Storia e storie di camorra di Bruno De Stefano
Storia e storie di camorra
I segreti e gli intrighi di potere dello scioccante mondo parallelo della criminalità organizzata
di Bruno De Stefano
La storia senza fine del crimine in Italia
I segreti e gli intrighi di potere dello scioccante mondo parallelo della criminalità organizzata**
Episodi di sangue, violenza e intrighi da cui emerge il potere devastante della camorra. Protagonisti delle storie non sono soltanto i boss e i loro sicari alle prese con omicidi, stragi ed esecuzioni brutali, ma anche personaggi della società civile che hanno pagato un prezzo altissimo nel tentativo di opporsi alla logica della violenza e dell’illegalità: in questo libro si parla di gente perbene, vittime innocenti, poliziotti corrotti, killer pentiti, preti dalla doppia vita, politici collusi, eroi mancati, martiri ammazzati nell’indifferenza generale. Alcuni episodi sono noti, altri invece sono finiti nel dimenticatoio o vengono volutamente ignorati; talvolta sono vicende che i media hanno colpevolmente trascurato o sottovalutato, in altri casi ancora si tratta di delitti rimasti impuniti. Ma ciascuna di queste 101 storie denuncia la presenza sul territorio di un potere parallelo, strisciante e tentacolare, capace di infestare progressivamente tutti gli ambiti della società: un fenomeno allarmante che investe l’Italia intera, e non solo quella parte dello stivale che va dalla Campania in giù.
Alcune delle storie narrate:
La camorra nel Palazzo
Il calciatore che premiò il boss
Il caso Tortora
Corna o camorra?
Maradona nella vasca dei Giuliano
Tre carabinieri sul libro paga del clan
Il boss comunista
Il “pentimento” di Cutolo
Dal libro:
La morte arriva a Capodanno
Ci sono tanti modi per festeggiare l’arrivo del nuovo anno.
Stappare una bottiglia di spumante, ballare e cantare, sparare fuochi d’artificio. Però c’è anche chi non si accontenta di brindare e di far baldoria, e cerca qualcosa che dia più adrenalina e renda la serata meno banale. A Napoli, poi, nelle zone dove domina la camorra succede tutto e il contrario di tutto, e quasi sempre la notte di Capodanno si trasforma in tragedia: chi perde una mano, chi le dita, chi la vita. E nei primi minuti del 2009 la vita la perde Nicola Sarpa, un pizzaiolo di venticinque anni che gli amici hanno ribattezzato “‘O Doic”, il tedesco. A stroncarlo è un colpo di pistola calibro 7,65 che si conficca nell’occhio.
Nicola abita in uno dei vicoli dei Quartieri Spagnoli, popolato da molta gente perbene ma anche da molti camorristi. Nicola appartiene alla prima categoria, e quindi non è morto per una delle tante guerre tra clan. Nella tragica fine, però, la camorra c’entra lo stesso. Perché ad ucciderlo è stato un colpo partito dalla pistola di Manuela Terracciano, venticinquenne figlia di Salvatore detto ‘O Nirone, un ex boss pentito.
A cavallo della mezzanotte, la Terracciano è ospite della nonna al primo piano di un palazzo in vico Lungo Trinità degli Spagnoli. È in compagnia di un’amica con la quale ride e scherza. La chiamano “‘A Chiattona”, un soprannome che sta a indicare un fisico particolarmente robusto. Manuela ha deciso che non sarà un Capodanno qualsiasi, tant’è che s’è portata appresso un’arma. Allo scoccare della mezzanotte vuole festeggiare sparando colpi di pistola, una pessima abitudine purtroppo assai praticata nei quartieri ad alta densità camorristica. Il 2009 è iniziato da poco, quando ‘a chiattona esce sul balcone con in mano la 7,65, la punta verso l’alto e preme più volte il grilletto.
Alcuni proiettili vanno a vuoto, ma uno si conficca nell’occhio destro di Nicola: era appena uscito sul balcone per richiamare il fratellino Manuele incautamente sceso giù in cortile. Nicola crolla come un sacco vuoto, morto. Alla scena assiste la madre, che racconterà di aver visto un lampo e poi subito il figlio accasciarsi: credeva che si fosse abbassato per schivare il proiettile, invece era già stato colpito in fronte.
Il lampo lo vede anche Manuela. E lo vedono pure i suoi parenti, che si rendono conto della gravità di quanto è accaduto. E per salvare la ragazza non perdono un istante: la infilano in macchina e partono a tutto gas verso Caserta, dove un’amica la terrà al riparo dalle manette. Per la figlia dell’ex boss Terracciano le cose si mettono subito male. I familiari della vittima e alcuni vicini di casa non hanno alcuna difficoltà nell’indicare il nome dell’assassina: «È stata la figlia di Salvatore ‘O Nirone a uccidere Nicola», riferiscono agli inquirenti. Manuela capisce di non avere scampo e, invece di prolungare un’inutile fuga, si costituisce tre giorni dopo il delitto. ma nega di essere lei la killer del pizzaiolo: «Sono innocente, non ho mai sparato» (Il Mattino del 3 gennaio 2009),
La notizia che la ragazza è in carcere non attenua il dolore dei parenti di Nicola. Valentina, la sorella, ai giornalisti rilascia solo queste parole: «Si è costituita? Questo non mi restituirà mio fratello. E comunque la Terracciano non si è costituita di sua spontanea volontà: l’hanno costretta a farlo. Il fatto è gravissimo, perché così avrà una riduzione della pena. Invece noi della famiglia chiediamo una punizione esemplare, che vendichi l’uccisione di Nicola e che faccia sparire le pistole dai Quartieri» (Ilsole24ore.com del 3 gennaio 2009)
Insieme alle pistole, dai Quartieri Spagnoli sparisce anche un pezzetto di omertà. Ma solo un pezzetto. Delle decine di persone che hanno assistito alla scena, solo in quattro hanno avuto il coraggio di puntare il dito contro la Terracciano.
La scarsa collaborazione dei cittadini suscita l’indignazione del procuratore aggiunto Alessandro Pennasilico, che il 4 gennaio 2009 a Irene De Arcangelis del “La Repubblica” confessa la sua amarezza: «Il muro di omertà va in frantumi? La gente che denuncia? Macché. A fronte della Vicenda di Nicola Sarpa ci sono decine e decine di altri episodi gravi dove non c’è stata nessuna collaborazione. Non vedo speranze per questa città. Non per ora, almeno. Il caso di Nicola è solo un’eccezione, la mentalità non cambia».
Ai funerali di Nicola Sarpa c’è una folla sterminata. Il suo corpo è dentro una bara bianca intarsiata d’oro, un regalo di alcuni suoi amici titolari di un’impresa di pompe funebri. Sopra la bara c’è una bandiera della Juventus, la squadra del cuore del pizzaiolo. Su uno striscione si legge: «Non passeranno i giorni, le ore, i mesi, gli anni: rimarrai sempre nei nostri cuori, magico Doic».
Manuela Terracciano sarà processata col rito abbreviato e condannata a dieci anni per omicidio volontario con “dolo eventuale”. Il PM Fabio De Cristofaro di anni ne aveva chiesti trenta.
I bambini non si toccano
La verità è in fondo a un pozzo profondo cinque metri e largo quattro. Lo stesso nel quale il 13 marzo del 1981 i carabinieri trovarono il cadavere di Raffaella Esposito, una tredicenne rapita due mesi prima a Somma Vesuviana, a pochi chilometri da Ottaviano, il regno di Raffaele Cutolo.
Un delitto orribile: Raffaella era morta strangolata, l’assassino le aveva stretto intorno al collo la cintura del suo cappottino azzurro. Un omicida che per lo Stato non ha mai avuto né un volto né un nome; stando alle carte giudiziarie, infatti, nessuno è mai finito sotto processo per aver ucciso la tredicenne. Ma se per lo Stato il killer è rimasto sconosciuto, per la camorra l’infame che ha ammazzato la ragazzina è stato punito come meritava: con la condanna a morte. Una pena esemplare per dimostrare, ovviamente in maniera strumentale, che la giustizia dei clan è più veloce ed efficace di quella fatta di giudici, pubblici ministeri e sentenze.
La storia comincia con il rapimento di Raffaella, che sparisce il 13 gennaio del 1981 mentre sta tornando da scuola. Che non si tratti di un sequestro a scopo di estorsione è fin troppo chiaro: il padre è un venditore ambulante di bibite, la madre è fruttivendola, quindi non potrebbero mai pagare alcun riscatto. Le ipotesi sono tante ma nessuna è convincente. In quel periodo nell’area vesuviana la NCO di Cutolo è in guerra con tutti e non c’è giorno in cui non ci siano omicidi e imboscate. Raffaella, insomma, potrebbe aver visto qualcosa che non doveva vedere. O forse l’hanno rapita per fare uno sgarro a qualcuno, anche se non si sa bene a chi.
La possibilità che dietro la sparizione della ragazzina ci sia la camorra è remota, ma i cutoliani reagiscono stizziti alle voci che li vorrebbero in qualche modo coinvolti nel rapimento. La legge non scritta delle cosche afferma il principio secondo il quale i bambini non si toccano perché le “creature” sono sacre. Gli anni successivi dimostreranno che i boia della camorra non risparmiano niente e nessuno, neppure le anime innocenti, ma all’interno della NCO sanno che per non perdere il consenso popolare devono far vedere di non essere neutrali di fronte a un crimine perpetrato ai danni di una bambina. E così il 16 febbraio, a poco meno di un mese dal sequestro di Raffaella Esposito, Pasquale D’Amico, uno dei luogotenenti di Cutolo, spedisce una lettera alla redazione del quotidiano «Il Mattino» nella quale intima ai rapitori di rilasciare la ragazzina. Nella lettera D’Amico tiene a precisare che la NCO non ha nulla a che vedere con la faccenda e che «tutti i componenti della vera camorra sono uomini d’onore che si estraniano da tutti i tipi di rapimento». Il boss, senza troppi giri di parole, aggiunge anche che i camorristi «per un fatto del genere sono pronti ad ammazzare».
In quei giorni le indagini sembrano arrivate a buon punto. I carabinieri fermano il presunto sequestratore: si chiama Giovanni Castiello, ha trentasette anni e lavora alle dipendenze di uno zio di Raffaella. Gli inquirenti sono arrivati a lui sulla base della testimonianza di una donna che ha raccontato di aver visto la vittima salire su una Fiat 127 di colore rosso nel giorno in cui è scomparsa. Castiello, proprietario di una macchina dello stesso modello e colore, viene interrogato dal giudice Lucio Di Pietro, che però lo scarcera perché gli indizi a suo carico non sono sufficienti.
L’ipotesi che la bambina sia finita nelle mani di un maniaco diventa sempre più consistente. Anche Papa Giovanni Paolo II fa un appello per chiedere la liberazione della figlia del venditore ambulante. Tutto inutile. Il 13 marzo, a due mesi esatti dal rapimento, una contadina trova il corpo senza vita di Raffaella in un pozzo in un fondo agricolo in contrada Cinquevie, a San Gennarello, una frazione di Ottaviano. Secondo il Burocratico linguaggio del medico legale, Raffaella è in uno stato di «saponificazione cadaverica» dal quale si deduce che in quel pozzo era stata gettata almeno quaranta giorni prima.
Per qualche tempo, la notizia della ragazzina strangolata da un maniaco ruba la scena ai delitti di camorra che continuano a insanguinare l’area vesuviana. A rendere ancora meno accettabile la tragica fine di Raffaella è la palese difficoltà nell’individuare l’autore del delitto. I carabinieri hanno interrogato un centinaio di persone ma senza venire a capo di nulla. L’unico a essere sospettato è stato Giovanni Castiello, tuttavia gli elementi a suo carico sono assolutamente insufficienti a considerarlo l’assassino al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma quegli elementi, considerati insufficienti dal giudice e dai carabinieri, bastano e avanzano, invece, alla camorra. Se la giustizia dello Stato non riesce a incastrare i colpevoli, allora ci pensa la NCO di Cutolo a punire l’assassino di Raffaella Esposito. Anche perché la carogna colpevole del delitto ha agito nel territorio «amministrato» da Raffaele Cutolo e dai suoi soldati: un affronto che non può non restare impunito.
Il 13 aprile, a trenta giorni dal ritrovamento del cadavere della bambina, Giovanni Castiello viene ammazzato con tre colpi di pistola calibro 38 a Sant’Anastasia, dove abitava. Agli investigatori non occorrono grandi sforzi per capire perché l’operaio sia stato ucciso. Ad eccezione della vicenda di Raffaella, Castiello non aveva mai avuto alcun problema con la legge. I dubbi su chi possa averlo trucidato durano poche ore. Nella tarda serata al centralino del quotidiano «Il Mattino» arriva una telefonata anonima dal contenuto inequivocabile: «La camorra ha giustiziato l’assassino della piccola raffaella Esposito: i bambini non si toccano».
Molti anni dopo Cutolo sarà prosciolto dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Castiello. Ma quel delitto, secondo alcuni pentiti, fu voluto dalla NCO per dimostrare che, se la giustizia dello Stato è lenta e titubante, quella della camorra è rapida e certa.