4 Settembre 2006 Napoli. Ucciso Salvatore Buglione, dipendente comunale, perché si era ribellato ad una rapina nell”edicola della moglie.
In quattro aggrediscono Salvatore Buglione e lo accoltellano tra i giornali. Aveva addosso mille euro. Perciò non voleva darla vinta ai suoi rapinatori. Ha gridato «Andatevene», ha cercato di difendersi ma loro erano in quattro, forse cocainomani. E lo hanno ucciso con una sola coltellata, un colpo secco, al petto.
Così si è accasciato nel suo sangue un uomo inerme, alle 20.30 del 4 settembre 2006, in via Pietro Castellino, buio pesto ma passaggio frequente di auto e passanti. Salvatore Buglione, 51 anni, soprannominato Sasà, è la vittima dell´ennesima ferocia dei predatori di Napoli. Lo hanno ucciso per sfregio, per punire la sua ribellione. Buglione lavorava come dipendente comunale, ma sua moglie, Antonella Ferrigno, era ed è titolare di un´edicola che da generazioni apre su quell´angolo della zona collinare. Sasà ogni sera arrivava, dopo il proprio orario di ufficio, nella rivendita dell´Arenella per aiutare la moglie a chiudere bottega e per difenderla da eventuali aggressori prima di raggiungere la loro casa sul litorale domizio.
Salvatore Buglione lascia la moglie e due figli: la primogenita, una studentessa universitaria, ed un ragazzo adolescente, piccola promessa del calcio giovanile.
Le indagini della squadra mobile della questura di Napoli, coordinate dalla procura della Repubblica, hanno portato al fermo di quattro giovani, di età compresa tra i 17 e i 25 anni.
Fonte: Fondazione Pol.i.s.
Articolo da L’Unità del 6 Settembre 2006
Napoli FarWest: tre omicidi in poche ore
Un edicolante ammazzato a coltellate per rapina, la camorra che «salda» i suoi conti.
Gli studenti: riprendiamoci i quartieri. E domani fiaccolata in piazza contro la criminalità
di Massimiliano Amato
BALORDI che uccidono un edicolante a coltellate per poche decine di euro, camorra scatenata che riprende a sparare: il gran mattatoio Napoli ha riaperto i battenti dopo la pausa estiva. E la società civile, o quel ch’è rimasto in una città sempre più cinica e indifferente di fronte all’ondata di violenza che rischia di travolgerla, tenta l’ennesima mobilitazione: «Una grande manifestazione da organizzare nei prossimi giorni, alla riapertura delle scuole», incita Andrea Pellegrino, leader del coordinamento degli studenti napoletani
contro la camorra. «Liberiamo Pianura dalla criminalità e dalla paura. Insieme possiamo difendere il nostro quartiere e le nostre imprese», fa eco da tutt’altra parte della metropoli il coordinamento delle associazioni antiracket, impegnato a fronteggiare l’emergenza rapine e estorsioni inunrione in cui il controllo del territorio è esercitato solo dalle grandi organizzazioni criminali.
I numeri della ripresa settembrina alla catena di montaggio del terrore parlano da soli. Tre omicidi nel giro di poche ore, tra il pomeriggio e la serata di lunedì. Il più odioso all’Arenella, zona residenziale meta delle scorribande criminali di gruppi di disperati delle periferie.
Una coltellata, una sola al cuore: così è morto durante un tentativo di rapina Salvatore Buglione, 51 anni, dipendente comunale che, nelle ore di libertà, sostituiva la moglie nell’edicola di famiglia in via Pietro Castellino. Buglione era un collaboratore di Giuseppe Gambale, tra i fondatori della Rete e di numerosi movimenti antimafia, oggi assessore alla Legalità: «Poche ore prima di essere ucciso era stato nel mio ufficio
– ricorda Gambale. – Saperlo morto per mano di persone che è difficile definire ci lascia esterrefatti».
L’assessore punta l’indice contro l’indulto e sottolinea: «Ilproblema è il controllo del territorio. Occorre una scossa in più. Non abbiamo bisogno di leggi speciali, ma di far funzionare meglio quello che abbiamo». Lo scrittore Marcello D’Orta – autore di Io speriamo che me la cavo e amico dell’edicolante ucciso – dice provocatoriamente che di fronte a questi fatti l’unica legge speciale che sarebbe necessaria sarebbe quella
di andare via tutti da Napoli.
Intanto per ricordare Buglione, i sindacati degli edicolanti hanno organizzato per domani una fiaccolata.
Di matrice camorristica, ma non inquadrabile in nessuna delle tante faide, l’omicidio avvenuto a Casandrino poche ore prima della rapina dell’Arenella. Alfonso Pezzella, 56 anni, artigiano, fondatore del circolo locale del Pdci, è stato massacrato a colpi di lupara per un debito non pagato a una gang di usurai.
Il lunedì nero di Napoli era stato aperto da un’esecuzione camorristica in piena regola. Nove colpi di pistola per abbattere Bruno Mancini, pregiudicato di Secondigliano, in risposta all’omicidio, avvenuto sabato, di un esponente del clan Prestieri, alleato dei Di Lauro. Il segnale, forse, che la faida che ha insanguinato la periferia nord occidentale è ripresa.
Articolo di La Repubblica del 17 Settembre 2006
Napoli, il delitto dell’edicolante
fermati i quattro presunti killer
NAPOLI – Gli agenti erano sulle loro tracce fin dalle prime ore seguite alla tragedia che ha sconvolto uno dei quartieri più noti di Napoli: il Vomero. Ma alla fine sono caduti nella rete. Hanno dunque un volto ed un nome i presunti autori della tentata rapina costata la vita a Salvatore Buglione, il dipendente comunale ucciso con una coltellata nell’edicola dove aiutava la moglie la sera del 4 settembre scorso in via Pietro Castellino, nella zona collinare di Napoli. Le indagini della squadra mobile della questura di Napoli, coordinate dalla procura della Repubblica, hanno portato nella notte al fermo di quattro giovani, di età compresa tra i 25 ed i 17 anni: tra loro c’è anche Domenico D’Andrea, 23 anni, soprannominato ‘Pippotto’, numerosi precedenti ed una “carriera criminale” avviata sin da quando, appena tredicenne era a capo di una banda specializzata in furti di motorini.
I quattro – oltre a D’Andrea, sono stati fermati tre fratelli, Pasquale e Antonio Palma, di 25 e 22 anni ed un minorenne, di 17 anni – sono sospettati di essere gli autori dell’omicidio di Salvatore Buglione. Ma già si annunciano polemiche perchè, dalle prime ricostruzioni, “Pippotto” e i fratelli Palma erano tornati in libertà perchè beneficiari dell’indulto.
Tutti residenti nel quartiere Piscinola, sono stati fermati nella notte: due nelle loro abitazioni, uno in strada, un altro si nascondeva in casa della fidanzata. I particolari dell’operazione sono stati illustrati dai procuratori aggiunti Paolo Mancuso e Sandro Pennasilico, dal sostituto Gabriella Gallucci e dal capo della squadra mobile della questura di Napoli, Vittorio Pisani.
“Questo risultato – ha sottolineato il procuratore aggiunto Paolo Mancuso – è il frutto di uno sforzo investigativo straordinario della squadra mobile e della questura di Napoli. Questa pista è stata fin dal primo momento al centro dell’attenzione, ma sono state vagliate tutte le ipotesi. E’ una indagine sulla quale dobbiamo ancora lavorare per definire l’esatta dinamica dei fatti e le responsabilità individuali”. Per questo, oltre agli interrogatori, sarà importante – ha sottolineato Mancuso – “la collaborazione della gente. Abbiamo la necessità di valorizzare i contributi di collaborazione che abbiamo già avuto e che ci hanno consentito di arrivare a questo risultati e quelli che ci saranno perchè risultano indispensabili per dare una ricostruzione completa di quella che è stata la dinamica e le responsabilità. Da quello che abbiamo appurato, si è trattato di un episodio improvvisato”.
Massimo riserbo su chi materialmente ha colpito mortalmente Buglione, “perchè l’indagine è ancora in corso”. Quanto alla definizione delle personalità dei quattro, Pisani ha sottolineato che “definendoli balordi si riassume il loro modo di essere. Si tratta di un risultato investigativo importante raggiunto grazie alla massima sinergia tra questura e Procura della Repubblica. Le indagini continuano per rafforzare il quadro probatorio. Speriamo, con questo risultato, di poter contribuire a dare giustizia e fiducia alla parte civile di questa città”.
Articolo dell’11 Febbraio 2008 da faidadiscampia.blogspot.it
BOTTE A PIPPOTTO: APERTE DUE INCHIESTE
La quinta Corte d’Assise di Napoli ha inviato gli atti del processo a carico di Pasquale ed Antonio Palma, accusati di aver partecipato all’omicidio dell’edicolante Salvatore Buglione, alla Procura di Napoli e alla Procura di Roma. Nel primo caso è stato aperto un fascicolo d’indagine per violenza privata, per ora contro ignoti, dopo le denunce degli imputati di aver avuto botte durante gli interrogatori che sono seguiti agli arresti. Violenze consumatesi in un commissariato di polizia e attuate dagli agenti che poche ore prima gli avevano stretto le manette ai polsi. L’altra indagine aperta a Roma, che è competente per tutte le indagini dove sono coinvolti magistrati napoletani, è stato aperta contro lo stesso Pippotto per il reato di calunnia contro i pm che hanno coordinato il lavoro investigativo. D’Andrea in aula ha affermato che la colpa del «trattamento subito negli interrogatori era colpa dei magistrati che hanno raccontato il falso». Nella penultima udienza in Corte d’Assise si era presentato proprio quel Pippotto che qualche mese prima era stato condannato all’ergastolo nonostante avesse scelto il rito abbreviato, ed iniziò a sparare a zero contro chi lo aveva arrestato. Raccontò di essere stato torturato, di essere stato abusato dalle forze dell’ordine. Lo fece davanti alle telecamere della trasmissione Rai “Un giorno in Pretura” e davanti ad un’aula affollatissima del Tribunale. «Sono stato picchiato e legato, poi sono stato torturato e ancora mi hanno messo un imbuto in bocca e mi hanno fatto bere acqua e sale ». Racconti da film dell’orrore ma che vanno tutti ovviamente verificati nel corso dell’inchiesta aperta dalla Procura. «Io non ricordo niente di quello che ho detto quella notte e ritratto tutte le accuse che ho fatto». Poi fu la volta di Antonio Palma che invece si avvalse della facoltà di non rispondere. Per lui parlò la moglie. In lacrime e pallida riferì alla Corte che suo marito il giorno dell’arresto sarebbe stato violentemente picchiato e che a riprova ci sarebbero i vestiti che quel giorno indossava. «Una tuta con degli schizzi di sangue e una maglietta bianca con delle orme. Se volete fare luce su quanto accaduto guardate quei vestiti», ha detto. Allora la Corte si è ritirata in camera di consiglio, è riuscita ed ha emesso l’ordinanza: quei vestiti vanno visionati. Allora la donna uscì dall’aula, prese una busta e mostrò alla Corte quella tuta e quella maglia che aveva poco prima descritto. Infine fu la volta di Pasquale Palma (l’unico ad essere stato assolto). Lui raccontò che il giorno dell’omicidio era con la moglie e i genitori della moglie a guardare una casa che avrebbero voluto prendere in affitto: quell’alibi ha retto. Per quell’efferato delitto consumatosi in via Pietro Castellino sono stati condannati a 23 anni Antonio Palma, all’ergastolo Domenico D’Andrea, a 10 anni in secondo grado il minorenne del gruppo mentre è stato assolto Pasquale Palma, l’uomo ha anche lasciato il carcere. I tre probabilmente non avevano programmato quella rapina. Passarono di lì e notarono quell’edicola ancora aperta. Fu in quel momento che agirono. Uno di loro estrasse un coltello e colpì al fianco Domenico Buglione lasciandolo al suolo agonizzante. Quell’omicidio scosse Napoli. L’edicolante Sasà lo conosceva tutta l’Arenella. Era un dipende comunale e la sera, dopo il lavoro aiutava la moglie nell’edicola di via Pietro Castellino.
Articolo del 22 Maggio 2010 da videocomunicazioni.com
NAPOLI, PARCO AGRICOLO DEDICATO A SALVATORE BUGLIONE INAUGURATO AL RIONE ALTO
Salvatore Buglione è il dipendente comunale ucciso durante una rapina all’edicola della moglie in via Pietro Castellino. A distanza di quattro anni dalla tragedia, il comune di Napoli ha voluto intitolargli il nuovo parco agricolo didattico, inaugurato questa mattina dal sindaco Rosa Russo Iervolino, dall’assessore comunale all’Ambiente Rino Nasti e dal presidente della V Municipalità, Mario Coppeto
Si tratta dell’unica area verde del Rione Alto. Esteso su di un’area di circa mille metri quadri, il parco al suo interno contiene orti urbani e una fontana che può diventare all’occorrenza un palco per spettacoli all’aperto.
Articolo del 14 Settembre 2014 da lettera43.it
Pippotto e i ragazzi bruciati di Napoli
A 9 anni la prima rapina. Ora è all’ergastolo. La tragedia dei guaglioni di strada.
di Enzo Ciaccio
Nei vicoli, tra i guaglioni in delirio, si è sempre vantato per quelle tre rapine consumate in un’ora. Aveva 16 anni, quel pomeriggio da film e pistole. Ma si sentiva già bello tosto, e scafato. Raccontano che il primo «giochino» illegale lo aveva commesso a cinque anni: un passaporto (falso), nascosto con così tanta cazzimma dietro allo specchio nel salotto di casa, che i poliziotti impazzirono per molte ore prima di riuscire a scovarlo.
A NOVE ANNI LA PRIMA RAPINA. A nove anni, in quarta elementare, consumò la prima rapina armato di una pistola giocattolo brandita con mano da adulto. A 13 anni, durante un’altra rapina, venne ferito alle gambe da un carabiniere in borghese. Poi, l’esplosiva e incredibile carriera di precoce malavitoso. Come un gangster americano. Anzi, come la sua trista caricatura, colorata da troppe guasconate (una volta, a 16 anni, scappò dalla comunità fino a casa della sorella perché aveva voglia di spegnere le candeline). E da troppe fughe senza ritorno (otto le rocambolesche evasioni dagli istituti minorili di mezza Italia).
LA SFILZA DI REATI. Piccolo di statura, il fisico esile e mingherlino, gli occhi vispi sempre puntati in segno di sfida contro l’interlocutore, a 16 anni era uno scricciolo che aveva già accumulato sulle spalle 40 reati uno più grave dell’altro. E costituiva un mito da emulare per i coetanei ad alto rischio di Piscinola, il rione popolare a ridosso di Scampia dove è nato e cresciuto in una famiglia col papà Salvatore in carcere in Francia e la mamma Anna che ha messo al mondo con uomini diversi altri cinque fratelli e una sorella.
L’ERGASTOLO NEL 2006. Domenico D’Andrea, in arte Pippotto («Per colpa di come è fatto il mio naso, signor giudice, la cocaina non c’entra», spiegava serafico ai processi), oggi ha 34 anni e sta scontando la pena dell’ergastolo perché ritenuto colpevole di aver ammazzato a coltellate in via Castellino al Vomero, il 4 settembre 2006, Salvatore Buglione, un dipendente comunale che si trovava per caso nell’edicola di proprietà della moglie.
Pippotto, al processo, aveva ammesso di essere alla guida dell’auto dei rapinatori, negando qualsiasi partecipazione alla rapina finita male. Ma i giudici non gli hanno creduto. E, letto il curriculum giudiziario da vero e proprio enfant prodige del crimine, hanno sancito che non meritasse alcuno sconto di pena. Ergastolo. E amen per Pippotto, che dovrebbe concludere prigioniero tra quattro mura la sua esistenza da ex ragazzino esile ma un po’ matto che nessuno ha mai saputo (o voluto) educare al mondo.
DUBBI SUL PROCESSO. Eppure, sostengono coloro che all’epoca del processo si erano dichiarati innocentisti nei suoi confronti, i dubbi sulla colpevolezza dell’ex mini-rapinatore per l’omicidio Buglione restano molti, forti, consistenti.
Pippotto, il simbolo dei ragazzini bruciati di Napoli
Al di là dei discutibili esiti giudiziari, per chi si occupa di minori la storia di Pippotto rappresenta comunque l’emblema della malasorte che quasi sempre travolge i ragazzi ad alto rischio di Napoli, che finiscono al cimitero perché magari non si fermano all’alt dei carabinieri o perché un altro guaglione del clan rivale spara loro sotto casa. O finiscono in galera, perché – tra una bravata e un crimine – prima o poi lo Stato chiede loro di pagare il conto.
L’AIUTO INUTILE DELLE ASSOCIAZIONI. «Pippotto», conferma un educatore a Lettera43.it, «è l’emblema dei ragazzi sbagliati di Napoli e di quanto sia complicato, e a volte velleitario, aiutarli». E c’è chi, in tribunale, spiega: «Nei confronti del ragazzo di Piscinola la società non si è mai dimostrata distratta o avara di sostegno e consigli. Anzi, dai dirigenti dell’Unicef (che lo hanno difeso anche rispetto alle non rare manipolazioni da parte dei mass media) ai servizi sociali, dalle comunità di recupero ai tribunali per i Minori fino alle associazioni specializzate, i tentativi per far sì che fosse sottratto alle lusinghe della malavita sono stati molteplici e disperati nel corso degli anni. Purtroppo, non è bastato. Anzi, è stato tutto inutile».
IL PONY E LA POLONIA. «Mi piace la play station, rubo per comprare gli sfizi e i videogiochi», ha raccontato Pippotto da bambino ai cronisti che lo assediavano. E poi, sognando una sorte meno disgraziata: «Quando papà uscirà di galera cambieremo vita: ce ne andremo tutti in Polonia, la mia famiglia starà bene, io alleverò i pony e sarò contento».
Giubbotto di pelle, ma troppo largo sui suoi fianchi da bambino denutrito. Gel nei capelli, coltello a serramanico, una passione sfrenata per orologi, braccialetti, collane. E poi la sua voglia carnale, atavica per i soldi. Come una febbre: ingorda, vorace, insaziabile.
Pippotto in Polonia non c’è mai arrivato. Per lui, il sogno è nato già svanito. Raccontano che un giorno gli venne regalato un pony, di cui era innamorato, ma presto fu necessario sottrarglielo perché la povera bestia stava per morire sfiancata per l’uso smodato che il ragazzino – entusiasta – ne stava facendo.
LE PUNIZIONI DEL BOSS. Pippotto orfano di qualsivoglia senso della misura. E di limiti, e di regole. Niente Polonia, per Pippotto il finto mini-gangster. Però, nei vicoli della violenza, aveva imparato a non piangere mai. E non pianse neanche quando quella volta il boss – per punirlo di una rapina tentata contro suo figlio – lo costrinse a infilare le dita nella presa di corrente elettrica.
Suo padre, in carcere in Francia, di lui diceva compiaciuto che si comportava un po’ come Zorro, nel senso che «sì, è vero, mio figlio ruba. Ma poi con i soldi del bottino porta gli amici al ristorante».
Come Zorro. O come Topolino, perché – raccontavano – «è sempre stato bravissimo a rubare le automobili».
Nel furto d’auto Pippotto era davvero un asso. Ma non ne rubava una alla volta: no, lui sapeva rubarne due di seguito, estasiando gli amichetti e il papà suo primo tifoso.
«LA SCONFITTA DEL SISTEMA DI PREVENZIONE». Per i cercatori di folklore, Pippotto era un terno al lotto. Bastava farlo parlare. E regalava titoli per i giornali. Gemma Tuccillo, giudice per i minori che a lungo si è occupata di lui, ha definito la sua vicenda «una straordinaria sconfitta del sistema di prevenzione».
«Non l’ho mai ritenuto capace di compiere il salto di qualità diventando un vero boss», ha sottolineato il giudice. E poi: «Pippotto si sentiva un semplice ragazzino che giocava. Forse, era davvero convinto che a lui non sarebbe mai capitato di diventare grande».
Un giorno in pretura – I tre fratelli
Andato in onda:03/09/2011
Primo e secondo grado dei processi celebrati a Napoli per l’omicidio di Salvatore Buglione, detto Zazà. Il delitto è avvenuto durante un tentativo di rapina all’edicola di proprietà della moglie, dove Buglione si recava la sera per la chiusura. Il primo a essere arrestato, Domenico D’Andrea detto Pippotto, rapinatore fin dalla giovane età, confessa la partecipazione alla rapina e chiama in causa i tre fratelli Palma. Pippotto durante il processo di primo grado sosterrà che la sua confessione non era stata spontanea, bensì estorta con la tortura. Lo stesso Antonio Palma confessa, ma anche lui sosterrà la tesi delle violenze subite dalle forze dell’ordine. La questura di Napoli secondo questa tesi sarebbe stata spinta dalla necessità di trovare rapidamente un colpevole dato l’allarme sociale che la apina e l’uccisione avevano suscitato. L’unico a non confessare e a raccontare la sua versione in aula è Pasquale, il maggiore dei tre fratelli Palma, versione nella quale ha un ruolo fondamentale l’alibi fornito per il giorno della rapina.