28 luglio 1982 Paola (CS). Pompeo Panaro, commerciante ed esponente politico calabrese, ucciso ed il suo corpo fatto sparire. Fu ritrovato dopo quasi un anno a seguito di una telefonata anonima.

Pompeo Panaro era un commerciante, gestiva numerose mense nei dintorni di Paola. Era un personaggio conosciuto. Aveva ricoperto anche cariche pubbliche con la Dc: eletto consigliere comunale, sindaco, vicesindaco, è stato anche assessore. La scomparsa di Pompeo Panaro resta una delle tante di cui è afflitta la Calabria. Si tratta di una delle vittime di un periodo scandito dagli agguati e dalle faide tra le ‘ndrine. Due anni prima dell’omicidio Panaro, viene ucciso a Cetraro, pochi chilometri da Paola, Giannino Losardo, dirigente del Pci locale e capo della segreteria della Procura cittadina.
Fonte: vivi.libera.it

 

 

 

Foto e Articolo del 2 maggio 2013 da  inchieste.repubblica.it
“La verità sulla scomparsa di mio padre sepolto nel cimitero della ‘ndrangheta”
di Giovanni Tizian
Grazie alla tenacia di Paolo Panaro, la magistratura di Catanzaro ha deciso di riaprire l’inchiesta sulla fine del padre, commerciante ed esponente politico della Dc locale, sparito nel 1982. Un’odissea durata 30 anni tra omissioni, depistaggi, prove contraffatte. Fino alla scoperta di un terreno gestito dalle cosche che potrebbe nascondere i resti di tanti altri delitti eccellenti

PAOLA (Cosenza) – Il velo sottile dell’omertà avvolge da trent’anni la scomparsa di Pompeo Panaro. La copre dal lontano 28 luglio 1982. È l’estate dei Mondiali, sono mesi di festa e di esaltazione collettiva. In quel clima di euforia generale, un padre, un marito, un lavoratore e politico locale non farà ritorno a casa. Pompeo non rivedrà più suo figlio, sua moglie, la sua abitazione a Paola, in provincia di Cosenza. L’ennesima vittima della “lupara bianca”, si pensò subito. E l’ipotesi non era errata. Perché non si seppe più nulla per molto tempo. Scomparso nel nulla. Dopo due inchieste fallite, con tanti buchi neri, la settimana scorsa la Procura antimafia di Catanzaro ha deciso di riaprire il caso. E questo grazie alla determinazione del figlio Paolo da due anni alla ricerca della verità. La settimana scorsa la nuova inchiesta ha mosso i primi passi: è stato interrogato il fratello di Pompeo. I magistrati si aspettano da lui un aiuto per rintracciare le ossa perdute. E da quanto risulta a Repubblica.it Inchieste avrebbe confermato che si trovano nella cappella di famiglia. Un mistero nel mistero. La polizia di Cosenza, comunque, si è già mossa per verificare se nella cappella di famiglia è nascosto l’unico osso della vittima rimasto tra i reperti recuperati, così come sostiene il figlio Paolo.

Pompeo era un commerciante, gestiva numerose mense nei dintorni di Paola. Era un personaggio conosciuto. Aveva ricoperto anche cariche pubbliche con la Dc:eletto consigliere comunale, sindaco, vicesindaco, è stato anche assessore. Tutti lo ricordano per la sua generosità. Con l’attività iniziata dai genitori arrivò a fatturare un miliardo di vecchie lire. Un obiettivo che gli stessi genitori, attraverso una grande festa in paese, vollero sugellare e condividere con la comunità.

Paolo, il figlio, all’epoca aveva appena 9 anni. A quell’età non gli raccontano tutta la verità. Per pudore. Per risparmiragli un dolore che non merita e che non capirebbe. Ma in questa storia c’è qualcosa in più. “Ho chiesto subito ai miei parenti”, ricorda oggi Paolo Panaro a Repubblica.it Inchieste, “ma ho sempre trovato un muro. Io chiedevo e loro si schernivano. Sembrava violassi un’omertà obbligata. Perché ci fai queste domande? Che cosa ti abbiamo fatto mancare? Un muro che è rimasto solido fino a due anni fa”.  E poi? “Poi arriva il 2011. Un anno decisivo per me, la mia vita, il mio passato e il mio futuro”, spiega ancora Paolo. Su Calabria Ora legge una carrellata di storie, tutte sulle vittime di ‘ndrangheta. Tra i nomi c’è quello di suo padre Pompeo. È il momento giusto, riflette Paolo, per tornare alla carica con i parenti. “Ma la risposta fu di nuovo deludente”, conferma. “Mi dissero che si trattava solo di invenzioni del giornalista”. Ma Paolo non si convince. Riflette, cerca di riannodare i fili della memoria sfilacciati da questo silenzio ostinato, quasi ossessivo.  “Alla fine ho puntato a una sola domanda, quella che mi avrebbe convinto sulla fondatezza dei miei tanti sospetti. Ho chiesto ai miei parenti: ma è stata fatta almeno una denuncia di scomparsa?”. E loro? “Niente. Hanno negato anche questo. Nelle riunioni di famiglia rifiutano di mostrarmi qualunque documento. E giustificano le loro omertà, i loro disagi, i lunghi e incomprensibili silenzi con una scusa che mi ha lasciato di ghiaccio. Ricordati, mi hanno detto: qualsiasi cosa abbiamo compiuto è stata fatta per preservarti”.

Il figlio non si arrende. Non può e non vuole dimenticare. Non si rassegna all’idea che il padre è semplicemente scomparso. E poi quella frase sulle cose fatte per proteggerlo. Ma da chi e perché? Non arretra. Spinge in solitudine la sua ricerca verso sentieri sempre più impervi, desidera una tomba su cui piangere. Da due anni continua senza sosta. Si rivolge alla polizia e poi alla magistratura. In archivio esiste un fascicolo. Lo acquisisce il 31 maggio 2011. Inizia una svolta che segnerà tutta la sua vita. E forse di un’intera stagione di morti e di scomparsi. Un cimitero delle cosche della ‘ndrangheta. È un atto che segna il punto di non ritorno verso l’arrivo finale: scoprire cosa è accaduto a suo padre.

Dagli scaffali impolverati del Tribunale di Paola recupera il fascicolo, basta una lettura all’intestazione per capire che si tratta di omicidio. “Sono rimasto di stucco”, dice adesso. “Mi chiedevo cosa ci fosse dietro a quell’atteggiamento omertoso, ondivago dei miei stessi parenti. Nell’arco di 30 anni tutti avevano fatto passare per scomparsa e non per omicidio la fine di mio padre”, ragiona Paolo. “Un’assurdità”.

Ma andiamo con ordine. Negli anni della scomparsa accade qualcosa: in una zona montana vengono ritrovati dei resti umani. È il 12 giugno  del 1983. Li scopre la polizia, in località “Trifoglio”, a pochi chilometri da Paola. Si tratta di un omero, l’unico osso rimasto di un corpo seppellito sotto un metro di terra. Il ritrovamento viene registrato e inserito in un fascicolo. Ci sono anche delle foto che immortalano il reperto. E qui il caso diventa un giallo. Le immagini, che sono la testimonianza visiva di quel ritrovamento, scompaiono dagli atti. Scompare anche l’anello con il rubino rosso, un oggetto personale che Pompeo Panaro portava sempre all’indice.  Il giorno successivo gli scavi continuano. I detective trovano altri frammenti ossei. Appartengono a un cranio; sono carbonizzati. Da quel nuovo frammento sarebbe possibile ricavare l’impronta dentaria, elemento che porta facilmente all’identificazione del cadavere a cui apparteneva.

Le tracce e i reperti svaniscono nel nulla. Non vengono mai inseriti nel rapporto finale della polizia. Ma la storia, ormai un vero giallo, non finisce qui. Passano 10 giorni e i cani fiutano una chiave. Apre una porta ben precisa: quella di un magazzino di Pompeo. Gli elementi raccolti sono univoci. Portano dritti verso una direzione. La perizia è inevitabile e il corpo, attraverso i diversi frammnenti ossesi e la chiave che apre la porta di una proprietà di Panaro, viene ufficialmente riconosciuto. A quel punto si sarebbe dovuta mettere in moto la macchina burocratica per il seppellimento: l’invio del nulla osta all’anagrafe che certifica la morte di Pompeo. “Ma anche questo semplice atto amministrativo non avviene perché il documento rimane nel fascicolo”, ripete amareggiato il figlio. “Dopo il riconoscimento ufficiale nessuno ci ha comunicato l’esito”.

A riconoscere i resti sono gli zii, i quali, secondo il racconto di Paolo, non avrebbero mai comunicato alla moglie della vittima né ai due figli i risultati. ” I miei parenti”, precisa l’uomo, “ricevono i resti, ma non si sa che fine hanno fatto”. La Procura archivia il caso come omicidio e carico di ignoti. Ma non va oltre. La scomparsa di Pompeo Panaro resta una delle tante di cui è afflitta la Calabria. Si tratta di una delle vittime di un periodo scandito dagli agguati e dalle faide tra le ‘ndrine. Gli anni 80 nella regione sono stati un decennio di feroce violenza mafiosa. Sequestri, morti ammazzati. Due anni prima dell’omicidio Panaro, viene ucciso a Cetraro, pochi chilometri da Paola, Giannino Losardo, dirigente del Pci locale e capo della segreteria della Procura cittadina. I due casi potrebbero essere legati. Hanno comunque più di un punto in comune. A quei tempi, il vice pretore di Paola era Francesco Granata, un avvocato. Secondo il figlio di Losardo avrebbe ricevuto dal padre moribondo una importante confidenza: gli sarebbero stati indicati i possibili mandanti del delitto. Ma Granata ha sempre negato la circostanza. Anche nelle aule di Tribunale. Agonizzante, Losardo lo avrebbe esortato a “preoccuparsi di tutto”. Ma in ospedale, riportano i giornali dell’epoca, le voci raccolte nei reparti spiegavano e completavano quella frase. Losardo, morente, avrebbe detto al legale: “Tutti a Cetraro sanno chi è stato a sparare”. Un chiaro modo di puntare il dito contro la cosca del potente Franco Muto, il “re del pesce”, e i suoi picciotti.

Omicidio senza colpevoli. La morte di Losardo rimarrà senza responsabili. Così come l’uccisione di Pompeo Panaro, anche lui politico e amico intimo dell’avvocato Granata a cui Losardo rivolse le ultime sue parole. Il figlio del commerciante scomparso ricostruisce così fatti dell’epoca: “Un giorno gli rubano l’auto. Un uomo del gruppo Serpa, una potente cosca del Cosentino, si offre di aiutarlo a ritrovarla e gli dà un appuntamento. Ci va da solo e nessuno si è mai spiegato il motivo. Come ha fatto a non capire che si trattava di un tranello? Mio padre si fida, pensa che tornerà a casa. Arriva sul posto dove aveva lasciato l’auto. Probabilmente trova i suoi rapitori. È a cento metri da casa nostra. Lì vicino viene tenuto prigioniero per una settimana. Poi, probabilmente, viene trasferito in montagna e qui ucciso. Nel fascicolo c’è la testimonianza di un bambino che racconta cosa si diceva in giro, tra le montagne. Che mio padre era stato duro a morire, che hanno fatto fatica a farlo fuori. Non so se si trattava semplicemente di una vendetta per qualche torto. Non capisco perché mettere in piedi tutta questa messinscena. Per farlo fuori sarebbe bastato sparargli in strada”.

Quando Giuliano Serpa inizia la sua collaborazione con la giustizia parlerà anche di Panaro. Ammette di essere stato presente durante l’omicidio. Il capo ‘ndrina spiega che l’uomo è stato ucciso perché  voleva denunciare gli assassini di Luigi Gravina, un’altra vittima di mafia. Sarebbe stato bruciato. “Ma resto convinto”, ragiona Paolo, “che ci possono essere altri motivi. Motivi legati al denaro. Mio padre aveva prestato molti soldi a personaggi in vista della zona. Medici, avvocati, politici. Pare che avesse anche finanziato una campagna elettorale di un famoso politico dell’epoca. Ci sono molti elementi che portano agli ambienti della massoneria, agli intrecci tra mafia e politica. Ma si tratta solo di supposizioni. Nulla di concreto”.

Le ipotesi del figlio di Pompeo sono numerose. Il dubbio che lo attanaglia, che lo angoscia, è fatto di ombre sulla gestione del caso. Teme che una volta scomparso suo padre, dopo la sua morte, qualcuno ne abbia approfittato. “L’attività di generi alimentari di mio padre passa in mano ai fratelli”, ricorda Paolo. “Mio padre aveva gli appalti delle mense scolastiche, incassava anche 100 milioni all’anno di vecchie lire. Il costo di una licenza, quando viene venduta, deve essere pari al valore del negozio. Ovviamente, questo non è avvenuto. E senza una certificazione di morte registrata all’anagrafe, il titolare delle licenza resta persona scomparsa, irreperibile ma giuridicamente ancora gestore dell’attività. Rammento che non ci fu mai una pratica di successione. E queste anomalie sono piene di malafede. Senza morte accertata non ci sono eredi. Le cose restano come sono, incassi compresi”. La ricostruzione di Paolo è dolorosa, piena di dubbi, amarezze. Molto se non tutto, molto lo porta a sospettare delle persone che gli sono più vicine. Proprio per questo vuole la verità. Per chiarire e diradare le ombre dalle persone a lui vicine. Senza verità un figlio a cui hanno negato la felicità di giocare con il padre è portato a guardare tutti con sospetto. Solo la giustizia può ricucire lo strappo con le Istituzioni, la fiducia verso lo Stato.

L’operazione “Iceberg” scatta nel 1997. All’interno c’è un pezzo dell’indagine su Pompeo Panaro. Ma “in quel file”, ricorda sempre il figlio Paolo ,”non si parla di ritrovamento del cadavere. Ci sono i sopralluoghi e i ritrovamenti. Manca però tutto il fascicolo per omicidio, manca la sentenza di archiviazione per omicidio a carico di ignoti, manca la perizia: ecco perché si è continuato a parlare di lupara bianca”. Nello stesso anno si registrano le dichiarazioni di un altro pentito. Si chiama Fedele Soria. Parla di omicidi. Parla su quello di Pompeo. Spiega anche il movente. Sostiene che la sua morte è legata al fatto che esigeva un canone di affitto dai Serpa. Indica gli esecutori. “Le sue rivelazioni”, aggiunge Paolo Panaro, “sono rafforzate dalle dichiarazioni di mia madre che dice di ricordarsi del ritrovamento dei resti. Nonostante le smentite reiterate di mio zio”.

Un anno dopo, nel 1998, il fascicolo approda finalmente sul tavolo della Procura antimafia di Catanzaro. Il caso è tuttora aperto. Da 15 anni. L’ipotesi è omicidio a carico di ignoti, sorretta da una mole impressionante di dichiarazioni di pentiti. Le loro rivelazioni sono univoche. Spiegano perché Pompeo Panaro è stato ucciso: era diventato il testimone scomodo di un altro omicidio, quello di Luigi Gravina. La cosa assurda, che lascia Paolo pieno di amarezza, è il fatto che per tanto tempo gli stessi familiari hanno continuato a parlare di “lupara bianca” a proposito della scomparsa di suo padre quando lo stesso fascicolo aperto in Procura parlava apertamente di omicidio. I giudici della Procura antimafia di Catanzaro hanno riaperto il caso e dovranno cercare di rispondere ad una contraddizione che con il tempo appare evidente. Oltre ad individuare i colpevoli dell’assassinio del commerciante, gli inquirenti dovranno stabilire se le lacune investigative, i reperti scomparsi, i silenzi, sono dovuti ad una precisa volontà di seppellire, assieme al corpo di Panaro, anche la verità sulla sua morte. Per coprire una realtà più vasta: la presenza di un vero cimitero della n’drangheta nella località Trifoglio. Il nome di un luogo che ricorre spesso nei racconti dei pentiti della n’drangheta cosentina. Potrebbe essere il cimitero dell’organizzazione locale dove giacciono tante vittime mai più individuate. Nel terreno che si affaccia sulle montagne della provincia era stato ritrovato, nel 1999, il cadavere di Carmine Chianello, un soldato della n’drina su indicazione di uno storico collaboratore. Stesse indicazioni su altri due corpi seppelliti su quel terreno sono state fornite dallo stesso boss del clan, Giuliano Serpa. Adesso, Paolo Panaro chiede solo di conoscere la verità e una lapide per ricordare suo padre e le tante vittime della ‘ndrangheta dimenticate e mai ritrovate.

 

 

Foto e Articolo del 2 maggio 2013 da  inchieste.repubblica.it
“Le indagini dominate dalla paura. Così le cosche agiscono nell’ombra”
di Anna Maria De Luca
Per arginare le infiltrazioni nella Procura, negli anni 80  il capo del commissariato di Paola consegnava ai suoi uomini delle buste con gli ordini di cattura che andavano aperte sul momento. In questo clima di sospetti, bugie e soffiate matura il delitto di Losardo. Il primo di una lunga serie che adesso potrebbero essere riaperte

COSENZA – Negli anni Ottanta le infiltrazioni nella Procura di Paola erano tali che, per riuscire ad arrestare qualcuno, il vice questore Antonio Cappelli, dirigente del commissariato, fu costretto a scrivere i nomi in buste che sarebbero rimaste chiuse anche tra le mani dei poliziotti. “Apritele solo in macchina, quando sarete già partiti”, diceva ai suoi. Era l’unico modo per non far fuggire chi doveva essere arrestato. Sempre c’era qualcuno che dalla Procura avvisava i “bersagli” delle operazioni di carabinieri e polizia.

Cappelli comandava un commissariato di diciotto uomini: in diciotto contro la banda dei Muto di Cetraro, i Serpa di Paola, i Romeo di San Lucido, gli Africano di Amantea. In tutto quel marasma di cosche, quei diciotto poliziotti operavano insieme ai carabinieri, che non erano molti di più. Nel corso delle indagini sull’omicidio Panaro, rivela la nostra fonte riservata “spararono alla finestra del comandante della polizia stradale perché pensavano fosse l’abitazione di Cappelli. Lui abitava nello stesso palazzo, ma dall’altro lato. E furono bruciate anche macchine di poliziotti”.

“Ogni due – tre giorni”, raccontano i testimoni dell’epoca, “c’era un attentato: è successo a un hotel di Paola, poi a un autosalone messo a ferro e a fuoco, per non parlare di scomparse ed omicidi. Alle otto di sera nessuno usciva più: per le strade c’era il coprifuoco, la gente aveva paura di potersi trovare in qualche guaio senza neanche sapere come”. Le bande del Tirreno erano parte, ovviamente, di un gioco più grande: nel ’77, Luigi Palermo, l’esponente di vertice dell’originaria organizzazione mafiosa cosentina, era stato ucciso dall’emergente Franco Pino, altro affiliato di spicco della consorteria. Nacque cosi la scissione tra il gruppo Perna-Pranno-Vitelli e il gruppo Sena – Pino. I clan della costa si divisero: i Muto di Cetraro, i Basile-Calvano di San Lucido e i Cirillo operanti nella Sibaritide si schierarono con i Sena-Pino, spalleggiati anche da famiglie della Piana di Gioia Tauro e dalla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. I Serpa di Paola e gli Africano di Amantea erano invece con la compagine dei Perna-Pranno-Vitelli.

Omicidi, scomparse, pizzo come regola: quasi tutti i commercianti e i professionisti, indistintamente, pagavano tangenti, vessati da continue estorsioni. “Si diceva – raccontano le nostre fonti che ci hanno chiesto l’anonimato – che uno dei ragazzi scomparsi fosse stato ucciso e saldato in un bidone di nafta da 200 litri, uno di quelli che si usavano durante la guerra per portare i rifornimenti. Pare che il bidone sia stato poi sotterrato ma non si sa dove. Altri invece raccontavano che lo avevano fatto a pezzi e dato ai maiali: riescono a masticare anche le ossa umane. Perché? Per convincere i suoi fratelli ad affiliarsi, facendo ricadere la colpa sulla banda rivale”. E poi ci fu l’omicidio Gravina, il meccanico ucciso perché si era rifiutato di regalare al clan quattro copertoni di macchina. Quindi l’omicidio Cilento: aveva un negozio di armi ed era amico di Cappelli. Gli spararono nel suo negozio alle 10 del mattino perché lo ritenevano un informatore della polizia. “Come armiere aveva bisogno del commissariato quando vendeva le armi. Le bande volevano munizioni ed armi ma lui non acconsentiva, le aveva tutte matricolate. Il problema però non era questo: le bande non avevano difficoltà a procurarsi armi. Il vero problema era la sua amicizia con Cappelli”.

 

 

 

Articolo del 22 luglio 2013 da inchieste.repubblica.it
Plastica e carta al posto del corpo è sempre più giallo sul caso Panaro
di Anna Maria De Luca
Prove manomesse e contraffatte attorno alla scomparsa dell’esponente dc, avvenuta a Paola nel 1982, probabile vittima della lupara bianca. L’apertura del tumulo, decisa dopo la nostra inchiesta su un omicidio dimenticato, ha portato all’ultima sconcertante scoperta: due buste della Standa e uno dell’immondizia e una carta da pacchi perfettamente integra e asciutta dopo decenni. Si teme che un terreno adiacente al cimitero nasconda altre vittime della n’drangheta. Il figlio: “Chiedo giustizia per mio padre”

PAOLA  (CS)  – Una carta da pacchi perfettamente asciutta e integra, uno spago pulito e nastro adesivo incartano la cassetta di zinco che dovrebbe contenere i resti di Pompeo Panaro, l’uomo della Dc, commerciante, scomparso la sera del 28 luglio del 1982 a Paola, in provincia di Cosenza. “La carta e lo spago, in trent’anni di tempo, restano così nuovi?”, si chiede il figlio Paolo. Una domanda inquietante: quella carta da pacchi sta lì, senza alcun segno di ingiallimento o di umidità, davanti agli occhi degli uomini della squadra mobile di Cosenza, dell’Asl, dell’ufficio tecnico del Comune di Paola, dei responsabili del cimitero, dei due fratelli di Pompeo Panaro, del medico legale. Doveva essere un giorno importante: dopo la nostra inchiesta la magistratura ha riaperto il caso che potrebbe scoperchiare un vero vaso di Pandora su altri omicidi avvenuti in quegli anni e su un cimitero della ‘ndrangheta nascosto nello stesso luogo in cui è stato ritrovato il corpo di Panaro. Ma già si aprono gialli nel giallo.

Una sconcertante scoperta. Dopo anni e anni di ricerche che il figlio Paolo ha portato avanti da solo nonostante il flop delle indagini ufficiali, i misteri e le mancanze nelle carte, nonostante l’isolamento in cui la sua stessa famiglia lo ha messo, si è arrivati finalmente all’apertura di quel loculo senza nome, posto nella cappella di famiglia. Racconta Paolo a Repubblica.it: “Hanno scartato la cassetta di zinco. L’hanno aperta. Dentro c’erano due buste della Standa e un sacco nero per l’immondizia con dentro quel che rimane di mio padre. Non so dire la rabbia che provato nel vedere quei resti conservati in modo tanto indegno. Non so se siano stati i miei zii, dato che loro hanno avuto in consegna i resti nell’84, dalla Procura di Paola, quando io ero bambino. O se siano stati quelli delle pompe funebri. Chiunque sia, a lui va il mio sdegno più profondo. Non c’è giustificazione a una cosa del genere. Per mio padre, vittima di ‘ndrangheta, né un nome, né un funerale: questo lo sapevo già. Trovarlo dentro buste del supermercato è ora davvero troppo”.

Il mistero: mancano elementi fondamentali per l’identificazione. Secondo quanto è scritto nel verbale del 10  febbraio 1984, la Procura consegnò al fratello della vittima, Francesco Panaro, “un omero destro, capelli, barattoli metallici di olio infiammabile, un frammento di pantalone scuro, una scarpa da uomo e una chiave di un magazzino di Panaro”. Ma nella cassetta di zinco i capelli non ci sono e questo è molto grave: sono fondamentali per l’identificazione del Dna, dato che potrebbe essere molto difficile ricostruirlo a partire da un omero che è stato già sezionato. Secondo il figlio della vittima, i motivi possono essere solo tre: “dato che la riconsegna ai miei zii è avvenuta il 10 febbraio 1984 e che la tumulazione è stata fatta il giorno successivo –  almeno questo è scritto nel fantomatico registro apparso dal nulla due settimane fa  –  i capelli o sono stati buttati dai miei parenti o dalla ditta delle pompe funebri o da qualcuno che ha manomesso il loculo per impedire di arrivare all’identificazione certa”.

Scomparsi anche i frammenti di cranio. ” All’atto dell’apertura della cassetta  –  racconta Paolo –  il perito ha chiesto dove fossero finiti i frammenti di cranio di papà. Nessuno ha risposto, allora io ho detto: forse qualcuno li avrà buttati, dato che nel verbale di sopralluogo del 13 giugno 1983 risultano trovati ma mai riconsegnati. Alla mia risposta i miei parenti si sono messi a ridere. Non ho sopportato un tale oltraggio in quel momento e quindi sono uscito fuori dalla cappella. Mi domando come sia possibile che all’epoca non abbiano chiesto la restituzione dei frammenti di cranio dato che nei verbali risultavano ritrovati.È questo che considero allucinante”.

Il registro ricomparso dal nulla.  Dopo l’inchiesta di Repubblica.it, misteriosamente, due settimane fa, nel cimitero di Paola è comparso un registro “specificazione delle pezze anatomiche” di cui nessuno sapeva niente e che riporta il nome di Pompeo Panaro. Il sindaco di Paola, Basilio Ferrari, dice: “Sarà nostra cura verificare se si tratta davvero di un registro ufficiale o solo di semplici annotazioni che vanno avanti da trent’anni e che riguardano operazioni diverse dalla sepoltura”. Di certo, prima di fare l’esposto alla Dda, Paolo Panaro ha avanzato richiesta di accesso agli atti sia al Comune che all’Anagrafe. Nella risposta del Comune, datata luglio 2012, c’è scritto: “Da sopralluogo effettuato in data odierna e presa visione dei registri degli anni ’82, ’83, ’84 e ’85 non risulta alcuna trascrizione e/o annotazione di decesso a nome di Panaro Pompeo”. All’Anagrafe risulta solo una dichiarazione di morte presunta. “Queste stesse circostanze sono state verificate ad aprile 2013 dalla Questura di Cosenza che ha confermato che non c’era nulla. Dopo due mesi, due sabati fa, apprendo dai  giornali che è comparso misteriosamente nel cimitero di Paola un registro. Anche ammesso che il quello ritrovato sia un documento vero, resta il fatto che il registro ufficiale di sepoltura non riporta nulla”.

L’interrogazione parlamentare. Dopo la nostra inchiesta, una interrogazione al ministro della Giustizia è stata presentata dal deputato PD Ernesto Magorno che ha sottolineato le “omissioni, le incongruenze e i troppi punti oscuri che meritano di essere chiariti. Il figlio di Pompeo non va lasciato solo nella sua coraggiosa e tenace battaglia per conoscere la verità. Penso che far luce, seppure a distanza di tanti anni, sul caso Panaro, rappresenti un segnale forte e inequivocabile della volontà di affermare, sempre e comunque, contro ogni ostacolo ed omertà, i valori della legalità e della giustizia”. Mercoledi 26 giugno, in Commissione Giustizia, il ministro ha risposto assicurando che seguirà la vicenda.

Interrogativi aperti. “Se la sepoltura è stata regolare perché i miei parenti non hanno mai scritto il nome di Pompeo Panaro sulla lapide né è mai stato fatto un funerale? – si chiede ancora Paolo –  Spero che la Questura interroghi le persone coinvolte e ponga dubbi sulla validità di questo registro comparso dal nulla. Se fosse valido, sarebbero falso in atto pubblico tutti i documenti prodotti finora in risposta alla mia richiesta di accesso agli atti”.  Non resta che attendere gli esiti del Dna e sperare che l’omero sezionato sia sufficiente per arrivare a ricostruire l’identità di Pompeo Panaro.

 

 

 

Articolo del 18 Aprile 2015 da ilquotidianoweb.it
Venne ucciso più di trent’anni fa
Scatta la prescrizione per il reato
È la storia di Pompeo Panaro, ex vice sindaco di Paola (Cosenza) che nel 1982 venne scambiato per una spia e freddato dai sicari. Un omicidio senza mandanti, senza esecutori materiali e da oggi senza più accusati

COSENZA – Un omicidio commesso 33 anni fa e per il quale c’era un solo accusato. Oggi però interviene la prescrizione e quell’accusato è stato assolto. E’ la storia che racconta sul Quotidiano del Sud di oggi Marco Cribari. La vittima di quell’omicidio fu Pompeo Panaro, un consigliere comunale della Dc di Paola (CS), della quale era stato anche vicesindaco. Era il 1982, quando fu ucciso dalla ’ndrangheta per un tragico errore. L’unico finito sotto accusa per la sua morte, il boss pentito Giuliano Serpa, è stato assolto, come detto, per intervenuta prescrizione del reato mentre il pm della Dda Pierpaolo Bruni aveva chiesto nove anni di reclusione. Una recente sentenza della Cassazione ha stabilito che per i delitti commessi prima dell’entrata in vigore della Legge Cirielli, in presenza di attenuanti concesse all’imputato, anche l’omicidio può rientrare nei crimini “estinti”. E nel caso di Serpa, ovviamente, le attenuanti erano rappresentate dal suo status di collaboratore di giustizia.

In tutti questi anni non è stato possibile incriminare mandanti ed esecutori materiali: alcuni sono ormai defunti, per altri non c’erano riscontri alle indicazioni date dal pentito.

Panaro era titolare di un negozio di generi alimentari a Paola. Ignorava che in un appartamento limitrofo al suo locale, si nascondesse un latitante della ’ndrangheta. I fiancheggiatori di quest’ultimo andavano spesso da Panaro ad acquistare vettovaglie e, quando i carabinieri fecero irruzione nell’appartamento, arrestando la primula, si misero a caccia del delatore che aveva fatto la soffiata ai carabinieri. Per ragioni imperscrutabili, i sospetti caddero su Panaro. Gli rubarono l’auto e, 24 ore più tardi, lo attirarono in un tranello con il pretesto di restituirgliela. Ad attenderlo, invece, c’era un colpo di pistola che gli trapassò il cuore. Fu sepolto, ma i cani fecero scempio del suo corpo, suggerendo agli assassini di tornare sul posto e completare il lavoro con l’acido. Di lui restò solo un osso, ritrovato già nel 1984 e custodito nella cappella di famiglia fino al 2007, quando gli esami del Dna confermarono ciò che già si sapeva: che per Pompeo Panaro non ci sarebbe stata giustizia.

 

 

 

Pompeo Panaro – Quotidiano del Sud del 3 agosto 2016 – Pagine della memoria

 

 

 

Fonte: fanpage.it
Articolo del 29 settembre 2017
La storia di Pompeo Panaro, il consigliere comunale ammazzato dalla ‘ndrangheta
di Angela Marino
Il consigliere comunale democristiano è stato ucciso nel 1983 a Paola, in Calabria. Solo nel 2013 la magistratura a rinviato a giudizio uno dei suoi assassini. L’ex boss della ‘ndrangheta è stato assolto perché il reato era ormai prescritto. Il figlio: “Trent’anni di omissioni e depistaggi”.

Pompeo Panaro era quello che si dice ‘un uomo per bene’, un facoltoso commerciante, un esponente della DC che aveva ricoperto diverse cariche pubbliche. A Paola, comune a quaranta minuti da Cosenza, negli anni Ottanta era titolare di un negozio di generi alimentari e di numerosi appalti per la gestione delle mense. Nel 1982 i suoi affari erano così fiorenti da segnare un fatturato annuo di 100 milioni. Numeri che facevano di lui un vero ‘notabile’ della provincia cosentina.

La scomparsa
Il 28 luglio 1982 Pompeo Panaro chiude la serranda del negozio in via Duomo intorno alle 21. Deve andare a prendere sua moglie Silvana in piazza IV Novembre, ma non ha la sua auto, che gli è stata rubata. Si fa prestare quindi la Fiat 127 da suo cognato Francesco Surace, ma a all’appuntamento non si presenta. Da quel momento in poi non darà più sue notizie. La scomparsa di Pompeo Panaro, personaggio pubblico, denunciata dal fratello solo dopo quarantott’ore, il successivo 30 luglio, passa sotto silenzio. Da quel momento nessuno parla più dell’ex consigliere, nessuno fa domande. ‘Lupara bianca’ suggeriscono gli inquirenti, ma voci di paese dicono che Pompeo è ancora vivo, ed è tenuto segregato in via Baracche, dove la Fiat 127 che guidava la sera del 28 luglio è stata trovata regolarmente parcheggiata e chiusa a chiave dai carabinieri. Sulle ‘voci’ non vengono effettuati accertamenti.

Feudi politici e ribellioni
Chi aveva motivo di fare del male al commerciante democristiano? Pompeo Panaro era un uomo apparentemente trasparente, profondamente cattolico, votato alla famiglia. Era sempre stato sereno, nell’ultimo periodo, però, forti dissapori in consiglio comunale lo avevano portato alle dimissioni dalla DC. Annunciò la notizia poco prima di sparire, pronunciando parole di fuoco davanti all’assise cittadina, all’interno della quale diceva di voler rimanere come ‘indipendente di sinistra’.”Non si può avere paura della sorte di chi si ribella ai vostri dirigenti – tuonò – a Paola sta crollando il feudo politico che si erano costruito”. Dopo quel discorso che alludeva vagamente alla corruzione parlando di “condotte illecite imposte dall’alto”, niente sembrò turbare la sua pace, almeno fino al giorno della scomparsa.

Omicidio
Nel 1983 una segnalazione anonima porta la polizia in un bosco in località Trifoglio, dove i militari trovano un osso e alcuni brandelli di indumenti che si ritiene appartengano all’ex consigliere DC. I resti vengono riconosciuti dai fratelli Panaro, insieme a una ciocca di capelli trovata anch’essa sul posto. Il ritrovamento viene registrato in un fascicolo con intestazione ‘omicidio’, insieme alle foto. I giorni seguenti gli investigatori troveranno altri frammenti ossei appartenenti a un cranio, che, però, non finiscono nel rapporto finale della polizia. Nel 1984 l’osso viene deposto nella cappella di famiglia: Pompeo è stato ucciso e il suo corpo bruciato e abbandonato agli animali selvatici, fine della storia.

Un processo
Invece no, perché la morte non viene riconosciuta. Nella cappella cimiteriale in cui i parenti depongono i resti (meno quelli del cranio, che non arriveranno mai nelle loro mani) non ci sono iscrizioni, non ci sono lapidi, lo stesso cimitero non registra la presenza di quelle spoglie. Pompeo non è morto, non per il Comune, nei cui uffici non viene consegnato alcun documento attestante il decesso. Ma le anomalie non finiscono qui. Nel 1997 il pentito Fedele Soria, del clan Serpa, rivela alla DDA i nomi degli assassini di Pompeo, il luogo e le modalità. Caso chiuso? Neanche stavolta. Alle dichiarazioni non segue il rinvio a giudizio dei presunti responsabili. Nel 2004 il caso viene archiviato.

L’omicidio diventa scomparsa
Le successive inchieste ‘Costa’, ‘Missing’, ‘Iceberg’ e ‘Tela del Ragno’ della DDA di Catanzaro, condotte negli anni successivi nell’ambito dell’attività di contrasto alla ndrangheta, fanno nuovamente riferimento al caso Panaro come ‘scomparsa’ e ‘lupara bianca’. Perché? Per quale motivo la DDA ignora un fascicolo che documenta il ritrovamento dei resti, l’identificazione ufficiale e la restituzione per seppellimento? Anche in casa Panaro la vicenda è nebulosa. In famiglia nessuno parla di omicidio, tanto che quando un quotidiano locale ne riporta la storia come delitto di ‘ndrangheta, i fratelli del defunto si infuriano, minacciano di querelare il giornalista. Eppure sono stati propri loro a riconoscere e prendere in consegna i resti del congiunto. A rendere ancora più inquietante il quadro sono i fatti del 2007. Il boss il pentito Giuliano Serpa fa ancora una volta il nome di Panaro, confermando la ricostruzione del primo pentito e autoaccusandosi del delitto insieme a un’altra dozzina di complici. Incredibilmente neanche stavolta si giunge a un processo.

E poi morte presunta
Intanto Paolo Panaro, il figlio di Pompeo, per anni rimasto fuori regione per motivi di studio e tornato a Paola, comincia a fare domande agli zii e a sua madre. Ignora il ritrovamento dei resti attribuiti al cadavere di suo padre. Solo nel 2011 apprende dell’esistenza di un fascicolo per omicidio e del fatto che due pentiti, rispettivamente nel 1997 e nel 2007 abbiano parlato del delitto. Eppure con la sua famiglia Paolo aveva inoltrato e ottenuto, tramite l’avvocato e amico Francesco Granata, la richiesta del riconoscimento di morte presunta (gallery). Come era stato possibile compiere quell’iter se esisteva in archivio il famoso fascicolo per omicidio? Se gli zii avevano voluto tacergli dell’omicidio, perché, all’atto della domanda di morte presunta le autorità non gli avevano fatto presente che esisteva il fascicolo?

L’enigma dei resti
Dopo un esposto di Paolo Panaro, la magistratura riapre l’inchiesta. Nel 2013 viene disposto il test del DNA sui resti conservati nella cappella di famiglia. Alla presenza del figlio, del medico legale e dei tecnici viene aperta la cassetta di zinco. Il contenitore è avvolto in una carta da pacchi insolitamente asciutta e ben conservata. Quando la aprono i tecnici vi trovano all’interno due sacchetti di plastica della ‘Standa’ e un sacco nero per i rifiuti. Dentro c’è l’omero. Mancano i capelli, fondamentali per l’identificazione del DNA e i frammenti di cranio ritrovati nel 1983 e, secondo i documenti(gallery), mai consegnati ai parenti. Paolo si trova davanti all’inquietante domanda: errore o depistaggio?

Il pentito
Tra resti scomparsi, morti taciute e inquietanti silenzi, il grande assente del caso resta il movente. Se sono stati i sicari delle ‘ndrine locali a uccidere il consigliere comunale, perché lo hanno fatto? Quali interessi aveva compromesso, quale sistema aveva incrinato, con il suo ruolo politico, Pompeo Panaro? Secondo il pentito Giuliano Serpa, il 48enne sarebbe stato eliminato perché ritenuto un informatore dei carabinieri. Le sue segnalazioni avrebbero fatto arrestare i latitanti di ‘ndrangheta che avevano ucciso il meccanico Luigi Gravina. Gli assassini del giovane, ammazzato per non aver voluto dare gratis dei copertoni a un boss, avevano in affitto alcuni immobili di proprietà di Panaro, che avrebbe quindi segnalato il loro nascondiglio. Nonostante il pentito – che si autoaccusa di aver partecipato al delitto – dichiari che furono in 13 a uccidere il povero Panaro, questi viene processato da solo. I complici? Sono tutti morti, dice la sentenza, eppure, nelle carte si legge che alcuni di loro all’epoca erano ancora vivi (alcuni lo sono tutt’ora) e si trovavano in carcere per altri reati (gallery).

Prescrizione
Alla fine Serpa viene assolto perché il reato è caduto in prescrizione. Una recente sentenza della Cassazione ha stabilito, infatti, che per i delitti commessi prima del 2005, ovvero prima dell’entrata in vigore della legge Legge Cirielli, (sconfessata dal suo primo firmatario, Edmondo Cirielli, di Fratelli D’Italia), in presenza di attenuanti, anche l’omicidio può rientrare nei crimini “estinti”. Nel caso di Serpa le attenuanti sono state concesse in virtù della sua collaborazione con la giustizia.

L’epilogo
La verità processuale è stata scritta, ma resta una domanda, gigantesca e improrogabile: perché per 30 anni la morte del politico è stata ignorata?

 

 

 

Foto dalla Pagina  wikimafia.it dedicata a Pompeo Panaro

 

 

 

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