14 Settembre 1945 Favara (Ag). Uccisi Calogero Cicero e Fedele De Francisca, Carabinieri, da dei banditi che volevano rapinare una fattoria.
Calogero Cicero e Fedele De Francisca, Carabinieri, furono uccisi a Favara (AG) il 14 settembre del 1945, in uno scontro a fuoco con dei banditi che volevano rapinare una fattoria.
“Bande di ladri e assassini, armati di lupare e pistole, seminavano il terrore nelle campagne e nei paesi dell’Agrigentino. La notte del 14 settembre 1945 un gruppo di banditi di Palma di Montechiaro prese di mira la fattoria dei fratelli Buggera di Favara, per rubargli i proventi della vendita dell’uva. I banditi si appartarono in una zona soprastante la fattoria, senza sapere che da qualche tempo era sorvegliata da un nucleo di carabinieri.
Un bandito fu messo di guardia sulla sommità della collina, l’appuntato Cicero e il carabiniere De Francisca lo sorpresero appostato dietro a una grossa pietra: si aprì un conflitto a fuoco. Arrivò il resto della banda che cominciò a sparare all’impazzata: Cicero fu colpito al fianco e alla coscia sinistra; De Francisca, seppur ferito, affrontò i banditi, ma venne ucciso da due colpi di fucile. Le indagini si rivelarono inutili, tutti i fermati furono rilasciati perché gli inquirenti non trovarono prove a loro carico.” (comunicalo.it)
Articolo del 5 Giugno 2008 da comunicalo.it
Gli agrigentini uccisi dalla mafia mentre difendevano lo Stato
di Calogero Giuffrida
Carabinieri, poliziotti, agenti penitenziari, metronotte caduti nell’Agrigentino. Morti per difendere lo Stato, morti sul lavoro, morti ammazzati. Tra i più noti il maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, ucciso il 4 aprile del 1992 ad Agrigento. Ma nella provincia agrigentina sono tante le vittime del dovere: carabinieri e poliziotti, agenti di custodia e metronotte, caduti sul campo di battaglia nella lotta contro la mafia.
Già nell’immediato dopoguerra, a Favara, caddero i carabinieri Calogero Cicero e Fedele De Francisca. Bande di ladri e assassini, armati di lupare e pistole, seminavano il terrore nelle campagne e nei paesi dell’Agrigentino. La notte del 14 settembre 1945 un gruppo di banditi di Palma di Montechiaro prese di mira la fattoria dei fratelli Buggera di Favara, per rubargli i proventi della vendita dell’uva. I banditi si appartarono in una zona soprastante la fattoria, senza sapere che da qualche tempo era sorvegliata da un nucleo di carabinieri.
Un bandito fu messo di guardia sulla sommità della collina, l’appuntato Cicero e il carabiniere De Francisca lo sorpresero appostato dietro a una grossa pietra: si aprì un conflitto a fuoco. Arrivò il resto della banda che cominciò a sparare all’impazzata: Cicero fu colpito al fianco e alla coscia sinistra; De Francisca, seppur ferito, affrontò i banditi, ma venne ucciso da due colpi di fucile. Le indagini si rivelarono inutili, tutti i fermati furono rilasciati perché gli inquirenti non trovarono prove a loro carico. Ai funerali dei due militari parteciparono migliaia di persone sentitamente commosse per il sacrificio di quei due giovani servitori dello Stato. Calogero Cicero era nato a Cerda, il 26 marzo del 1905, e solo da quattro mesi si era trasferito a Favara. Fedele De Francisca era nato a Villarosa l’1 febbraio del 1911, viveva a Favara dalla fine del 1943.
Nell’estate del 1949 cadde a 23 anni, nell’adempimento del proprio dovere, l’agente di pubblica sicurezza Carmelo Lentini, nato ad Agrigento nel 1926. Lentini era in forza al Nucleo mobile di San Giuseppe Jato, facente parte di un reparto speciale organizzato per la cattura di Turiddu Giulianu. Notte e giorno, con gli altri suoi giovani colleghi, andava su e giù per le montagne in cerca del famoso bandito di Montelepre. Per i banditi sbarazzarsi di quel reparto speciale significava dare un segnale forte del loro pieno controllo del territorio. Nel pomeriggio del due luglio del 1949 Lentini e i suoi colleghi si stavano recando a Palermo con una camionetta, a bordo della quale c’erano il commissario Mariano Lando, 35 anni, e le guardie Carmelo Gucciardo, 24 anni, autista, Carmelo Agnone, 28 anni, Carmelo Lentini, 23 anni, Michele Marinaro, 26 anni, Candeloro Catanese, 29 anni, Quinto Reda, 27 anni e Giovanni Biundo, 22 anni. Pochi chilometri dopo aver lasciato San Giuseppe Jato, quando la camionetta giunse a Portella della Paglia scattò l’agguato. Una decina di banditi aprirono il fuoco con raffiche di mitra e bombe a mano. Le prime raffiche falciarono Lentini, Reda e Agnone, morti sul colpo, gli altri quattro agenti rimasero feriti.
Il 19 maggio 1955 a Cattolica Eraclea, un conflitto a fuoco tra una pattuglia di carabinieri e due pregiudicati latitanti si concluse con la morte di un militare e di un bandito. Due carabinieri stavano svolgendo un servizio di appostamento per sventare un tentativo di estorsione ai danni di Giuseppe Spagnolo, 60 anni, possidente cattolicese. Lo Spagnolo aveva ricevuto una lettera minatoria con la quale gli veniva imposto di recarsi, quel giorno alle 21:30, con un plico contenente una consistente somma di denaro alla periferia del paese, in contrada San Silvestro, dove avrebbe incontrato un uomo al quale doveva consegnare i soldi. Lo avrebbe riconosciuto perchè il bandito avrebbe condotto una capra con un nastro nero legato al collo. La vittima della tentata estorsione denunciò il fatto ai carabinieri, che predisposero così un servizio di appostamento nella località convenuta. L’incarico fu affidato al nucleo di Favara che inviò due carabinieri, Domenico Barranco, 32 anni, di Cefalù e un altro, entrambi in borghese; i colleghi della stazione locale si appostarono nelle vicinanze. All’ora stabilita comparvero due uomini uno dei quali recava al laccio una capra con un nastro al collo. I due carabinieri lo stavano già arrestando, ma il malvivente estrasse una pistola e sparò due colpi contro il Barranco uccidendolo sul colpo. Il bandito tentò la fuga, ma fu raggiunto dai colpi sparati dagli altri carabinieri; il suo complice riuscì a dileguarsi facendo perdere le proprie tracce.
Agli inizi degli anni ’60 a Palermo scoppiò la prima “guerra di mafia” tra i “corleonesi” di Luciano Liggio e i “palermitani” di La Barbera per il controllo del traffico di droga e delle speculazioni edilizie. Calogero Vaccaro, maresciallo capo dei carabinieri, nato a Naro nel 1919, era a Roccella per indagare sulla feroce faida. Trovò la morte nella la “strage di Ciaculli”. All’alba del 30 giugno 1963, ai carabinieri della Tenenza di Roccella giunse una telefonata che avvertiva della presenza nel Fondo Sirena, una località tra Villabate e Ciaculli, di una “Giulietta” sospetta: era un’autobomba. Disinnescato il primo ordigno il pericolo sembrò sventato, ma nel bagagliaio c’era una seconda bomba, che esplose uccidendo il maresciallo di polizia Silvio Corrao, il maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio, il soldato Giorgio Ciacci, il tenente dei carabinieri Mario Malausa, il maresciallo dell’Arma Calogero Vaccaro e i carabinieri Eugenio Altomare e Marino Fardelli.
Si va avanti con gli anni e la mafia diventa sempre più feroce. La mattina del 29 luglio 1983 a Palermo, in via Pipitone Federico, davanti l’abitazione di Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, l’inventore del “pool antimafia”, alle 8:10 circa, una devastante esplosione scosse l’intero isolato. Una Fiat 126, era stata imbottita di tritolo per far saltare in aria Chinnici e la sua scorta. Tra le carcasse delle auto si distinguevano a fatica i corpi senza vita devastati dall’esplosione. Oltre a Rocco Chinnici c’erano Mario Trapassi, Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi. L’appuntato dei Carabinieri Salvatore Bartolotta, in forza al Nucleo operativo di Palermo, era nato a Castrofilippo il 3 marzo del 1935, si era distinto particolarmente in varie operazioni. Quel tragico 29 luglio lasciò una moglie e cinque figli. Solo dopo 17 si giunse alla verità sulla “strage di Ciaculli”. Furono condannati all’ergastolo mandanti ed esecutori materiali dell’eccidio: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci, Antonino Madonia, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Stefano Ganci, Francesco Madonia, Salvatore e Giuseppe Montalto, Matteo Motisi, Giuseppe Farinella e Vincenzo Galatolo. A Bartolotta è stata conferita la medaglia d’oro al valor civile: “In servizio di scorta al magistrato tenacemente impegnato nelle lotte contro la criminalità organizzata. Assolveva il proprio compito con alto senso del dovere e serena dedizione pur consapevole dei rischi personali connessi con la recrudescenza degli attentati contro i rappresentanti dell’ordine giudiziario e delle forze di Polizia. Barbaramente trucidato in un proditorio agguato tesogli con efferata ferocia sacrificava la vita a difesa dello Stato e delle Istituzioni”. A lui è stata intitolata a lui la caserma dei carabinieri di Castrofilippo.
Beppe Montana, commissario della squadra mobile di Palermo, fu ucciso dalla mafia il 28 luglio del 1985. Era nato ad Agrigento nel 1951, si laureò giurisprudenza e poi vinse un concorso in Polizia, entrando come commissario nella sezione investigativa della squadra mobile di Palermo, successivamente guidò la sezione catturandi. Durante la sua attività investigativa arrestò numerosi latitanti e scopri varie raffinerie di droga e depositi di armi. Collaborava col giudice Chinnici non solo nelle indagini contro Cosa nostra ma negli incontri con gli studenti per sensibilizzarli al rispetto della legalità. Il 28 luglio 1985, un giorno prima di andare in ferie, venne ucciso in un agguato mafioso a Porticello. La squadra mobile di Palermo, coordinata dal commissario capo Ninni Cassarà, si mise subito sulle tracce dei killer. Furono sentite duecento persone, qualcuno fece una soffiata: dopo essere scappati in moto, gli assassini avevano preso un’auto d’appoggio, una Peugeot 205 rossa che qualcuno aveva avvistato la sera del delitto a Porticello. Era di Salvatore Marino, calciatore, sospettato di essere un fiancheggiatore del commando. Lui si rese irreperibile, alcuni poliziotti gli perquisirono la casa e gli trovarono 34 milioni. Marino il giorno dopo, con il suo avvocato, si presentò in questura dove fu interrogato. Gli chiesero dove si trovasse la sera di domenica 28 luglio, rispose: “In piazza a Porticello, con la Fidanzata, a mangiare un gelato”. Sui soldi disse che provenivano “Dalla mia squadra”. Ma i dirigenti della società lo smentirono e il fermo del calciatore fu confermato fino al mattino seguente. Durante la notte però gli uomini di Beppe Montana ci vollero vedere più chiaro. Prelevarono Marino dal carcere e lo torturarono per tutta la notte, all’alba era ridotto un cadavere. Nessuno riuscì più a rianimarlo: era morto.
Un’altra vittima del dovere è Pasquale Di Lorenzo, nato a Sipigiano di Galluccio (Caserta) l’1 giugno 1947, sovrintendente penitenziario presso il carcere San Vito di Agrigento. Sposato, padre di due figlie, conosciuto “come persona di forte carattere” non era incline a compromessi. E’ stato riconosciuto “Vittima del Dovere” ai sensi della legge 466/1980 dai Ministero dell’Interno. Il 16 giugno 2003 gli è stata conferita dallo stesso dicastero la medaglia d’oro al merito civile. La morte venne decisa da Cosa nostra contro il carcere duro a cui venivano sottoposti i mafiosi nei penitenziari di massima sicurezza di Pianosa e dell’Asinara. Il “capo dei capi” Totò Riina ordinò di uccidere un agente di custodia per provincia, ad Agrigento la malasorte toccò Pasquale Di Lorenzo, uno tra i più integerrimi agenti. Per anni la sua morte fu considerata una controversia legata a questioni personali, si pensò anche alla pista passionale, l’inchiesta venne archiviata. Anni dopo, il pentito Alfonso Falzone confessò: “L’ho ucciso io”. L’imprevista confessione restituì dignità al sottufficiale servitore dello Stato.
Ucciso dalla Stidda anche un metronotte agrigentino. Era una mattina del giugno del 1991. Per Vincenzo Salvatori, Ignazio Salemi e Carmelo Cinquemani era una giornata di lavoro come tante altre. Alle 9:00 erano partiti dalla Banca d’Italia di Agrigento con il furgone della ditta di trasporto valori per cui lavoravano. Avevano preso in consegna i plichi con i soldi e avevano imboccato la strada per Favara per fare le consegne. Giunti nei pressi di contrada Petrusa, da una traversa sbucò fuori un autocarro, che si mise davanti il furgone blindato. Salvatori, che era alla guida del portavalori, tentò invano la fuga. La strada gli venne sbarrata da una Citroen Bx bianca. Dal camion scesero quattro malviventi col volto coperto, si avvicinarono al furgone e spararono in direzione di Salvatori che aveva il vetro del finestrino abbassato: il metronotte morì all’istante. Fu colpito anche Salemi che sedeva accanto a lui, ma miracolosamente fece da scudo al suo cuore il portafogli che aveva messo nella tasca della giacca dove il proiettile si conficcò; un altro proiettile lo raggiunse ad un braccio lasciandolo ferito. Il terzo metronotte, che sedeva dietro, Carmelo Cinquemani, riuscì con la radio ricetrasmittente ad avvisare la centrale. I malviventi capirono di avere poco tempo a disposizione, tentarono il colpo, ma quando capirono che era diventato rischioso si diedero alla fuga senza riuscire a rubare una sola lira. Quando arrivano carabinieri e polizia per Salvatori non ci fu nulla da fare. Aveva 38 anni, lasciò due bambini e la moglie Concetta Mantisi, di 32 anni. La tentata rapina era stata decisa in un summit della Stidda.
Tutti morti per servire lo Stato, tutti ammazzati per difendere la Sicilia dalla mafia.
Calogero Giuffrida
Articolo pubblicato su Fuoririga, speciale sulla mafia nell’Agrigentino distribuito nelle edicole il 16 maggio 2008.
Fonte: agrigentoierieoggi.it
Articolo del 14 marzo 2015
Calogero Cicero e Di Francisca Fedele
di Elio Di Bella
Anche se la guerra era finita, le notti continuavano a non essere tranquille nell’entroterra della provincia di Agrigento. Da diversi mesi ormai bande di ladri e assassini imperversavano per le campagne e talvolta si avvicinavano anche fin dentro i paesi a mettere a segno i loro colpi e non di rado lasciavano morti e feriti e il panico tra la gente. Andavano insieme, anche a gruppi numerosi, e mettevano in mostra le lupara e ogni sorta di fucile e pistola che spesso avevano anche tolto ai tanti soldati italiani in fuga dopo l’otto settembre del 1943.
La notte del 14 settembre 1945 una dozzina di malviventi provenienti da Palma di Montechiaro e dediti notoriamente a rapine, sequestri di persone, assalto a treni ed autocarri, avevano deciso di prendere di mira la fattoria “Specchio” dei fratelli Buggera a Favara. I malviventi avevano saputo che in cassa quel giorno c’era l’incasso della vendita dell’uva, ma se fosse stato possibile volevano anche sequestrare gli stessi fratelli Buggera, anche se l’impresa non era delle più semplici. Si acquartierarono pertanto in contrada Guardiola Nova, che era soprastante la fattoria. Non sapevano, però, evidentemente, che quella contrada da qualche tempo era attentamente controllata da un nucleo di Carabinieri .
La banda aveva lasciato sulla sommità della collina il loro miglior tiratore a controllare la zona sottostante. L’appuntato Calogero Cicero e il carabiniere Fedele Di Francisca sorpresero pertanto durante l’ispezione un individuo armato ed appostato dietro ad una grossa pietra e capirono immediatamente di trovarsi dinanzi ad un malfattore. Ne seguì uno scontro a fuoco che fu sentito dal resto della banda, che accorse, e alcuni subito cominciarono a sparare con le loro armi automatiche all’indirizzo dei militari.
Cicero venne colpito al fianco sinistro e alla coscia e Di Francisca che intanto si era spostato verso un vicino fabbricato venne comunque colpito a bruciapelo da diversi colpi di arma da fuoco. Pur ferito e sanguinante affrontò a viso aperto i malviventi che ormai gli erano addosso. Ma venne straziato da due colpi di baionetta o di pugnale. I due carabinieri dovettero quindi soccombere al soverchiante numero dei malfattori che li circondavano. Inutilmente la polizia giudiziaria cercò di trovare gli assassini per poterli giudicare e condannare. Tutti i fermati vennero rilasciati perché non si trovarono prove a loro carico.
Ai funerali dei due carabinieri parteciparono 10 mila persone, profondamente commosse per il sacrificio di quei due giovani servitori dello Stato. Calogero Cicero era nato a Cerda il 26 marzo del 1905 e si era trasferito a Favara con la moglie Maria Attilia Cardaci solo da quattro. Fedele Di Francisca era nato a Villarosa l’11 febraio del 1911 e si trovava a Favara dalla fine del 1943.
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Articolo del 10 settembre 2021