva essere probabilmente  un’azione spettacolare per dimostrare il potere dei clan vincenti che ormai governano il paese sotto la protezione dei boss di Canicattl. Uno dei feriti si è aggravato e i medici temono per la sua vita. Ad Agrigento un super vertice delle forze dell’ordine.

PALMA DI MONTECHIARO. Il benvenuto lo dà un vistoso cartello. Sta prima dell’ingresso del paese, montato in bella vista. Faceva pubblicità al mega bazar, allestito proprio all’ingresso di Palma di Montechiaro dai fratelli Ribisi. I cinque fratelli terribili che nella buona e nella cattiva sorte , hanno segnato il tragico destino della città dei Tommasi di Lampedusa. La terra dei Gattopardo affacciata sul canale di Sicilia, di fronte alla costa africana, è stata terra di conquista per una famiglia dalle ambizioni sfrenate e feroci tanto da sfidare patriarchi di Cosa Nostra.

Una sorta di furibondo assalto al cielo a caccia di ricchezza e potere, sino allo scontro finale, fino a subire i colpi micidiali dell’organizzazione e che, negli ultimi anni ha gettato sul terreno tutto il peso del suo potenziale bellico. Adesso dei cinque fratelli terribili in vita ne restano solo tre, uno però sarebbe assolutamente fuori dal giro. Gli altri due, Pietro ed Ignazio, sono latitanti, braccati dalle forze dell’ordine e dalle lupare delle cosche avversarie. Il «messaggio di Capodanno», inciso con il piombo della mitraglietta sarebbe diretto proprio a loro due.

«La sera di S. Silvestro non si è sparato per ammazzare solo Felice Allegro … l’obiettivo della strage è un altro». A Palma di Montechiaro la lettura del delitto è chiarissima anche se nessuno parla. Palma di Montechiaro, sotto una facciata di normalità è quasi disincanto a due giorni dalla strage che ha lasciato sul terreno tre morti e sette feriti, uno dei quali, Antonino Castronovo è in fin di vita all’ospedale Garibaldi di Catania, ha già trovato la sua verità.

La strage, si dice a mezza bocca, sarebbe l’ultima terribile dimostrazione di forza dei boss vincenti che ormai a Palma comandano sotto la protezione dei due capi famiglia di Canicattì Antonio Ferro e Antonio Guarneri.

Salvatore Caniolo, il killer che ha fatto fuoco, aveva un ordine preciso e lo avrebbe eseguito con fredda determinazione se non fosse stato colpito a morte dall’agente di custodia che si trovava casualmente nel bar. Salvatore doveva sterminare qualunque cosa si muovesse nel piccolo locale di via Diaz. Un assalto per far capire che la stella dei fratelli Ribisi adesso è tramontata per sempre. Un delitto con un’impronta di tipo terrorista, difficilmente deciso in ambito locale, e del quale difficilmente i vertici di Cosa Nostra potevano essere all’oscuro. Nell’Agrigentino e nel Nisseno ormai c’e bisogno di stabilità. Per adesso le cosche, sotto la guida ferrea dei vecchi capi di Canicattì, che hanno la loro influenza su tutta la provincia agrigentina, con solidi legami con i corleonesi e con i clan di Gela, sembrano concentrarsi sul traffico d’armi e di droga. Su questa costa esistono decine e decine di approdi, nessuno può controllarli tutti. Qualunque cosa entri clandestinamente nell’isola può farlo, con assoluta sicurezza, solo su questo versante. Per la mafia è un affare di miliardi, ma solo se i legami e i rapporti tra le varie organizzazioni reggono. Palma di Montechiaro, e la provincia di Agrigento, assumono dunque un ruolo di importanza «strategica».

La strada che porta al paese sale ripida, scavata in un costone di roccia. La prima piazza, proprio di fronte al Duomo, è presidiata da una pattuglia della polizia. Una coppia di sposi, con una decina di invitati al seguito, scende le scale barocche e passa, ostentando indifferenza davanti ai mitra spianati. Solo uno sguardo ai poliziotti, poi vanno via in auto strombazzando. Più in là il corso con i cartelli gialli che invitano a visitare la casa del «Duca Santo», un antenato dell’autore del Gattopardo, innalzato alla gloria dell’altare nel 1986.

I bar sono semivuoti. Le finestre di un circolo sono spalancate con le tendine bianche che ondeggiano. Non si vede nessuno. Per lunghi anni il presidente è stato il capo bastone dei Camalleri, tutt’oggi in quelle salette al primo piano Vincenzo Camalleri è «persona rispettata». Si va ancora avanti e si arriva a quella che qualcuno chiamò ormai la via crucis. Non ci sono le «stazioni» della passione di Cristo. Ma le tappe della faida che, lungo questa strada, ha segnato il suo percorso di sangue. In  una delle sue traverse, via Tukory, è cominciato l’inferno il 4 giungo dell’84 con l’omicidio del vecchio boss Calogero Sambito. La via crucis continua, con un nome e una data, pronunciata quasi ad ogni angolo. «Sto qui da quattro mesi e devo ancora farne venti… sto contando i giorni come facevo quando ero militare – il gestore di uno dei bar della strada parla mentre serve gli aperitivi – ho preso in gestione il locale per due anni, ma me ne sono già pentito. L’altra sera, quando ho saputo cosa era successo qui accanto ho pensato seriamente di non tornare più. Ho buttato fuori gli avventori ho chiuso per due giorni. Sono ritornato solo oggi all’alba per fare le pulizie e riaprire. Spero solo di poter andare via al più presto».

Nel cielo ronza un elicottero. Punta su Agrigento. Nel pomeriggio c’è un super vertice in prefettura, con super giudici, super prefetti e super magistrato. C’e anche l’Alto commissario. Parlano tutti di coordinamento nelle indagini. Ma capita che in uno stesso ristorante  si ritrovino a pranzo carabinieri del nucleo operativo e poliziotti. Il coordinamento è tale che evitano persino di salutarsi.

 

 

 

Articolo dal Corriere della Sera del 3 gennaio 1992 
Strage firmata a Palermo
un’ alleanza con le cosche agrigentine e gelesi per sterminare il clan Ribisi Allegro; la DIA e l’ Alto commissariato indagano sulla nuova geografia dei clan siciliani
di Enzo Mignosi

PALMA DI MONTECHIARO. Padrini del capoluogo dietro l’ eccidio a San Silvestro

PALMA DI MONTECHIARO (Agrigento) . L’ ombra della mafia palermitana sulla strage di San Silvestro. Il sospetto di un coinvolgimento dei “corleonesi” negli affari e nei crimini che hanno trasformato la provincia di Agrigento in un campo di battaglia. A Palma sbarca al gran completo l’ intelligence antimafia, guidata dall’ Alto commissario Angelo Finocchiaro e dal vicedirettore della “Dia” Gianni De Gennaro, mentre si azzardano le ipotesi piu’ suggestive per spiegare il rigurgito di violenza sfociato nel massacro di Capodanno, tre morti e sette feriti in un piccolo bar dove i superstiti d’ un clan mafioso allo sbando tenevano un summit. La prima sensazione e’ che lo scontro tra le “famiglie” Madonia e Ianni’ .Iocolano (oltre cento morti a Gela in un paio di anni) sia uscito dai confini nisseni e abbia risucchiato da un lato le cosche agrigentine, dall’ altro i boss di Palermo. Ma se cosi’ si spiega il coinvolgimento del superkiller gelese Salvatore Caniolo in un’ operazione decisa per sterminare gli ultimi esponenti del clan Ribisi.Allegro, da anni braccato da squadroni di assassini, resta da capire il ruolo dei padrini palermitani. Solo un intervento in difesa della vecchia mafia di Palma, rappresentata dai potentissimi Di Vincenzo? E’ , comunque, l’ asse Gela.Agrigento la principale novita’ affiorata dopo quarantott’ ore di indagini. Caniolo, boia giovanissimo ma gia’ bene addestrato, sarebbe stato mandato in missione a Palma dalla cosca Ianni’-Iocolano, per conto della quale aveva gia’ sparato nel novembre del ‘ 90 nella strage che vide cadere a Gela otto ragazzi. Un killer in trasferta in una terra piena di assassini. Probabilmente la necessita’ di suggellare un’ intesa tra cosche mafiose con un’ operazione di alta spettacolarita’ ma ricca di insidie, come dimostra la imprevedibile reazione della guardia carceraria, pronta a rispondere al fuoco e a ferire a morte Caniolo. Una prima conferma al sospetto che l’ assassino abbia mentito sui motivi della sua presenza nel bar della strage, pochi attimi prima di spirare, si e’ avuta ieri dopo l’ esame del “tampon kit” compiuto sulla sua mano destra dagli esperti del servizio centrale della polizia scientifica, arrivati nella mattinata da Roma. Sul palmo sono state trovate tracce di polvere da sparo, il segno inequivocabile della partecipazione di Caniolo al massacro. Per una certezza acquisita, un mistero ancora tutto da svelare: il ruolo dell’ agente di custodia che, secondo una versione ufficiale, avrebbe sparato cinque o sei colpi di pistola contro il killer, costringendolo a una fuga che e’ servita solo a limitare le perdite del clan Allegro, non certo a salvare la sua vita. “Occorre approfondire le conoscenze sulle persone che si trovavano dentro il locale e stabilire con precisione quali fossero, tra i tanti colpiti dalle pallottole, i veri bersagli”, dice il capo della procura distrettuale palermitana, Pietro Giammanco, giunto a Palma con il suo vice, Vittorio Aliquo’ , e con il sostituto Giusto Sciacchitano per partecipare alla riunione convocata nel pomeriggio di ieri alla prefettura di Agrigento dall’ Alto commissario Finocchiaro. “A Palma non c’ e’ soltanto un problema di ordine pubblico o di polizia . ha detto Finocchiaro .. Il mio predecessore, Domenico Sica, aveva redatto un dossier nel quale si evidenziavano condizionamenti in tutti i settori della vita sociale e infiltrazioni negli uffici e negli enti pubblici, a partire dal Comune. Quella di Palma e’ una vecchia storia che la strage di San Silvestro ha reso attuale”. Dei sette feriti, uno soltanto, Antonino Castronovo, e’ in gravi condizioni con un polmone sforacchiato da una pallottola. Fuori pericolo gli altri, compreso il piccolo Felice Allegro, 9 anni, colpito di striscio al braccio da un proiettile.

 

 

Ruoppolo Teleacras – La mafia del Gattopardo

Caricato in data 13/mar/2010

Il servizio di Angelo Ruoppolo Teleacras Agrigento del 12 marzo 2010. La Direzione distrettuale antimafia di Palermo ipotizza la recrudescenza mafiosa a Palma di Montechiaro. Requisitoria: “condannate Ignazio e Nicola Ribisi” .
Ecco il testo:
Un tempo il “Paese del Gattopardo”, del Principe Tomasi di Lampedusa e delle monache di clausura, è stato anche la cittadina del fratelli cosiddetti “terribili” . I commercianti Ribisi, roccaforte storica di Cosa nostra a Palma di Montechiaro, nel cuore di Salvatore Riina. Prima il capo bastone è stato Salvatore Di Vincenzo, inteso “Totu Nasu”. Poi lo è stato Calogero Sambito, che i Ribisi uccidono nel giugno dell 84. Fuori le famiglie Farruggio, Sambito, Bordino e Di Vincenzo. L’ ascesa irresistibile, quanto infuocata dai colpi d’ arma da fuoco, dei fratelli Ribisi, legati alla famiglia Allegro, e nelle mani del capo provincia, Giuseppe Di Caro, di Canicattì. Poi tra gli ultimi anni 80 ed i primi 90 le carte sul tavolo subiscono un radicale e violento ribaltone. Ecco Giovanni Calafato, il fratello Salvatore, Croce Alletto, poi anche Domenico Pace, Paolo Amico, Gaetano Puzzangaro e Giuseppe Croce Benvenuto, che saranno, insieme a Giovanni Avarello di Canicatti, i killer del giudice Livatino. Loro sono un “Paraccu”, un gruppo impegnato nelle rapine. Poi il salto di qualità, la Stidda, le alleanze e gli agguati, lo sterminio delle famiglie storiche di Cosa nostra, come i Ribisi di Palma di Montechiaro. Il clan dei Ribisi è sospeso, a causa della virulenza della faida scatenata dagli Stiddari, che poi saranno decimati anche loro, non dai proiettili ma dai pentiti. Adesso la Direzione distrettuale antimafia di Palermo e la Squadra mobile di Agrigento ipotizzano che si trami per risollevare le sorti dei Ribisi. Infatti, il 18 settembre scorso è stato arrestato lui, Nicolò Ribisi, 30 anni, di Palma di Montechiaro, titolare di un supermercato, ritenuto il nuovo capo famiglia delle cosche palmesi. In alcuni pizzini sequestrati nel covo di Bernardo Provenzano, in contrada Montagna dei cavalli, a Corleone, un cugino di Ribisi, Giuseppe Bisesi, di Termini Imerese, presenta a Provenzano Nicolò Ribisi come “uomo d’onore, persona di massima fiducia, componente di una famiglia storica” . I pentiti agrigentini Maurizio Di Gati e Giuseppe Sardino hanno indicato Ribisi come il capo della famiglia mafiosa di Palma di Montechiaro. Agli atti dell’ inchiesta anche i pedinamenti e le intercettazioni della Squadra mobile di Agrigento. A conclusione della requisitoria, il Pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, lui, Fernando Asaro, ha chiesto la condanna a 12 anni per Nicolò Ribisi, ed a 14 anni per lo zio, Ignazio Ribisi, 52 anni, anche lui arrestato il 18 settembre. I due imputati, difesi dagli avvocati Salvatore Russello e Daniela Posante, sono giudicati con il rito abbreviato innanzi al Giudice per le udienze preliminari del Tribunale di Palermo, Giuseppe Sgadari.

 

 

 

 

 

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