12 Marzo 1977 Gioiosa Ionica (RC). Ucciso il mugnaio Rocco Gatto, un uomo onesto che aveva detto “no” al racket.
Rocco Gatto, mugnaio di Gioiosa Ionica venne assassinato in un agguato mafioso il 12 marzo 1977.
Era un uomo onesto e grande lavoratore, iscritto al Partito Comunista, non aveva mai ceduto ai ricatti e alle minacce subiti , anche l’incendio del mulino non lo piegò. In una trasmissione televisiva aveva detto” Non pagherò mai la mazzetta. Lotterò fino alla morte”. Ma non fu ucciso per questo.
“Il 6 novembre 1976 il capoclan Vincenzo Ursini rimane ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri e la ‘ndrina pensa ad un’esecuzione quindi reagisce violentemente e impone il coprifuoco in tutto il paese in onore del boss defunto. Vennero rispediti a casa i commercianti ambulanti giunti fino a Gioiosa Ionica per il mercato e venne imposta la chiusura di tutti gli esercizi commerciali, ma Rocco Gatto non ci sta e si ribella nuovamente denunciando il tutto con nomi e cognomi ai carabinieri e alla magistratura. La ‘ndrangheta però non tollera il suo operato e il 12 marzo 1977 si muove violentemente. Rocco era alla guida del suo furgone di lavoro lungo la strada provinciale per Roccella Ionica; i killer lo attendono sotto un ponticello e al suo passaggio gli sparano tre colpi di lupara uccidendolo” (Wikipedia)
Fonte: stopndrangheta.it
Rocco Gatto, un uomo onesto
La storia del mugnaio di Gioiosa Ionica, ucciso per il no alla mazzetta e le denunce contro il clan degli Ursini. Una storia che incrocia le grandi battaglie contro la ‘ndrangheta degli anni 70 e i personaggi che ne furono protagonisti, come il sindaco rosso Ciccio Modafferi, il capitano dei carabinieri Gennaro Niglio, il prete del dissenso Natale Bianchi
Il 12 marzo 1977 muore Rocco Gatto a Gioiosa Ionica. È un mugnaio iscritto al Pci, un uomo onesto, che non vuole pagare la mazzetta e non ha paura. Lo uccidono a colpi di lupara, poco dopo una sua testimonianza per fatti che non lo riguardavano direttamente.
Dall’apertura del mulino di via Gramsci, Rocco subisce richieste estorsive e minacce da parte di Luigi Ursini e Mario Simonetta, il capoclan e il gregario, imputati per la vicenda del mugnaio e condannati in via definitiva nell’88 per estorsione aggravata.
Rocco Gatto non è solo a lottare contro la ‘ndrangheta. A Gioiosa s’incrociano storie uniche. Gioiosa è il paese dello sciopero cittadino contro la mafia, nel ’75, il primo in Italia. È anche il primo Comune a costituirsi parte civile in un processo contro le cosche. Protagonista di questi primati dell’antimafia è Francesco Modafferi, in quegli anni battagliero sindaco del Pci. A Gioiosa c’è anche don Natale Bianchi, un prete del dissenso, in rotta con il clero ufficiale dopo lo scontro con il prete in odore di mafia, don Giovanni Stilo. Dalla Locride passa anche un carabiniere di ferro, il capitano Gennaro Niglio. Che usa i vecchi metodi, spesso fa a pistolettate coi latitanti, ma la ‘ndrangheta la combatte davvero.
A scatenare la furia degli Ursini e l’uccisione del reggente della cosca Vincenzo, il 6 novembre del ’76, in uno scontro a fuoco coi carabinieri. Il giorno successivo, il clan decide di bloccare il frequentatissimo mercato domenicale e chiude tutte le strade di accesso al paese, poi impongono il coprifuoco ai commercianti. Tutto chiuso. Rocco vede e decide di fare i nomi al capitano Niglio, e di confermarli davanti al giudice.
Passano poche settimane. Rocco guida il suo furgone Fiat, è ancora mattino presto. Porta i sacchi della farina da consegnare. Due colpi o tre, in successione. Fucili con pallettoni caricati a lupara. Il camion prosegue la sua marcia per qualche metro. Qualcuno soccorre Rocco, lo aiutano a scende, lo distendono, poi più nulla.
Quella che segue è una storia di battaglie civili e umane, delle grandi manifestazioni di piazza, dell’ostinazione del padre di Rocco, Pasquale Gatto, e della medaglia d’oro consegnata. È la storia del murales dipinto nella piazza del mercato da Giovanni Rubino e Corrado Armocida. È il Quarto Stato dell’anti-‘ndrangheta, che sarà restaurato trent’anni dopo.
Fonte: stopndrangheta.it
Il mugnaio rosso che sfidò la ‘ndrina
di Danilo Chirico e Alessio Magro – il manifesto (11/03/2007)
Marzo ’77, Italia, anni di piombo. Si spara, a Bologna come in Calabria. L’11 muore Francesco Lorusso. È un militante di Lotta continua, viene colpito dal fuoco della polizia durante una manifestazione, lì nella città simbolo del Settantasette. Il giorno successivo, il 12 marzo, cade Rocco Gatto a Gioiosa Ionica, in provincia di Reggio Calabria. È un mugnaio iscritto al Pci, un uomo onesto, che non ne vuole sapere di pagare la mazzetta e denuncia quel che vede e sa. Lo uccidono a colpi di lupara, lì nel paese da dove è partita la prima sfida alla ‘ndrangheta. Sangue su sangue. La repressione dello Stato e quella delle cosche.
Marzo ’77, esattamente trent’anni fa. Sei lustri di fallimenti. A partire dal sogno industriale del pacchetto Colombo, varato dopo la Rivolta nera del ’70 per Reggio capoluogo. Nella Piana di Gioia Tauro, terra d’aranci, doveva venir su il quinto centro siderurgico. A Saline Ioniche, terra di bergamotti, si lavora per costruire gli stabilimenti della Liquichimica. Due impianti fantasma, miliardi che finiscono nelle casse delle cosche. È anche il tempo della trasformazione delle ‘ndrine: da mafia pastorale in multinazionale della droga, passando per i sequestri di persona. Senza dimenticare il monopolio degli appalti pubblici e la scalata, diretta e indiretta, ai vertici della politica locale. Un’era di dominio incontrastato che ha fatto della ‘ndrangheta la prima potenza criminale in Europa.
Storia di un uomo onesto
Rocco Gatto ha sempre lavorato per dare un futuro alla famiglia. Nato nel ’26, è il primo di 15 figli. Da bambino aiuta il padre Pasquale come garzone in un mulino di Gioiosa Ionica, nel cuore della Locride. Farà la gavetta, ne diventerà proprietario nel ’64. E da allora cominciano i guai, arrivano le prime richieste dalla cosca padrona, gli Ursini.
Rocco è già un uomo tutto d’un pezzo. Ha preso il carattere fiero del padre, che in tempi di fascismo non aveva voluto indossare la camicia nera. Una famiglia di stalinisti, di quelli che credono nel mito sovietico. Di quelli che non accettano imposizioni, né dal padrone né dal capobastone. Soldi al boss, Rocco non ne ha mai voluti dare. Lui che per i fratelli si sarebbe tolto il pane di bocca, raccontano i familiari. Generoso, ma fiero. Hanno provato a piegarlo in tutti i modi: i furti, gli incendi al mulino, le minacce. Gli hanno anche rubato gli orologi da collezione, che riparava per passione.
Dal ’74 la morsa del clan si fa stringente. Più volte Luigi Ursini e Mario Simonetta – il capoclan e il gregario, imputati per la vicenda del mugnaio e condannati in via definitiva nell’88 per estorsione aggravata – si fanno vedere al mulino, chiedono, pretendono. Magari anche delle cambiali, una firma per debiti di mafia.
Rocco Gatto non è solo a lottare contro la ‘ndrangheta. Prima di lui c’erano state le battaglie delle gelsominaie sullo Ionio reggino, quelle dei braccianti sulla Piana. E a Gioiosa s’incrociano storie uniche, biografie poco conosciute di uomini di valore. Gioiosa è il paese dello sciopero cittadino contro la mafia, nel ’75, il primo in Italia. È anche il primo Comune a costituirsi parte civile in un processo contro le cosche. Protagonista di questi primati dell’antimafia è Francesco Modafferi, in quegli anni battagliero sindaco del Pci.
Il raid al mercato e l’agguato
A Gioiosa c’è anche don Natale Bianchi, un prete del dissenso, in rotta con il clero ufficiale dopo lo scontro con il prete in odore di mafia, don Giovanni Stilo (la vicenda è raccontata da Corrado Stajano nel libro Africo, del ’79). Don Bianchi guida una comunità di base, un gruppo che si batte per moralizzare la Chiesa, emancipare la donna, contrastare la ‘ndrangheta. Natale Bianchi, originario del Nord-Est, resterà a Gioiosa anche dopo la sospensione a divinis, il taglio dei fondi, la «morte civile» decretata dal vescovo Francesco Tortora. Dalla Locride passa anche un carabiniere di ferro, il capitano Gennaro Niglio. Che usa i vecchi metodi, spesso fa a pistolettate coi latitanti, ma la ‘ndrangheta la combatte davvero.
Vincenzo Ursini, il reggente del clan, resta ucciso il 6 novembre in un conflitto a fuoco con i carabinieri. La cosca, che pensa a un’esecuzione ordinata dal capitano Niglio, scatena una reazione furibonda, anche per dare un segnale alle altre famiglie mafiose. Viene imposto il coprifuoco. Il 7 novembre, una domenica, è giorno di mercato e a Gioiosa arrivano ambulanti e visitatori da tutta la provincia. Gli ‘ndranghetisti fermano i commercianti alle porte del paese, armi in pugno, e li rispediscono a casa. Poi decretano la chiusura dei negozi. Lutto cittadino in onore del capocosca ucciso. Ci pensa il capitano Niglio a ristabilire l’ordine. Ma di parlare, di denunciare nessuno ha il coraggio. Tranne il mugnaio comunista.
Fa i nomi Rocco. Li fa al capitano Niglio e li conferma di fronte al giudice istruttore. Lo fa perché ha sopportato troppo. Ha capito che la sua battaglia contro gli Ursini non è una lotta personale: compie il suo dovere civile. Ma facendolo infrange una regola fondamentale della mafia. Rocco sa anche questo, ma quel verbale lo firma, perché pensa sia giusto così.
È il 12 marzo del ’77. Lo aspettano lungo la provinciale che porta a Roccella Ionica, sotto un ponticello. Rocco è alla guida del suo furgone, fa il giro per raccogliere i sacchi di grano da macinare. Si aspetta qualcosa, ha con sé il suo fucile da caccia, con il colpo in canna. Alle 6.30 scatta l’agguato. Due o tre colpi in successione. Di lupara. Rocco tiene la guida del mezzo, si ferma poco più avanti, ma non c’è più niente da fare.
Giustizia per Rocco
La gente non sta a guardare, reagisce, scende in piazza. Soprattutto i giovani gridano la loro rabbia, come sempre hanno fatto anche in Calabria, anche quando i riflettori erano spenti e si pagava in prima persona ogni cenno di resistenza alla mafia. Da subito Pasquale Gatto, il padre di Rocco, accusa gli Ursini. Alza la voce per mesi, tanto che qualcuno pensa di profanare la tomba di Rocco, per lanciare un messaggio. È il novembre del ’77. Pasquale non ha paura, continua a chiedere giustizia. Lo farà anche di fronte al presidente Sandro Pertini, sceso in Calabria nell’82 per portare alla famiglia Gatto la medaglia al valore civile per Rocco. Parole commoventi, tanto che il Capo di Stato rompe il cerimoniale e decide di abbracciare quel vecchio in lacrime.
Pasquale porterà avanti per tutta la vita la sua battaglia, anche dopo le condanne, che giudica troppo leggere. Andrà in televisione, rilascerà interviste e commenti per dire ai suoi rivali che non dimentica. Lo farà fino all’ultimo giorno, con l’Internazionale e i garofani rossi ad accompagnare il corteo del suo funerale.
L’omicidio di Rocco ha portato il clan Ursini alla sbarra, ha catalizzato l’attenzione nazionale, ha provocato arresti e condanne. Una morte che il Pci ha vissuto come un attacco diretto, scatenando campagne stampa, seguendo dall’interno i processi che ne sono seguiti. Rocco è vissuto nel ricordo della comunità comunista, fino a quando quel patrimonio di valori e ricordi non è andato disperso.
Insieme a lui altre vittime delle cosche nell’album del Pci. Come Ciccio Vinci, ucciso per errore il 10 dicembre ’76 a Cittanova. Ciccio, giovane dirigente della Fgci, è rimasto coinvolto in un episodio della cruenta faida tra i Facchineri e i Raso-Albanese. Più avanti, nel giugno ’80, l’attacco furioso: l’11 ammazzano Peppe Valarioti, segretario del Pci a Rosarno. Il 21 a Cetraro cade Giannino Losardo, assessore comunale.
Uomini, forse, non ricordati abbastanza. Esempi la cui memoria sbiadisce. Come quel murales in piazza Vittorio Veneto a Gioiosa, opera degli artisti della Cgil milanese. Un Quarto stato dell’antimafia calabrese, sta lì dal ’78 a ricordare Rocco e gli altri che hanno combattuto e sono morti. E che rischiano oggi di finire dimenticati.
Articolo del 24 Luglio 2009 da agendacomunicazione.it
“CESSARÈ”, UN FILM SULLA NDRANGHETA E LE LOTTE POPOLARI NELLA COSTA JONICA
A GIOIOSA JONICA
Il lavoro di Rina Amato, che ripercorre gli avvenimenti degli Anni Settanta (dall’omicidio di Rocco Gatto alle iniziative del coraggioso sindaco antimafia Francesco Modafferi) sarà proiettato al pubblico per iniziativa del primo Comune calabrese che proclamò sciopero contro la ndrangheta. La storia di una collina dei suprusi da cui partì il riscatto popolare.
“Cessarè”, film-documentario di Rina Amato prodotto dall’Associazione “Arti già nate” onlus con il contributo dell’IMAIE-Istituto per la Tutela dei Diritti degli Artisti Interpreti Esecutori, sarà proiettato domenica 26 luglio alle 21, per iniziativa del Comune, nell’arena del Palazzo Amaduri di Gioiosa Jonica, sulla costa jonica reggina, alla presenza della regista e di alcuni dei protagonisti.
Il film racconta la Locride degli anni Settanta e una stagione terribile di omicidi mafiosi e di importanti lotte popolari che hanno dato l’avvio alle ribellioni contro quella ndrangheta che che ha sempre fatto dell’omertà e della paura uno dei suoi punti di forza.
Fra tutti gli episodi spiccano l’omicidio del coraggioso mugnaio comunista Rocco Gatto, ucciso il 12 marzo 1977 perché era stato l’unico a fare i nomi degli uomini della cosca che aveva imposto la chiusura del mercato settimanale del paese per onorare la morte del capoclan Vincenzo Ursini, ucciso in uno scontro a fuoco con i carabinieri; e ancora il primo sciopero antimafia proclamato in Calabria dall’indimenticabile sindaco di Gioiosa, Francesco Modafferi – mancato pochi mesi fa – il 27 dicembre 2005.
Cessarè è il nome di una collina, coperta da vigneti e castagneti, che proprio in quegli anni viene “occupata” lentamente dalla cosca locale, che instaura un clima di terrore tra contadini e agricoltori. Perché – come ricostruiscono nel libro/inchiesta “Cessarè” i giornalisti Bruno Gemelli e Pietro Melia (Frama Sud, 1980) – gli Ursini, che comandano nel paese, decidono che quel paradiso di 15 mila metri quadrati a 400 metri sul livello del mare, splendida balconata panoramica sullo Jonio derve servire «a) a pascolo abusivo; b) a taglieggiamento; c) a rifugio per i latitanti; d) a guardianie». È la fine per Cessarè, commentano i due giornalisti calabresi, «a quel punto gli atti delittuosi non si contano più».
Ed è anche questo che racconta il film di Rina Amato: Cessarè luogo di terrore ma anche un simbolo perché è da qui che inizia «la silenziosa marcia di denuncia della popolazione civile di Gioiosa Jonica, che seppe unire assieme interi Comuni e territori della Locride, associazioni, comunità di base, sindacati, partiti, studenti».
La Locride degli anni ’70, si legge nel comunicato stampa della produzione «è il racconto di un ’68 sconosciuto dell’estrema periferia italiana: lo jonio reggino; è il percorso di emancipazione della generazione delle madri e delle figlie; è il cammino di liberazione degli indifesi, riuniti nelle comunità cristiane di base, dalle catene oppressive dei poteri tradizionali; è la “disperata vitalità” dei giovani dei collettivi operai-studenti della zona jonica; è l’ottimismo di Natale Bianchi, ex prete sospeso “a divinis”, il suo continuo incitamento ad andare avanti, a prendere in mano il proprio destino per liberarsi da tutte le forme di oppressione. A quella stagione di lotte democratiche e civili dei cittadini calabresi fecero seguito la rassegnazione e il silenzio dei decenni successivi.
Da quel profondo silenzio che ha generato senso di vuoto, perdita di punti di riferimento identitari certi per intere generazioni, è nata la necessità di fare la mappa visiva di questo itinerario civile, di esaminarne le tracce con la speranza di trovare un nuovo inizio; di ripercorrere e sostare, assieme ai protagonisti, nei luoghi della memoria collettiva dimenticata per assorbirne i suoni e i profumi, la bellezza e il suo contrario; di riallacciare i fili di un dialogo generazionale, porre domande, ascoltare le voci dei “padri” per vivere il presente; il desiderio è ora, quello di “cessare” con le rimozioni, con l’oblio e di fermarsi, di mettersi in ascolto e ricostruire dalle “macerie”. Cessarè più che soffermarsi sugli aspetti cronachistici di quel decennio si pone l’obiettivo di indagare il clima, le motivazioni profonde e le contraddizioni interne di quel complesso periodo storico, senza eccedere con la retorica, ma aprendo semplicemente alla narrazione e alla riflessione, per far si che la trasmissione della memoria storica, possa produrre nuovo radicamento tra i giovani».
Il film è stato girato in digitale nell’autunno del 2006 da una piccola troupe composta dalla regista e da giovani operatori calabresi (Selene Toscano, Alessio Principato, Francesco Didona), dotata di pochi mezzi tecnici, ma di forti motivazioni e capitale umano. Curato nel montaggio (Maria Valerio) e nella colonna sonora (autori: Daniele Mutino, Alessandro Federico, Carlo Frascà, Cataldo Perri, Peppe Platani e Paolo Sofia), il documentario si avvale, attraverso il metodo dell’osservazione partecipante, delle testimonianze dirette dei protagonisti principali di quella stagione di forte impegno civile, di interessanti analisi interpretative di storici, sociologi, antropologi (tra i 20 testimoni intervistati ci sono Francesco Modafferi, Natale Bianchi, Ciccio Gatto – fratello di Rocco – Francesco Martorelli, Sharo Gambino, Tonino Perna, Vito Teti, le voci delle donne) e di una ricca documentazione cartacea, sonora, audiovisiva e fotografica, inedita e proveniente da archivi privati.
Cessarè è il frutto di una ricerca socio-antropologica effettuata nella Locride, nell’arco di dieci anni, dall’autrice e regista – Rina Amato è nata in Calabria ma vive e lavora a Roma – e rappresenta il primo capitolo di un progetto sulla memoria che raccoglie testimonianze audiovisive su quaranta anni di storia sociale calabrese, dagli anni ’70 a ritroso fino agli anni ’40.
Articolo da L’Unità del 13 Aprile 1979
Processati per l’assassinio del compagno Rocco Gatto
di Enzo Lacaria
Non voleva sottostare alle prepotenze del potente clan e fu eliminato a colpi di lupara
LOCRI (Reggio C.) – A due anni di distanza dal barbaro assassinio del compagno Rocco Gatto, ucciso per la sua coraggiosa e quotidiana sfida al potente clan mafioso degli Ursino, è iniziato il processo davanti alla Corte d’Assise (presidente Francesco Michelotti: giudice a latere Frnacesco Frammartino; P.M. Alberto Bambara). Al processo, che riprenderà il 20 giugno hanno preso parte otto giudici popolari (sei effettivi e due supplenti). Gli autori materiali dell’agguato mortale indicati dall’accusa sono Luigi Ursino di 46 anni e Mario Simonetta di 25 anni. Contro i due, che sono in carcere, sono stati elevati altri pesanti capi di imputazione “per avere in concorso fra loro compiuto atti per costringere Rocco Gatto a sborsare denaro”.
Rocco Gatto – come si legge nell’ordinanza di rinvio a giudizio del giudice istruttore, Rocco Lombardo – “era un coraggioso e l’hanno ucciso. Moriva la mattina del 12 marzo ’77, mentre alla guida del suo autofurgone percorreva la strada provinciale che collega Gioiosa Ionica a Roccella. In direzione della Contrada Prisdarello, dove stava recandosi, come era solito fare, per motivi di lavoro”.
Lo hanno ucciso con due colpi di lupara sparatigli contro ad una distanza di 4-6 metri: volevano dare un esempio, colpire con la morte chi aveva osato sfidare la ferrea legge della violenza e delle mazzette esercitata dal clan degli Ursino anche in danno di piccoli agricoltori, di professionisti, commercianti e venditori ambulanti: volevano impedire a Rocco Gatto di testimoniare al processo contro gli autori dell’incredibile sfida allo Stato e alle sue istituzioni, contro cioè i protagonisti della chiusura del mercato domenicale di Gioiosa Ionica, imposta da un commando mafioso per “onorare” il boss Vincenzo Ursino rimasto ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri.
Fu un delitto selvaggio, premeditato: il sacrificio di Rocco Gatto si trasformò in un pesante atto di accusa contro gli autori dei “raid” condannati dal tribunale di Locri e dalla Corte di Appello di Reggio Calabria a quattro anni di carcere per ciascuno dei sette imputati.
Da quel tragico episodio di sangue riprese, soprattutto in provincia di Reggio Calabria, con maggiore vigore e slancio, la lotta di massa contro la prepotenza mafiosa mentre le autorità inquirenti imprimevano una svolta nella loro attività di prepressione delle attività delinquenziali. Difendono i due, sui quali grava l’accusa di assassinio, gli avvocati prof. Luigi Gullo, Gliozzi e Labate (per Ursino); il prof. Aldo Casalinuovo, Nucera e Macrì (per Simonetta); si sono costituiti parte civile Pasquale Gatto (il padre di Rocco) l’anziano contadino che reclama giustizia dalla legge, Francesco Gatto e Francesco Antonio Gatto (fratelli della vittima) rappresentati dagli avvocati on. Francesco Martorelli, Nadia Alecci e Giuseppe Calafati.
La linea difensiva di Luigi Ursino è apparsa debole fin dalle prime batture: “Con Rocco eravamo amici d’infanzia. Non potevo ucciderlo per questi sentimenti e perché non sono capace di uccidere un capretto”. Ad alcune precise contestazioni del presidente Michelotta, Ursino si è rifugiato nel “non ricordo”; “”sono in galera innocente da due anni e sto perdendo la memoria”. Ma, subito dopo, è stato ricco di particolari “boccacceschi” nel tentativo di sminuire una testimonianza che potrebbe nuocergli. quella del professor Ferraro, l’amico inseparabile di Rocco Gatto, dal quale aveva saputo dei ricatti e delle minacce di Luigi Ursino. “E’ vero, un giorno nel suo mulino mi appartai – conferma Ursino – con Rocco Gatto mentre c’era il prof. Ferraro: fu solo perché Rocco voleva confidarmi che era l’amante della moglie di Ferraro raccontandomi alcuni particolari”. La manovra è chiara e spudorata: Rocco Gatto non può smentire, ma il prof. Ferraro è avvertito. Meglio per lui se sta zitto e se – come ha già fatto al processo per il “raid” al mercato di Gioiosa – diventa un teste reticente al limite del falso.
Articolo da L’Unità del 22 Luglio 1979
Per l’assassinio di Gatto, mafiosi assolti
di Enzo Lacaria
Usata la solita formula di tutti i processi nei quali sono implicati personaggi delle cosche: la insufficienza di prove – « Una vendetta della mafia che resta impunita » – Ricorso del PM contro la sentenza assolutoria.
LOCRI – Dopo circa un’ora di camera di consiglio, la Corte D’Appello presso il tribunale di Locri (presidente Michelotti, giudice a latere Sammartino) ha assolto con la solita formula della insufficienza di prove, Luigi Orsino e Mario Simonetti, imputati dell’assassinio di Rocco Gatto, ed i due contadini Bruzzese e Parrello, accusati di falsità e favoreggiamento. Così la ricerca della verità – sempre così tortuosa in ogni processo di mafia – non ha trovato, nel momento finale del processo, accogliemnto né nella corte, né nei sei giudici popolari.
Sulla trigica vicenda di Rocco Gatto, maturata nel clima di violenze e intimidazioni lungamente imposte da uno spietato clan mafioso ad una intera comunità, tuttavia non calerà la solita coltre del silenzio: il PM,dott Bambara, ha, infatti, annunciato che contro la sentenza assolutoria proporrà immediatamente appello.
Profonda è stata la delusione di Pasquale Gatto, il vecchio genitore dell’ucciso, che, in questi due anni, ha dedicato tutte le sue energie affinché la giustizia punisse gli assassini di suo figlio.
Con senso di profonda amarezza, ha così commentato le scarne parole con cui il giudice Michelotti ha letto la sentenza: “Tutti i delitti di mafia finiscono sempre così. Ecco perché la gente non parla, non viene a testimoniare, subisce con rassegnazione ogni prepotenza. La fiducia nella giustizia non mi ha ripagato del figlio ucciso; ma, nonostante tutto, questi ultimi anni della mia vita li dedicherò perché giustizia sia fatta, perché il sacrificio di Rocco non sia vano. Ma tocca al governo, alla magistratura avere più coraggio e coerenza nel c0ombattere la delinquenza”.
Dopo due anni di carcere preventivo, Luigi Ursino e Mario simonetta resteranno solo per alcuni giorni ancora in carcere: il primo deve rispondere del fatto di essere sparito dal soggiorno obbligatorio, il secondo deve essere trasferito alle carceri di Reggio Calabria in attesa di essere assegnato anche lui a un domicilio coatto.
Per l’norevole Francesco Martorelli, uno dei difensori di parte civile “un grave delitto è rimasto impunito. E’ rimasta impunita la vendetta mafiosa che si era abbattuta sul compagno Rocco Gatto”.
La formula “insufficienza di prove” ci riporta alle assoluzioni tradizionali di processi di mafia, dove – proprio in quanto tali – è sempre difficile reperire la “prova provata” e diretta e dove invece c’è assoluta esigenza di una precisa ricostruzione critica e sociale del delitto e delle condizioni che lo hanno determinato.
“C’è esigenza cioè – ha concluso l’onorevole Martorelli – di un livello ‘più alto’ nel giudicare ed è appunto questo livello che non è stato raggiunto con tale sentenza”.
Eppure, questo processo, nelle linee di fondo della requisitoria del PM Bambara, e nelle arringhe degli avvocati di parte civile (Nadia Alecci, Calafati, on. Martorelli), aveva giustamente inquadrato la figura di Rocco Gatto in quel vasto movimento di opinione che, negli ultimi anni, si è formato in tutta la Calabria, contro lo sfruttamento parassitario e violento della mafia.
Per questo è doveroso dire che questa sentenza di assoluzione non va affatto nella direzione dei primi coraggiosi processi contro la mafia celebrati nei tribunali di Reggio Calabria e di Locri: anzi questo è un dibattito che ha finito per arenarsi nelle disquisizioni dottrinarie tra indizi e prove, respingendo quelle ricostruzioni logiche, quelle concatenazioni tra i fatti, che sono alla base della feroce esecuzione.
L’assassinio di mafia – anche questo è notorio – difficilmente lascia segni evidenti: ma la sua impronta è indelebile, come benidentificabili sono lo stile e di modi (agguato e lupara), Nei cinque rapporti giudiziari inviati dai carabinieri di Roccella (e coprono un arco di nove anni: dal 1967 al tragico mattino del 12 aprile 1977) c’erano, in un continuo crescendo di intimidazioni e di violenze, le tappe della coraggiosa resistenza di Rocco Gatto, il mugnaio comunista, che col suo esempio, col suo quotidiano impegno civile, riuscì a dare ai singoli fatti di violenza mafiosa una dimensione corale: la sua vicenda era quella subita da tutti i piccoli e medi operatori, dai coltivatori diretti, dai professionisti, dai commercianti, persino dai venditori ambulanti di Gioiosa Jonica.
La sua “condanna” di morte serviva alla mafia proprio per ripostare ogni cosa in quel tradizionale alveo dell’omertà che è una delle forze su cui fonda il suo sanguinoso potere. Ma in questo calcolo, gli assassini hanno commesso il più grave errore: perché Rocco non era un “isolato” e la sua battaglia era stata fatta proprio dalla amministrazione popolare di Gioiosa Ionica da decine e decine di comuni calabresi.
Ma alla corte e ai giudici popolari è mancato il coraggio, la coerenza, l’impegno civile a proseguire per questa strada, a colpire senza tentennamenti. E così, ancora una volta, una vendetta mafiosa è rimasta impunita.
Da L’Unità del 7 Maggio 1986
Ancora assoluzioni per l’omicidio di Rocco Gatto
REGGIO CALABRIA — Ancora assolti per l’omicidio di Rocco Gatto. La Corte d’Appello di Reggio Calabria ha infatti assolto ieri pomeriggio Luigi Ursino e Mario Simonetti dall’accusa di aver ucciso a Gioiosa Jonica (RC), nove anni fa, il mugnaio comunista che si era opposto alla mafia. Ursino e Simonetti erano già stati
assolti per insufficienza di prove nel processo di primo grado svoltosi a Locri. Ieri la Corte d Appello ha condannato i due però a 10 e 7 anni per l’incendio del mulino di Gatto e per estorsione aggravata.
Articolo del 12 Marzo 2012 dasoveratiamo.com
La Calabria ricorda Rocco Gatto. Il mugnaio che sfidò la ndragheta
Furono tempi in cui si incrociarono storie uniche, vite poco conosciute, di uomini di valore.
Proprio quando i riflettori erano spenti e si pagava in prima persona ogni cenno di resistenza alla mafia.
Uomini non ricordati abbastanza. Esempi la cui memoria risulta sbiadita.
Era il 1977, l’Italia degli anni di piombo. Si sparava a Roma come in Calabria. Il 12 marzo, a Gioiosa Jonica, in provincia di Reggio Calabria, in un agguato di stampo mafioso, cadeva, colpito da scariche di lupara, Rocco Gatto. Un uomo onesto, un mugnaio che non si volle piegare alle intimidazioni della mafia. I picciotti gli avevano imposto di pagare la mazzetta e lui denunciò ai carabinieri quel che aveva visto e quel che sapeva.
Erano gli anni del sogno industriale, del pacchetto Colombo, varato dopo la Rivolta del ‘70 per Reggio capoluogo. Nella Piana di Gioia Tauro, terra d’aranci, si sarebbe dovuto realizzare il quinto centro siderurgico. A Saline Joniche, terra di bergamotti, si lavorava per costruire gli stabilimenti della Liquichimica. Due impianti fantasma, miliardi di lire che finirono nelle casse della mafia. Era l’epoca in cui si assisteva alla metamorfosi delle ‘ndrine: da mafia agropastorale in multinazionale della droga, con l’investimento dei soldi proventi dai profitti dei sequestri di persona, con il monopolio degli appalti pubblici e la scalata, diretta e indiretta, ai vertici della politica locale e nazionale. Un’era di dominio incontrastato che fece della ‘ndrangheta la prima potenza criminale in Europa e nel mondo.
Rocco Gatto, il mugnaio che sfidò la ‘ndrangheta.
Rocco Gatto aveva sempre lavorato per dare un futuro alla famiglia. Nato nel 1926, era il primo di 15 figli. Aiutava il padre Pasquale in un mulino, a Gioiosa Jonica, nel cuore della Locride, e, nel 1964, ne divenne proprietario. Iniziarono, quindi, per lui le prime richieste estorsive formulate dalla cosca mafiosa padrona del paese. Rocco, uomo tutto d’un pezzo, aveva il carattere fiero del padre che, in tempi di fascismo, non aveva voluto indossare la camicia nera. Una famiglia di comunisti, di quelli che credevano nel mito sovietico, che non accettavano imposizioni, né dal padrone né dal capobastone. Rocco, generoso ma fiero, che per i fratelli si sarebbe tolto il pane di bocca, non abbassò la testa per elargire i suoi soldi ai boss. Provarono a piegarlo: furti ed incendi nel mulino, minacce alla sua persona; gli rubarono persino gli orologi da collezione, che riparava per passione. Dal 1974 la morsa dei clan si fece più stringente. Più volte capi e gregari della ‘ndrangheta si recarono al mulino per chiedere e pretendere. Anche delle cambiali, una firma per debiti di mafia.
In quel periodo, Rocco Gatto non era solo a lottare contro la ‘ndrangheta. Vi furono le battaglie delle gelsominaie, sulla fascia Jonica reggina, e le proteste dei braccianti, sulla Piana di Gioia Tauro. Furono tempi in cui si incrociarono storie uniche, vite poco conosciute, di uomini di valore. Proprio a Gioiosa ci fu uno sciopero cittadino contro la mafia, nel 1975, il primo in Italia. E fu il primo Comune a costituirsi parte civile in un processo contro le cosche mafiose.
A Gioiosa c’era don Natale Bianchi, un sacerdote del dissenso, in rottura con il clero ufficiale dopo lo scontro avuto con il prete di Africo, don Giovanni Stilo. Don Bianchi guidava una comunità di cristiani che si batteva per moralizzare la Chiesa, per emancipare l’essere umano, per contrastare la ‘ndrangheta. Natale Bianchi, originario del Nord–Est d’Italia, resterà a Gioiosa anche dopo la sospensione a divinis, quindi la “morte civile”, sanzionata dai suoi superiori.
Per la Locride passò un carabiniere di ferro, il capitano Gennaro Niglio.
Usava vecchi metodi, spesso faceva a pistolettate coi delinquenti e coi latitanti, ma la ‘ndrangheta la combatteva per davvero. E proprio un boss della ‘ndrangheta restò ucciso, il 6 novembre, in un conflitto a fuoco con i carabinieri. La sua cosca, che sospettava ad un’esecuzione, scatenò una reazione furibonda, impose il coprifuoco, finanche per dare un segnale alle altre “famiglie” della Locride. Domenica 7 novembre era giorno di mercato ed a Gioiosa arrivavano ambulanti e visitatori da tutta la provincia. I picciotti della ‘ndrangheta, armi in pugno, fermarono i commercianti alle porte del paese e li rispedirono a casa. Sancirono la chiusura dei negozi. Imposero il lutto cittadino in onore del capocosca ucciso.
Un vero incubo, ci furono pure momenti di forte tensione, e senza indugio l’ordine venne ristabilito dai militi, con in testa il capitano Niglio. Ma di parlare, di denunciare nessuno se la sentiva, non si aveva il coraggio per farlo. Tranne il mugnaio, che troppo aveva sopportato. Rocco raccontò i fatti e fece i nomi dei malavitosi ai carabinieri, confermandoli davanti ai Giudici di Locri. Comprendeva che la sua battaglia contro la ‘ndrangheta non era una lotta personale: stava compiendo il suo dovere di cittadino. Era, comunque, cosciente di infrangere una ferrea e vitale regola della mafia. Ma quel verbale lo firmò, pensava fosse giusto così.
Era il 12 marzo del 1977.
Lo aspettavano lungo la provinciale che portava a Roccella Jonica, sotto un ponticello. Rocco era alla guida del suo furgone per raccogliere i sacchi di grano da macinare. Con sé aveva il fucile da caccia, carico. Alle 6.30 scattò l’agguato. Tre colpi, in rapida successione, di lupara. Rocco rimase alla guida del mezzo, fermo poco più avanti, freddato e straziato da una pioggia di pallettoni che, all’istante, lo strapparono dalla vita. Morì per come aveva vissuto.
Il popolo di Gioiosa non stette a guardare, reagì, scese in piazza. Soprattutto i giovani gridarono la loro rabbia, come sempre avveniva in Calabria, proprio quando i riflettori erano spenti e si pagava in prima persona ogni cenno di resistenza alla mafia.
Da subito, Pasquale Gatto, il padre di Rocco, accusò la ‘ndrangheta. Alzò la voce per mesi, tanto che qualcuno aveva in mente di profanare la tomba di Rocco, proprio per lanciare un messaggio intimidatorio. Pasquale non aveva paura, continuava a chiedere giustizia. Lo fece anche di fronte al Presidente della Repubblica Sandro Pertini, giunto in Calabria nel 1982 per donare alla famiglia Gatto la Medaglia d’Oro al Valor Civile alla Memoria di Rocco. Parole commoventi, tanto che il Capo dello Stato non osservò il cerimoniale e decise di abbracciare quel vecchio in lacrime. Pasquale portò avanti per tutta la vita la sua battaglia, anche dopo le condanne, che ritenne non adeguate. Andò in televisione, rilasciò interviste e commenti per affermare ai nemici della società che mai si sarebbe piegato al sopruso ed alla tracotanza mafiosa. Lo gridò fino al giorno del suo funerale che pareva una cerimonia contro la mafia.
L’omicidio di Rocco portò la ‘ndrangheta di Gioiosa Jonica alla sbarra, catalizzò l’attenzione nazionale, provocò arresti e condanne, risvegliò le coscienze. Una morte che il paese visse come un attacco diretto, che scatenò campagne di stampa e quant’altro. Rocco visse nel ricordo di tutta una comunità, e vivrà fino a quando quel patrimonio di valori e di ricordi non andrà disperso. Insieme a lui, tanti furono le vittime delle cosche, tutti sparsi nell’album dei morti ammazzati della Calabria. Uomini non ricordati abbastanza. Esempi la cui memoria risulta sbiadita. Come quel murales in piazza Vittorio Veneto, a Gioiosa, opera di coraggiosi giovani che, sfidando un gigante ignoto, con il loro sguardo limpido e sereno, avevano pur deciso di lanciare il proprio cuore oltre quell’ostacolo.
Per non scordare: un drappello tattico avanzato di pionieri dell’Antimafia calabrese sta lì, già dalla fine degli anni ‘70, a ricordare Rocco e gli altri scoloriti eroi che combatterono per il riscatto di questa terra e che di ‘ndrangheta morirono! (Fonte: mnews.it)
Fonte facebook.com
Il murales di Gioiosa Ionica.
Al centro dell’immagine, dietro lo striscione, Rocco Gatto
(Danilo Chirico, autore, con Alessio Magro, del libro Dimenticati – Vittime della ‘ndrangheta)
Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 18 maggio 2019
Rocco che rompe l’omertà
di Margherita Buccilli
Se è vero che, di solito, la Calabria viene descritta come una terra omertosa, dove per paura si tace, dove per paura non si vede né si sente nulla, è anche vero che, certe volte, proprio quella può essere terra di eroi. Se è vero che di solito, quando si pensa agli eroi, si pensa a grandi uomini, a combattenti che compiono imprese maestose per aiutare chi li circonda, è anche vero che, certe volte, non serve essere quel tipo di grande uomo per essere un eroe; infatti, spesso, sono proprio le azioni di un piccolo (grande) uomo ad avere un forte impatto nella storia e nella vita delle persone a loro più o meno vicine, nel tempo e nello spazio.
Ed è proprio unendo questi due fili che prende forma la storia di Rocco Gatto di Gioiosa Ionica, un uomo onesto che, nella Locride degli anni 70, si è opposto con fermezza ed orgoglio alle ingiustizie e ai soprusi attuati sulle sue terre dal clan degli Ursini.
Rocco Gatto era un mugnaio, il primo di quindici fratelli che nel ’64 diventa proprietario dell’attività del padre. Dal padre non aveva, però, ereditato solo l’attività, ma anche il carattere fiero e coraggioso nonché i valori di integrità ed onestà che avrebbero poi sempre orientato la sua vita e le sue azioni. Per questo motivo Rocco non si è mai piegato alle richieste avanzategli da parte degli Ursini che da sempre avevano disteso i tentacoli, stringendo nella loro morsa le terre della Locride, le terre di Rocco Gatto.
Con coraggio e fermezza, infatti, il mugnaio di Gioiosa Ionica si oppose sempre al pagamento del pizzo. Questo comportamento agli Ursini non piacque: la mafia mal accetta di essere sfregiata nel suo prestigio e nella sua autorità. La reazione fu quella di voler ottenere comunque il pizzo e la sottomissione di Rocco Gatto, ma seguendo altre strade e impiegando altri mezzi. Iniziarono quindi con gli incendi al mulino, per poi passare alle minacce ed ai furti degli orologi da collezione che Rocco, mugnaio raffinato, riparava per passione. Nonostante tutte queste intimidazioni, la risposta di Rocco rimase sempre la stessa: “mi oppongo, fino alla morte”.
Vi è una data, quella del 6 novembre 1976, che costituisce il punto di svolta nella storia di Rocco Gatto e di Gioiosa Ionica: quel giorno infatti, il reggente del clan Vincenzo Ursini rimase ucciso in una sparatoria con i carabinieri. Il clan reagì istituendo il lutto cittadino e imponendo alla città il coprifuoco; l’indomani sarebbero dovuti arrivare gli ambulanti per il mercato della domenica ma gli ‘ndranghetisti non lo permisero. Bloccarono l’accesso alla città e rispedirono a casa i commercianti. Ma Rocco Gatto non aveva paura: seguendo il suo naturale istinto di dovere sociale che da sempre lo caratterizzava, decise di denunciarli facendo i loro nomi, prima, al comandante dei carabinieri, e confermandoli, poi, di fronte al giudice istruttore.
Purtroppo, però, il compimento di quello che per Rocco era un semplice dovere civile, corrispondeva a una violazione di una quella che era una delle regole fondamentali della mafia: denunciando i loro nomi, Rocco stava firmando la sua condanna a morte.
Era il 12 marzo 1977, Rocco Gatto si stava dirigendo verso Roccella Ionica guidando il suo furgone; quella era la strada che faceva ogni giorno, per raccogliere i sacchi di grano e per portare la farina fuori città. Rocco era consapevole del pericolo a cui le sue azioni avrebbero potuto portarlo, e infatti, quella stessa giornata aveva con sé il suo fucile, con il colpo già in canna. Eppure, questa sua precauzione non riuscì a salvarlo dall’inevitabile esito di quello che era l’agguato tesogli dalla cosca degli Ursini. Due o tre colpi di lupara in sequenza posero fine alla vita di Rocco, il suo furgone si fermò pochi metri dopo sulla statale, all’altezza di Contrada d’Armo di Gioiosa Ionica ed il suo cadavere viene ritrovato poche ore dopo, appoggiato su un muretto, dagli stessi ufficiali che avevano ricevuto la denuncia da egli sporta il 7 novembre.
La storia di Rocco, però, non finì con la sua morte. Le sue idee, i suoi valori, nonché la portata delle sue azioni ebbero un impatto ed una risonanza nella storia, di Gioiosa Ionica e nella storia d’Italia che egli stesso non si sarebbe mai aspettato; in fondo, non voleva fare l’eroe, si stava semplicemente comportando da cittadino onesto. Eppure, è come se la morte di Rocco Gatto, in quella terra calabra, caratterizzata dalla paura e dalla omertà, avesse improvvisamente scosso gli animi portando ad una maggiore consapevolezza e presa di coscienza. L’eredità del coraggio e del senso civico di Rocco fu tale che Gioiosa Ionica divenne il primo comune a costituirsi parte civile in un processo per mafia, schierandosi apertamente dalla parte della giustizia. Quando giunse la notizia della sua morte, la gente non rimase a guardare, ma scese in piazza, alzò la voce, si batté per Rocco e per la giustizia. Proprio quella stessa gente di Calabria che aveva sempre avuto la tendenza a tacere e a non proferire parola quando si trattava di mafia. Tra tutti il padre, Pasquale Gatto chiese giustizia per il figlio, alzò la voce davanti e sotto i riflettori, con coraggio, con fermezza e senza paura, proprio come aveva insegnato a Rocco.
Un anno dopo la sua morte arrivò la sentenza relativa all’episodio del mercato di Gioiosa Ionica. Ma Mario Simonetta e Luigi Ursini, i “picciotti” che Rocco aveva denunciato, nel 1979 vennero assolti in primo grado per insufficienza di prove. Sette anni dopo i due boss vennero condannati, rispettivamente, a sette e dieci anni per il solo reato di estorsione; questa condanna sarebbe stata poi confermata in Cassazione nell’88. Un lettore disattento, partendo da queste premesse, potrebbe concludere che, in fondo, giustizia non fu fatta; che in fondo, queste sono solo belle parole che però concretamente non portano a nulla. I cattivi, dunque, vincono, e gli eroi invece vengono schiacciati sotto l’intangibilità dei potenti. Ma è davvero così? Non proprio, perché le aule di tribunale non sono l’unico luogo dove viene fatta giustizia. Quando gli ideali non muoiono ma vengono tramandati, quando le lotte di Rocco e di quelli prima di lui vengono combattute come se fossero le proprie, quando il tempo e lo spazio non fermano i progetti, quella è la giustizia.
Il presidente Sandro Pertini questo lo sapeva bene quando, nel 1980, si recò nella Locride di Rocco Gatto per consegnare la medaglia d’oro al valore civile ai suoi familiari.
È per questo che possiamo concludere che le battaglie di Rocco sono diventate le nostre e che, nonostante la sentenza pronunciata abbia lasciato a desiderare, la memoria di Rocco è stata comunque onorata. La giustizia per Rocco Gatto, il piccolo grande uomo di Gioiosa Ionica che sfidò la mafia fino alla morte, pur essendo mancata in aula, passa a maggior ragione per ognuno di noi. Fintanto che il suo messaggio resterà nelle menti di coloro che hanno conosciuto la sua storia e ne hanno tratto un insegnamento, gli sarà resa giustizia nel modo migliore possibile. Probabilmente quello che avrebbe voluto anche lui.
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vivi.libera.it
Rocco Gatto – 12 marzo 1977 – Gioiosa Ionica (RC)
Il ticchettio degli orologi scandisce il tempo di questa storia senza tempo. La storia di uomo semplice e rigoroso, coraggioso e onesto. Un lavoratore perbene, dai principi saldi e da un profondissimo senso della giustizia. Valori ai quali Rocco era stato educato sin da bambino.