I Testimoni di Giustizia. Storia di chi ha testimoniato contro le mafie

 

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TESTIMONI DI GIUSTIZIA” è un’inchiesta particolarmente delicata, in cui gli inviati del programma di Riccardo Iacona sono andati a conoscere i tanti testimoni di giustizia che con le loro denunce hanno contribuito a fare arrestare centinaia e centinaia di mafiosi. Sono emerse storie davvero incredibili, mai viste prima: non solo quelle dei testimoni di giustizia che hanno pagato con la vita la scelta di raccontare allo Stato quello che sapevano, quello che avevano visto, come Lea Garofalo, moglie di un boss della ‘ndrangheta, uccisa nel 2009. Verranno raccontate anche le storie dei testimoni di giustizia che, da quando sono entrati nel “programma di protezione”, hanno perso tutto: casa, lavoro, città, senza avere in cambio la possibilità di una vita diversa. Come Carmelina Prisco o Pino Masciari. E le storie di chi ha rinunciato alla propria identità, come Piera Aiello o Giuseppe Carini, che oggi vivono con nomi diversi. Verranno mostrate le difficili esistenze dei testimoni di giustizia che ancora vivono, sotto scorta, nei loro luoghi di origine. Isolati dalle comunità e dimenticati dallo Stato. Sono le storie di Tiberio Bentivoglio di Reggio Calabria, di Nello Ruello di Vibo Valentia, di Ignazio Cutrò di Bivona, in provincia di Agrigento. Nel frattempo, gli organici dei magistrati e degli uomini delle forze dell’Ordine che combattono la battaglia contro la Mafia, vengono progressivamente ridotti. Storie di veri “eroi” civili, che lo Stato sembra aver dimenticato. Una vera e propria sconfitta per l’Antimafia, una vittoria per la Mafia

 

 

 

Articolo del 21 Gennaio 2014 da antimafiaduemila.com
Testimoni di giustizia, mentre lo Stato arretra la mafia avanza
Storie di eroi civili: il racconto di Presadiretta
di Miriam Cuccu

“Non ho futuro, non ho aspettative… a questo punto preferisco farmi ammazzare, che se mi sparano mi fanno un piacere, la mia vita non ha senso”. A parlare è Carmelina Prisco, che nel 2003 ha assistito ad un omicidio di camorra a Mondragone e ha testimoniato facendo condannare il killer. Dopo essere stata inserita nel programma di protezione, Carmelina ne è uscita volontariamente, per esasperazione, perché i diritti fondamentali per una vita dignitosa le venivano negati. È tornata al suo paese natale dove vive isolata da tutti e quando esce di casa la chiamano “pentita di merda”.
La voce di Carmelina, che ieri sera è arrivata sugli schermi televisivi dalla puntata di Presadiretta dedicata ai testimoni di giustizia, è la voce di tutti gli uomini e le donne – 88 in Italia – che hanno scelto di denunciare la mafia. Cittadini onesti che tra la mafia e lo Stato, hanno scelto lo Stato. Uno Stato che però non sta dimostrando di tutelarli a dovere, in termini di sicurezza ma anche (soprattutto) di serenità psicologica e affettiva.
“Testimoni di giustizia” (un racconto di Riccardo Iacona con Federico Ruffo ed Elena Stramentinoli) dà un volto e un nome a chi per coraggio e senso della giustizia ha rinunciato alla propria vita – spesso anche alla famiglia – abbandonando in molti casi la propria casa, sostituita da una serie ininterrotta di alberghi – che spesso rifiutano l’ospitalità a causa del ritardo nei pagamenti da parte dello Stato – e località protette. Oppure destinati all’isolamento nella propria dimora, con condizioni di sicurezza dalla dubbia utilità.

“O ci aiutate con cose concrete, altrimenti ci ammazzate, ci sono testimoni che non possono mangiare” protesta Ignazio Cutrò, che recentemente ha divulgato una lettera pubblica per denunciare le condizioni nelle quali sono costretti a vivere i testimoni di giustizia. Dopo aver denunciato i suoi estorsori l’attività imprenditoriale di Cutrò, che non percepisce un contributo dallo Stato, non riceve più commesse. Nonostante tutto l’imprenditore si rifiuta di abbandonare la sua Sicilia e continua a risiedere a Bivona, comune dell’agrigentino: “Nessuno capisce che siamo dei morti che camminano” commenta amaramente. Cutrò è presidente dell’associazione nazionale testimoni di giustizia alla quale finora hanno aderito 44 testimoni. Come lui, anche molti altri imprenditori hanno dichiarato il fallimento delle rispettive aziende per non aver accettato le condizioni della mafia. Pino Masciari era il sesto imprenditore della Calabria quando denuncia i suoi estorsori, che vengono condannati complessivamente a quasi 100 anni di carcere: “La ‘Ndrangheta è come se fosse un servizio. Si sostituisce allo Stato e per quel servizio devi pagare”. Gli uomini che gli si sono presentati chiedevano “per lavorare con serenità un corrispettivo del 3%”. Iniziano poi i furti, i colpi di lupara, le minacce: “A 34 anni il mio mondo si è fermato e non ho più lavorato, non è possibile che non mi posso riappropriare della mia vita… io davo posti di lavoro a centinaia di famiglie… mi sento un parassita”.
Dell’associazione nazionale testimoni di giustizia fa parte anche Tiberio Bentivoglio, commerciante reggino: ha subito una serie di furti che hanno messo in ginocchio la sua azienda. “Quando ho deciso di denunciare mi sentivo un uomo forte, certo d’aver fatto scelta giusta” il piccolo imprenditore spiega, in commissione antimafia a Reggio Calabria, quanto sia stata dura rispettare quella scelta: “Perché lo stato non riesce o non vuole creare modelli positivi? Chi denuncia viene abbandonato, viene considerato un fastidio e a volte rischiamo di passare per arroganti disturbando con le nostre richieste di aiuto. Io preferisco subire altri attentati, ma mai che i miei diritti vengano considerati dei favori”. Per ogni azienda chiusa lo Stato registra una clamorosa sconfitta, ed è lì che le mafie possono penetrare più facilmente nell’imprenditoria legale, proprio perché gli interventi statali si dimostrano privi di efficacia e spesso non riescono a evitare l’irreparabile. È il caso di Lea Garofalo, uccisa nel 2009 per aver accusato il marito, Carlo Cosco, e gli ‘ndranghetisti appartenenti al clan, che ha abbandonato il programma di protezione che non le garantiva un sostegno economico adeguato (la figlia Denise vive tuttora in una località protetta e non è potuta essere presente nemmeno ai funerali civili della madre, celebrati a Milano alcuni mesi fa). O della giovane Rita Atria, che una settimana dopo la morte di Paolo Borsellino si lancia dal settimo piano di un palazzo a Roma: il suo unico punto di riferimento era saltato in aria in via D’Amelio il 19 luglio 1992.
C’è chi poi, come Gianfranco Franciosi, diventa addirittura agente infiltrato nei narcos. Proprietario di un cantiere che si occupa di imbarcazioni a Genova, un giorno gli si presentano due uomini per richiedere un gommone veloce, consegnando un acconto di 50mila euro. Franciosi, inospettito, informa la questura di Genova. Accetta la commessa e, nel tempo, riesce a guadagnarsi la fiducia dei narcotrafficanti. Dal 2007 al 2011 è agente infiltrato a tutti gli effetti e grazie a lui scattano una serie di maxisequestri, per un totale di 12mila e 700 chili di droga che le forze dell’ordne sono riuscite a sottrarre. Un grande successo che comportava gravi rischi: “Loro dormivano in casa nostra, i narcos veri non sono quelli che vanno al ristorante a mangiarsi l’aragosta, vogliono stare a casa tua per non dare nell’occhio, avevano contatti con i miei bambini”. Franciosi e famiglia, condannati a morte dai narcos dopo che tutto il cartello è finito in manette, vengono messi sotto protezione ma dopo due anni abbandonano esasperati. “Tornando indietro rifarei tutto, ma lo Stato deve dimostrare di essere forte per combattere la criminalità organizzata”.
Storie di eroi civili che, una dopo l’altra, scorrono sullo schermo a testimoniare il sogno di un paese diverso, che si schieri dalla parte della legalità. La storia di Giuseppe Carini, uno dei “ragazzi” di Brancaccio di don Puglisi, testimone chiave del suo omicidio e che tuttora non ha diritto a un lavoro nè a condizioni di tutela adeguate, quella di Caloggero, che con i suoi 61 anni è uno dei testimoni più anziani e si mantiene con alcuni lavoretti a nero nonostante abbia bisogno di un supporto psicologico, della famiglia Franzè di Arena (Vibo Valentia) proprietaria di un piccolo alimentari al quale era stato imposto di acquistare il pane dal fornitore indicato dal boss, o di Vincenzo Ceravolo, l’imprenditore vibonese che denunciò per primo il boss Pantaleone Mancuso di Limbadi, detto “Luni Scarpuni”: ha subito una serie di furti ed incendi con oltre 30milioni di euro di perdite. Non è andata meglio a Salvatore Barbagallo, imprenditore nel settore trivellazioni, o a Giuseppe Francolino, proprietario di un chiosco saltato in aria con una bomba nel 2010. Vite che testimoniano come la mafia non sia affatto sconfitta ma anzi, continui incessantemente ad inserirsi nei circuiti dell’economia e della politica. Come a Taurianova, comune calabrese più volte sciolto per mafia. “Le collusioni intaccano un po’ tutto: la politica, l’imprenditoria, la massoneria e anche la Chiesa” sostiene Angela Napoli, parlamentare minacciata dalla ‘Ndrangheta.

“E’ necessario rimettere a punto il sistema” sostiene il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico, intervistato da Iacona. “Chi racconta la verità e non si ritrae ai doveri di cittadino, costretto a cambiare nome, a cambiare vita, a cambiare città non può essere trattato come un numero. Lo Stato deve prendersene cura, servono competenze, non basta garantire la sola tutela della sicurezza personale”.Ma ribadisce: “Un uomo deve esporre denuncia perché lo Stato c’è ed è pronto a correggere i propri errori ed a migliorare il sistema, siamo impegnati in questo”. Certo è che non è solo il sistema di protezione per i testimoni di giustizia a dover fare i conti con le ristrettezze economiche. E’ quanto sostiene Fabio Falcone, agente della Dia che spiega la questione dei drastici tagli ai quali la Direzione investigativa antimafia ha dovuto far fronte, con gravi conseguenze: “I tagli alla Dia colpiscono soprattutto le indagini sulla mala politica e la mafia: sui rapporti di Cosentino con i Casalesi, di Marcello Dell’Utri con Cosa nostra, del tesoriere della Lega Belsito con la ‘Ndrangheta. Ci hanno fatto pensare che effettivamente il nostro tipo di attività fosse scomodo”. E in merito al contrasto della criminalità organizzata denuncia la poca attenzione presente: “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano capito cos’era la mafia, mentre oggi improvvisamente si vive d’emergenza, sembra che questo paese non abbia memoria. Noi facciamo il nostro, poi è la politica sana che deve fare il suo”.

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