20 Marzo 1993 Locri. Ucciso Domenico Nicolò Pandolfo, primario neurochirurgo, per non aver fatto un miracolo in sala operatoria.

Foto da: memoriaeimpegno.blogspot.it

Domenico Nicolò Pandolfo, 51 anni, primario di Neurochirurgia a Reggio Calabria, fu ucciso il 20 marzo del 1993 a Locri, da due killer con sette colpi di pistola.
Il medico, gravemente ferito fornì precise indicazioni sull’agguato prima di essere trasferito negli ospedali “Riuniti” del capoluogo, dove poi morì. Denuncia confermata dalla moglie, alla quale lui aveva raccontato i propri timori, facendo nomi e cognomi. La polizia arrestò Cosimo Cordì, 42 anni, padre di una bambina di nove anni, Paola, morta il 15 novembre per un tumore al cervello. Era stata operata da Pandolfo. Questa, secondo il presunto mandante dell’omicidio, sarebbe stata la colpa del neurochirurgo: non aver salvato la bambina. Una colpa da punire con la morte. La famiglia Cordì – ritenuta dagli inquirenti uno del clan emergenti della Locride – dopo la morte della bambina aveva ritirato la cartella clinica ed aveva obiettato ai sanitari di non aver salvato la piccola.

 

 

 

Articolo dal Corriere della Sera del 21 Marzo 1993
Non salvò la figlia del boss, assassinato
di Carlo Magrì
Il primario neurochirurgo ucciso perché 5 mesi fa non strappò alla morte Paola la bimba di 10 anni malata di tumore figlia del boss Cordì Cosimo 42 anni arrestato poche ore dopo l’ assassinio

LOCRI (Reggio Calabria) . Era un luminare della neurochirurgia. È stato ammazzato a colpi di pistola, sulla strada, come un cane, davanti all’ospedale, per non aver fatto un miracolo in sala operatoria. Non era riuscito a strappare alla morte la bambina di un boss colpita da un tumore al cervello. Il boss è stato arrestato poche ore dopo il delitto sotto l’accusa di omicidio premeditato. Era ricoverato da due giorni in ospedale, ma a Bologna. E così per la seconda volta in cinque anni si è avuta la conferma che in Calabria anche tentare di salvare la vita agli altri è una professione a rischio della vita, quella propria.

Vittima di questo ennesimo “atto di inciviltà ” in terra calabrese, come lo hanno definito i colleghi, è il professor Nicolò Domenico Pandolfo, 51 anni, già allievo dell’ illustre professor Del Vivo, primario neurochirurgico da 3 anni agli ospedali “Riuniti” di Reggio Calabria, sposato con Maria Cutrì, padre di tre figli. A ucciderlo sono stati, ieri mattina verso le 11, alcuni killer con 7 colpi di pistola calibro 7,65, a poche decine di metri dall’ingresso del nosocomio locrese, uno dei maggiori della regione. Il primario stava per raggiungere la sua auto posteggiata poco distante e tornare a casa. Da qualche anno Pandolfo aveva ricevuto l’incarico di una consulenza presso l’Usl 9 di Locri e raggiungeva la cittadina jonica solo il sabato.

Anche ieri era giunto a Locri da Reggio come ogni fine settimana. Sereno come sempre, di buon mattino ha scambiato quattro chiacchiere con amici e colleghi al bar dell’ospedale. Poi di corsa nel suo studio, al terzo piano. Poco prima delle undici aveva telefonato alla moglie dicendole che sarebbe rientrato per l’ora di pranzo. Così sarebbero andate le cose se i sicari non fossero stati lì ad attenderlo. Non curandosi della folla che raggiungeva l’androne, gli assassini hanno ucciso in modo spietato. Poi sono fuggiti. Un’azione da professionisti. Gente venuta da fuori, visto che hanno agito a viso scoperto. Nessuna indicazione utile è venuta dagli attoniti spettatori della spietata esecuzione. Anzi tutti hanno negato di aver visto alcunché. Solo sentito alcuni botti.

Le indicazioni decisive invece le ha date proprio la vittima. Il professor Pandolfo, infatti, soccorso dai colleghi e trasportato al “Riuniti” di Reggio Calabria, prima di spirare, due ore dopo il ricovero, ha parlato con la polizia. E ha confermato le preoccupazioni espresse da tempo alla moglie che, se gli fosse successo qualche cosa di grave, avrebbe dovuto sospettare della famiglia Cordì. E gli inquirenti non sono stati con le mani in mano: neppure otto ore dopo il delitto hanno arrestato al Policlinico di Bologna, dove era ricoverato da due giorni, Cosimo Cordì, 42 anni, membro di una “famiglia di prestigio” della Locride. L’accusa è pesantissima: omicidio premeditato del professor Pandolfo. Omicidio voluto perché cinque mesi fa il professore non era riuscito a salvare Paola, 10 anni, figlia del presunto boss.

Era un giorno di novembre quando la bambina venne ricoverata d’urgenza nel reparto neurochirurgico di Reggio Calabria. La piccola era in coma. I medici, dopo accurati accertamenti, diagnosticarono un tumore al cervello. Pandolfo, in prima persona, decise un disperato intervento nel tentativo di limitare i danni provocati dalle cellule tumorali. Inutilmente. La bimba morì. Pochi giorni dopo i Cordì ritirarono la cartella clinica che, sembra, sottoposero all’attenzione di qualche altro medico da cui, si vocifera, il boss avrebbe ricevuto la conferma dei suoi sospetti: Paola si sarebbe potuta salvare. Vero, falso? Fatto sta che Cosimo Cordì, secondo l’accusa, avrebbe deciso di vendicarsi e avrebbe preparato l’agguato di ieri.

Simile in tutto e per tutto a quello in cui cadde Girolamo Marino, primario di chirurgia a Locri, il 23 ottobre 1988, assassinato perché il padre e lo zio di Caterina Giampaolo, 4 anni, morta dopo un intervento di appendicite, ritennero il primario locrese responsabile di quel decesso.

I Cordì respingono ovviamente l’etichetta di mafiosi, ma sembra che a Locri nulla si muova senza il loro assenso. La cosca ha una potenza non indifferente sul territorio, scalfita solo da quella dei Cataldo, vecchi boss in declino. Cosimo, capocantiere alla Forestale, tempo fa fu coinvolto in un tentativo di omicidio, ma ne è uscito prosciolto. Si è occupato anche di politica: è stato legato ai socialisti, in particolare all’ ex assessore regionale alla Forestazione Giovanni Palamara e lui stesso è stato consigliere comunale a Locri. Il fratello Antonio, considerato vero capo della famiglia, fu indiziato di favoreggiamento per l’omicidio di Giovanni Gallucci. Ci sarebbe stato pure lui, quella sera, al banchetto organizzato dal Psi e conclusosi con l’assassinio dell’ imprenditore.

Ieri sera i colleghi della vittima, riuniti in assemblea, hanno definito “un atto di inciviltà l’assassinio dell’amico e collega, pioniere e primario”. Pandolfo oltre che irreprensibile e stimato professionista era noto anche per essere impegnato da tempo in attivitè di sensibilizzazione contro la droga.

 

 

Articolo da L’Unità del 21 Marzo 1993
Locri: giustiziato in piazza un neurochirurgo
Per una vendetta «privata» della ‘ndrangheta
di Aldo Varano
Il dottor Pandolfo non era riuscito a salvare la figlia di un boss. Arrestato il presunto mandante.

Domenico Nicolò Pandolfo, primario di neurochirurgia ai Riuniti» di Reggio, è stato ammazzato ieri mattina  da un killer solitario ed esperto. Una vendetta della ‘ndrangheta, perché dopo un’operazione al cervello (riuscita) la bimba di un boss era ugualmente morta? In serata è stato arrestato a Bologna Cosimo Cordì, parente della piccola Paola. È accusato di essere il mandante dell’omicidio.

LOCRI – Forse è morto per eccesso di generosità; aveva tentato un’operazione disperata per strappare alla morte una bimba con un tumore alla testa. Un’operazione riuscita anche se il tumore aveva continuato a dilaniare la piccola Paola, nove anni, fino a vincerla. La bambina apparteneva a una famiglia in odor di ‘ndrangheta. In serata è stato arrestato a Bologna Cosimo Cordì, suo parente e presunto mandante. Forse, però, è morto per far capire a tutti gli altri medici di Reggio e provincia che bisogna tornare ai bei momenti quando i certificati fasulli per consentire ai boss di starsene tranquillamente in corsia all’ospedale piovevano che era una bellezza e non venivano mai negati a nessuno. Qui a Locri si può morire ammazzati per mille motivi, vale poco la vita di un altro e se serve a qualcosa o a qualcuno si spazza via senza pietà.

Una trappola mortale dalla quale non si poteva sfuggire quella tesa contro Domenico Nicolò Pandolfo, primario di neurochirurgia degli ospedali Riuniti di Reggio, ammazzato ieri mattina sotto gli occhi spaventati di decine di testimoni oculari, alla luce di un sole caldo che di botto sembra tagliar via la primavera per annunciare l’estate. Il killer è rimasto calmo aspettando appoggiato ad un’auto che il professore arrivasse. Quando ha visto il chirugo avvicinarsi ha estratto un 7 e 65 bifilare e gli ha scaraventato addosso l’intero caricatore. Sette colpi, sette centri in testa ed al torace. Non colpi all’impazzata come chi è accecato dalla voglia di vendetta, ma il lavoro di un professionista consumato e preciso. Pandolfo è scivolato a terra tra il fuggi-fuggi terrorizzato dei presenti, nessuno dei quali si è presentato agli investigatori per uno straccetto di testimonianza. Solo una telefonata anonima, per avvertire quelli del pronto soccorso che lì nello spiazzo, tra l’uscita dell’ospedale e la rampa d’accesso, accanto alla macchina, c’era un uomo in un lago di sangue.

I medici di Locri hanno capito subito che il loro collega era gravissimo e l’hanno trasferito al reparto di rianimazione del capoluogo. A Reggio, altre tensioni, altre lacrime e rabbia di colleghi e collaboratori. Poi, dopo un po’, la morte.

Il professor Pandolfo ogni sabato veniva a Locri perché il locale reparto di neurochirurgia ha un rapporto di consulenza con quello di Reggio. Era un professionista stimato, di ottimo livello. Visitava gli ammalati più gravi per decidere assieme ai colleghi di Locri come procedere. Ieri mattina, era arrivato molto presto, aveva solo due visite e un po’ prima delle undici si era già incamminato verso l’auto per far ritorno a Reggio. L’assassino è intervenuto proprio in quel momento.

Il sostituto Nicola Gratteri ha disposto lo “stub”, un sistema più affidabile che ha sostituito il vecchio guanto di paraffina, agli uomini della “famiglia” Cordì, gente in odor di ‘ndrangheta, parenti della piccola Paola morta cinque giorni fa per un tumore al cervello. Ma c’è chi dice che il provvedimento sia stato deciso per scrupolo, si sapeva che la possibilità di salvare la bimba era fragile e labile.

Maggiore consistenza, invece, potrebbe avere la pista delle telefonate che pare stiano sconvolgendo la vita di molti primari minacciati perché si rifiutano di sottoscrivere diagnosi fasulle per poter ottenere privilegi nel carcere ed arresti domiciliari. aveva subito minacce di questo tipo anche il professor Pandolfo? Oppure s’è scelto l’obiettivo più indifeso ed esposto per lanciare un messaggio di intimidazione ad altri medici?

La tragedia di ieri sembra la fotocopia di quella del novembre 1988 quando un commando uccise il primario di chirurgia di Locri, Gino Marino. Il medico aveva operato la figlia di un boss latitante in Aspromonte, Marcella, sei anni, che nei giorni successivi morì per allergia ai medicinali postoperatori che, tra l’altro, non aveva ordinati Marino. Dall’Aspromonte arrivò un “soldato” della ‘ndrangheta per punire il chirurgo, assassinato, anche lui, all’uscita dell’ospedale.

Ieri a Reggio, assemblea dei medici che hanno condannato il gesto “vile e barbaro”. Ci sono preoccupazioni, paura e si annunciano polemiche infuocate.

 

 

 

Articolo da L’Unità del 22 Marzo 1993
Omicidio del neurochirurgo
Locri, prima di morire ha denunciato alla polizia il mandante dei killer

REGGIO CALABRIA. Ha denunciato alla polizia i suoi assassini. Un atto d’accusa terribile quello di Domenico Nicolò Pandolfo, 51 anni, primario di Neurochirurgia a Reggio Calabria, ucciso avant’ieri con sette colpi di pistola: il medico, gravemente ferito nei pressi dell’ospedale di Locri, avrebbe fornito precise indicazioni sull’agguato prima di essere trasferito negli ospedali “Riuniti” del capoluogo, dove è poi morto.

Denuncia – a quanto pare – confermata dalla moglie, alla quale lui aveva raccontato i propri timori, facendo nomi e cognomi. Cosi, la polizia è giunta al fermo di Cosimo Cordì, 42 anni, padre di una bambina di nove anni, Paola, morta il 15 novembre per un tumore al cervello. Era stata operata da Pandolfo. Questa, secondo il presunto mandante dell’omicidio, sarebbe stata la colpa del neurochirurgo: non aver salvato la bambina. Una colpa da punire. Con la morte.

Negli ultimi tempi, Nicolò Pandolfo aveva, più volte espresso «timore e preoccupazione» per la sua vita. La famiglia Cordì – ritenuta dagli inquirenti uno del clan emergenti della Locride – dopo la morte della bambina aveva ritirato la cartella clinica ed aveva obiettato ai sanitari di non aver salvato la piccola. Cosimo Cordi rintracciato l’altro ieri sera, subito dopo l’agguato, nell’ospedale «Malpighi» di Bologna è accusato di omicidio premeditato.

E i killer? Gli inquirenti pensano che siano ormai latitanti. Si tratterebbe di due persone, hanno sparato con pistole calibro 7,65. Per la loro identificazione, in ogni caso, si attendono gli esiti dei numerosi «stub» (l’esame che ha sostituito quello del guanto di paraffina) eseguiti sabato sera dalla polizia.
Cosimo Cordi, operaio forestale, era da alcuni mesi sottoposto all’obbligo di dimora a Locri e nei giorni scorsi aveva ottenuto l’autorizzazione al ricovero nell’ospedale di Bologna per sottoporsi a cure antireumatiche: per prepararsi un alibi, si presume.

 

 

Foto da: messina.gazzettadelsud.it

Fonte:  messina.gazzettadelsud.it
Articolo del 30 giugno 2019
Il medico Pandolfo ucciso nel ’93: un figlio di Messina dimenticato, ma c’è ora chi spezza il silenzio
di Claudia Benassai

Quel 20 marzo del 1993 la via non era solitaria, e Domenico Nicolò Pandolfo, primario di Neurochirurgia dell’ “Ospedale Riuniti” di Reggio Calabria, che lavorava senza risparmiarsi, fu freddato a Locri dove era consulente del nosocomio, in pieno giorno, con 7 pallottole. Aveva 51 anni. Il silenzio fu assordante.

«Mio papà – racconta il figlio Marco – si è formato all’Università di Messina. Era di famiglia umile, i suoi genitori facevano i fattori, ma studiò con amore e dedizione, incoraggiato anche da suo padre, che coltivava da sempre l’ idea di far diventare il figlio medico». Dopo la specializzazione a Padova venne chiamato a Lecce.

«Il prof. Bartolomeo Armenise venne incaricato di dirigere il reparto di Neurochirurgia dell’ospedale regionale “Vito Fazi” e avendo bisogno di un assistente preparato chiamò mio padre che accettò con piacere». Fu un anno importante: « Io sono nato proprio a Lecce e in quel breve periodo arrivò una nuova svolta. Infatti, proprio a Reggio, Romeo Eugenio Del Vivo, neurochirurgo di fama europea formatosi a Zurigo, chiamato a dirigere una nuova divisione neurochirurgica, dopo aver parlato con Armenise, scelse mio padre. Era felice non soltanto per l’opportunità, ma perché aveva il desiderio di avvicinarsi il più possibile a Messina». Tutto procedeva in maniera normale, fino al giorno della tragedia, rimasta senza un perché.

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«Mia mamma, insegnante, si è laureata dopo la nascita di mio fratello Luca, terzogenito dopo mia sorella Ruta, e cominciò a lavorare in posti dimenticati in Calabria. Io invece, da buon fratello maggiore cercavo di rendermi utile, anche con le cose più semplici come scaldare il pranzo che lei preparava».

E quel giorno nero, Marco, che frequentava l’ultimo anno di liceo, apprese la notizia appena tornò a casa, dove c’erano i nonni: «Squillò il telefono, era una mia zia di Messina che ci avvisava che al TG2 aveva appena sentito che avevano gravemente ferito un neurochirurgo. Dopo 5 minuti sono venuti dei colleghi di mio padre insieme a mia madre e ci siamo precipitati in ospedale. Non dimenticherò mai quella scena che mi si presentò davanti. Era disteso su un letto di ferro crivellato di colpi».

Nicolò Pandolfo, al poliziotto che gli prestò soccorso affidò le sue ultime parole: «Ricordate il nome dei Cordì. Salutate mia moglie e i miei figli».

Le indagini non portarono a nulla, anche se il principale indiziato era proprio Cosimo Cordì, considerato il capobastone dell’omonimo clan della locride, che avrebbe commissionato l’omicidio perché Pandolfo non sarebbe riuscito a fare il “miracolo” e strappare dalla morte la figlia.

La famiglia, poi, dopo la tragedia ha fatto ritorno a Messina e ha vissuto nel silenzio per scelta. È riuscita ad andare avanti grazie ad una madre-coraggio e ai ricordi belli che nessuno poteva e può strappare.

E il dottore, come amaramente constata il figlio, è stato dimenticato e ucciso due volte: «Dopo anni ho scoperto che “Libera” è l’unica associazione che ricorda mio papà. Così ho deciso di ricordarlo anche io e parlare della sua storia nelle scuole».

Marco Pandolfo ha un solo desiderio: «Sento la necessità di avere verità e giustizia per quello che è successo, e soprattutto vorrei ottenere un riconoscimento da parte delle istituzioni perché penso che papà lo meriti per quello che ha dato».

 

 

 

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