16 Giugno 1982 Palermo. “Strage della Circonvallazione” in cui perirono i carabinieri Salvatore Raiti, Silvano Franzolin e Luigi Di Barca, e Giuseppe di Lavore, autista del furgone.

È definito strage della circonvallazione l’attentato mafioso che venne messo in atto il 16 giugno 1982 sulla circonvallazione di Palermo.
L’attentato era diretto contro il il boss catanese Alfio Ferlito, che veniva trasferito da Enna al carcere di Trapani e che morì nell’agguato insieme ai tre carabinieri della scorta, Salvatore Raiti, Silvano Franzolin e Luigi Di Barca, e al ventisettenne Giuseppe Di Lavore, autista della ditta privata che aveva in appalto il trasporto dei detenuti, il quale aveva sostituito il padre. Di Lavore ebbe la medaglia d’oro al valor civile.
Il mandante di questa strage era Nitto Santapaola, che da anni combatteva contro Ferlito una guerra per il predominio sul territorio etneo.

Fonte Wikipedia

 

 

 

Fonte: Sito Ufficiale dell’Associazione Nazionale Carabinieri Sicilia

 

CARABINIERE SALVATORE RAITI

Nato a Siracusa il 6 agosto 1962.

Il 7 marzo 1981 venne arruolato nell’Arma dei Carabinieri quale Allievo Carabiniere ed ammesso a frequentare il corso  d’istruzione presso   la Scuola Allievi Carabinieri di Iglesias (CA). Al termine del ciclo formativo fu promosso Carabiniere  il 19 settembre 1981 e destinato, l’11 ottobre successivo, alla Stazione Carabinieri di Enna dove restò fino al  tragico 16 giugno 1982, data in cui compì l’atto di valore per il quale venne insignito della Medaglia d’Oro al Valor Civile “alla memoria”.

 

 

 

APPUNTATO  SILVANO FRANZOLIN

Nato a Pettorazza Grimani (RO) il 3 aprile 1941.

Il 18 novembre 1959 venne arruolato nell’Arma dei Carabinieri quale Allievo Carabiniere a piedi ed ammesso a frequentare il corso d’istruzione presso la Scuola Allievi Carabinieri di Torino. Al termine del ciclo formativo, integrato presso la Scuola Allievi Carabinieri di Roma per il passaggio nell’Arma a cavallo, fu promosso Carabiniere il 31 agosto 1960 e destinato, il 30 novembre successivo, al Gruppo Squadroni Carabinieri a Cavallo in Roma. Successivamente prestò servizio presso le Stazioni Carabinieri di Brescia dal 30 giugno 1961, Butera (CL) dall’8 marzo 1964, Calatafimi (TP) dal 17 ottobre 1964, Aidone (EN) dal 7 settembre 1967, Tortorici (ME) dal 21 marzo 1968, Maniace (CT) dal 15 aprile 1970 e ad Enna dal 4 maggio 1979, dove restò fino al tragico 16 giugno 1982, data in cui compì l’atto di valor. Medaglia d’Oro al Valor Civile “alla memoria”.

 

 

CARABINIERE SCELTO LUIGI DI BARCA
Nato a Valguarnera (EN) il 10 aprile 1957.

Si arruolò nell’Arma dei Carabinieri il 14 settembre 1974 e, dopo aver frequentato il previsto corso d’istruzione presso la Scuola Allievi Carabinieri di Roma, venne promosso Carabiniere il 15 aprile 1975 e trasferito al Reparto Comando della Legione Carabinieri di Catanzaro. Presso questo Reparto prestò servizio fino al 20 maggio 1976, data sotto la quale venne trasferito alla Stazione Carabinieri di Riace (CZ), ove restò fino al 2 dicembre 1980,quando venne assegnato alla Stazione Carabinieri Catanzaro Principale. In data 15 aprile 1981 ottenne la promozione a Carabiniere Scelto. Restò al citato Comando fino al 30 novembre 1981 quando fu destinato prima alla Legione Carabinieri Messina ed il successivo 4 dicembre al Nucleo Operativo e Radiomobile di Enna dove prestò servizio fino al tragico 16 giugno 1982,data sotto la quale perse la vita a seguito di agguato mafioso. Per il valore dimostrato nel corso del citato agguato, venne insignito della Medaglia d’Oro al Valor Civile “alla memoria”.

 

 

Giuseppe Di Lavore 27 anni, autista della ditta privata che aveva in appalto il trasporto dei detenuti, il quale aveva sostituito il padre. Di Lavore ebbe la medaglia d’oro al valor civile.

Foto da  sites.google.com
Ringraziamo Giovanni Perna di Dedicato Alle Vittime Delle Mafie

 

 

 

 

 

Articolo da L’Unità del 17 giugno 1982
La strage di Palermo poteva essere prevenuta: bastava servirsi di una macchina blindata
Il boss di Catania Alfio Ferlito era ormai un «bersaglio vivente»
di Vincenzo Vasile
Un patto strettissimo lega la mala della città etnea con le cosche mafiose di tutta l’isola – Il rachet della droga e quello delle armii – Un giro di miliardi – In Sicilia in questi ultimi sei mesi ci sono stati oltre 100 morti.

CATANIA – Lui, Alfio Ferlito, 36 anni, metà della vita passata nel cuore del racket malavitoso del quartiere S. Cristoforo di Catania, quando stava a Milano — e venne catturato il 26 settembre dell’anno scorso con un carico di un miliardo di hashish — viaggiava in Alfetta blindata. Al suo amico, Francesco Ferrera, 46 anni, detto t’u cavadduzzui, avevano cercato di fargli la pelle proprio l’altro pomerìggio. La strage di Palermo, che con Ferlito ha fatto altre quattro vittime innocenti, era quindi prevedibile, prevista.

Ma non c’è banca dei dati; non c’è coordinamento, ripetevano anche ieri a Catania gli investigatori. «Un coordinamento che metta assieme, diciamo, quanto meno i ritagli dei giornali delle diverse citta d’Italia, ormai base della grande organizzazione, quel Corrado Manfredi (stessa banda) ucciso l’anno scorso alla stazione di Milano; e, nell’agosto, quel Franco Romeo trucidato in un bar di Catania; e i sei morti della grande strage di via degli Iris, in aprile: una sequenza che portava dritto a lui».
Così, nessuno ha pensato a destinare per la «traduzione» di questo «bersaglio vivente» dal carcere di Enna a quello di Favignana una macchina blindata. O comunque qualcosa di più e di meglio della Mercedes crivellata di colpi, di proprietà di Calogero Di Lavore, che ha in appalto questo lavoro al carcere di Enna, e che ieri si era fatto sostituire dal figlio Giuseppe, aiutante giudiziario a Caltanisetta, che lì aveva ottenuto un giorno libero e dove — poveretto — lavorava. Eppure, con le stesse modalità ed assieme ad altri tre carabinieri trucidati, un altro boss catanese, Angelo Pavone, detto «faccia d’angelo», venne rapito ed eliminato al casello autostradale di S. Gregorio soltanto un anno fa.

Ieri, a Palermo, sul luogo dell’agguato il procuratore capo del capoluogo siciliano, Vincenzo Pajno, diceva: «È un delitto tutto catanese». Ma a Catania fanno notare, invece, come un agguato come questo si programma, si prepara, si concorda, se lo si vuol fare «in trasferta», in pieno giorno, e nel cuore di una città come Palermo, dominata dalle cosche mafiose. E il discorso così torna all’altro capo dell’isola. O, meglio, alle connessioni e ai legami ormai strettissimi — all’insegna del traffico delle droghe — che si intuisce esistano tra una «mala» come quella della città etnea, per tanto tempo considerata «corpo separato» dalle cosche, e Palermo.

Ancora sangue, dunque. Un filo di sangue che — in mancanza di indagini approfondite — unisce palesemente il grande «racket». A Catania, in una grande palestra, in viale Africa, la notizia della strage di Palermo rimbalzava ieri tra i cronisti e gli avvocati di un processone contro 62 imputati d’un traffico di quintali di cocaina dal Perù a Catania, a Palermo. Anche qui propaggini a Palermo: il catanese Salvatore Bellascrima vi aveva installato una base di distribuzione, per conto del «capo» Salvatore Leone.
E intanto a Catania si scannavano tra loro. a un lato il clan Ferlito divenuto più «debole» dopo l’arresto di Alfio a Milano, ma ancora sostenuto in «alto loco». Un cugino dell’ucciso, suo omonimo, è assessore democristiano ai lavori pubblici della città etnea. I parenti di Alfio lavorano negli assessorati del Comune. Dall’alto lato il clan dei  Santapaola, cui si attribuisce il progetto di impossessarsi della base catanese del traffico. Quest’ultimo gruppo, secondo vecchi rapporti di polizia, risulterebbe legato alle cosche mafiose palermitane della borgata di S. Lorenzo , il luogo dove è avvenuto ieri mattina l’agguato contro la Mercedes che trasportava Ferlito a Favignana.

E i racket «si tengono» tra loro: quello della droga chiama quello delle armi. Così Nitto Santapaola lo catturano sette mesi fa, presso Lentini — in provincia di Siracusa, altra zona sinora ritenuta al di fuori dalle logiche di mafia — armato di un fucile Kalaschnikov, capace di forare anche le auto blindate.
È lo stesso tipo d’arma usata ieri a Palermo. E che nel capoluogo siciliano aveva già fatto due vittime «illustri»: Stefano Bontade, boss e figlio di boss, e Salvatore Inzerillo, neo capomafia di Passo Rigano e grande trafficante del gruppo siculo-americano.
Ed anche le statistiche luttuose ora trovano le due principali città siciliane quasi appaiate nei record della violenza: 57 morti ammazzati dall’inizio dell’anno a Palermo, 48 a Catania.

 

 

 

Fonte:  archiviolastampa.it
Articolo del 18 giugno 1982
Traffici di armi e stupefacenti sono gli elementi base delle indagini
La mafia ha prestato i suoi killer alla mala catanese per la strage?
Le due auto usate dagli assassini dei tre carabinieri, dell’autista e del boss Alfio Ferlito risultano rubate a Palermo qualche tempo fa – Molte perquisizioni, venticinque persone fermate

PALERMO — Sarebbero una ventina a Palermo e cinque a Catania le persone fermate da polizia e carabinieri nell’ambito delle indagini sulla strage di mercoledì. La posizione dei palermitani verrebbe vagliata soprattutto relativamente all’eventualità di una «copertura» al «commando» dei sicari, sia in fase di appoggio che di temporaneo asilo dopo la strage. Gli investigatori stanno anche valutando, fra i possibili moventi dell’omicidio del boss Ferlito, la sua partecipazione, con ruolo preminente, al traffico d’armi che da qualche tempo si svolgerebbe in Sicilia, ritenuta «piazza» di smistamento.

Si è saputo che le due automobili di grossa cilindrata delle quali si sono serviti l’altra mattina gli assassini del bandito catanese Alfio Ferlito, dei tre carabinieri che lo scortavano e del conducente della «Mercedes» a nolo con cui il boss veniva accompagnato da Enna a Trapani, erano state rubate a Palermo. La «Bmw» addirittura sei mesi or sono, nel dicembre 1981, e «l’Alfetta» in aprile.

Questa scoperta ha consento a carabinieri e polizia di stabilire con relativa certezza che esiste un legame tra la malavita catanese e la criminalità organizzata di Palermo. Le ipotesi fatte dagli investigatori a questo punto sono due: la mafia ha «semplicemente» concesso lo spazio operativo oppure ha fornito anche i killer?

Prende sempre più corpo, intanto, il sospetto che Ferlito, 36 anni, uno dei capi più rispettati delle bande etnee, fosse uno degli elementi-cardine nel traffico degli stupefacenti tra la Sicilia orientale e Milano. Si sospetta inoltre che partite di eroina pura tratta dalla morfina-base raffinata a Palermo nei laboratori clandestini della mafia siano state inviate sul continente da Catania.

Polizia e carabinieri hanno compiuto numerose perquisizioni, pare senza esito. Nemmeno la testimonianza di Nunzia Pecorella, 25 anni, rimasta coinvolta nella sparatoria e ferita da un colpo di pistola ad un ginocchio, ha potuto dare risposte utili. La donna, in evidente stato di choc, ha solo ricordi molto confusi.

I collegamenti operativi fra la mafia palermitana e la malavita catanese sono venuti alla luce nel corso dell’Istruttoria di un processo per traffico di cocaina fra il Sud America e l’Europa, nel quale sono coinvolti 44 imputati e che si sta celebrando nella città etnea. Secondo i risultati di alcune intercettazioni telefoniche, le organizzazioni catanesi avrebbero stretto rapporti con la mafia palermitana per scambiarsi eroina (prodotta nelle raffinerie del capoluogo dell’isola) con cocaina. Le sostanze stupefacenti oggetto dello scambio sarebbero state destinate alla vendita sul mercato siciliano.

In pratica — secondo quanto sostengono alcuni investigatori — le «famiglie» palermitane, un tempo semplici produttrici di eroina destinata totalmente all’esportazione negli Stati Uniti, controllata da «Cosa Nostra» e dai suoi capi, avrebbero cominciato a rifornire il mercato italiano e in particolare quello siciliano, divenuti «interessanti» per l’enorme aumento dei tossicodipendenti. In questa fase, quella della vendita sul mercato nazionale, la mafia palermitana avrebbe chiesto la collaborazione della malavita catanese.

Secondo indiscrezioni trapelate dall’ambiente degli investigatori, il «clan» dei tre fratelli Santapaola di Catania (tutti latitanti), ritenuto rivale del gruppo capeggiato da Alfio Ferlito, si sarebbe legato, negli ultimi tempi, ai «corleonesi» ed ai loro alleati, la «famiglia» della «Piana dei colli», alla periferia occidentale di Palermo, dove si trovano le borgate di Cannilo e di San Lorenzo Colli, fra le quali passa quel tratto di circonvallazione in cui è avvenuto l’agguato.

Gli inquirenti, infine, si pongono una domanda. Chi ha informato gli assassini del giorno e dell’ora del trasferimento di Ferlito, visto che il detenuto aveva appreso soltanto la sera prima dell’imminente viaggio da Enna a Trapani? Il procuratore della Repubblica di Enna, Pietro Giammanco, ha disposto una serie di accertamenti per controllare quando e con quali modalità sia stato richiesto il servizio a Calogero Di Lavore, padre dell’autista ucciso e titolare di una piccola azienda di auto da nolo che ha una convenzione con i carabinieri di Enna.

A Catania, intanto, si sono svolte le esequie di Ferlito. Un centinaio di corone di fiori caricate su numerose auto, nessuna funzione religiosa.

 

 

 

Articolo da L’Unità del 12 Ottobre 1982
Avrebbe fornito notizie sulla banda del latitante Benedetto Santapaola
Boss trovato ucciso in Piemonte – Killer pentito di Dalla Chiesa?
Armando Di Natale era ricercato anche per la strage della Circonvallazione di Palermo

ROMA — Armando Di Natale, 41 anni, pregiudicato, nato a Siracusa, residente a Milano, ammazzato l’altra notte a colpi di pistola sull’autostrada Serravalle-Genova. Era lui, probabilmente, uno del «superpentiti», o se si preferisce uno dei «superdelatori», che avrebbero parlato e permesso di individuare il commando assassino che il 3 settembre ha freddato in via Carini a Palermo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie Emanuela, l’agente Domenico Russo . L’uomo è stato trovato in fin di vita verso le undici dell’altra notte riverso a terra in una piazzuola dell’autostrada vicino ad Arquata Scrivia. Un automobilista ha avvisato una pattuglia della polizia stradale di Genova che ha provveduto a far ricoverare Armando Di Natale all’ospedale di Novi Ligure dove però è morto due ore dopo. L’avevano ferito con due colpi di pistola calibro 7,65 sparati a bruciapelo che hanno trapassato il torace e l’addome.

Armando Di Natale avrebbe pagato così lo sgarro, anzi il più grosso «sgarro» fatto mai alle cosche mafiose. Grazie a lui, infatti, secondo indiscrezioni, la magistratura palermitana ha potuto spiccare gli ordini di cattura per il delitto Dalla Chiesa e per la strage della circonvallazione del 16 giugno scorso quando furono assassinati il boss catanese Alfio Ferlito, tre carabinieri di scorta e un’autista.

E ieri i sostituti procuratori della Repubblica di Palermo, Consoli e Signorino, titolari dell’inchiesta sul triplice omicidio di via Carini, hanno emesso altri tre mandati di cattura. Riguardano Nunzio Salafia, Salvatore Genovese e Antonio Ragona. I tre erano stati già catturati dalla squadra mobile di Palermo, la settimana scorsa nelle campagne di Siracusa, dove la polizia sarebbe andata su precisa imbeccata. Subito dopo il giudice istruttore Giovanni Falcone li incriminò per la strage della circonvallazione, assieme al boss catanese Benedetto («Nitto») Santapaola e al killer calabrese Nicola Alvaro. Insomma lo stesso commando che, dopo aver assassinato il nemico del clan Santapaola, Alfio Ferlito, ha atteso la sera del 3 settembre nella penombra di via Carini l’auto del prefetto di Palermo. Stessa tecnica «operativa», identico uso del micidiale mitra, quel fucile mitragliatore di fabbricazione sovietica «Kalashnokov» arrivato in Sicilia — faceva parte di un’intera partita — via mare da Beirut, «importato» dal commerciante insospettabile di Siracusa Carmine Tarascio. Anche Armando Di Natale faceva parte del gruppo di killer che aveva fatto tuonare i kalashnikov sulla circonvallazione di Palermo. E non è da escludere che avesse pure partecipato all’agguato di via Carini.

Contro di lui, infatti, il giudice Falcone nei giorni scorsa aveva emesso ordine di cattura in concorso con Santapaola, Alvaro Salafia, Genovese e Antonino Mura (quest’ultimo  arrestato nei giorni scorsi a Torino dove sembra che anche lui abbia cominciato a parlare e a fornire una «collaborazione determinante») quale esecutore materiale della strage del 16 giugno. Dove si nascondeva Armando Di Natale? E in che modo era riuscito, colpito com’era da mandato di cattura, a far arrivare le preziose informazioni ai giudici di Palermo? Sono domande per il momento senza risposta.
Di lui si sa solo che era «schedato» come contrabbandiere di sigarette e che nell’80 venne denunciato dalla squadra mobile di Siracusa per traffico d’eroina e per estorsioni compiute ai danni di un supermercato di Augusta, città dove abitava. Poi, improvvisamente, fece perdere le tracce. E dev’essere di quel periodo l’incontro col potente «clan» catenese e il successivo «arruolamento» nell’esercito privato di Nitto Santapaola. «Era certamente un uomo che sapeva molte cose» ha dichiarato ieri sera il procuratore-capo della Repubblica di Siracusa. È certo comunque che le due inchieste parallele (sul delitto Dalla Chiesa e la strage della  circonvallazione) hanno fatto decisivi passi in avanti quando gli inquirenti hanno avuto a disposizione le informazioni di Armando Di Natale e forse di altri.

In queste ore si cerca di ricostruire nei dettagli la nuova mappa del potere. Ieri s’è saputo, per esempio, che punto di congiunzione tra Catania e Palermo sarebbe stato sino all’anno scorso il «boss» di Mazzarino (Caltanissetta) Francesco Cinardo che venne poi rapito, ucciso e dato in pasto ai cani. l ruolo di Cinardo venne poi coperto, secondo i magistrati, dal catanese Benedetto Santapaola. E i giudici intendono ora ricostruire tutto l’arco delle amicizie catenesi di Santapaola e quindi degli interessi che il presunto «superkiller» intendeva proteggere dalle interferenze dell’ex prefetto di Palermo.
C’è, infine, da segnalare l’ennesimo omicidio avvenuto nel capoluogo siciliano. Salvatore Rampulla, 36 anni, pregiudicato, è stato ucciso ieri mattina a colpi di pistola nel quartiere della «Zisa», e gli assassini, giovani e a viso scoperto, fuggiti dopo il delitto su una «Renault».

 

 

 

Dal libro:

I 100 delitti della Sicilia
di Vincenzo Caruso

Newton Compton Editori, 2015

La strage della circonvallazione e il trionfo di Santapaola (1982)

Erano i ragazzi terribili di San Cristoforo: gli Ercolano, i Santapaola, i Ferrero, i Ferlito. Erano cresciuti insieme e insieme avevano imparato a sparare e ad ammazzare. In seguito le loro strade si erano divise.

Tra loro, rapidamente, iniziò a spiccare quello che forse non era il più spietato del gruppo, ma, certamente era il più furbo: Benedetto Santapaola (anche se dentro l’universo mafioso, il concetto di crudeltà è relativo). I collaboratori di giustizia hanno raccontato che Santapaola è stato capace di far strangolare quattro ragazzini, perché sospettati di aver scippato sua madre, senza sapere chi fosse. Nitto, come lo chiamavano gli amici catanesi, si sapeva però adeguare al contesto in cui si muoveva. Con il tempo avrebbe abbandonato i panni del ragazzo di periferia e avrebbe indossato quelli del commerciante. Nel suo autosalone sarebbero passati quasi tutti i notabili della cittadina etnea, senza sospettare che il proprietario fosse uno dei killer più affidabili di Cosa nostra.

Nitto era amico di tutti, dei politici e degli imprenditori che contavano. Ma un giorno la sua reputazione rischiò di essere compromessa. Venne fermato a un posto di blocco, nel trapanese, con altri compagni di viaggio, tra i quali Mariano Agate, luogotenente di Riina a Mazara del Vallo. Era il 13 agosto 1980 e il giorno prima era stato ammazzato Vito Lipari, sindaco di Castelvetrano. Nitto venne prima rilasciato e poi prosciolto da ogni accusa. Poteva dedicarsi ai problemi interni. Catania non è mai stata una città facile per Cosa nostra: troppe teste calde. Troppi che volevano comandare, ognuno con la sua zona, senza dover rendere conto a nessuno. Santapaola risolvette i problemi a modo suo. A colpi di Kalašnikov.

Il 16 giugno 1982 sulla circonvallazione di Palermo, scortato come richiedeva un mafioso di alto rango, viaggiava Alfio Ferlito, l’ultimo vero rivale di Nitto per il predominio su Catania. Ferlito veniva trasportato da Enna, dov’era detenuto, a Trapani. Il passaggio a Palermo era obbligatorio, ma qui Santapaola si muoveva ormai come a Catani. Possedeva alleati affidabili, che avevano molti favori da ricambiargli. Per uccidere Ferlito, il commando mafioso non esitò a commettere una strage.

Oltre al capomafia, morirono tre carabinieri e l’autista del furgone. Ecco i loro nomi: Giuseppe di Lavore, Salvatore Raiti, Luigi Di Barca, Silvano Franzolin

 

 

 

Fonte:  vivi.libera.it
Articolo del 16 giugno 2017
Trentacinque anni fa la Strage della Circonvallazione
di Giovanna Raiti

Ciao morettino simpatico, da quanto tempo non ci vediamo! Troppi anni sono passati dall’ultima volta. Era il 7 di giugno del 1982, mamma era dalla zia che aveva partorito, io dovevo dedicarmi a fare la lavatrice alle tue bianche camicie e tu impaziente e spaventato che te le rovinassi, passeggiavi su e giù, aspettando la centrifuga. Ricordi la fototessera che mi hai lasciato, quella che ti era servita per la patente? Era in bianco e nero. Non sai quante volte l’ho guardata pensando a ciò che mi dicesti quando la mettesti in quella cornice bianca: Sembro un morto? Tanto si muore una volta sola, tienila lì può servire. Fratello mio a cosa è servita a piangerci sopra? Dal quel 7 di giugno non ti ho più rivisto, se non al chiuso di una bara al buio e senza aria. Qui il tempo si era fermato, anche mamma si era fermata fisicamente ed emotivamente, senza stimoli per la vita e senza possibilità più di camminare. Adesso mamma è con te, avevi goduto del suo affetto per troppo poco tempo! Lei che per 29 anni non ha smesso di piangere la solita nenia: U picciriddu miu su scuddanu. Papà non ha ancora perso il ricordo di quando in quella camera mortuaria, allestita al cimitero di Palermo, ti sollevò dalla bara accarezzandoti e cullandoti, come se in braccio avesse un bimbo, ti cantò l’ultima ninna ninna, anche se poi gli mancò il coraggio di riconoscere quel corpo inerme e mai disse: questo è mio figliolo. Fratello mio, ci siamo ritrovati dentro un fosso, improvvisamente, tentavamo la risalita ma quando qualcuno scivolava sul fondo si ritornava indietro. Ci è voluto un decennio o forse più, prima di riscoprirmi una sopravvissuta. Si, sopravvissuta a un grande dolore, ma c’ero. Sentivo i pianti di mamma e di papà e dovevo smettere i panni del “familiare vittima”, dovevo reagire. All’inizio avrò sbagliato qualcosa, perché mi ero creata troppe inimicizie tra le varie personalità di spicco, loro erano convinti che la mafia non esistesse e a Siracusa, le saracinesche che saltavano e gli spari che si udivano sembrava frutto di fantasie o visioni oniriche.

La fortuna nostra, mia e tua, è stata quella di avere incontrato amici che ci hanno teso la mano senza per forza volere nulla in cambio. Sono gli amici di Libera, da loro e attraverso loro ho trovato una culla in cui cullare un grande dolore, una culla in cui sognare di poter cambiare il mondo. Come? Raccontando alle nuove generazioni cosa accadde quel maledetto 16 giugno del 1982, quando un giovane carabiniere di soli 19 anni, si ammanettò a un boss di grosso calibro, non lo nominerò per non sporcare questa lettera con nomi d’infami, e rese quella spoglia divisa, senza stelle di merito, tanto grande quanto quella di un Generale. Ahhh!!! Se solo nell’ultima telefonata, quella del 15 di giugno, mi avessi detto la verità, forse ti avrei convinto a rinunciare, come aveva fatto il collega che sostituivi. Muto restasti, ligio al dovere e a quella divisa che tanto temevi e tanto amavi … Salvatore, fratello mio, tutta una notte a piangere per la paura di affrontare quel 16 giugno e tanto coraggio per mettere la paura sotto gamba e compiere il tuo dovere l’indomani. Da solo eri, tu e le tue paure, tu e le tue lacrime senza il conforto della tua mamma, il consiglio del tuo papà … hai fatto tutto da solo, come un grande UOMO, hai preso la decisione più importante della tua vita, una decisione che ci ha smembrati ma allo stesso tempo inorgogliti. Adesso non sei più un carabiniere legato alla strage della circonvallazione, hai un nome, un volto e la dignità di un essere umano e quella di un carabiniere.

Vita mia, che ne sanno i tuoi assassini di come siamo stati cresciuti, quale meravigliosa donna coraggio ci ha partorito ed educato. Non conosceranno mai donne di quella risma morale, di quella rettitudine interiore, le loro donne, succubi di una cultura mafiosa, tramandano ai figli il culto del male, le loro donne non avranno mai il coraggio che ha avuto nostra madre, quella di crescere sei figli, nella miseria della nostra terra, che a quei tempi miseria offriva e a fare dei suoi figli esempi per i giovani d’oggi.

Ciao, fratellino mio, mi manchi tanto e ti voglio un bene dell’anima. Un caro saluto dai tuoi fratelli Massimo, Francesco, Vincenza e Concetta.

 

 

 

 

Fonte:  cosavostra.blogautore.repubblica.it
Articolo del 16 giugno 2019
Silvano Franzolin e la Strage della Circonvallazione
di Graziana Nucci

16 giugno 1982. Palermo. Una delle più importanti figure della mafia catanese, Alfio Ferlito, doveva essere trasferito da Enna al carcere di Trapani.

Quel giorno con lui c’erano tre carabinieri della scorta, Salvatore Raiti, Silvano Franzolin e Luigi Di Barca, più l’autista Giuseppe Di Lavore, non consapevoli della sorte cui sfortunatamente sarebbe toccata loro. Proprio sulla circonvallazione di Palermo, sono stati tutti presi in pieno da centinaia di colpi di Kalashnikov; proprio per questo l’avvenimento è ricordato come la “Strage della Circonvallazione”.

Un’uccisione violenta, sanguinosa, che ha coinvolto persone innocenti che stavano facendo solo il proprio lavoro.

Il Carabiniere Silvano Franzolin, “sebbene gravemente ferito, fuoriusciva dall’auto impugnando l’arma in dotazione per affrontare gli aggressori ma, colpito a morte, si accasciava al suolo. Splendido esempio di sprezzo del pericolo ed alto senso del dovere, spinti sino all’estremo sacrificio”. Così recita la dedica alla medaglia d’oro al valor civile alla memoria a lui destinata.

L’intento dell’attentato, avvenuto per mano dei “Corleonesi” di Totò Riina alleati del boss catanese Nitto Santapaola, era eliminare il suo avversario, da molti anni in rivalità con lo stesso Santapaola per il predominio criminale sul territorio etneo. Una rivalità che si è abbattuta, con i suoi colpi ciechi, su quattro persone, tre fedeli servitori dello Stato e un onesto lavoratore. Quattro vite stroncate, interrotte, deturpate. Quattro innocenti che non hanno più fatto ritorno a casa dalle proprie famiglie, che non hanno visto più sorgere il sole in una Palermo estiva e amara.

A vent’anni dall’accaduto, e grazie alla dichiarazione di alcuni collaboratori di giustizia, si venne a conoscenza dei volti e dei nomi degli attentatori: Francesco Paolo Anzelmo, Calogero Ganci, Salvatore Cuccuzza, tutti e tre poi pentiti, e i boss Antonino Madonia, Antonino Lucchese e Giuseppe Greco “Scarpuzzedda”. Ma – leggiamo sul sito ministeriale – “Quella strage voleva dimostrare la forza di Cosa Nostra che poteva agire impunemente, godendo di appoggi e di preziose informazioni provenienti da talpe annidate in ogni posto, senza alcun timore di coinvolgere nella tracotante azione stragista, anche le forze dell’ordine”.

Chi tradì non è mai stato condannato.

Il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nominato Prefetto a Palermo, rese omaggio ai tre Carabinieri uccisi, e il 3 settembre, poche settimane dopo, venne a sua volta ucciso in un altro attentato.

La cattiveria contenuta nella strage del 16 giugno è estremamente irriverente anche nei confronti della società civile: l’indifferenza come motore di un’azione sanguinaria, la totale noncuranza di quello che circondava il boss Ferlito; non solo i Carabinieri e il conducente del mezzo, ma le altre macchine, le altre persone; vita, in altre parole. Vita normale e quotidiana.

Ecco allora l’importanza della memoria, non solo contenuta in quella medaglia consegnata postuma ai familiari delle vittime, ma anche nel ricordare quanto accaduto per rendersi conto del “male” che purtroppo non cessa d’esistere anche oggi, in altri modi e in altri luoghi, e va sradicato. Proprio in funzione di questo, è dedicata alla memoria di Silvano Franzolin la Caserma sede del Comando Stazione dei Carabinieri di Lendinara e dal 19 ottobre 2010 la Caserma di Assaloro.

Infine dal 2018 anche il bene confiscato “Casa della legalità e dalla cultura”, villa Valente Crocco di Badia Polesine (Rovigo), è dedicato a questo appuntato veneto morto in Sicilia.

È bene ricordare questi uomini normali, che dotati di un notevole senso del dovere, hanno sacrificato la propria vita. Nonostante non ce l’abbiano fatta, materialmente, rimangono testimonianza che nell’animo umano qualità come dignità e volontà regnano ancora.

 

 

Leggere anche:

vivi.libera.it
Salvatore Raiti
Non aveva neanche 18 anni, ma Salvatore aveva già deciso che avrebbe indossato la divisa dell’Arma. Questo era il suo sogno. Interrotto dalla violenza di Cosa nostra. Nonostante la paura e i rischi che correva, Salvatore non si era tirato indietro, voleva fare il proprio dovere.

 

 

 

 

 

 

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