7 Ottobre 1986 Palermo. Claudio Domino, bambino di 11 anni, fu ucciso con un colpo di pistola inferto in fronte a bruciapelo.

Foto da:  Liberanet.org

Claudio Domino, bambino di 11 anni, fu assassinato vicino alla cartolibreria gestita dalla madre. Un giovane in moto e con il volto coperto da un casco chiamò il bambino per nome mentre stava giocando e, dopo averlo avvicinato, gli puntò la pistola in fronte sparandogli a bruciapelo. Claudio sarebbe stato ucciso perché aveva visto confezionare alcune dosi di eroina in un magazzino. Cancemi ha riferito che, proprio sulla base di quell’indizio, Riina incaricò tutti i capimandamento di “svolgere indagini”. Un’inchiesta conclusa a tempo di record: il 20 dicembre 1986 scomparve Salvatore Graffagnino, 52 anni, titolare del bar davanti al quale era avvenuto l’agguato. Alcuni confidenti riferirono alla polizia che l’uomo sarebbe stato sequestrato, nascosto in un bagagliaio di un’auto e condotto davanti al boss del quartiere. Sotto tortura Graffagnino ammise di essere il mandante dell’omicidio e rivelò il nome del killer. Un tossicomane che sarebbe stato poi eliminato con una overdose di eroina. (Corriere della Sera del 4 Ottobre 1994)

 

 

 

Tratto da: liberanet.org

Nel 1986, durante il maxiprocesso, viene ucciso un bambino di 11 anni di nome Claudio Domino. Era il figlio del titolare dell’impresa di pulizia incaricata di pulire le aule dell’aula bunker del carcere L’Ucciardone di Palermo dove si celebrava il primo maxiprocesso alla mafia.
L’ipotesi che circola sui giornali e tra gli inquirenti è che i famigliari del piccolo Claudio siano stati avvicinati dagli imputati o dai loro sodali all’esterno per ottenere qualche favore, per esempio per aprire un canale di comunicazione tra imputati e organizzazione, e che di fronte a un loro rifiuto, sia scattata la rappresaglia mafiosa. Nel corso di un’udienza l’imputato Giovanni Bontade si alza nella sua gabbia, chiede la parola al presidente e dice: «Presidente, noi vogliamo fugare ogni sospetto[…] Noi rifiutiamo l’ipotesi che un simile atto di barbarie ci possa solo sfiorare. Noi siamo uomini, abbiamo figli. Esterniamo il nostro dolore alla famiglia di Claudio».
Un anno dopo Giovanni Bontade viene ucciso assieme alla moglie. Nel 1989 il pentito Francesco Marino Mannoia, con Buscetta uno dei pentiti storici della mafia siciliana e ritenuto tra i più attendibili, rivela che uno dei motivi per cui Bontate venne ucciso fu che con quella dichiarazione, con quel “noi…”, aveva indirettamente ammesso l’esistenza dell’organizzazione mafiosa.

 

 

 

Fonte:  archivio.unita.news
Articolo del 10 ottobre 1986
Tanti bimbi attorno a quella bara
di Saverio Lodato
Dolore e sgomento di una città ai funerali del piccolo Claudio Domini
Nell’aula bunker i mafiosi si dissociano

Giovanni Bontade, anche a nome degli altri boss sotto processo, si proclama estraneo all’orribile crimine –  Alle esequie un’omelia che non nomina la mafia  – Sulle  indagini  finora  soltanto voci – Si  riparla del racket  delle estorsioni  –  Un appalto  miliardario.

PALERMO –  Ricordate Dalla Chiesa quando riponeva le sue speranze nei liceali dagli occhi puliti? Ironia del destino: Palermo, per salvarsi, ora si trova stretta a migliaia di bimbi.  Ancora più piccoli di quelli nel quali credeva il generale. Applausi per uno di loro, Claudio, che aveva 11 anni.  Lacrime, dolore su Palermo che nel passato ebbe almeno il conforto della parola chiara del suo cardinale.  Oggi Invece è più sola che mai.  Ma reagisce.  Da sola. E questa solitudine le pesa.  Lo Stato parla, alza la voce. Ma resta lontano.

Chi invece questo delitto lo ha commesso, la mafia, ora si accorge di sprofondare nella melma.  Vede riflessa nell’enorme sgomento suscitato dal delitto tutta la sua mostruosità. E forse, per la prima volta, ha vergogna, se non schifo di sé stessa. Ecco allora, nell’aula-bunker, dove inesorabile scorre il maxi-processo a Cosa Nostra, levarsi dalle gabbie un grido di dissociazione. Non siamo stati noi. Non siamo stati noi, tengono a precisare l detenuti sotto processo, e chiedono un minuto di raccoglimento. A nome della popolazione carceraria parla un capo storico, Giovanni Bontade, considerato dai giudici uno dei personaggi   chiave per capire le mappe mafiose negli anni 80.

È autorevole, è l’ispiratore della commissione per i diritti del carcerato che all’interno dell’Ucciardone più volte in questi anni ha fatto sentire la sua voce.  Parla Bontade. «Siamo uomini, abbiamo figli, sappiamo il dolore della famiglia e non possiamo permettere che un atto di simile barbarie ci possa sfiorare». Poi, il processo riprende.

È bene, a questo punto, essere chiari: tutti hanno detto e scritto, è stata la mafia; nessuno ha detto o ha scritto che i colpevoli andavano ricercati nell’aula-bunker, il che è una cosa molto diversa. I palermitani non possono che prendere atto del documento della dissociazione.  È importante, comunque, che ciò stia accadendo di fronte al cadavere di un bambino di 11 anni. Che almeno di fronte a questo limite, che qualcuno ha voluto valicare, si sia tutti d’accordo sul concetto di «barbarie».

A San Lorenzo, cosa sia la barbarie, in queste ore lo stanno imparando in fretta. In giro, con penna e taccuino, a far domande scontate ai passanti; signora, signore, cosa ne pensa dell’uccisione di un bambino di 11 anni?  Che vuole che le dica – rispondono in coro – è un delitto cieco nella sua totale assenza di fini e di moventi, Poi, incontro Salvatore (quanta fatica per strappargli almeno quel nome) attorno ai 25 anni, occhiali a specchio, jeans, è un cuoco ma disoccupato. Ecco un punto di vista che merita di essere riportato: «Vede signore, la mafia da noi c’è sempre stata, soprattutto in questa borgata qui a San Lorenzo».

Indica il punto dov’è caduto Claudio, dove ora è stato riversato un tappeto di fiori bianchi. «Questa non è più mafia è un’altra cosa. È delinquenza, è eroina, è voler far soldi su soldi ad ogni costo», dice fuori dai denti. E la mafia buona invece qual era? «Quella che ti ritrovava la mula quando qualche balordo te la rubava di notte. Queste cose me le ha raccontate sempre mia nonna».  In via Fattori ieri mattina, la sequenza dell’orrore si è ripetuta decine di volte.

È accaduto quando i poliziotti hanno ricostruito il punto in cui era posteggiata, secondo testimonianze sempre più concordi, la motocicletta del killer. O la traiettoria seguita dal proiettile. O quella della caduta del bambino. Scene macabre.  Come ripugnante sarebbe giunta più tardi la notizia che il compagno di giochi di Claudio, G. M. era stato sottoposto al guanto di paraffina. Responso negativo, ovviamente. Ma un bambino infilato in un gabinetto della polizia scientifica era un’altra delle cose che in questa vicenda quasi bisognava inventare.

In prima A, dove Claudio quest’anno ha frequentato solo qualche giorno, venti bambini stupendi guardano in silenzio l’insegnante di matematica. Sanno ciò che è successo, un mazzo di fiori è posato su un banco vuoto. «Sono attoniti – dice l’insegnante – impietriti, statue immobili fin dall’inizio della lezione. Attendono di andare al funerale».

È mezzogiorno. Sole a picco su San Lorenzo. Migliaia di bambini, di 7, 8 10 anni accompagnano per l’ultima volta il loro piccolo eroe. Che è dentro una bara bianca, ricca di fregi d’oro, portata a spalla da alcuni   lavoratori Sip e da due familiari. Nel monastero di San Vincenzo un pugno di magistrati che combatte la mafia è rappresentato dai giudici istruttori Antonino Caponnetto e Paolo Borsellino; dal procuratore capo Vincenzo Pajno. C’è la delegazione comunista guidata dal segretario regionale Colajanni. Una dell’Antimafia.  Prefetto e questore. Un’omelia senza storia e senza nerbo quella di padre Giuseppe Guerra. Non parlerà mai di mafia. Né potrà farlo leggendo il messaggio di scuse del cardinale Pappalardo (non è venuto) perché il messaggio, quella parola dura di condanna, non la contiene.

Le Alfette blu si dirigono ora verso la delegazione comunale, per una veloce ricognizione sul campo. Si apprende che durante l’incontro con la commissione Antimafia, a porte chiuse, il capo del governo regionale manifesta tutto il suo disappunto per l’immagine di una regione che è caduta così in basso. L’alto commissario Boccia chiama invece in causa «lo strapotere dei corleonesi».

Le indagini?  A che punto sono le indagini? Corrono le voci, una fra le altre: quattro anni fa, il padre di Claudio si sarebbe aggiudicato un appalto da due miliardi e mezzo per la fornitura di «auto-compattatori» alla Nettezza urbana. Ritornano, puntuali, le ipotesi di un’iniziativa del racket delle estorsioni. SI indaga anche sulla Tecno-sud, un’altra impresa di pulizie della famiglia Domino, del quale il padre questa volta non era proprietario, ma socio. Piste, una dietro l’altra, che si aggiungono a quelle iniziali, che sin qui non hanno portato a nulla.  Volteggia in alto un elicottero, sempre uno.

 

 

 

Articolo da La Repubblica del 15 marzo 1987 
PALERMO, FINISCE IN CELLA PER L’ OMICIDIO DI CLAUDIO
di Attilio Bolzoni

PALERMO Un piccolo morto di una grande guerra silenziosa, la lotta per conquistare la Piana dei Colli, quell’immensa distesa di giardini ormai senza più padroni. Claudio Domino, il bambino di undici anni ucciso con un proiettile in mezzo agli occhi la sera del 7 ottobre, è anche lui una vittima delle cosche. Era un testimone pericoloso: aveva forse visto uccidere un paio di ragazzi della borgata.

L’ inchiesta sul terribile delitto di un bambino dopo sei mesi sembra orientata verso una pista precisa: lo scontro tra i nuovi clan della droga, giovanissimi picciotti che tentano di sostituirsi ai boss che sono stati rinchiusi in carcere e che ora siedono nell’aula-bunker del maxi-processo alla mafia.

Il caso Domino è forse ad una svolta con l’arresto di un ragazzo, Gabriele Graffagnino, per detenzione di una cinquantina di proiettili 7,65, lo stesso calibro della pistola che ha ucciso Claudio. Chi è Gabriele Graffagnino? E perchè entra nelle indagini sull’uccisione del bambino?

La sua storia è legata alla guerra di successione mafiosa di San Lorenzo, una battaglia iniziata un anno fa in silenzio: uccidono tutti con il metodo della lupara bianca, il sequestro senza ritorno, l’eliminazione dei nemici senza lasciare mai una sola traccia. E Claudio Domino, negli ultimi giorni dell’agosto ’86, avrebbe assistito al rapimento di Sergio Di Fiore e Paolo Salerno, due trafficanti della Piana dei Colli. Tutti i particolari di una discussione accesa e la successiva morte dei due giovani corrieri sono contenuti in un rapporto che i funzionari della Squadra mobile, un mese fa, hanno consegnato al sostituto procuratore della Repubblica Dino Cerami. Un dossier che ricostruisce cos’è accaduto una sera di agosto su un marciapiedi di via Fattori, una strada di palazzi nuovi nel cuore della borgata di San Lorenzo.

Sergio Di Fiore e Paolo Salerno stavano parlando con Giuseppe Graffagnino, il fratello del ragazzo arrestato ieri notte. Tutti e tre appartenevano ad una gang ma, alla fine dell’estate, si erano appropriati di una grossa partita di eroina tentando di fare un bidone ai capi della cosca. Quella sera stavano appunto discutendo su un marciapiedi di via Fattori, tra il bar-rosticceria dei Graffagnino e la cartolibreria dei genitori di Claudio Domino. Gli investigatori sospettano che Claudio abbia visto o sentito qualcosa. Due di loro, Sergio Di Fiore e Paolo Salerno qualche ora dopo sparirono per sempre, Giuseppe Graffagnino si salvò invece garantendo ai complici della gang la restituzione dell’eroina.

Passa un mese e Giuseppe Graffagnino entra all’Ucciardone accusato di duplice omicidio, passa un altro mese e un giovane con il casco nero uccide Claudio Domino.

Sera del 7 ottobre, un paio di minuti prima delle 21.00, borgata deserta. Una motocicletta sfreccia nel quartiere e si ferma ad un centinaio di metri dalla cartolibreria dei Domino. Claudio passeggia con due amichetti dall’altro lato della strada. Ehi, tu, vieni qui…. Il killer chiama, il bimbo si avvicina, un solo colpo alla fronte. Claudio è morto. La motocicletta un attimo dopo scompare tra gli alberi del viale che porta allo Zen, uno squallido ghetto verso il mare con una altissima concentrazione di corrieri e trafficanti di eroina.

Per la morte del bambino le indagini seguono mille indizi: il padre titolare di una ditta che gestisce l’appalto delle pulizie all’aula-bunker, vecchie vicende di mafia, regolamenti di conti tra rapinatori. Nulla. Ma sessantuno giorni dopo l’agguato, ecco che il padre di Giuseppe Graffagnino scompare misteriosamente anche lui: un’altra lupara bianca. Perchè tutti questi morti? Cosa succede a San Lorenzo? Gli investigatori non riescono a decifrare subito le mosse dei clan, ma contano altri due scomparsi nella borgata: l’impiegato di banca Francesco Nicoletti e il capocantiere Francesco Vassallo.

A San Lorenzo l’atmosfera è incandescente e la Mobile sguinzaglia i suoi segugi. Un lungo lavoro di intelligence e un primo rapporto arriva sulla scrivania del magistrato. Un mese di silenzio e, ieri notte, a sorpresa una perquisizione nel bar-rosticceria dei Graffagnino. In un cassetto c’erano una cinquantina di proiettili calibro 7,65. Perchè Gabriele Graffagnino nascondeva quelle pallottole? Sa qualcosa sull’uccisione di Claudio? Il ragazzo naturalmente non parla. Ma, il caso Domino secondo gli investigatori si può spiegare attraverso le cinquanta pallottole, la scomparsa di Salvatore Graffagnino e l’arresto del figlio Giuseppe.

Chi sono i Graffagnino? Commercianti incensurati, uomini senza passato. Come tanti altri trafficanti in libertà di San Lorenzo. Sono loro i protagonisti del nuovo assalto alla città, bande che tentano di gestire il business della droga e occupare gli spazi vuoti lasciati dai boss di Cosa Nostra. Dopo la scomparsa di Rosario Riccobono (si racconta che è morto per avvelenamento con altri sedici picciotti durante una cena di rappacificazione che era stata organizzata proprio da Tommaso Buscetta) non c’ è più ordine nella borgata. I luogotenenti, arrestati uno dopo l’altro, sono adesso all’Ucciardone. Chi è fuori non risponde agli ordini dei padrini: gli esperti in cose di mafie prevedono già una feroce guerra subito dopo la sentenza del maxi processo.

La morte di Claudio Domino ha rappresentato infatti una sorta di rottura tra i trafficanti in libertà e quelli in galera. Il giorno dopo l’uccisione del bambino, i boss dell’Ucciardone sono usciti allo scoperto. Per la prima volta, come facevano i terroristi nelle aule di Corte di assise alla fine degli anni Settanta, uno di loro, Giovanni Bontade, ha letto nel bunker un documento: Non siamo stati noi ad uccidere Claudio e condanniamo…. A quel punto racconta un investigatore aspettavamo che a San Lorenzo tornasse la pace, aspettavamo una risposta per l’omicidio di un bambino che non faceva certo comodo ai trafficanti arrestati. E invece…. E invece a San Lorenzo si continua a morire di lupara bianca.

 

 

 

 

Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 4 giugno 1987
Ecco perché uccisero Claudio
di Saverio Lodato
A Palermo  la morte del piccolo fu decisa in un summit della mafia.
Tutti i partecipanti a quella riunione sono «spariti» .

A  decidere l’uccisione del piccolo Claudio Domino fu il clan dei Graffagnino (grossi trafficanti di eroina di San Lorenzo) ormai decimato da arresti ed uccisioni. Il piccolo fu assassinato perché –  a torto – considerato primo responsabile di un’operazione dei carabinieri che un mese prima del delitto avevano arrestato quattro componenti del clan. Poi, l’operazione terra bruciata decisa dalla mafia.

È stato forse il primo e l’unico summit della storia di mafia che si è concluso con la decisione di uccidere un bambino di 11 anni.  Si svolse in uno scantinato di San Lorenzo, qualche giorno prima di quel maledetto 7 ottobre ‘86 quando un killer solitario – giunto in via Astorino a bordo di una moto giapponese di grossa cilindrata, una pistola 7,65 con colpo in canna – concluse la sua «missione» alle 21,10, lasciando sul selciato il piccolo Claudio Domino.

Il «tribunale» si riunì, a due passi, in un edificio poco distante la via Fattori, dove abitualmente si incontravano trafficanti di eroina e spacciatori, balordi di borgata e anche aspiranti boss. Dove – gli investigatori ormai non hanno più alcun dubbio al riguardo – era stato installato un deposito di droga.

In quel periodo – prima dell’estate ’86 – questa era una borgata «tranquilla», difficilmente scalfita dai blitz di polizia e carabinieri, posta sotto il rigidissimo controllo delle cosche corleonesi. In quel periodo un clan è più attivo degli altri. È il clan dei Graffagnino. Personaggio di spicco Salvatore Graffagnino, 44 anni, soprannominato «Totuccio», titolare del bar Sole, in via Pastorino 42.

Gli investigatori, subito dopo l’uccisione di Claudio, lo ritennero in qualche modo coinvolto nel barbaro delitto. Era «ben inserito nella mafia dei colli», garantiva una buona fetta azionaria nel business, in nome e per conto proprio delle famiglie di San Lorenzo.

Sono decisive le date ai fini di questa ricostruzione che gli inquirenti oggi a Palermo, reputano la più attendibile per capire retroscena e moventi dell’uccisione di Claudio.

Il 25 agosto ‘86 scompaiono a San Lorenzo, Sergio Di Fiore e Paolo Salerno. Due ragazzi, uno aveva 25 anni, l’altro ne aveva 26. Entrambi appartenevano al clan dei Graffagnino. Entrambi erano frequentatori assidui di quei depositi di eroina, dove buste di merce per il valore di decine e decine di milioni passavano di mano in nome di un mercato scellerato. I due ragazzi però sbagliano, decidono di far la parte del leone, si appropriano di oltre un chilo di eroina. A decidere la loro scomparsa è lo stesso clan.

Nulla di inedito o di insolito in un quartiere che conosce a memoria le regole del gioco. Si verifica però un imprevisto. I carabinieri della compagnia di San Lorenzo (settembre ‘86) indagando sulla scomparsa dei due ragazzi arrestano quattro persone accusandole di sequestro di persona, occultamento di cadavere e traffico di stupefacenti. Sono il figlio di Salvatore Graffagnino, Giuseppe di 20 anni; Rosario Meschisi, 23 anni; Gaetano Russo, 30 anni; Giuseppe Campisi, di 26 anni.

I Graffagnino a questo punto vogliono correre ai ripari. Il clan ha un prestigio che nel quartiere va mantenuto ad ogni costo. Chi ha spinto i carabinieri su quella pista, si chiedono gli uomini in quel momento nel mirino nelle indagini?

II sospetto cade sulla famiglia Domino e il piccolo Claudio entra in scena senza saperlo. È un frugoletto curioso che come tutti i ragazzini della sua età scorrazza tranquillamente nel quartiere appena esce da scuola. Lui giocava proprio lì a due passi dai depositi del clan Graffagnino (parecchie le testimonianze al riguardo), dove gli investigatori sono convinti che ci fosse l’eroina, mentre i suoi genitori, intanto, gestivano la cartolibreria e il negozio di sanitari, ancora una volta in via Fattori.

Claudio apriva saracinesche, persiane, porte socchiuse, fra cento e cento casupole che spesso a San Lorenzo nascondono misteri. Tre giorni prima di venire assassinato Claudio aveva perduto gli occhiali, annaspava visibilmente, si fermava più del solito di fronte a certi posti per vedere meglio forse dando così la sensazione di aver visto troppo da vicino uno di questi misteri.  Un primo rapporto di polizia (riferito a suo tempo dai giornali) lo definisce infatti involontario «testimone».

La   polizia irrompe nel quartiere San Lorenzo alle 5 di mattina del 13 marzo ‘87. Nel bar dei Graffagnino vengono trovati proiettili calibro 7,65 con ogni probabilità uguali a quelli adoperati dal killer solitario, scattano le manette per Gabriele Graffagnino di 22 anni. un altro figlio del boss, non per il delitto Domino, bensì per detenzione abusiva di armi. Ma questa è storia recente.

Intanto, all’indomani dell’operazione dei carabinieri, si svolge il summit decisivo di San Lorenzo. Il clan si riunisce perché vuol capire come i carabinieri sono giunti fino a loro. Non corre buon sangue fra i Graffagnino e Antonino Domino padre del bambino. Piccole liti di quartiere certo. Ma anche uno scontro in piena regola quando entrambi – pochi mesi prima del delitto – erano entrati in rotta di collisione per l’acquisto di una tabaccheria, ancora una volta nella borgata di San Lorenzo.  Moneta contante –  80 milioni –  è Graffagnino che risulta vincitore.

Il 7 ottobre muore Claudio. Il 5 dicembre scompare il capo clan Giuseppe Graffagnino. Alle 6 di mattina dell’indomani –  6 dicembre ‘86 – viene assassinato a colpi di pistola Giuseppe Genova, uomo di fiducia di Graffagnino, appartenente allo stesso clan, quasi certamente tra i protagonisti del summit.

Cos’è accaduto nel frattempo? È accaduto che gli alti vertici di mafia sono preoccupati per ciò che sta accadendo nella borgata. II clan che ha deciso di uccidere Claudio rischia di mettere a repentaglio un giro di affari vertiginoso.  La mafia passa all’offensiva eliminando questa volta, essa stessa, i mandanti (la scomparsa di Graffagnino e l’uccisione di Genova).  Ma non tutti.  Gli investigatori cercano ancora di conoscere l’intero elenco dei partecipanti alla riunione.

Viene eliminato anche il killer solitario (ipotesi avanzata ieri dall’Unità) che ha eseguito l’ordine di uccidere Claudio.  Ormai in questa storia si cercano soltanto cadaveri, ammettono gli investigatori, un deposito di eroina che probabilmente non c’è più, mentre si avverte netto e impalpabile ma non per questo meno concreto l’intervento dell’alta mafia.

Si spiegherebbe cosi l’incendio, la notte scorsa, nella cartoleria dei Domino. Superfluo sottolineare che altri avvertimenti, altre minacce sono stati lanciati. Non si esclude d’altra parte che Antonio Domino, papà di Claudio abbia continuato a cercare, muovendosi nella borgata, la verità sull’uccisione del figlio.

Quella tanica di benzina piazzata di fronte al suo negozio, oggi, a distanza di tanti mesi da quell’orrendo delitto, equivale ad un biglietto che se qualcuno lo avesse scritto potrebbe suonare così: «Dimentichi signor Domino, la storia ormai è chiusa davvero. I suoi protagonisti mandanti ed esecutori non  fanno più parte del mondo dei vivi…».

 

 

 

 

Articolo del Corriere della Sera del 4 Ottobre 1994
Riina ordinò : scannate gli assassini del bimbo
di Franco Nuccio
Domino Claudio un bambino di 11 anni venne ucciso a Palermo con un colpo di pistola alla testa il 7 ottobre 1986 all’insaputa della mafia perché aveva visto all’opera degli spacciatori.

PALERMO . L’ordine arrivò da Totò Riina in persona: «Scoprite gli assassini di Claudio Domino e scannateli». A svelare i retroscena di quello che fino a oggi era ancora un “giallo” è stato Salvatore Cancemi, boss pentito della commissione mafiosa. Cancemi ha confermato una serie di “voci” che gli investigatori avevano già appreso da fonti confidenziali. Claudio Domino, il bambino di 11 anni assassinato a Palermo con un colpo di pistola in testa il 7 ottobre 1986, sarebbe stato “vendicato” dalla cupola.

«Ricordo, racconta il pentito, che nel corso del primo maxi processo è avvenuto l’omicidio del piccolo Claudio Domino e che in quell’occasione tutti fummo incaricati di scoprire gli autori, tant’è che la stessa commissione si è data carico di punire i colpevoli con la morte». Sarebbe stato il tribunale di Cosa Nostra, dunque, a emettere una sentenza esemplare, subito eseguita, nei confronti dei responsabili di un delitto che aveva scosso profondamente l’opinione pubblica. La decisione di punire i colpevoli, tuttavia, non sarebbe stata presa dalla mafia per improbabili motivazioni etiche ma perché era stata commessa una inammissibile violazione di una delle regole fondamentali del “codice” mafioso: non si uccide un uomo, meno che mai un bambino, senza l’autorizzazione del capo mandamento nel cui territorio avviene l’omicidio o della stessa commissione.

Quel delitto provocò inoltre una forte ondata di indignazione in tutto il Paese, proprio mentre Cosa Nostra stava giocando una delle sue partite più difficili con lo Stato: quella del maxi processo. Non a caso, proprio durante un’udienza nell’aula bunker, il boss Giovanni Bontade chiese la parola al presidente Alfonso Giordano. «Noi condanniamo questo barbaro delitto, disse Bontade, che provoca accuse infondate anche nei confronti degli imputati di questo processo». Una nota concordata con Pippo Calò e con gli altri boss detenuti per dissociarsi da chi aveva compiuto un delitto così “controproducente” per l’organizzazione.

Claudio Domino, figlio di un dipendente della Sip che era anche titolare di un’impresa che gestiva in appalto i lavori di pulizia dell’aula bunker, fu assassinato vicino alla cartolibreria gestita dalla madre. Un giovane in moto e con il volto coperto da un casco chiamò il bambino per nome mentre stava giocando e, dopo averlo avvicinato, gli puntò la pistola in fronte sparandogli a bruciapelo. Claudio sarebbe stato ucciso perché aveva visto confezionare alcune dosi di eroina in un magazzino. Cancemi ha riferito che, proprio sulla base di quell’indizio, Riina incaricò tutti i capimandamento di “svolgere indagini”.

Un’inchiesta conclusa a tempo di record: il 20 dicembre 1986 scomparve Salvatore Graffagnino, 52 anni, titolare del bar davanti al quale era avvenuto l’agguato. Alcuni confidenti riferirono alla polizia che l’uomo sarebbe stato sequestrato, nascosto in un bagagliaio di un’auto e condotto davanti al boss del quartiere. Sotto tortura Graffagnino ammise di essere il mandante dell’omicidio e rivelò il nome del killer. Un tossicomane che sarebbe stato poi eliminato con una overdose di eroina.

 

 

 

Fonte: cosavostra.it
Articolo del 7 ottobre 2017
Claudio Domino. Il fratellino che non ho mai avuto
di Francesco Trotta

Claudio Domino. Un colpo di pistola in fronte. Uno, sparato a bruciapelo. Il corpo che cade esanime a terra. Ma il tonfo non è sordo come ci si aspetta, perché quel corpo che cade non appartiene a un adulto. E non fa abbastanza rumore. Sarà per questo che la Storia, quella con la “s” maiuscola, si è dimenticata di lui. La storia però è anche questa. È quella di un un bambino, undici anni appena, che viene ucciso, freddato un giorno di trent’anni fa. La morte assomiglia ad un’esecuzione, solitamente riservata ai mafiosi. Perché si uccide così un piccolo innocente? Che colpe avrebbe potuto mai avere quel bambino di nome Claudio? Nessuna infatti, se non quella di essere nato nel Paese sbagliato.

Claudio Domino è un bambino come tutti gli altri, abita a San Lorenzo, quartiere di Palermo, gioca a pallone in strada con gli amici, va a scuola. Fa, in altre parole, quello che fanno tutti gli altri bambini. Il 7 ottobre 1986 Claudio sta giocando con altri due amici vicino a casa, in via Fattori, lì dove la madre gestiste una cartoleria. Un uomo in motorino si avvicina al gruppetto di bambini, chiama Claudio a sé, estrae la pistola, la punta sul suo volto e senza esitare spara.

Claudio Domino muore. Un delitto che sconvolge tutti. Apparentemente. Anche la mafia, che è tirata in ballo visti la modalità dell’omicidio e il contesto storico d’allora, prende le distanze. Cosa Nostra infatti è all’inizio del Maxiprocesso, alla sbarra si trovano molti dei capi e dei gregari dell’organizzazione diretta dai Corleonesi. Giovanni Bontade, fratello di Stefano, capomafia di Villagrazia di Carini, durante un’udienza prende il microfono e dice: “Siamo uomini, abbiamo figli, comprendiamo il dolore della famiglia Domino. Rifiutiamo l’ipotesi che un atto di simile barbarie ci possa sfiorare“. È un’affermazione che porta con sé una rivoluzione: gli indagati mafiosi, che fino ad allora non avevano mai ammesso l’esistenza dell’organizzazione, implicitamente ammettono di far parte di un’associazione criminale. Quel “rifiutiamo” circoscrive certe persone nella razza bastarda mafiosa. Razza bastarda che uccide o provoca la morte altrui, direttamente o indirettamente (si pensi alla droga e ai decessi per overdose, o ai rifiuti sepolti e all’aumento delle patologie tumorali). Ma che vuole rappresentare se stessa alla popolazione come un ente benefico, quasi salvifico. E che ama ripetere di non ammette la violenza su donne e bambini. Niente di più falso, come testimoniano i numerosi omicidi succedutisi nel corso del tempo.

La morte di Claudio Domino rimane un mistero. Inizialmente si era ipotizzato che il bambino fosse stato testimone involontario di un sequestro. Poi che la causa dell’assassinio fosse stata una vendetta della mafia, poiché il padre gestiva la ditta di pulizie dell’aula bunker dove si svolgeva il Maxiprocesso. Infine che il bambino avesse visto qualcosa che non doveva vedere. Stando alle parole di alcuni pentiti, infatti, uno dei motivi dell’omicidio sarebbe da ricollegare agli ambienti dello spaccio della droga. Il bambino avrebbe assistito per pura casualità al confezionamento delle dosi, sbirciando all’interno di un magazzino o avrebbe sentito parlare alcuni spacciatori di una partita di eroina nel negozio affianco a quello della madre. Altri pentiti hanno sostenuto invece che Claudio avesse visto sempre la madre in compagnia dell’amante, un pregiudicato legato a quegli ambienti malavitosi di cui si accennava poc’anzi. Luigi Ilardo, pentito e infiltrato all’interno di Cosa Nostra, ha affermato, invece, che il giorno dell’omicidio di Claudio, nel quartiere di San Lorenzo ci fosse “Faccia da mostro”, l’agente dei servizi segreti coinvolto nell’omicidio di Nino Agostino e nella strage di Via D’Amelio.

Purtroppo non c’è alcuna verità che stabilisca chi siano gli assassini di Claudio Domino e perché venne ucciso. Sappiamo che Cosa Nostra, un mese dopo la sua morte, eliminò su ordine diretto di Totò Riina quelli che, secondo i mafiosi, erano i presunti colpevoli. È in questo finale tragico e sanguinolento che ancora una volta, però, emerge con forza la piena responsabilità della mafia, anche per la morte del bambino. Una mafia che toglie la vita in molteplici modi, anche con la propria cultura criminale.

Ci sembrava giusto ricordare Claudio come le altre vittime innocenti, fratelli e sorelle a cui non è stato permesso di crescere e di vivere in questo Paese.

 

 

 

Fonte: antimafiaduemila.com
Articolo del 7 ottobre 2019
Ucciso a 11 anni: Claudio Domino era solo un bambino
di Marta Capaccioni

“Il codice d’onore prima di tutto” dicevano. Un codice che nei suoi distorti principi etici e morali non ha mai guardato in faccia a nessuno, nemmeno a donne e bambini. Proprio così, i bambini.

Il 7 ottobre 1986 un giovanissimo cuore smise di battere, improvvisamente arrestato da un colpo di pistola. Claudio Domino si trovava davanti alla cartolibreria gestita dalla madre, Graziella Accetta, in via Fattori, nel quartiere palermitano di San Lorenzo. Uno sconosciuto lo chiamò per nome e Claudio, come spesso fanno i bambini, gli dette fiducia e si avvicinò. Aveva 11 anni e quel giorno forse avrebbe solo voluto rincorrere gli amici con cui stava giocando. Il nemico di Claudio fu tanto disgraziato da avere paura di un bambino e tanto maledetto da sparargli un gelido colpo in fronte. Il suo corpo cadde a terra, facendo poco rumore, e non si rialzò.

La morte di un uomo giusto è un reato che dovrebbe far infuriare piazze e città. La morte di un bambino e della sua innocenza è un eccidio che dovrebbe sconvolgere, commuovere e poi mobilitare intere Nazioni.
E allora perché la storia del piccolo Claudio Domino e delle altre 125 piccole vittime di mafia? Perché il popolo non ha urlato i nomi di quelle creature fino allo stremo si è dimenticata così in fretta?
Perché come sempre accade nella storia, ci sono alcune morti meno meritevoli di essere ricordate, soprattutto quando nell’elenco dei sospettati compare la parola “mafia”.
In quel periodo si stava svolgendo il maxi-processo nell’aula bunker di Palermo, i cui lavori di pulizia erano gestiti in appalto dal padre di Claudio, titolare dell’impresa. Quel processo istruito dai magistrati Falcone e Borsellino, che segnò la storia della lotta alla mafia e che inflisse 360 condanne.
Durante il dibattimento, Giovanni Bontade, fratello di Stefano, capomafia di Villagrazia di Carini, negò ogni responsabilità di Cosa nostra, ammettendo indirettamente, e forse incoscientemente, l’esistenza dell’organizzazione mafiosa: “Siamo uomini, abbiamo figli, comprendiamo il dolore della famiglia Domino. Rifiutiamo l’ipotesi che un atto di simile barbarie ci possa sfiorare”. Un’affermazione che da lungo tempo in tanti stavano aspettando.
La mafia uccide e ha sempre ucciso per la sua sopravvivenza. Ma davanti alla morte di Claudio, non si può fare altro che chiederci quale pericolo potesse mai rappresentare un bambino per quel grande potere criminale, che da ormai due secoli governa e manovra indisturbato le sorti del nostro paese. Furono sollevate diverse ipotesi e infine, alcuni anni dopo il maxi-processo, il collaboratore di giustizia Giovanbattista Ferrante rivelò che la colpa di Claudio era stata quella di aver visto confezionare alcune dosi di eroina in un magazzino. Forse la colpa più grande di Claudio era stata quella di essere nato nel paese sbagliato.
E ancora, Salvatore Cancemi, altro collaboratore di giustizia legato a Cosa nostra, deceduto nel 2011, rivelò che Totò Riina ordinò indagini interne per scoprire i responsabili dell’eccidio di Claudio. Lo stesso Ferrante infatti dichiarò di aver ammazzato, sotto direttiva di Giovanni Brusca, il mandante dell’uccisione del bambino: parliamo di Salvatore Graffagnino, proprietario del bar vicino al luogo dell’omicidio, che sotto tortura avrebbe confessato di aver incaricato un tossicodipendente dell’esecuzione.
Al di là delle rivelazioni di Ferrante, non è stata fatta piena luce su quanto accadde quel 7 ottobre a Claudio e soprattutto non conosciamo ancora chiaramente l’identità dell’uomo che premette il grilletto.
Un altro nome ci proviene dalle parole del confidente Luigi Ilardo, che disse al colonnello dei ros Michele Riccio, che quel giorno, nel quartiere palermitano di San Lorenzo, vi sarebbe stato “faccia da mostro”. Con questo nominativo era infatti noto alle cronache Giovanni Aiello, poliziotto italiano con il viso sfigurato da un colpo di fucile.
“Ilardo mi disse: – ricorda l’ex militare – parlerò di determinati episodi come la morte di Pio La Torre, del presidente Mattarella, di Claudio Domino, del poliziotto ucciso insieme alla moglie, perché dietro ci sono le Istituzioni. E mi fece riferimento – aveva detto Riccio – che proprio per la morte di Domino i suoi contatti di Cosa Nostra palermitana gli avevano riferito che ci fu la ricerca di un personaggio che doveva appartenere alle istituzioni italiane, il quale aveva fatto un po’ da supervisore e, forse aveva anche avuto qualche parte attiva in questi attentati, specialmente in quello di Domino che aveva colpito molti esponenti di cosa Nostra che non erano concordi con questi omicidi. Per cui – aggiunse il colonnello – si sarebbero mossi alla ricerca di questo personaggio, che Ilardo allora mi descrisse come alto, magro e con in viso una voglia che lo deturpava. Sinteticamente mi disse ‘faccia da mostro’”.
A questo proposito il collaboratore di giustizia Antonino Lo Giudice, detto “il Nano”, lo scorso 18 Aprile 2019, è intervenuto in videoconferenza davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria nell’ambito del processo ‘Ndrangheta stragista, e ha risposto alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Lo Giudice ha richiamato alla memoria il nome di Giovanni Aiello, non solo rispetto alla strategia stragista degli anni ’92 e ’93, ma anche rispetto all’omicidio del piccolo Claudio.
“Mi raccontò dell’omicidio di un bambino in Sicilia il cui padre lavorava in un’aula bunker – ha detto Lo Giudice raccontando i suoi incontri con Aiello – mi parlò dell’omicidio di Ninni Cassarà, di quello di Nino Agostino. Mi parlò anche di una bomba messa a Trapani, dove morirono due bambini e una donna e rimase illeso il magistrato Carlo Palermo”.
Insomma, ancora una volta, riappare l’altra faccia di quel potere criminale, responsabile e complice allo stesso tempo, degli eccidi, delle ingiustizie, dei mancati processi e dei depistaggi che hanno macchiato il nostro paese per decenni, e a cui tuttora non è stata messa la parola fine.
Ma già tutto questo non bastava. Perché ciò che spaventa di più non è il nemico che hai davanti, ma il vuoto che si forma dietro di te quando arriva il momento di pretendere giustizia e di puntare il dito contro i responsabili. “Ti aspetti dalla società la solidarietà e la comprensione. – disse Antonino Domino, padre di Claudio durante la trasmissione Altroparlante, nell’ottobre del 2017 – Questa affettuosità, di solito, la si esprime nei momenti più cauti della tragedia. […] Lo sdegno, l’urlo del popolo: assassini! E poi tutto cade nel dimenticatoio e diventa una stanza buia”.
È nostro dovere entrare in quella stanza e riaccendere la luce, perché il ricordo di Claudio e della sua innocenza viva sempre dentro ognuno di noi e non si spenga mai più.

 

 

 

 

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