I Testimoni di Giustizia. Storia di chi ha testimoniato contro le mafie

PIERA AIELLO

 

Tratto da  sapereitalia.it

Piera Aiello, cognata di Rita Atria. Testimone

“Chi è” e “cosa vuole da noi” un testimone di giustizia.
Una testimonianza vecchia  anni, ma che si legge ancora come fosse stata scritta in questi giorni.

La storia di Piera Aiello.

Il documento pubblicato è una lettera risalente al 2002 di Piera Aiello, che ben descrive la condizione di un “testimone di giustizia”.
Per quanto possa essere vero che fosse inserita in un contesto mafioso è anche vero che non fosse organica all’organizzazione mafiosa. Decise di collaborare soltanto dopo aver visto coi suoi occhi i sicari che hanno ucciso il compagno di vita, ma le sue dichiarazioni sono state molto importanti. La signora Piera Aiello era una persona che grazie allo “zio Paolo” (Borsellino) come lei lo chiama si è evoluta divenendo ora persona importante come testimonianza in favore della legalità.
Piera Aiello ha barattato la sua dignità stravolgendo la sua stessa vita per non entrare nella spirale perversa delle vendette e delle faide.

 

Altro su Piera Aiello: ritaatria.it

ROMA – Il mio nome è Piera Aiello, testimone di giustizia dal lontano 30 luglio 1991. Sono diventata testimone in seguito all’omicidio di mio marito Nicolò Atria avvenuto il 24 giugno 1991, ucciso davanti ai miei occhi. Occhi che hanno visto. Occhi che hanno voluto vedere e non chiudersi nella rassegnazione, nella paura, nella cultura di morte alla quale mi volevano relegare.
Quando ho deciso di testimoniare non sapevo neanche il significato di “Testimone di Giustizia”, non sapevo addirittura il significato di Procuratore della Repubblica tanto che quando incontrai per la prima volta Paolo Borsellino lo chiamai Onorevole. Ricordo che Paolo Borsellino sorrise sotto i baffetti e mi disse: “Signora, con tutto il rispetto per la categoria me ne guarderei bene da essere un onorevole, io sono un semplice Procuratore della Repubblica al servizio dello Stato”. Figurarsi… non avevo capito niente. Con enorme pazienza mi spiegò il suo ruolo cercando di spiegarmi gli effetti del mio gesto. Dopo un po’ di tempo, soprattutto dopo la sua morte, ho capito che forse anche lui ignorava cosa mi sarebbe successo…
A zio Paolo, così lo chiamavano mia figlia e Rita Atria, mia cognata anche lei definita “infame” perché decise di parlare e morta suicida poco dopo la morte di Borsellino, io devo tutto: il senso di giustizia, l’essere persona integra, il credere nel futuro, nella possibilità che un giorno la giustizia vincerà sull’ingiustizia. Che un giorno i testimoni vinceranno la loro battaglia di libertà contro burocrati senza scrupoli e senza cuore.
A Rita Atria, mia amica e cognata, devo oggi gran parte della mia libertà. Lo dico con estrema tristezza perché se lei non avesse “spiccato il volo” la nostra storia sarebbe rimasta nel buio. Mentre io sono stata difesa perché sono diventata, mio malgrado, un personaggio. E’ triste ammetterlo, ma è così.
Dalla mia storia ho capito che dovevo lottare per quei testimoni esiliati senza neanche la “gloria” a me riconosciuta da tanta società civile onesta e libera. I testimoni non dovranno più essere solo ombre esiliate dalla loro amata terra. Quella terra per cui lottiamo nel quotidiano senza grandi riflettori a riprenderci… Non ci sono i riflettori quando un testimone viene esiliato in quella che viene comunemente detta “località segreta”.
Quando si lascia la propria terra si saluta anche la propria identità: per anni noi non siamo più cittadini. I nostri diritti vengono sospesi in attesa di un’altra identità. Lo sapete qual è il paradosso? Che mentre i miei diritti vengono sospesi, alcuni criminali denunciati sia da me che da Rita sono liberi di vagare per il mio paese. Ma che messaggio diamo ai nostri figli se noi che denunciamo siamo condannati all’isolamento mentre gli assassini, gli estorsori, i delinquenti sono liberi? Vi sembra giustizia questa? Cosa abbiamo fatto per meritare tutto questo? Vi rispondo io. Abbiamo solo fatto il nostro dovere. Il dovere di ogni cittadino onesto. Abbiamo solo avuto il coraggio di denunciare non solo un omicidio, ma ogni diritto violato. Ecco perché oggi voglio denunciare lo stato in cui i miei amici ancora sottoposti al programma di protezione sono relegati.
I veri testimoni non vogliono soldi. I veri testimoni rivendicano solo il diritto alla vita. Rivendicano il diritto ad alzarsi la mattina, vestire i propri bambini, portarli a scuola e poi andare a lavoro. Rivendicano il rispetto per i sacrifici fatti per essere diventati quello che erano fino a un’ora prima che qualcuno venisse a chiederti il pizzo o prima che qualcuno sparasse a un altro uomo davanti ai tuoi occhi.
Se qualcuno si confidasse con me e mi dicesse di aver “visto”, io non esiterò a dirgli di parlare, di affidarsi alla giustizia. Gli dirò anche che la sua strada non sarà facile, che dovrà far ricorso a tutta la sua pazienza, a tutta la sua fede, a tutta la sua sete di giustizia, perché in determinate situazioni sono le uniche risorse a cui ti puoi aggrappare per non perdere il lume della ragione o, come è successo a Rita Atria, la vita.
Oltre allo zio Paolo, a Rita mi sento di dove dire grazie: una grande amica che per anni è stata una fedele spalla su cui piangere. Mentre lo Stato mi tradiva lei mi tendeva la sua mano. Senza chiedere nulla in cambio. A differenza di quello Stato in cui nessun cittadino onesto può sentirsi protetto. Nonostante tutto io credo nella Giustizia, credo che si possa ricominciare una nuova vita. Io l’ho fatto, basta volerlo. Basta crederci.
Voglio concludere con un messaggio ai miei compagni di viaggio “Testimoni di Giustizia”: ricominciare si può. Avete perso l’affetto dei vostri cari, avete perso la vostra casa, avete perso il vostro lavoro, avete abbandonato la terra in cui siete nati, ma ricordatevi: non avete perso la vostra dignità. Io mi sono affidata ai miei valori. Solo dopo essermi convinta che dovevo lottare per ricominciare sono riuscita a “vincere”. Ricordo ancora il mio primo viaggio dopo la consegna dei documenti definitivi che avrebbero sancito il mio cambio di generalità. Alla tristezza di abbandonare il mio nome e il mio cognome c’era la gioia di una libertà riconquistata. Insieme alla mia amica abbiamo viaggiato il lungo e in largo per l’Italia a trovare tutti quegli amici che mi avevano aiutato a credere ancora nella vita.
Ho cambiato le mie generalità ma oggi sono più forte di prima. Mi hanno piegato ma non sono riusciti a spezzarmi. Avevano chiuso la mia vita con un lucchetto. L’ho spezzato. L’abbiamo spezzato. Cari amici miei sono certa che anche il vostro lucchetto si spezzerà… perché non siete soli. Non siamo soli. Perché, come diceva lo zio Paolo, “un giorno vincerà il fresco profumo di Libertà”.

(13 MAGGIO 2002 – il nuovo – Gabriele Masiero)

 

Fam

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