11 agosto 1981 Spezzano Sila (CS). Assassinato Salvatore Serpa, 27 anni, funzionario CGIL, per vendetta trasversale.

Salvatore Serpa, sindacalista della CGIL, di 27 anni,

merita di essere ricordato. Di provenienza da una famiglia dell’omonimo clan paolano, da giovanissimo mostrava interesse per la politica e la volontà di staccarsi dalle tradizioni del clan di appartenenza.
Ed infatti Salvatore (Tuturu) dopo una esperienza nella nascente “Servire il Popolo”, scelse di aderire al Pci e poi alla fine degli anni 70, anche per staccarsi più decisamente dal contesto di origine e dalla guerra tra clan scoppiata a Paola e sul Tirreno in quell’epoca, decise di andare a continuare la sua esperienza politica nella Fillea Cgil di Cosenza. Ma non fu sufficiente. L’11 agosto del 1981, nel corso di quella terribile guerra tra bande, fu assassinato a casa sua, a Spezzano Sila dove si era trasferito. Vittima di un omicidio trasversale della guerra in corso tra il clan paolano della sua famiglia di origine ed altri clan in lotta per il predominio in quel quadro di cambiamento di sistema sopra richiamato. Un episodio trascurato e derubricato ad “omicidio trasversale” nelle logiche delle guerre tra bande e stralciato, a torto, dallo scenario generale, anche politico.”

da left.it , articolo di Mimmo Rizzuti

Nome da archivio.unita.news

 

 

Fonte:  archivio.unita.news
Articolo del 12 agosto 1981
Assassinato dalla mafia perché portava il nome di una famiglia rivale 
Salvatore Serpa, 27 anni, trucidato da due killer
di Gianfranco Manfredi
Gli hanno sparato sulla porta dì casa a Spezzano Sila, in Calabria – In diciotto mesi 16 omicidi e decine di attentati.

COSENZA – Lo scontro feroce tra diverse bande della delinquenza organizzata della provincia di Cosenza continua senza esclusione di colpi. Ieri mattina si è giunti al caso limite con la barbara esecuzione di Salvatore Serpa, 27 anni, funzionario della CGIL, iscritto al PCI “colpevole” di essere parente e di portare lo stesso cognome di una famiglia di Paola (grosso centro sulla costa tirrenica) coinvolta in alcuni episodi criminosi.

Pur di colpire il clan rivale questa volta non si è esitato a scegliere una vittima assolutamente estranea. Un giovane che si considerava, e le scelte della sua vita lo testimoniano, totalmente fuori dall’ambiente cui pure appartenevano alcuni suoi parenti. Lo spietato delitto è avvenuto nella stessa abitazione della vittima a Spezzano Sila, un paese a 12 chilometri da Cosenza.

Salvatore Serpa era in ferie dai primi del mese. Quando ieri, pressappoco alle 8 meno un quarto, due uomini hanno suonato al citofono di casa sua dicendo di dover parlare col sindacalista, lui non ha esitato ad invitarli a salire. così i due killer hanno raggiunto indisturbati il secondo piano della palazzina. Qui Salvatore Serpa li aspettava sul pianerottolo, affacciato sull’uscio del suo appartamento. Il commando ha agito in pochi attimi esplodendo a distanza ravvicinata, sembra siano stati entrambi i sicari a sparare, numerosi colpi di pistola che hanno raggiunto Serpa alla testa, al petto e in altre parti vitali.

Alle urla della moglie, Lucia Rodi di 25 anni, commessa in un grande magazzino di Cosenza, che in quel momento si trovava in cucina, i due assassini si sono dati alla fuga dileguandosi. A nulla è valsa la corsa di un’ambulanza: Salvatore Serpa è giunto cadavere all’ospedale civile dell’Annunziata di Cosenza.

La notizia del suo assassinio ha turbato gli ambienti sindacali di tutta la provincia (la CGIL ha emesso un comunicato di cordoglio) suscitato vivo dolore fra quanti lo conoscevano. Apprezzato dirigente della FILLEA, Serpa dal ’75, da quando cioè il suo impegno sindacale era diventato a tempo pieno, viveva a Cosenza dove si era sposato ed aveva avuto anche una bambina. Conduceva una vita tranquilla e svolgeva con impegno il suo lavoro alla CGIL del capoluogo.

Le stesse modalità del delitto confermano che Salvatore, nonostante il cognome che portava, non si sentiva per nulla minacciato dal clima di terrore in cui negli ultimi tempi si vive negli ambienti del crimine organizzato del cosentino, coinvolti in una guerra aperta che conta già, nei soli ultimi 18 mesi, ben 16 omicidi ed un centinaio di attentati e ferimenti. Può essere stata proprio questa certezza di poter contare sul fattore sorpresa, e su una vittima inerme, a far considerare Salvatore Serpa come un bersaglio da colpire agli occhi dei suoi assassini. La sua estraneità all’ambiente violento in cui agiscono alcuni suoi parenti – come rilevava ieri un comunicato della CGIL di Cosenza – anziché risparmiarlo lo ha invece esposto, totalmente indifeso, alla furia di uno scontro che ha assunto ormai, anche in questa provincia calabrese, precisi connotati mafiosi.

La famiglia Serpa, cugini e zii di Salvatore, è da alcuni anni protagonista di uno scontro violento con altri clan sulla costa tirrenica cosentina. Qui si è andata organizzando, ed evolvendo di recente, una delinquenza che, partita da condizioni di soggezione, oggi, è iscritta a pieno titolo nel “Gotha” del crimine calabrese. La crescita non è avvenuta in modo lineare. Ogni saldo di qualità è contrassegnato da una catena di efferatezze che finora hanno goduto della quasi totale impunità. Le circostanze e le modalità stesse dei delitti dicono molto sulla ferocia e sulla spietatezza della lotta.

Giovanni Serpa, zio di Salvatore, è stato ucciso e poi carbonizzato nel suo furgone a novembre del ’79. Poche settimane dopo suo nipote Vincenzo, è stato assassinato e sfigurato a colpi di lupara esplosi a bruciapelo. È una escalation di sangue e di paura che non ha precedenti in questa regione meridionale. Salvatore Serpa si è trovato, malgrado avesse fatto ben altre scelte di vita, al centro di questa guerra che ormai non ammette più alcuna “regola” tradizionale e minaccia la stessa convivenza civile dell’intera società.

 

 

Fonte: nuovacosenza.com
Articolo del 18 ottobre 2006
Operazione Missing: 34 in carcere.
Ricostruita la guerra di mafia degli anni 80 che portò all’omicidio di Sergio Cosmai e a 42 omicidi. Legami con il boss Condello, ancora latitante. Conferenza con Piero Grasso.

Si è conclusa in tarda mattinata l’operazione dei carabinieri iniziata questa mattina all’alba, denominata Missing, che ha portato in carcere 34 persone. Delle 36 ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip Macrì ne sono state eseguite 34. I due provvedimenti non eseguiti riguardano il boss della ‘ndrangheta reggina Pasquale Condello, latitante dal 1997, ed un’altra persona, di cui non è stata resa l’identità, che si trova all’estero. Alle persone coinvolte nell’operazione vengono contestati, a vario titolo e con diversi livelli di responsabilità, i reati di omicidio, sequestro di persona e detenzione e porto illegali di armi. I particolari dell’operazione sono stati resi noti durante una conferenza stampa svolta questa mattina presso la caserma Grippo dei carabinieri di Cosenza, alla quale ha partecipato anche il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso.

Le indagini dei carabinieri del Ros hanno consentito di scoprire autori e moventi dei più gravi delitti commessi nel corso di due guerre di mafia durate quasi un trentennio. È stata ricostruita l’evoluzione del fenomeno mafioso fino ad oggi, documentandone anche i rapporti con le cosche reggine, e in particolare con il sodalizio capeggiato da Pasquale Condello, raggiunto anche lui da provvedimenti restrittivo, ma già ricercato da 15 anni ed inserito nell’elenco dei 30 latitanti più pericolosi a livello nazionale. Tra gli episodi più gravi anche l’omicidio di Sergio Cosmai, all’epoca direttore del carcere di Cosenza, assassinato nel marzo del 1985 dalla ‘ndrangheta cosentino. Cosmai fu assassinato perché si era opposto al tentativo delle cosche cosentine della ‘ndrangheta di assumere il controllo della casa circondariale. L’operazione ha consentito di fare piena luce sull’assassinio di Cosmai, che rappresenta uno dei fatti più gravi nella storia della ‘ndrangheta, con l’individuazione dei presunti responsabili dell’omicidio. Secondo le indagini sarebbe stato il boss della ‘ndrangheta Franco Perna, capo dell’omonima cosca della ‘ndrangheta, ad ordinare l’omicidio del direttore del carcere di Cosenza, Sergio Cosmai.

Questo è quanto emerso dall’inchiesta della Procura antimafia di Catanzaro. Perna avrebbe fatto uccidere Cosmai perché voleva assumere il controllo del carcere. Tentativo osteggiato dal direttore della casa circondariale cosentina. Ad eseguire l’omicidio di Cosmai sono stati i fratelli Dario e Nicola Notargiacomo, entrambi affiliati alla cosca Perna, collaboratori di giustizia dal 1994. I due fratelli, pur essendosi assunti, nell’ambito della loro collaborazione con gli inquirenti, la responsabilità dell’assassinio di Cosmai, non sono più giudicabili per l’omicidio. Entrambi, infatti, prima che cominciassero a collaborare con la giustizia, sono stati assolti in via definitiva dopo che in primo grado erano stati condannati all’ergastolo

 

Gli arrestati

18/10 Queste le persone arrestate nell’ambito dell’operazione Missing: Osvaldo Bonanata alias “u macellaio”, di 55 anni; Gianfranco Bruni “U Tupinaru” (43); Michele Bruni “Bella Bella junior” (33); Pasquale Bruni (39); Romeo Calvano (50); Enzo Castiglia (49); Giulio Castiglia “Tonino” (55); Silvio Chiodo (46), Domenico Cicero (49); Giuseppe Cosentino (46); Salvatore D’Andrea (49); Claudio Gabriele “Sergio” (45); Giuseppe Iirillo “Vecchiareddra” (48); Rinaldo Mannarino “Amarildo” (42); Mario Mucci (53); Francesco Muto (66); Francesco Patitucci (45); Giuseppe Ruffolo (52); Giuliano Serpa (47) e Nicola Voltasio (52). Le ordinanze di custodia cautelare sono state notificate in carcere a Giancarlo Anselmo, “Saturno” di 48 anni; Mario Baratta (55); Pierluigi Berardi “Ciciarieddru” (41); Lorenzo Brescia (49); Carmine Chirillo (45); Romano Chirillo (35); Giovanni Fontana (61); Ettore Lanzino (51); Delfino Antonio Lucieri (47); Antonio Musacco (60); Francesco Perna (65); Mario Pranno (50); Pasquale Pranno (54), e Gianfranco Ruà (46). Delle 36 ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip Macrì ne sono state eseguite 34. I due provvedimenti non eseguiti riguardano il boss della ‘ndrangheta reggina Pasquale Condello, latitante dal 1997, ed un’altra persona, di cui non è stata resa l’identità, che si trova all’estero.

 

Ricostruita la guerra di mafia a Cosenza

18/10 L’inchiesta della Procura antimafia di Catanzaro che ha portato la scorsa notte all’operazione Missing, con l’emissione di 36 ordinanze di custodia cautelare, ha consentito di ricostruire le due guerre di mafia registratesi a Cosenza dal 1977 al 1989, con l’identificazione dei responsabili di 42 omicidi. La prima guerra di mafia ha visto contrapposti i gruppi Pino-Sena da una parte e Perna-Pranno dall’altra. La seconda, successiva all’omicidio del direttore del carcere di Cosenza, Sergio Cosmai, si verificò all’interno della stessa cosca Perna per il tentativo di alcuni affiliati di costituire un gruppo autonomo. Nell’ambito dello scontro interno al gruppo Perna, accaddero una serie di omicidi eseguiti con modalità estremamente efferate, a dimostrazione, rilevano gli inquirenti, della pericolosità delle cosche cosentine. Tra questi, assume un particolare rilievo l’assassinio dei fratelli Stefano e Giuseppe Bartolomeo, di 24 e 26 anni, sequestrati il 6 gennaio del 1991 e successivamente uccisi. I cadaveri dei due fratelli, secondo quanto hanno riferito gli investigatori, vennero sciolti nell’acido. Stefano Bartolomeo, tra l’altro, era stato arrestato nel 1985 per l’ uccisione di Cosmai e fu condannato in primo grado all’ ergastolo, insieme ai fratelli Dario e Nicola Notargiacomo, ma successivamente venne assolto in appello. L’ordinanza di custodia cautelare è stata emessa dal gip Macrì su richiesta del procuratore della Repubblica aggiunto della Dda di Catanzaro, Mario Spagnuolo, e del sostituto Raffaella Sforza. Il provvedimento si compone di 1.600 pagine, mentre la richiesta è di oltre diecimila pagine.

Una lunga scia di sangue composta da 42 omicidi

18/10 Quarantadue tra omicidi e tentati omicidi accaduti a Cosenza tra il 1978 ed il 1994: sono quelli sui cui responsabili ha consentito di fare luce l’operazione Missing fatta la scorsa notte dai carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Cosenza sotto le direttive della Procura antimafia di Catanzaro. Tutti gli omicidi e gli altri fatti di sangue su cui si sono incentrate le indagini rientrano nello scontro tra le cosche cosentine che ha avuto inizio il 14 dicembre del 1977 con l’uccisione di Luigi Palermo, detto ‘u Zorru, all’epoca capo indiscusso della ‘ndrangheta cosentina, ad opera di Franco Pino, che successivamente divento’ un boss e che dopo l’arresto cominciò a collaborare la giustizia. L’uccisione di Palermo provocò la scissione della sua cosca in due gruppi, quello dei Perna-Pranno-Vitelli e quello dei Pino-Sena, con la creazione successiva di nuove alleanze e nuovi intrecci tra i diversi gruppi. Ne derivò una forte contrapposizione tra le due cosche, con una serie di omicidi che si protrasse fino alle fine degli anni ’80. Successivamente ci fu un pacificazione tra i due schieramenti che si interruppe bruscamente a causa di una spaccatura all’interno della cosca Prenna per il distacco del gruppo Bartolomeo-Notargiacomo.È in questa fase che il 12 marzo del 1985 avviene l’assassinio di Sergio Cosmai, direttore del carcere di Cosenza, fatto uccidere da Franco Perna per consolidare anche all’interno della casa circondariale la sua influenza mafiosa. Tentativo contro il quale Cosmai stava opponendo una stenua resistenza. Tra le vittime degli omicidi anche due ragazzi: Pasqualino Perri, di 12 anni, ucciso a Rende il 27 ottobre del 1978 in occasione di un agguato compiuto contro il padre, Gildo, e Francesco Bruni, di 16 anni, assassinato per una vendetta contro il padre, Francesco senior, che alcuni giorni prima aveva ucciso Francesco Carelli, vicino al gruppo Pranno-Vitelli.

 

Le vittime degli omicidi e dei tentati omicidi

18/10 Questi gli omicidi della prima guerra di mafia a Cosenza: Pasqualino Perri, ucciso a Rende il 27 ottobre del 1978; Mario Coscarella (Cosenza, 25 gennaio 1981); Mario Cilento (Paola, 2 giugno 1981); Giovanni Drago (San Lucido, 12 luglio 1981); Salvatore Serpa (Spezzano della Sila, 11 agosto 1981); Francesco Porco (Cosenza, 12 dicembre 1981; Francesco Africano, Emanuele Osso e Domenico Petrungaro (Amantea, 23 dicembre 1981); Giovanni Gigliotti (Cosenza, 28 dicembre 1981); Angelo Cello (Cosenza, 21 luglio 1982); Giuseppe Vaccaro (Cetraro, 31 agosto 1982); Aldo Mario Mazzei (Rende, 21 ottobre 1982); Isidoro Reganati (Rende, 24 novembre 1982); Nelso Basile (San Lucido, 22 febbraio 1983; Diego Costabile (Rende, 3 maggio 1983); Giuseppe Ricioppo (Cerzeto, 10 maggio 1983; Giuseppe Geria e Valente Saffioti (Scalea, 6 agosto 1983; Francesco Scaglione (Cosenza, 17 settembre 1983); Maurizio Valder (Cosenza, 12 ottobre 1983); Alfredo Andretti (Cosenza, 5 luglio 1985); Demetrio Amendola (Donnici, 15 agosto 1990); Giuseppe Andali (Cosenza, 24 agosto 1990); Antonio Paese (Cosenza, 9 luglio 1991); Francesco Bruni (Celico, 8 novembre 1991) ed Ennio Serpa (Paola, 8 giugno 1994). Nell’ambito della seconda guerra di mafia furono uccisi Sergio Cosmai, direttore del carcere (Cosenza, 12 marzo 1985); Rinaldo Picone (Cosenza, 27 gennaio 1989); Carmine Luce (Cosenza, 21 giugno 1989) ed i fratelli Stefano e Giuseppe Bartolomeo (Cosenza, 5 gennaio 1991). I tentati omicidi riguardano i fratelli Stefano e Giuseppe Bartolomeo e Vincenzo Olpintesta Vincenzo (Arcavacata di Rende, 14 maggio 1989); Mario Pranno (Cosenza, 28 settembre 1989); Fausto Zarelli, Mario Salerno e Primiano Chiarello (Cosenza, 15 ottobre 1989) ed Emiliano Mosciaro (Cosenza, 21 luglio 1991). L’indagine ha consentito anche di identificare i responsabili del sequestro di persona e delle lesioni aggravate ai danni di Mario Polimeni (Cosenza, 30 settembre 1989)

 

Il boss Condello resta latitante

18/10 Resta latitante Pasquale Condello, di 56 anni, capo dell’omonima cosca di Reggio Calabria, destinatario di una delle 36 ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip distrettuale di Catanzaro, Tiziana Macrì, nell’ambito dell’operazione Missing. Condello è irreperibile dal 1997 ed è inserito nell’elenco dei 30 latitanti di “massima pericolosità” diramato dal Ministero dell’Interno. Il coinvolgimento di Condello nell’operazione Missing deriva dal suo rapporto di collaborazione e complicità col boss Franco Perna per l’attuazione di alcuni omicidi in provincia di Cosenza.

 

Torna in carcere Muto, il re del pesce

18/10 Con l’operazione Missing è tornato in carcere anche Franco Muto, di 66 anni, capo dell’omonima cosca di Cetraro (Cosenza), detto “il re del pesce” per il controllo assoluto che ha sempre avuto nel commercio ittico in tutta la fascia tirrenica cosentina. Muto era libero dal 15 agosto del 2005, giorno in cui fu prosciolto dal gip distrettuale di Catanzaro, Tiziana Macrì, lo stesso magistrato che adesso ne ha disposto il nuovo arresto nell’ambito dell’operazione Missing, a conclusione dell’udienza preliminare per inchiesta denominata Azimut, condotta dalla Procura antimafia di Catanzaro

[…] Articolo con Video

 

 

 

Fonte:  quicalabria.it
Articolo del 28 gennaio 2010 dalla Gazzetta del Sud
Guerra di ‘ndrangheta, chiesti 35 ergastoli
di Arcangelo Badolati

COSENZA – I giorni del terrore e della vendetta. Segnati dallo scarrellamento delle pistole calibro 9 e dal crepitio dei fucili caricati a pallettoni. Con agguati tesi per strada, in carcere, nei ristoranti. Si sparava dappertutto, falciando indifferentemente rivali e innocenti per dar sfogo all’ira belluina e alla sete di sangue. Boss e picciotti cadevano come birilli nel capoluogo bruzio, nel Paolano e nella Sibaritide. Giorni infernali ricostruiti dal pm antimafia Raffaela Sforza con una requisitoria conclusa con la richiesta di trentacinque condanne all’ergastolo.

Il carcere a vita è stato invocato anche per il primo storico pentito della ‘ndrangheta cosentina, Antonio De Rose. Il lungo rosario di sangue ripercorso dal requirente si apre col delitto d’un innocente. Pasqualino Perri era solo un bambino e la sua “colpa” era quella d’avere come padre un “uomo di rispetto”: Gildo Perri.

La sera del 27 ottobre del 1978, Pasqualino era cena col suo papà in un ristorante di Rende, l’”Elefante Rosso”. Con loro, a tavola, c’era pure, Giuseppe Cirillo. Un commando armato di fucili piombò nei pressi del locale e sparò all’impazzata verso l’interno. I commensali rimasero tutti feriti, tranne uno: Pasqualino, che fu colpito mortalmente.

Per quel delitto sono finiti sott’inchiesta Mario Pranno (giudicato separatamente) e Giancarlo Anselmo. Il secondo capitolo di morte è scritto il 25 gennaio del 1981, giorno in cui a cadere, per mano della mafia è Mario Coscarella, considerato lo “specchietto” del clan Pino. Per il delitto sono finiti nei guai: Franco Perna, Domenico Cicero, Aldo Acri e Francesco Saverio Vitelli.

Il 2 giugno del 1981, a Paola, muore Mario Cilento, massacrato a colpi di pistola, all’interno della sua armeria. Del crimine è imputato Giuseppe Irillo. Sempre sul Tirreno, e più precisamente a San Lucido, il 12 luglio di quello stesso anno viene assassinato Giovanni Drago. Per l’omicidio risultano incriminati: Franco Perna, Pasquale Pranno, Mario Baratta, Francesco Saverio Vitelli, Franco Garofalo e Lorenzo Brescia.

Nel cimitero della ‘ndrangheta viene poi piantata un’altra croce: è quella col nome di Salvatore Serpa. L’uomo, ucciso a Spezzano Sila l’11 agosto del 1981, era un sindacalista. Per l’omicidio sono finiti sott’accusa: Franco Pino, Giuseppe Irillo, Osvaldo Bonanata, Giuseppe Cosentino e Antonio De Rose. Il 12 dicembre del 1981 la ‘ndrangheta uccide di nuovo nella città capoluogo.

La vittima si chiama Francesco Porco, è un venditore di alberi di Natale, e cade per mano di due sicari, in piazza Riforma. Per l’agguato risultano incriminati: Franco Perna, Francesco Saverio Vitelli, Francesco Pirola e Franco Garofalo.

Il giorno dell’antivigilia di Natale del 1981 si torna a sparare sul Tirreno. Killer spietati entrano in azione alle 8,15 davanti alla pescheria di via Dogana e fanno fuoco contro: Francesco Africano, Domenico Petrungaro ed Emanuele Osso. Una strage per la quale vengono indagati: Romeo Calvano, Franco Pino e Gianfranco Ruà.

Qualche giorno dopo, ed esattamente il 28 dicembre, a Cosenza viene giustiziato Giovanni Gigliotti. Un crimine per il quale vanno sotto processo: Aldo Acri, Giancarlo Anselmo, Franco Perna, Francesco Saverio Vitelli, Pasquale Pranno, Giuseppe Ruffolo, Giuseppe Vitelli, Francesco Tedesco e Angelo Santolla.

Dopo una tregua di poco meno di sette mesi si torna a sparare. Il 21 luglio del 1982 viene freddato, a Piano Lago, Angelo Cello. Per quel delitto risultano incriminati: Francesco Saverio Vitelli, Giulio Castiglia e Nicola Voltasio. Il 31 agosto, a Cetraro, cade Giuseppe Vaccaro. La Procura ritiene coinvolti: Delfino Lucieri, Franco Muto e Giuseppe Irillo.

Il 21 ottobre del 1982 viene ammazzato Aldo Mario Mazzei. Il suo cadavere fu rinvenuto in località “Tocci” di Rende. Imputati per questo crimine risultano: Franco Perna, Francesco Saverio Vitelli, Giuseppe Vitelli, Enzo Castiglia e Salvatore D’Andrea.

Passa un mese e lo scenario non muta. Si spara per uccidere e sempre a Rende. Il 24 novembre viene assassinato Isidoro Reganati. Il giovane è a bordo della sua Fiat 600 quando i sicari della ‘ndrangheta lo raggiungono e lo ammazzano. Nel delitto sarebbero coinvolti: Franco Perna, Giuseppe Vitelli, Aldo Acri e Lorenzo Brescia.

Lo scontro ritorna sul Tirreno agli inizi del 1983. Mezz’ora dopo la mezzanotte del 22 febbraio del 1983, in contrada Deuda, Nelso Basile cade sotto una tempesta di fuoco, scatenata da una lupara e da un revolver calibro 38. Presunti responsabili del crimine: Franco Pino, Romeo Calvano, Gianfranco Ruà, Giuseppe Irillo, Ettore Lanzino e Antonio De Rose.

Il 3 maggio si torna a sparare all’interno. In un agguato, lungo la Statale 19, a Rende, viene ucciso Diego Costabile, ritenuto vicino alla cosca Perna-Pranno. Un delitto per il quale vengono indagati due presunti affiliati al clan Pino: Gianfranco Bruni, alias “u tupinaro”, e Pierluigi Berardi.

La scia di sangue s’allunga, dopo appena una settimana, fuori dai confini dell’area urbana. A Cerzeto, killer in trasferta uccidono Giuseppe Ricioppo. Per il delitto sono finiti sott’inchiesta: Franco Pino, Franco Muto, Santo Carelli, Delfino Lucieri, Romeo Calvano, Gianfranco Ruà, Francesco Patitucci e Francesco Camposano inteso come Giulio.

Il 6 agosto nella guerra entrano, ufficialmente, le cosche reggine che stringono una santa alleanza coi cosentini. Così, a Scalea, vengono fulminati Giuseppe Geria e Valente Saffioti. Un duplice delitto per il quale la Procura ritiene, in qualche modo, responsabili: Pasquale Condello, detto “il supremo”, Umile Arturi e Gianfranco Ruà.

L’autunno riporta lo scontro nella città capoluogo. Ma stavolta, la morte giunge silenziosamente. Già, perchè il 14 settembre sparisce misteriosamente il diciottenne Francesco Scaglione. Una “lupara bianca” per la quale sono stati incriminati: Franco Perna, Francesco Saverio Vitelli, Giuseppe Vitelli, Silvio Chiodo, Francesco Tedesco, Aldo Acri, Mario Baratta e Angelo Santolla.

A Maurizio Valder tocca un destino analogo a quello di Scaglione: il 12 ottobre del 1983 il ragazzo di Andreotta sparisce nel nulla. Per il delitto sono imputati: Franco Perna, Francesco Saverio Vitelli, Giuseppe Vitelli, Silvio Chiodo, Francesco Tedesco, Aldo Acri, Mario Baratta, Angelo Santolla e Lorenzo Brescia.

Nella ricostruzione della stagione di morte s’inquadra anche un delitto “eccellente”: quello del direttore del carcere cittadino, Sergio Cosmai. Un delitto ordinato – secondo il Pm – da Franco Perna.
Il 5 luglio del 1985, all’interno di un bar di Cosenza viene raggiunto da tre colpi d’arma da fuoco Alfredo Andretti che, poco dopo, spira in ospedale. Per il delitto finiscono sott’inchiesta: Francesco Saverio Vitelli e Aldo Acri.

Per quattro anni non ci sono più lutti. La tregua che s’interrompe improvvisamente il 27 gennaio del 1989, quando, in via Accatatis, a Cosenza, viene ucciso Rinaldo Picone. Un delitto per il quale la Procura ha imputato: Dario Notargiacomo e Claudio Gabriele, inteso come Sergio.

Il 21 giugno di quello stesso anno, Anna Amendola denuncia la scomparsa del marito, Carmine Luce, avvenuta il giorno precedente. Il 14 marzo del 1996, su indicazione del pentito Francesco Saverio Vitelli, in località “Pagliarello” di San Fili vengono trovati i resti dell’uomo. Per quel delitto, la Dda ha incriminato: Pasquale Pranno, Francesco Saverio, Ferdinando e Giuseppe Vitelli, Angelo Santolla, Giancarlo Anselmo, Giuseppe Ruffolo, Francesco Tedesco, Aldo Acri, Nicola Belmonte, Lorenzo Brescia.

Il 15 agosto del 1990, nei pressi del campo sportivo di Donnici viene rinvenuta una Fiat Uno distrutta dalle fiamme, a bordo c’è il cadavere di Demetrio Amendola. Per quel crimine sono finiti nei guai: Franco Pino e Gianfranco Ruà.

Il 24 agosto agosto, in piazza Valdesi, viene ucciso Giuseppe Andali mentre gioca a carte, seduto a un piccolo tavolino. Imputati del delitto sono: Franco Perna, Pasquale Pranno, Francesco Saverio Vitelli, Franco Garofalo, Nicola Belmonte e Ferdinando Vitelli.

Il 5 gennaio del 1991 tocca ai fratelli Stefano e Giuseppe Bartolomeo, prima massacrati e, poi, fatti sparire a Potame. Per il duplice omicidio finiscono sotto processo: Franco Perna, Pasquale Pranno, Francesco Saverio Vitelli, Giuseppe Ruffolo, Angelo Santolla, Aldo Acri, Edgardo Greco, Lorenzo Brescia, Giancarlo Anselmo.

La sequenza di morte prosegue il 9 luglio con l’omicidio di Antonio Paese. Un omicidio per il quale la Dda ha incriminato Michele e Pasquale Bruni.

Poi l’uccisione d’un ragazzino avvenuta a Celico, l’8 novembre del 1991: si chiamava Francesco Bruni ed aveva 16 anni. Sott’inchiesta sono finiti: Mario Musacco, Giuseppe Vitelli, Angelo Santolla, Giuseppe Ruffolo e Franco Garofalo.

L’ultimo capitolo di morte su cui la Dda di Catanzaro ritiene d’aver fatto luce è datato 8 giugno del 1994, giorno in cui la lupara torna a tuonare a Paola, dove viene ucciso Ennio Serpa. Due gl’imputati: Giuliano Serpa e Rinaldo Mannarino.

 

 

 

Fonte:  left.it
Articolo del 1 luglio 2020
Calabria 1980, quando la ‘ndrangheta assassinò i comunisti Valarioti e Losardo
di Mimmo Rizzuti
Peppe Valarioti e Giannino Losardo lottavano contro le infiltrazioni criminali nella società e nelle istituzioni, per questo vennero uccisi. In quell’estate di quarant’anni fa ci fu il passaggio alla cosiddetta “mafia imprenditrice”. Con tutte le conseguenze che arrivano fino a oggi.

Quell’estate di quarant’anni fa si può ben considerare, come scrive anche l’Espresso in edicola, la più tragica della storia della Repubblica. Il 23 giugno, continua il settimanale, viene ucciso a Roma dai neofascisti dei Nar il giudice Mario Amato, il 27 viene abbattuto sui cieli di Ustica il DC9 dell’Itavia con 81 persone a bordo, il 2 agosto esplode una bomba alla Stazione di Bologna: 85 i morti.
Ma al settimanale sfugge che quella terribile estate aveva già preso il via, proprio agli inizi di giugno, in Calabria, sull’asse Rosarno (Reggio Calabria)-Cetraro (Cosenza) l’11 e il 21 giugno.

L’11 era stato assassinato a Rosarno dalla ’ndrangheta, Peppe Valarioti, giovane e brillante professore di origine contadina, rigoroso e travolgente segretario della sez. Pci di quella città, a conclusione di una cena di festeggiamento per la vittoria elettorale alle provinciali con la rielezione di Peppino Lavorato, mitico dirigente comunista e alle regionali di Fausto Bubba, anima della coop agrumicola rosarnese Rinascita, dopo una campagna elettorale svoltasi in un clima infuocato di scontro frontale sul tema della lotta alla ’ndrangheta, di cui Valarioti e Lavorato erano stati le punte di diamante.

E a Rosarno la lotta alla ’ndrangheta non era materia di dibattito sociologico o letterario, ma battaglia frontale quotidiana fatta di sguardi, schiena dritta, atti quotidiani concreti, risposte decise a minacce, intimidazioni, aggressioni.
Fu un colpo durissimo al Pci di Berlinguer, la forza politica che con più coerenza e decisione si batteva contro le mafie e si sforzava di tenere insieme etica e politica.
Ma l’attacco della ’ndrangheta in mutazione, all’interno di quella terribile estate degli anni 80, in Calabria non si fermò lì.

Era ancora vivo e bruciante il dolore e l’eco dell’agguato di Rosarno quando il successivo 21 giugno a Cetraro, importante centro del tirreno cosentino, veniva assassinato da un commando in moto Giannino Losardo.
Anch’egli figura emblematica, di significativo rilevo del Partito comunista italiano di quella zona.
Un uomo di grande spessore etico e culturale che ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere personalmente, segretario della procura della Repubblica di Paola, assessore ai lavori pubblici prima e all’istruzione poi, al comune di Cetraro. Assassinato a conclusione di un infuocato consiglio comunale, nel corso del quale si dimise da assessore denunciando la penetrazione della criminalità nell’istituzione comunale che determinerà quella sera stessa, avvalendosi di una mini scissione nel gruppo del Psi, la caduta della giunta di Sinistra. Da tempo a Cetraro era in corso l’attacco al territorio portato avanti dal clan di Franco Muto, noto anche come il re del pesce, che Losardo fronteggiava con autorevolezza e vigore.

Quei drammatici anni 80 segnano per il nostro Paese, un passaggio di fase di cui le mutazioni riguardanti la natura e le pratiche della criminalità in Calabria, sono parte non secondaria.
Questo dato è colto e ben tratteggiato nel libro di Pino Arlacchi La mafia imprenditrice (Il Mulino, 1983).
Una svolta che appare ancor più marcata a Cosenza per la sua storia e, segnatamente, nel Tirreno cosentino.
Una città ed un’area fino agli inizi anni 70 non segnate da alcuna particolare virulenza della malavita.
Una realtà, il Tirreno cosentino, che viveva tutte le contraddizioni del tempo e registrava, in fatto di organizzazione e struttura della criminalità, lo stesso trend di Cosenza, con una criminalità di natura e dimensioni, per così dire, tradizionali, catapultata in quei turbolenti anni a misurarsi con un doppio passaggio.
Il primo dalla dimensione gangsteristica delle bande criminali a quella “mafiosa”. Il secondo da quest’ultima ad impresa.

Questo cammino, sul versante criminale, in realtà, si era già avviato alla fine degli anni 60.
Vasta è la letteratura in materia che parte, per restare agli studi ed alle e analisi avviate in quel tempo dal dipartimento di Sociologia della giovane Università calabrese, proprio dal lavoro fissato nel citato testo di Pino Arlacchi, “la mafia imprenditrice”.
Un libro, come ben sintetizzato nella sua quarta di copertina, che segna «una rottura negli schemi interpretativi della società mafiosa di Calabria e Sicilia e ne documenta la trasformazione decisiva avvenuta in quel periodo: da mediatore sociale legato a valori arcaici e tradizionali ad aggressivo accumulatore di capitale. Il campo di azione delle forze criminali oggi – anni 80 – si estende dalla droga alle armi, alle risorse energetiche, e comprende i capitali derivati dalla corruzione, dalla grande evasione fiscale e dal saccheggio delle casse statali. Le organizzazioni criminali trovano nel sistema finanziario globale un habitat favorevole, un rifugio inespugnabile, contro il quale l’attività repressiva è costretta a interrompersi. Come in Calabria, in Sicilia, le regioni da cui parte l’allucinante discesa nel ventre dell’economia globalizzata».
Ed appunto è del 26 ottobre 69 il summit ndranghetista di Montalto d’Aspromonte che segna il passaggio della ndrangheta “dell’ominità” (Ilario Ammendolia, La Ndrangheta come alibi) a quella dei sequestri e della droga, a quella della commistione con settori delle istituzioni e dei servizi, a quella del sostegno ai golpisti della destra nera (il tentativo Borghese, la rivolta di Reggio Calabria), alla sua trasformazione in impresa e alla penetrazione nelle istituzioni attraverso la costruzione e crescita di una vera e propria borghesia mafiosa.
È lo stesso anno in cui nel nostro Paese parte la strategia della tensione.
La strage di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre, che inaugura, come risposta ai grandi movimenti di lotta del 1968/69, con la bomba alla banca dell’Agricoltura, la strategia della tensione, la stagione degli “anni di piombo” e si protrae fino agli inizi anni 80.

Gli anni a cavallo tra la fine del 1970 e gli inizi del 1980 segnano, a colpi di kalashnikov e mitraglietta, questo passaggio di fase e, in Calabria segnano l’estendersi di questa mutazione della criminalità organizzata in tutte le province della Regione.
Anche in quelle che, come Cosenza, non ne erano state fino ad allora pervase.
Ed è in questo clima, che matura il mutamento di percorso e degli assetti di sistema generale e criminale insieme che esplode, nella specificità dei diversi contesti, tra la fine degli anni 70 ed i primi anni 80 e che in Calabria culmina negli gli assassini di Peppe Valarioti e , a distanza di 10 giorni, di Giannino Losardo.
In due contesti socio economici diversi, ma tenuti insieme da un medesimo filo.
Losardo, anche dal suo osservatorio di segretario della procura di Paola riusciva a vedere con più chiarezza di altri l’avvio di questo percorso e provò da comunista e da integerrimo rappresentante delle istituzioni, ad arginarlo.

Non avevano, invece, visto e capito o, forse, come pensavano allora in molti, voluto vedere e capire, importanti articolazioni delle istituzioni, gruppi importanti dei partiti, anche di sinistra, il Psi di allora, lo stesso governo e le sue articolazioni, settori chiave della magistratura.
Forse perché consapevoli della china che avevano già preso i grandi mutamenti strutturali dell’economia e della finanza internazionali e convinti che non ci fossero alternative.
Non è un caso che sia a Rosarno che a Cetraro lo scontro politico è con parte dei gruppi dirigenti o con alcune personalità di rilievo del partito socialista di allora.

La forza che tentava con decisione di opporsi a questo processo era allora il Pci di Berlinguer.
E Giannino e Peppe erano, in Calabria, due delle migliori espressioni di quel partito.
Giannino operava in una zona, il Tirreno cosentino, di grande tradizione politica democristiana che aveva visto dagli inizi anni 70 un grande balzo in avanti del Pci.
A Cetraro e Praia c’erano due significativi insediamenti tessili (Faini e R2, quest’ultima poi Lini e Lane, poi Lanerossi, ed ancora dopo Marlane in crisi sistematica).
Entrambe le esperienze, sia pur nella loro diversità di origine e gestione, classica espressione dell’imprenditoria che incassa i soldi dell’intervento straordinario e abbandona la Calabria lasciandosi alle spalle centinaia di cassaintegrati e il collasso dei settori collegati che già mostravano segni di crisi.
Gli echi delle grandi lotte operaie del Nord e la speranza in un cambiamento che avrebbe potuto produrre la forte avanzata del Pci era tanta.

A Paola, dove abitavo all’epoca e ricoprivo il ruolo di consigliere comunale (1973/74) e responsabile di zona del Pci, fino alla grande avanzata del 1976 di quel partito, avevamo aggregato una grande forza giovanile composita, proveniente da diversi strati sociali, nella quale si ritrovava buona parte di quei giovani che a Reggio erano scesi sulle barricate con i “boia chi molla” e ragazzi che venendo alcuni da famiglie della delinquenza tradizionale, o ad essa vicine, vedevano in quell’impegno un percorso di riscatto. Per alcuni divenuto concreto. Uno in particolare, Salvatore Serpa, merita di essere ricordato. Di provenienza da una famiglia dell’omonimo clan paolano, da giovanissimo mostrava interesse per la politica e la volontà di staccarsi dalle tradizioni del clan di appartenenza.
Ed infatti Salvatore (Tuturu) dopo una esperienza nella nascente “Servire il Popolo”, scelse di aderire al Pci e poi alla fine degli anni 70, anche per staccarsi più decisamente dal contesto di origine e dalla guerra tra clan scoppiata a Paola e sul Tirreno in quell’epoca, decise di andare a continuare la sua esperienza politica nella Fillea Cgil di Cosenza. Ma non fu sufficiente. Il 12 agosto del 1981, nel corso di quella terribile guerra tra bande, fu assassinato a casa sua, a Spezzano Sila dove si era trasferito. Vittima di un omicidio trasversale della guerra in corso tra il clan paolano della sua famiglia di origine ed altri clan in lotta per il predominio in quel quadro di cambiamento di sistema sopra richiamato. Un episodio trascurato e derubricato ad “omicidio trasversale” nelle logiche delle guerre tra bande e stralciato, a torto, dallo scenario generale, anche politico.

Paola in quella fase era un centro vivacissimo, con una forte sezione del Pci, con il suo nucleo storico di ferrovieri e una massiccia presenza di giovani ed intellettuali, che contrastava con successo da un lato l’egemonia democristiana, da un altro quella di un Psi ben strutturato e radicato, rappresentato da forti personalità e da un altro ancora una vivace presenza di “Servire il Popolo”, formazione extraparlamentare cresciuta intorno alla carismatica figura di Enzo Lo Giudice, brillante avvocato di successo, uno dei tre fondatori della stessa con Meldolesi e Brandirali.
L’ entusiasmo era grande e grande fu il balzo in avanti del Pci.
Ma altrettanto grande fu la delusione per il mancato arrivo dei risultati sperati in termini lavoro e mobilità sociale. E molti di quei ragazzi ritornarono sulle vecchie vie.

La temperie di quegli anni, fine anni 60 inizi anni 80, definiti ” anni di piombo”, fin troppo nota per doverci ritornare in questa sede, è anche il contesto in cui mutano le strategie, le alleanze, le modalità operative della criminalità locale ed il contesto nel quale nel Tirreno cosentino i fenomeni criminali vanno sempre più orientandosi verso i consolidati modelli della ndrangheta reggina e della camorra napoletana.
Sono gli anni dell’intreccio ndrangheta massoneria (lo spiega bene oltre il pregevole lavoro di Pino Arlacchi, la successiva inchiesta della commissione parlamentare antimafia presieduta da Francesco Forgione) dell’assalto alle coste, dei traffici illeciti, delle logge massoniche deviate, della concentrazione degli apparati di sicurezza dello Stato e della magistratura prevalentemente sul terrorismo, mentre si trascurava analizzare e perseguire adeguatamente la crescita e la mutazione delle mafie e, sul fronte politico, di leggere a fondo le mutazioni della stessa natura del poter economico e del capitalismo .

In questo contesto e clima, il Tirreno cosentino e la stessa Cosenza diventano, a cavallo tra gli anni 70 e gli anni 80, una sorta di Far West.
Un interessante convegno promosso a Cosenza nel 1982, da Cgil Cisl Uil, Università della Calabria, Magistratura democratica e Sindacato unitario di Polizia, vede la partecipazione di associazioni varie, avvocati, imprenditori e di politici del calibro di Francesco Martorelli, Pierino Rende, Giacomo Mancini e Stefano Rodotà, mette in evidenza, con una puntuale relazione di Pino Arlacchi, questo percorso di cambiamento della criminalità cosentina, all’epoca, non ancora mafia ma gangsterismo e le differenti letture che se ne danno (Gangster a Cosenza. 10 Gennaio 1982 effesette CS)
Lo stesso processo di mutazione era in corso sul Tirreno cosentino e l’omicidio Losardo fu il messaggio che venne mandato a chi aveva scelto di contrastarlo. Il Pci dell’epoca.

Ripercorrendo quelle vicende, a quarant’anni di distanza, appare chiaro che nello scenario terribile di quegli anni si avviava il cambiamento stesso della natura del capitalismo e la costruzione di un sistema di potere che non si basa più «su classi produttive, ma su attività predatorie che agiscono anche grazie alla complicità fornite loro da parte dei “ceti medi”…… Nasce cioè la forma moderna del capitalismo della globalizzazione che non è quella della competizione benigna sperata dai liberali (di destra e di sinistra) né quella della lotta di classe della lotta delle moltitudini contro l’Impero del Capitale, o dell’utopia dell’inclusione delle classi medie… ma un sistema nel quale i ricchi hanno preso il controllo di un sistema costruito per le classi medie attraverso una doppia metamorfosi in cui «lo Stato industriale viene sostituito dallo Stato predatorio, ed una coalizione di instancabili oppositori ad ogni idea di – interesse pubblico -si assume lo scopo di controllare la struttura dello stato per dare potere ad un’alta plutocrazia provvista solo di obiettivi immorali e di rapina». (L.Randall Wray, 2008 in Bruno Amoroso, “I frutti amari della Globalizzazione” 21-26 agosto 2008). I frutti amari di quella trasformazione sono oggi tutti e ben visibili sotto i nostri occhi.