16 Marzo 1989 Palermo. Antonio D’Onufrio, 39 anni, ucciso perché ritenuto informatore della polizia.
Antonio D’Onufrio era un barone, possidente terriero, del quartiere Ciaculli, a Palermo. Collaborò con la Criminalpol palermitana fornendo informazioni logistiche sulla sua borgata utili agli investigatori per scovare i molti latitanti nascosti a Ciaculli. Fu ucciso il 16 marzo del 1989, a soli 39 anni. La sua fu un’esecuzione esemplare; dopo una raffica di mitra gli fu inferto un colpo di pistola in bocca. È la firma di Cosa Nostra sui cadaveri di chi ha “parlato troppo”.
Fonte: Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia
Antonio D’Onufrio
Era un barone, possidente terriero, del quartiere Ciaculli, a Palermo. Collaborò con la Criminalpol palermitana fornendo informazioni logistiche sulla sua borgata utili agli investigatori per scovare i molti latitanti nascosti a Ciaculli.
L’ ex capo della polizia, il Dottore Manganelli, così ha descritto il barone:
E…in questo patrimonio di possibili informazioni e informatori venne fuori da un sottoufficiale, che all’epoca collaborava con il Dottore Montana, mi pare si chiami Belcamino, il nome di questo barone D’Onufrio, che era persona non coinvolta in fatti di mafia e, quindi, che nulla poteva raccontare su cose di mafia, perchè non faceva parte del mondo criminale; però, era un amico del Dottor Montana, era un tifoso delle Istituzioni, era vicino alla Polizia, avrebbe voluto fare chissà che cosa per cambiare il mondo in meglio e per…un idealista insomma.
Fu ucciso il 16 marzo del 1989, a soli 39 anni, in una stradina del quartiere Ciaculli. La sua fu un esecuzione esemplare; dopo una raffica di mitra gli fu inferto un colpo di pistola in bocca. È la firma di Cosa Nostra sui cadaveri di chi ha “parlato troppo”.
Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 17 marzo 1989
Ucciso a fucilate per un agrumeto
Il figlio di un barone di Ciaculli non «obbediva» alla mafia
PALERMO — Il possidente e sportivo Antonio D’Onufrio, figlio di un barone, è stato assassinato con tre colpi di fucile caricato a lupara all’ingresso di un suo agrumeto nella borgata di Ciaculli, indicata come il dominio dei Greco.
Uno spietato delitto di mafia, con vittima una persona per bene che probabilmente non aveva voluto piegarsi agli ordini dei boss. L’agguato è avvenuto alle 13 quasi all’inizio di via Ciaculli, un budello che taglia in due la borgata agrumaria da sempre considerata zona ad altissimo rischio mafioso.
Nessuno, a quanto pare, aveva mai «disturbato» i D’Onufrio, che forti del loro blasone erano sempre stati al di sopra della mischia. Due mesi fa era morto all’improvviso il barone Giuseppe, padre di Antonio, e forse qualcuno aveva creduto di potersi impossessare del vasto e ben coltivato agrumeto del quale la vittima aveva cominciato ad occuparsi soltanto adesso.
Antonio D’Onufrio infatti dedicava molto del suo tempo alla moglie e all’unico figlio, di appena sei anni, e alla sua grande passione: il basket. Da ragazzo aveva giocato con la squadra della «Mmp», una società palermitana della quale era poi diventato giocatore-allenatore, quindi era diventato il tecnico della Robur di Caltanissetta dal 1983 al 1987 (ottenne anche una promozione in serie C) ed ancora del Cefalù e quest’anno del Castellammare del Golfo.
Dai saloni di palazzo D’Onufrio, al numero 452 di corso Vittorio Emanuele, si ammira la cattedrale che sorge proprio di fronte. Uno degli edifici più belli del Settecento palermitano nel quale, generazione dopo generazione, i D’Onufrio hanno condotto vita appartata, immersi nello studio e nelle tranquille vicende di famiglia.
Quando è caduto sotto i colpi dei killer, Antonio D’Onufrio era al volante della sua Peugeot station wagon bianca immatricolata da pochi giorni. Non c’è voluto molto per comprendere che a sparare sono stati almeno in due, appostati davanti e dietro la vettura. I pallettoni della lupara si sono rivelati micidiali come sempre. Una delle «rose» di piombo ha reso irriconoscibile il volto della vittima, caduta riversa sul sedile anteriore accanto al lato guida, dove D’Onufrio aveva posato uova e limoni appena fatti raccogliere da un contadino, e una mazzetta di quotidiani. D’Onufrio non temeva nulla e aveva acceso l’autoradio prima di mettere in modo diretto verso casa, ma gli assassini l’hanno anticipato e sono entrati in azione senza dargli scampo.
La polizia è stata avvertita da una telefonata anonima arrivata al centralino della questura. «C’è stata una sparatoria a Ciaculli» ha avvertito la voce di un uomo, ed è seguito il «clic» della comunicazione interrotta. Il capo della squadra mobile, Arnaldo La Barbera, ha subito dato l’allarme e poco dopo a Ciaculli sono giunti anche i carabinieri del «gruppo 1». Nel raggio di mezzo chilometro porte e finestre sprangate; nessuno ha visto né sentito niente. È immediatamente calato il muro dell’omertà. Posti di blocco e perlustrazioni si sono rivelati infruttuosi.
Durante la fuga i sicari si sono disfatti della Seat Ibiza con la quale avevano lasciato la borgata, che hanno abbandonato dopo averla incendiata a meno di un chilometro dal luogo dell’agguato. a.r.
Articolo di La Repubblica dell’8.06.1989
ANTIMAFIA ANCHE BUSCETTA ERA A PALERMO
di Attilio Bolzoni
PALERMO Era l’asso nella manica di una piccola pattuglia di 007, la carta vincente da giocare in piena zona operazioni, la Sicilia. Il suo compito era preciso: scovare uno dopo l’altro tutti i corleonesi, fino al boss Bernardo Provenzano, fino al capo dei capi delle famiglie Totò Riina. E così una sera della seconda settimana di marzo è sbarcato nell’ isola Tommaso Buscetta, il pentito numero uno di Cosa nostra. È tornato accompagnato da un alto funzionario del nucleo centrale della Criminalpol alla caccia dei latitanti del clan di Corleone. Come Totuccio Contorno anche don Masino era sulle tracce di killer e trafficanti. È questa la clamorosa indiscrezione che filtra dopo giorni e giorni di misteri e di silenzi dagli ambienti investigativi palermitani e romani, è questa la notizia che circola tra imbarazzanti no comment e conferme ufficiose. Il giudice Falcone, in una nota d’ agenzia, sostiene che il pentito non è scomparso e che non risulta che sia venuto a qualsiasi titolo in Italia. Ma Tommaso Buscetta – secondo autorevoli fonti – sarebbe stato in Sicilia altre due o tre volte prima di quel giorno del marzo 1989. Ma due mesi e mezzo fa, quella sera di marzo, era a Palermo per un appuntamento importante. Doveva parlare con un informatore, il funzionario della Criminalpol doveva metterlo in contatto diretto con un suo porta-notizie che abitava a Ciaculli. L’incontro avvenne ad ora di cena in una casa padronale della borgata che fu il regno di Michele Greco. Tommaso Buscetta e il funzionario di polizia arrivarono fin là su un’ automobile blindata scortati solo da un autista. L’informatore si chiamava Antonio D’Onufrio, 39 anni, barone, proprietario terriero e a tempo perso allenatore di una squadra di basket di Castellammare del Golfo. Buscetta, l’informatore e il funzionario di polizia parlano per alcune ore. Dentro la casa c’è pure la moglie di Antonio D’Onufrio. Nessuno sa di cosa discutono ma un paio di giorni dopo, la mattina del 16 marzo, i poliziotti della Criminalpol che gestiscono questo tipo di operazioni ad alto rischio capiscono che qualcosa non ha funzionato. Sono le nove meno un quarto e su una stradina di campagna si sente un botto. È una bomba. Una piccola carica di tritolo fa blocca il motore di una Peugeot 405. Dentro c’è il barone D’Onufrio. Da un angolo escono due o tre killer armati di lupara. Scaricano le armi sul barone. Un sicario si avvicina alla vittima e gli spara il colpo di grazia. Un’esecuzione simbolica, una pallottola in bocca per uno che parla troppo. I boss di Ciaculli in qualche modo avevano saputo che il barone era un informatore della Criminalpol, forse avevano saputo anche che don Masino Buscetta, il più pericoloso nemico della mafia siciliana era lì, a pochi metri da loro. La notizia che il barone poteva essere un soffia filtra quasi subito. Quella della presenza di Tommaso Buscetta in Sicilia, a Palermo, comincia a circolare solo dopo la cattura dell’ altro pentito di Cosa nostra, Salvatore Contorno. Ma intanto emergono altri inquietanti particolari sulla morte del barone spione. Dove è stato organizzato l’agguato contro l’informatore? Dov’erano appostati i killer? Si scopre che i sicari erano nascosti, prima di entrare in azione, in un’officina di un vecchio mafioso condannato al primo maxi-processo. Il suo nome: Piné Greco. La sua posizione dentro Cosa nostra: avversario di Michele Greco. Perché i killer scelgono di muoversi con le armi in pugno proprio da quell’officina? Qualcuno dice che anche lui, Piné Greco, è stato abbordato dagli 007 dell’antimafia. E la tecnica utilizzata per uccidere il barone D’Onufrio? Che bisogno c’era di bloccare la sua auto per assassinare un uomo disarmato e non certo abituato a scontri a fuoco? Quella carica sa tanto di segnale lanciato a chi indagava a Ciaculli, a chi aveva portato l’ ex superboss Tommaso Buscetta fino a Palermo. Tutte queste sono indiscrezioni che escono faticosamente dalla bocca di investigatori ancora sotto choc per i contraccolpi del caso Contorno, un intricatissimo affaire che non si sa dove cominci e dove finisca, per una guerra senza esclusione di colpi negli apparati polizieschi. Ma c’è qualcos’altro. Nei giorni scorsi l’alto commissario Domenico Sica ha chiesto alla Procura della Repubblica di Palermo il fascicolo sull’omicidio del barone D’Onufrio. Sica vuole esaminare quelle carte per capire, per sapere cosa sta accadendo in questi mesi in Sicilia sia nel pianeta mafioso che negli ambienti investigativi. Dalle prime notizie certe ricostruite in questi ultimi giorni sembra che l’ intera antimafia navighi nella più totale confusione per compiti e ruoli. Faide tra polizia e carabinieri, fazioni contro altre fazioni al ministero degli Interni, la Criminalpol che sostiene di avere sempre conosciuto i movimenti di Coriolano della Floresta e il capo della squadra mobile di Palermo che si dichiara sorpreso di trovarselo davanti in un blitz preparato al suo ufficio. Il caso Contorno’ e adesso probabilmente il caso Buscetta sono diventate mine vaganti. Nei corridoi delle sezioni investigative e nelle stanze dei giudici si accavallano le voci su nuovi misteri, su nuovi retroscena. Circolano tante verità, troppe per spiegare storie ad incastro con protagonisti uomini come Contorno e Buscetta. I magistrati di Palermo, quelli che indagano sulla cattura di Coriolano, hanno richiesto alla polizia tutte le registrazioni eseguite dalla squadra mobile nell’ operazione che si è conclusa con l’arresto di Contorno. Intanto è sceso in campo il Siulp palermitano attaccando con durezza l’ufficio dell’ alto commissariato, i vertici dei carabinieri, il ruolo del questore e del prefetto
Rettifica all’articolo effettuata dal giornalista Sebastiano Gulisano:
“La notizia che Buscetta andò a trovare D’Onufrio era falsa, fu diffusa per screditarlo (insieme ai magistrati dell’ex pool) e “legittimare” l’omicidio.
D’Onufrio non era un confidente ma molto di più: aveva messo a verbale di avere visto Lima a un ricevimento dai Greco di Ciaculli, in compagnia di Buscetta. Purtroppo il magistrato che lo interrogava non gli chiese chi altri ci fosse a quel ricevimento e, dunque, dopo l’omicidio non fu possibile individuare gli altri partecipanti e interrogarli per avere conferme.
La notizia relativa a Buscetta a casa del barone si rivelò falsa ma, data alla stampa in quel momento storico – Contorno era stato arrestato da poco; era in preparazione l’attentato dell’Addaura; stava per esplodere la polemica sulle lettere del Corvo – serviva a screditare il morto e la presunta “allegra gestione” dei pentiti.
Inoltre la festa dai Greco risaliva a prima dell’inizio della collaborazione di Buscetta coi magistrati”
Riportato anche nell’articolo di Edoardo Montolli dal titolo:
Storie massoniche di cosa nostra
da cui questo stralcio:
“Fu un periodo particolare sotto il profilo istituzionale. C’erano le lettere delatorie del Corvo e l’anomalia della supplenza giudiziaria dell’Alto Commissariato, che si occupò della relativa indagine. E ancora: si diffondevano notizie mai risultate vere, che intossicavano l’ambiente, come l’incontro a Palermo tra Buscetta, De Gennaro e il barone D’Onufrio, poi assassinato. Un attentato doveva di fatto impedire la cooperazione investigativa tra Falcone e i magistrati svizzeri sul riciclaggio dei soldi della droga in Italia e in America, e sull’ipotesi di alcune collusioni con particolari elementi dello Stato”.
Articolo del 16 Marzo 2014 da 100passijournal.info
Antonio D’Onufrio: ucciso dalla mafia e dimenticato dallo Stato
A fianco dei “morti eccellenti” per il compimento del proprio dovere, non ci si dimentichi delle tante altre vittime innocenti, loro malgrado piccoli eroi quotidiani
In un Paese normale, a magistrati, giornalisti e imprenditori non toccherebbe forse mai il destino di essere uccisi per aver condotto la propria vita seguendo i principi di onestà e giustizia. Uomini e donne comuni rappresentanti di una società civile altrettanto ordinaria. Ma viviamo in Italia, dove chi svolge il proprio dovere, spesso, certamente senza averlo mai chiesto, diventa un eroe. Ciò che è peggio è che a molti di questi uomini e queste donne capita persino di essere uccisi due volte: la prima dalla mano di chi conosce solo odio e vendetta, la seconda da chi avrebbe dovuto difendere e proteggere le loro vite. È quello che è successo a tantissime vittime assassinate dalla mafia e poi dimenticate dallo Stato. A Palermo, presso la bottega “I Sapori e i Saperi della Legalità” di Libera, si è reso omaggio ad una di loro, il cui ricordo non vuole essere una sterile memoria di ricorrenza, ma una memoria costante per educare in particolar modo le giovani generazioni, poiché il diritto-dovere della memoria sia patrimonio di tutti.
La mattina del 16 marzo 1989 un commando composto da 6 o 7 killer armati di pistole e mitra uccideva il barone Antonio D’Onufrio, 38enne proprietario di terreni nella zona di Ciaculli, alle porte del capoluogo siciliano, nonché centro nevralgico dell’espansione di Cosa nostra. La storia di tale delitto è una vicenda complicata, che si innesta in un contesto storico-sociale altrettanto complesso e in cui molti hanno cercato vilmente di ritrarlo come un personaggio ambiguo che avrebbe addirittura tenuto summit mafiosi in casa propria. Niente di più falso. Bisognerà attendere però soltanto il 2000 perché l’ex capo della polizia, il dottor Manganelli, dichiari: «In questo patrimonio di possibili informazioni e informatori venne fuori da un sottoufficiale, che all’epoca collaborava con il dottore Montana, mi pare si chiami Belcamino, il nome di questo barone D’Onufrio, che era persona non coinvolta in fatti di mafia e, quindi, che nulla poteva raccontare su cose di mafia, perché non faceva parte del mondo criminale; però, era un amico del dottor Montana, era un tifoso delle Istituzioni, era vicino alla Polizia, avrebbe voluto fare chissà che cosa per cambiare il mondo in meglio, un idealista insomma».
D’Onufrio era legato da sincera amicizia a Giuseppe Montana, capo della Sezione Catturandi della Squadra Mobile di Palermo, e quando questi viene assassinato nel luglio del 1985, in lui scatta immediatamente qualcosa. Per l’amore della sua terra, per il futuro di suo figlio Giuseppe, Antonio non poteva tacere. Il barone non esita infatti a collaborare con il Nucleo Centrale Anticrimine, interessato ad ottenere informazioni utili per la ricerca di possibili latitanti che potevano aver cercato rifugio proprio nella borgata di Ciaculli. E questo, purtroppo, gli costerà la vita. Seguiranno anni di depistaggi e disinformazione, in cui lo Stato ha avuto la propria considerevole fetta di colpevolezza. Come se il dolore della famiglia non fosse già abbastanza, «oggi, come allora, forte come un pugno nello stomaco». È il dolore di Tiziana, che si ritrova a soli 32 anni a dover rivedere i progetti di una vita a tre, costretta ad imparare all’improvviso cosa significhi crescere da sola il piccolo Giuseppe, al quale hanno strappato il papà “perché aveva parlato troppo”. «Antonio era un uomo molto positivo», ricorda la moglie con emozione. «Lui era la parte ludica» e non far pesare più del necessario l’assenza di un papà come Antonio è stato «estremamente difficile».
«Aveva 38 anni, mentre io ne avevo 32. Eravamo entrambi dei bambini, io più di lui, ma mi sentivo una donna fatta, pronta per accogliere il mondo a piene mani, ma purtroppo non è stato così». Immaginare come sarebbe oggi il volto invecchiato del marito, diventa un’impresa impossibile: «Ho in mente l’immagine di Antonio esattamente come era allora. Io mi guardo allo specchio e mi rendo conto che sono invecchiata, però se provo a pensare l’immagine invecchiata di Antonio non ci riesco. Forse perché lui era veramente giovane dentro. Era un idealista, se vogliamo anche “molto Don Chisciotte”. A quei tempi il suo gesto era improntato alla superficialità, un “highlander” destinato a non morire mai. Pensava di avere il mondo in mano e soprattutto pensava di essere protetto». La moglie racconta di quando, pochissimo tempo dopo che Beppe Montana venne ucciso, il marito fu chiamato a Roma dalla Criminalpol: «Ad un certo punto Antonio si è ritrovato in una visione delle cose, se vogliamo, fumettistica. Gli fu chiesto il perché e il percome avesse a che fare con Montana e con Ciaculli. Fu allora che decise che era arrivato il momento di fare “pulizia”. Solo così avrebbe potuto lasciare la terra che amava tanto a suo figlio Giuseppe».
Ancora oggi ci sono certi odori e sapori che riportano alla mente i ricordi di una vita spezzata troppo presto e in modo violento, come infiniti sono i piccoli momenti di gioia condivisa che «non ti abbandoneranno mai». Il profumo dei suoi mandarini, una camicia che sa di camino, il forte vento d’inverno che rischia di rovinare il raccolto, i catusi e le poppate all’alba prima di andare a lavorare. «Il dolore non scompare, ma prima o poi ti abitui a convivere con esso. Lo metti in un cantuccio, lo conservi, ma lui è sempre là. È come un cancro: un giorno esce una piccola metastasi e ti punge e ti fa male. Allora vai dal medico per farla togliere, ma poi ricomincia, ne esce fuori un’altra. Bisogna imparare a conviverci, perché devi continuare a vivere».
«Tra otto anni avrò la stessa età di quando mio papà è stato ucciso – afferma il figlio di Antonio D’Onufrio – ed è davvero molto triste pensare che io sarò più vecchio delle ultime foto che ho di lui. Hanno preso tutti gli assassini di mio padre, ma non mi basta. Perché non c’è niente che mi potrebbe ridare quello che mi è stato tolto».
«Avevo due anni quando mi insegnava a spostare i catusi, cinque quando se ne è andato». A quell’età è impossibile poter ricordare qualcosa di lui. «Ricordo il sorriso grazie alle foto», rivela Giuseppe, e qualcos’altro grazie ai racconti della madre. Ovviamente i ricordi introiettati da altri non bastano, «ma mi riconosco in un sacco di cose che la gente mi dice che era e faceva mio padre. Evidentemente l’imprinting genetico si è riuscito a trasmettere. […] Per noi è un eroe e dovrebbe esserlo per tutta la cittadinanza». Un eroe che purtroppo è stato invece dimenticato. L’auspicio è quello che il 16 marzo non diventi semplicemente “il giorno della memoria”. «Sono passati 25 anni e, se ne nessuno ne ha parlato fino ad ora, dovrebbe far capire che i pubblici proclami non ci interessano. Colpevole è lo Stato che nemmeno dopo la morte ha saputo rendergli onore».
In tal senso si sta muovendo adesso il Comune di Palermo, e in particolare la V Commissione Attività Culturali, affinché il sacrificio di Antonio D’Onufrio venga riconosciuto e ricordato. «È assurdo che a poche centinaia di metri dal luogo dove è avvenuto il delitto, sia stato istituito il Giardino della Memoria dedicato alle vittime della mafia e che non ci sia invece nemmeno una targa che ricordi Antonio, e questo nonostante la famiglia ne abbia fatto più volte richiesta», ha detto il consigliere Fausto Torta, amico del barone ai tempi in cui quest’ultimo allenava una squadra di basket. «Ci impegneremo per mantenere vivo il ricordo di Antonio e quello che ci ha insegnato, organizzando per esempio un Memorial, in cui verrà coinvolto anche il neonato Football Club Antimafia». Un ricordo dovuto per chi si è schierato dalla parte della legalità, senza mai piegarsi al potere mafioso.
Fonte: ilquotidianodipalermo.wordpress.com
Articolo del 13 marzo 2014
Da Libera per ricordare il Barone Antonio D’Onufrio, ucciso dalla mafia 25 anni fa
“Per non dimenticare. Un uomo d’altri tempi: il Barone Antonio D’Onufrio” è il titolo dell’incontro dedicato alla memoria, che si svolgerà alle 18 di sabato 15 marzo, alla “Bottega dei Sapori e dei Saperi delle legalità” di Libera, in piazza Castelnuovo 13. A una settimana dal consueto appuntamento che l’associazione presieduta da don Luigi Ciotti dedica ogni anno alla memoria e all’impegno, in ricordo di tutte le vittime di mafia, questo momento vuole rendere il giusto onore a una figura del tutto dimenticata.
L’ ex capo della polizia, Antonio Manganelli, così lo descrisse: “E, questo patrimonio di possibili informazioni e informatori venne fuori da un sottufficiale, che all’epoca collaborava con il Dottore Montana. Mi pare si chiami Belcamino, il nome di questo barone D’Onufrio, che era persona non coinvolta in fatti di mafia e, quindi, che nulla poteva raccontare su cose di mafia, perchè non faceva parte del mondo criminale; però, era un amico del Dottor Montana, era un tifoso delle Istituzioni, era vicino alla Polizia, avrebbe voluto fare chissà che cosa per cambiare il mondo in meglio e per… un idealista insomma”
Aveva solo 39 anni, Antonio D’Onufrio, quando venne ucciso, il 16 marzo del 1989, in una stradina del quartiere Ciaculli con un’esecuzione esemplare: dopo una raffica di mitra, un colpo di pistola in bocca. La firma di Cosa Nostra sui cadaveri di chi ha “parlato troppo”.
All’evento di sabato prenderanno parte: Giovanni Pagano, coordinatore provinciale di Libera Palermo; Vittorio Costantini, segretario nazionale del Siulp; il consigliere comunale Fausto Torta, presidente della V Commissione Attività Culturali; Isidoro Farina, presidente della “Football Club Antimafia”. Interverranno i familiari di Antonio D’Onufrio: il figlio Giuseppe, la sorella Beatrice, la moglie Tiziana Poplavsky.
Fonte: ilquotidianodipalermo.wordpress.com
Articolo del 7 aprile 2014
Va benissimo e mi piace un “museo dell’antimafia”, ma solo dopo che tutte le vittime avranno avuto pari diritti e dignità
di Gilda Sciortino
“Un museo dell’antimafia? Bella e giusta la proposta di Pif, ma lui lo sa che è quello che da tempo chiedono molti familiari di vittime di mafia? Non metto in dubbio la bontà della sua idea ma, visto che da più parti giungono consensi, promettendo aiuti economici e non solo, perché non facciamo in modo che sia una realtà capace veramente di riunire e dare in un certo senso pace a quanti sono stati uccisi per avere tenuto fede ai loro ideali?”.
È arrabbiata Tiziana Poplavsky, la moglie del Barone Antonio D’Onufrio, ucciso dalla mafia a soli 39 anni, il 16 marzo del 1989, in una stradina del quartiere Ciaculli. A lui Libera, nell’anniversario dei 25 anni dalla sua morte, appena un mese fa, ha dedicato un pomeriggio, promosso in collaborazione con la Football club antimafia e la Commissione Cultura del Comune di Palermo. Un momento di dovuta memoria, che ha anche lanciato l’idea di un memorial sportivo della legalità che partirà nei prossimi mesi.
Un’iniziativa durante la quale la stessa Tiziana insieme al figlio Giuseppe, che nell’ 89 aveva solo 5 anni, ha sottolineato quanto sia importante tenere desta l’attenzione su ciò che accaduto nella nostra città, in anni che non tutti ricordano anche solo per motivi anagrafici
«La proposta di Pif va sicuramente accolta – aggiunge la Poplavsky – ma stiamo attenti che non venga pilotata e utilizzata a fini personali e di immagine. Mi fa piacere sapere che si può avere una struttura in comodato d’uso e che forse ci sono anche i soldi, quindi lavoriamo tutti insieme affinchè, all’interno di questo museo, ci siano veramente tutte le vittime e che la loro storia venga raccontata per come è giusto. Non erigiamo cattedrali nel deserto che lasciano il tempo che trovano, ma soprattutto cerchiamo di fare in modo che la gestione non venga affidata sempre alle solite associazioni».
E comunque, sempre secondo la donna, che dopo l’uccisione di suo marito è rimasta veramente da sola, si tratta di un passo da fare solo dopo che avverrà la definitiva equiparazione di tutte le vittime.
«Ancora oggi esistono enormi differenze – conclude – e non è più possibile assistere a un copione già visto. Anche perchè chi, come noi, non ha mai rivendicato nulla, neanche un centesimo, può piangere i propri cari solo tra le mura domestiche, senza che la loro memoria venga condivisa dal contesto territoriale, per esempio dai giovani. Ci sono tante famiglie rimaste in silenzio per pudore, riservatezza o per un dolore mai passato. Facciamo in modo che ci siano anche loro in questo eventuale futuro museo. Non i soliti noti».