14 novembre 1923 Canicattì (CL). Biagio Pistone, maresciallo dei Carabinieri, fu ferito mortalmente durante l’arresto di un latitante
Il Maresciallo dei Carabinieri, Biagio Pistone fu ucciso mentre era in servizio nel tentativo di arrestare un latitante. Nonostante fosse stato colpito da un colpo di rivoltella, bloccò comunque al suolo il mafioso latitante Peppino Giacona fino all’arrivo dei rinforzi.
Fonte: vivi.libera.it
Fonte: salvofuca.blogspot.com
Tratto da “I Carabinieri ad Agrigento”
Eroico il gesto del maresciallo Biagio Pistone di 34 anni, caduto nell’adempimento del dovere. Il sottufficiale prestava servizio a Canicattì ed in quel centro il 13 novembre 1923 si pose all’inseguimento di un malfattore che da tempo era ricercato dalle forze dell’ordine. Finalmente lo raggiunse, ma il malvivente estrasse di tasca una rivoltella e sparò alcuni colpi verso il maresciallo, colpendolo al torace. Pur mortalmente ferito, il sottufficiale ingaggiò una colluttazione con il ricercato e lo bloccò fino a quando non sopraggiunsero i rinforzi, consentendone così l’arresto. Quando lo ebbe consegnato ai colleghi, cessò di vivere, soddisfatto per aver compiuto il proprio dovere. A lui venne poi intitolata la caserma di Agrigento che ospita il comando provinciale.
Fonte: today24.it
Articolo del 23 marzo 2018
Riesi: il maresciallo dei Carabinieri Biagio Pistone riconosciuto vittima della mafia. Il militare ricordato nella «Giornata della Memoria» a Parma.
C’era anche il nominativo del maresciallo dei carabinieri originario di Riesi Biagio Pistone, ucciso il 14 novembre 1923, tra quelli delle vittime di mafia citate durante la manifestazione di Parma.
Anche il valoroso militare riesino è stato ricordato il 21 marzo in occasione della «Giornata della Memoria».
All’evento, tenutosi a Parma e presieduto dal Prefetto, erano presenti Susanna e Biagio Pistone, familiari del maresciallo dei Carabinieri originario di Riesi, Biagio Pistone ucciso il 14 novembre 1923 da Peppi Facciponti, inteso “Giacona”, segnalato dalla legge come uomo di mafia.
Il riesino Biagio Pistone è stato inserito quest’anno tra le vittime di mafia dall’associazione Libera, in seguito alla richiesta presentata da Susanna Pistone, pronipote del defunto, che si è attivata per recuperare la documentazione cartacea rilasciata dall’archivio nazionale dei Carabinieri. La motivazione della medaglia d’argento alla memoria attribuita al maresciallo venne rilasciata il 26 maggio del 1925 a firma del ministro di allora Benito Mussolini. La richiesta della pronipote presentata nel mese di settembre del 2017 è stata accolta nel mese di marzo di quest’anno.
«L’Anpi di Riesi – dice il presidente della sezione locale Giuseppe Calascibetta – oltre a occuparsi di antifascismo si dedica anche alla cultura e all’educazione dell’antimafia. Oltre a Biagio Pistone, altre due persone in epoche diverse hanno combattuto la mafia. Si tratta del maresciallo dei carabinieri Filippo Scimone ucciso nel 1945 tra San Giuseppe Jato e San Cipirello, in seguito a un’imboscata della banda di Salvatore Giuliano. Nel mese di aprile di quest’anno la caserma dei Carabinieri di Riesi sarà intitolata proprio a Filippo Scimone in seguito a una relazione fatta nel 2004 – 2005 dall’ex sindaco Lino Carruba. Anche il commerciante Gaetano Giordano che si era ribellato al racket venne ucciso dalla mafia a Gela nel 1992».
Fonte: solfano.it
Tratto dal prologo di “L’ESEMPIO DI UN UOMO DALLA SCHIENA DRITTA, ANTONINO SAETTA” di Antonio Vinci
dal sito: Centro di Documentazione Città di Canicattì
Agli albori nel Novecento – raccontano i nostri nonni – gli ultimi vassalli protettori dei feudatari fanno ancora avvertire, nelle nostre contrade, i sintomi oppressivi di quella che è stata per lunghi secoli la legge del “mero e misto imperio” di ruggeriana memoria, perpetuatasi nella versione “carnaggi e sottomissioni” operata da quella casta privilegiata che continua a non volere deporre lo scettro del comando ereditato dai despoti padri.
E, per dare prova di ciò, basta ricordare il Palazzo La Lomia (quello sopra l’arco di Don Cola a la Batìa) dove, noi ragazzi curiosi, scopriamo, ancora in bella mostra in un dammusu, un’antica forca con nodo scorsoio a “memento” per i miseri passanti. Segno, questo, che ci fa pensare all’oscurantismo canicattinese anche durante gli ultimi secoli passati.
Da noi presunzioni e prepotenze, sussurrati appena a mezza bocca per non rimanerne coinvolti, sono da epoca remota prerogativa di certa classe rurale mafiosa, con cui il resto della collettività ha dovuto giocoforza convivere per non andare incontro a spiacevoli situazioni.
E, in proposito, citiamo un fatto che ci da la misura della fondatezza di quanto affermato, accaduto nel lontano autunno del 1923 in Corso Umberto (vedasi lapide sistemata sul luogo del delitto): Peppi Facciponti, inteso “Giacona”, già segnalato dalla legge come uomo di mafia, sta passeggiando tra la gente con quella boria sbruffona di gesti e di parole tipica di quella categoria.
Il maresciallo dei carabinieri Biagio Pistone, originario di Riesi, lo redarguisce, invitandolo al civile conportamento che impone la buona creanza.
Lui, stizzito per il richiamo, tira fuori la pistola e lo fulmina a bruciapelo.
Decine di persone vedono ma, interrogate in caserma, si limitano a fare scena muta. Vigliaccheria? Mancanza di coraggio? No, solo paura dalla mafia imperante in una società intimorita.
Tuttavia, lo spavaldo lazzarone, anche in assenza di testimonianze documentate,capita male e il fresco Capo del Governo, deciso a fare piazza pulita dell’illegalità diffusa, lo fa condannare a lunghi decenni di galera, fino a che la scomparsa del fascismo e la conseguente malleabilità delle leggi democratiche non lo rimettono in libertà.
Facciponti, libero, perde il pelo ma non il vizio e, dopo il matrimonio con Teresa Ferrante, torna ad inserirsi di diritto nella rigenerata mafia post-bellica, pretendendo addirittura, per le “medaglie” guadagnatesi in virtù dei lunghi anni di carcere (!) , un posto di riguardo.
Ma i tempi sono cambiati e gli emergenti allevatori di bestiame, arricchitisi col commercio dei muli da macello per farne scatolette per le forze armate, oltre ai nuovi campieri con la lupara sotto la coscia della cavalcatura , lo snobbano incuranti e, anzi, alla prima occasione, se lo tolgono dai piedi, spedendolo al Creatore unitamente alla moglie e al cane lupo.
Spunta alll’orizzonte la stiddra e “carnaggi e sottomissioni”, appena attutiti dalle leggi fasciste, tornano a prendere vigore nelle campagne, specie quando 1’astro appena citato si afferma oltre i confini circoscrizionali per sedersi di diritto al fianco dei potenti mafiosi corleonesi.