26 Giugno 1975 Eupilio (CO). Rapita Cristina Mazzotti , 18 anni, il suo corpo fu ritrovato in una discarica.
Si può morire a 18 anni, solo per danaro.
Si può morire senza colpa, crudelmente.
Si può morire e finire gettata in una discarica, tra carrozzine rotte e sacchi della spazzatura, come ulteriore oltraggio.
È quello che accadde a Cristina Mazzotti, rapita la sera del 26 giugno 1975 davanti al cancello della villa dei genitori a Eupilio, in provincia di Como, e ritrovata morta il primo settembre dello stesso anno, dopo un atroce e insensata prigionia fatta di stenti e soprusi, di overdose di eccitanti mescolati a tranquillanti. (Art. Paolo Benetollo)
Articolo da La Stampa del 2 Luglio 1975
Studentessa di 18 anni rapita davanti alla sua villa a Erba
di Remo Lugli
Studentessa di 18 anni rapita davanti alla sua villa a Erba. È Cristina Mazzotti, figlia di un mediatore di cereali milanese – Era in vacanza nel Comasco e rientrava a casa dopo una festicciola con i compagni di scuola – L’auto bloccata da 4 banditi mascherati.
Como, 1 luglio. Hanno rapito una studentessa, di diciotto anni, figlia di un mediatore di cereali milanese, che ha la villa di campagna nel Comasco. Un ennesimo sequestro per estorsione, non v’è dubbio. Un’impennata di recrudescenza della malavita in questa città che di solito è tranquilla: in cinque giorni due rapimenti ed un omicidio (venerdì a Pizzarone è stato rapito il geometra Diego Bruga, sabato ad Alzate Brianza una donna ha ucciso il marito).
La vittima di stanotte è Cristina Mazzotti, ha compiuto i diciotto anni il 24 giugno scorso. Erano per lei giorni di lieta vacanza: gustava la sua nuova condizione di maggiorenne e la fine della scuola, la promozione dalla seconda alla terza liceo classico che frequentava al «Carducci» di Milano. Per questi festeggiamenti sabato scorso si era trasferita con la madre, Carla Airoldi, 49 anni, dall’abitazione milanese di piazza Repubblica 25 alla villa di Galliano, una frazione di Eupilio, fra Erba e Canzo. Aveva fatto venire con sé, ospite, una compagna di classe, Emanuela Luisari, pure diciottenne, abitante a Milano in via Settala. Il padre, Elios Mazzotti, 54 anni, è partito domenica per l’Argentina, dove abita, con il marito, un’altra figlia, Marina, 26 anni. Un figlio maschio, Vittorio, 29 anni, era rimasto nell’abitazione milanese.
Elios Mazzotti lavora come mediatore per conto di ditte che importano cereali soprattutto dall’Argentina. «Non è commerciante — precisa Vittorio, che si preoccupa di dare le giuste dimensioni alle possibilità finanziarie della famiglia —, lavora a percentuale, è un brooker. La sua impresa è la società a responsabilità limitata Mazzotti e C. In questo periodo in Argentina c’è sentore di una certa mutazione tra le ditte esportatrici e lui è quindi andato giù per studiare la situazione. Adesso, comunque, sa quello che è successo, siamo riusciti a raggiungerlo per telefono: sta già tornando».
Cristina Mazzotti e la sua amica Luisari ieri sera escono di casa alle 21. Ad aspettarle, davanti al cancello della villa, c’è un amico comune, Carlo Galli, diciannove anni, studente di medicina a Pavia, che abita a Civenna (Como). È lì con la Mini Minor di proprietà di sua sorella. Il programma è di trascorrere la serata incontrando un po’ di amici. I tre vanno ad Erba, nel bar «Bosisio» dove trovano un gruppo di ragazzi che li attendono. Alle 22 escono e partono in otto con due auto per un giro in Brianza. Questi giovani hanno una fitta rete di amicizie disseminate per le molte ville; amicizie ravvivate di weekend in weekend. All’una e mezzo la Mini sta per far ritorno alla villa Mazzotti, dopo che gli altri amici, con la seconda auto, se ne sono andati già alle loro abitazioni. La vetturetta, lasciata la Valassina, imbocca la stradina che da Eupilio porta a Galliano.
Emanuela Luisari, che con il Galli ha vissuto la fase iniziale del rapimento dell’amica, racconta: «A poche centinaia di metri dalla villa siamo stati superati da una “Giulia” che si è fermata bloccandoci il passaggio e dietro di noi c’era una “125” gialla. Da questa seconda auto sono scesi in quattro, bendati con fazzoletti e sciarpe e armati di rivoltelle. Hanno imposto a Carlo ed a Cristina che sedevano davanti, di passare dietro con me. “State tranquilli perché non vi succede niente”, ha detto uno. Due di loro sono saliti sulla “Mini” e gli altri due sono montati sulla “125”. Così siamo partiti. Io non ho più visto nulla perché ci hanno imposto di stare giù con la testa. Carlo ogni tanto cercava di sollevarla per vedere che strada si percorreva, ma uno dei due gli dava delle botte perché si riabbassasse. Per quel poco che ho sentito parlare, mi pare che le pronunce fossero meridionali».
La «Mini» si arresta alla periferia di Appiano Gentile (Como), a quaranta chilometri da Eupilio. C’è anche la «125» con gli altri due banditi, nessuna traccia invece della «Giulia». Uno dei rapitori a questo punto chiede alle ragazze: «Chi è di voi due Cristina Mazzotti?». Lei pronta e con calma, risponde: «Sono io». Le infilano un cappuccio nero sulla testa, la fanno scendere e salire sulla «125». Al Galli ed alla Luisari vengono legati i polsi con una cordicella dietro la schiena. I rapitori tentano anche di narcotizzarli premendogli contro il naso un batuffolo imbevuto di cloroformio, ma senza ottenere alcun risultato. «Solo un po’ di intontimento — dice la Luisari — non ho mai perduto la conoscenza».
La «125» parte, ma di lì a qualche minuto è di ritorno. Un bandito scende, toglie dal cruscotto la chiave della «Mini» che aveva dimenticato di sfilare e con un coltello buca i pneumatici delle ruote posteriori. Ora la macchina dei rapitori riparte velocemente e definitivamente. È stata ritrovata questa mattina a Solbiate Arno (Varese), a pochi chilometri da Appiano. Era stata rubata a Milano l’8 giugno scorso; a bordo è stata trovata soltanto della cordicella identica a quella usata per legare i due giovani. Il Galli e la Luisari riescono a liberarsi mezz’ora dopo, circa alle due. Vanno, a piedi, in cerca di una casa dalla quale dare l’allarme. Non è facile, a quell’ora e con i tempi che corrono. Dopo un paio di vani tentativi riescono a farsi aprire dall’ingegner Giorgio Montandon, uno dei dirigenti della cementeria di Merone.
È la ragazza che compone il 113 ed annuncia alla questura di Como il sequestro dell’amica. Di lì a poco arrivano alla villa del Montandon il dottor Ceriotti della Mobile ed alcuni collaboratori. I giovani fanno un primo racconto che riprendono poi questa mattina in questura, alla presenza anche dei funzionari della Criminalpol, il dirigente dottor Sgarra ed il dottor Aragno. Non ci sono punti oscuri, tutto è abbastanza chiaro, il sequestro a scopo di estorsione è evidente, anche se per il momento non c’è alcuna prova. Nel pomeriggio si diffonde una voce secondo la quale sarebbe già arrivata una telefonata con la richiesta di riscatto, ma i familiari lo negano, anche la polizia è convinta che ancora non si siano fatti vivi.
Dove è stato ideato il rapimento? A Milano, forse, ma non si può escludere che il piano sia stato preparato qui. La famiglia Mazzotti è molto nota, viene per ogni fine settimana, i giovani, come si è detto, hanno molti amici; e il nonno materno di Cristina è stato per diversi anni sindaco di Eupilio, è uno dei notabili più in vista. Carla Airoldi Mazzotti, la mamma, in preda all’angoscia, non vuole vedere nessuno. Il figlio Vittorio riceve noi giornalisti al cancello. Con Vittorio Mazzotti si parla del probabile riscatto che prima o poi i banditi chiederanno. Il giovane — barba e baffi castani, maglione scuro su una camicia bianca — dice: «Noi stiamo bene, ma non è che possiamo far fronte a qualsiasi riscatto: diciamo che ne possiamo sopportare uno di piccole dimensioni ». In attesa del rientro del padre vuole essere lui a condurre le eventuali trattative: «È una cosa troppo delicata, c’è anche la necessità di avere le garanzie che dall’altra parte ci sono i rapitori veri e non degli sciacalli». Aggiunge: «Abbiamo chiesto agli inquirenti di non interferire con le loro indagini sugli eventuali nostri contatti ed a voi giornalisti chiediamo ora di osservare, dopo la pubblicazione di domani, il silenzio stampa».
Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 14 maggio 1979
Cristina Mazzotti: il primo crimine «industrializzato»
di Kino Marzullo
Le pene furono severe, ma non vollero essere «esemplari» – Il delitto si debella solo quando viene coinvolta la coscienza di un intero Paese – Il corpo trovato in una discarica di rifiuti.
Domani in appello a Torino i suoi carnefici.
TORINO – Quasi esattamente due anni fa, il 7 maggio 1977, la Corte d’assise di Novara pronunciò la sentenza a carico degli imputati del rapimento e dell’assassinio di Cristina Mazzotti: otto ergastoli, due condanne a trenta anni, una a ventisei, una a ventitré, più una serie di pene minori per imputati considerati minori. Venne rilevato, da alcuni, che nella storia processuale italiana non esistevano precedenti di sentenze di analoga gravità; ma nessuno vide in essa l’intenzione di «dare un esempio» per scongiurare, o almeno arginare, un fenomeno che stava cominciando ad assumere proporzioni allarmanti. Le condanne «esemplari», in quanto forzate a fini deterrenti, difficilmente sono rigorosamente giuste: ma questo discorso non vale per il processo che due anni fa si svolse a Novara e che, indipendentemente dalla misura delle varie condanne, tentò di muoversi col massimo di equilibrio e di garanzie.
Da 65 a 191 sequestri
Domani, martedì, la Corte d’appello di Torino affronterà nuovamente il «caso Mazzotti» per discutere i ricorsi di tutti i condannati e non è inopportuno, quindi, ricordare alcuni elementi di una vicenda che comincia ormai ad essere lontana nel tempo. Si è detto che quella condanna non intese essere esemplare, perché di esemplare, in quella vicenda, fu la vicenda in sé. Quel primo luglio 1975 in cui Cristina Mazzotti fu rapita ad Eupilio, presso Como, il sequestro di persona a scopo di estorsione compì un salto di qualità: non fu, presumibilmente, un passo concordato nelle centrali del crimine, ma fu il generale riconoscimento da parte di quelle stesse centrali di condizioni nuove a livello sociale e culturale: la sera di quel primo luglio fu rimosso il mattone che rese instabile quella sorta di diga morale che fino a quel momento aveva costituito una sorta di «legge di onore» cui si atteneva la criminalità.
Cristina Mazzotti fu la prima ragazza ad essere rapita – in precedenza il punto di onore della delinquenza meridionale rifiutava il rapimento delle donne – fu la prima giovanissima (e dopo d’allora i ragazzi rapiti si moltiplicarono), fu la prima per la quale la morte fu messa in conto anche se presumibilmente non era stata preventivata; fu, infine, tra le prime per la quale il riscatto fu intascato anche se la ragazza era già morta ed era già stata gettata in una discarica di immondizie. Anche qui, in questo macabro particolare, c’è l’indicazione di quella nuova caratterizzazione cui si faceva cenno prima: la mafia siciliana e calabrese può essere spietata, può essere feroce, può colpire indiscriminatamente intere famiglie, ma conserva un ancestrale rispetto per le vittime; il sasso in bocca è una condanna morale, non il vilipendio di un cadavere. La vittima gettata tra i rifiuti – come fu per Cristina Mazzotti – è il sigillo del crimine industriale.
Questo – il trasferimento dal piano artigianale a quello industriale del crimine – fu un altro degli elementi caratterizzanti, in questo senso sì, «esemplari», del rapimento di Cristina: fu la prima volta che si poté accertare un nesso tra momenti diversi di criminalità: in questa occasione il legame tra delinquenza calabrese e delinquenza lombarda; nel quasi contemporaneo rapimento Saronio – che si sviluppò allo stesso modo del rapimento Mazzotti ed ebbe la stessa conclusione – il legame tra delinquenza comune e delinquenza «politica».
Nel ’75, insomma, il rapimento a scopo di estorsione modifica le proprie strutture e da fatto «artigianale» assume le dimensioni di una «industria». Basterebbe forse ricordare che nel triennio 1972-1974 i sequestri di persona in Italia furono 65; nel triennio 1975-1977 sono diventati 191. E parallelamente all’aumento dei rapiti aumenta a dismisura anche il numero di coloro che non vengono restituiti, anche se il riscatto è stato pagato. Vale la pena di ricordare che nella sola Lombardia sono stati uccisi, dopo essere stati rapiti, oltre a Cristina Mazzotti e Carlo Saronio, anche Vittorio Di Capua, Luigi Galbiati, Paolo Giorgetti, Giuseppe Bellorini. Non sono più tornati, anche se ormai è trascorso lunghissimo tempo dal rapimento, Emanuele Riboli, Giovanni Stucchi, Tullio De Micheli, Mario Ceschina, Francesco Sella, David Beissah, Augusto Rancilio.
Il rischio è, proprio perché il fenomeno anziché isterilirsi sembra dare frutti sempre più ricchi, che ci si abitui a vivere con esso: quando un fatto un tempo insolito comincia a verificarsi con frequenza e regolarità, smette di essere insolito, diventa una costante della nostra vita e si finisco per accettarlo anche se è sgradevole. E questo fu l’altro dato esemplare del processo di Novara: l’impegno dei Mazzotti contro l’assuefazione – la rassegnazione – al male: ormai Cristina è morta, suo padre è stato stroncato dal dolore già tre anni fa, il miliardo inutilmente versato per salvarla è scomparso: non c’è più nulla di recuperabile e i Mazzotti non vogliono recuperare nulla: non hanno chiesto una lira di risarcimento dei danni e non hanno mai parlato delle dimensioni delle pene.
Non è un fatto privato
Tuttavia domani saranno rappresentati da un collegio di giuristi di altissimo valore, in massima parte docenti universitari: Pisapia, Smuraglia, Pecorella, Lozzi, Cottino, Masselli, Enrica Domeneghetti, i quali chiederanno la conferma della sentenza di primo grado non per la sterile consolazione della vendetta, né perché considerino la pena un deterrente decisivo, ma perché ritengono che la certezza della giustizia se non indebolisce in misura determinante il crimine può però rafforzare il tessuto sociale che al crimine si oppone.
Davanti alla Corte d’appello di Torino, quindi, i Mazzotti tenteranno di portare avanti una battaglia nella quale sono impegnati ormai da quattro anni: la pena di morte non serve a nulla, che la magistratura adotti la «linea morbida» o la «linea dura» non modifica niente: il crimine lo si affronta solo ad un più alto livello di cultura, di civiltà, di partecipazione politica; viene debellato quando non rimane un fatto privato tra vittima e colpevole, ma quando si raggiunge la consapevolezza che la morte di chiunque è un poco anche la nostra morte. E non si tratta solo di morte fisica, ma di qualsiasi limitazione alla propria integrità anche morale. Insomma, affermano: la morte di Cristina e comunque qualsiasi rapimento diventano remunerativi perché è possibile riciclare il denaro del riscatto e questo a sua volta è possibile per le carenze di controlli sugli istituti di credito, per le deficienze delle indagini fiscali, per la facilità con cui si esporta il denaro, vale a dire per le carenze della vita civile di ogni giorno, anche al di fuori del delitto emozionante.
I colpevoli restano spesso impuniti perché non esiste ancora – nonostante tutti i solleciti – una «banca dei dati del crimine» che forse permetterebbe di risalire non solo agli autori di un sequestro a puro fine di lucro, ma anche a sequestri politici: combatterebbe assieme la delinquenza comune e il terrorismo politico, che sono due momenti di un progetto di destabilizzazione delle strutture democratiche. Un esecutivo «forte», quindi? Certo, dicono i familiari di Cristina: della forza che deriva dalla partecipazione popolare, dal coinvolgimento di tutti nelle decisioni fondamentali.
Articolo da La Repubblica del 9 Giugno 2008
Tradito dall’impronta dopo 33 anni
Preso il boss dell’omicidio Mazzotti
di Piero Colaprico
La ragazza venne sequestrata e uccisa nel giugno del 1975. Il cadavere ritrovato in una discarica. Otto condanne all’ergastolo, ma mancava il capo dei rapitori.
L’uomo è un ex gangster della famigerata banda del “Tebano” Epaminonda.
È stato in carcere fino a 2 anni fa: da poco era in semilibertà
MILANO – Aveva diciannove anni quando rapì una ragazza, che poi morì nel covo dei sequestratori. Nessuno dei complici ne ha mai parlato, lui tanto meno. Ma oggi che di anni ne ha 54, tutto si aspettava, il signor “Luciano”, ex gangster della Milano di Angelo Epaminonda detto il Tebano, meno che di essere raggiunto dai poliziotti: trentatré anni dopo.
Cristina Mazzotti. Ai meno giovani bastano questo nome e cognome perché torni in mente la fotografia in bianco e nero di una ragazza dall’aria simpatica, con lunghi capelli neri. Un bel sorriso. Era stata rapita, portata via e costretta a vivere in un buco sotto terra il giorno della sua festa per il diploma. Entrò nella storia nera dell’Italia contemporanea come la prima sequestrata che morì nella lunga e dolorosa stagione dell’Anonima al Nord. Era il 1975.
Vennero presi i custodi, il telefonista-ricattatore, gli altri complici. Uno squadrista fascista, un gelataio, un macellaio, le loro donne, alcuni boss calabresi. Venne celebrato un lungo processo, finito con otto ergastoli e numerose confessioni. Pareva che si sapesse tutto, sulla fine di quella povera diciottenne e sul cuore che si spezzò nel petto addolorato del padre Helios, industriale. E, invece, nessuno degli arrestati aveva speso una parola sul commando che aveva strappato via per sempre Cristina alla sua vita. Quel commando, rimasto nell’ombra, faceva paura. Ma ora è stato in parte individuato. Grazie all’impronta di un dito pollice e all’aiuto che l’elettronica fornisce alla Polizia scientifica.
La sera del 26 giugno Cristina viaggiava con gli amici Carlo ed Emanuela su una Mini Minor targata CO 349594, che percorreva la strada per Longone al Segrino. Tornavano a Eupilio, alla villa dei Mazzotti. Carlo guidava, quando venne costretto a fermarsi da due auto, una Giulia e una 125, che gli sbarrarono la marcia. “Chi è Cristina Mazzotti?”, chiese un uomo incappucciato.
La studentessa si consegnò, un bandito legò i suoi amici, ci volle un’ora perché si liberassero. I tecnici della Scientifica milanese trovarono su quell’auto tredici frammenti di impronte e, di queste, solo tre sembravano essere interessanti: l’impronta di un palmo e due impronte digitali. Allora, vennero studiate, analizzate, confrontate, ma non portarono a nulla.
Fu, infatti, il fiuto di un direttore di banca svizzero a fornire l’imbeccata giusta all’anticrimine italiano, facendo arrestare uno dei riciclatori del riscatto, Libero Ballinari. Mentre il primo settembre scattava il blitz, con una coincidenza che sconcertò non poco, nella discarica del Varallino, a Sesto Calende, veniva dissepolto il cadavere di Cristina. Era accanto a una carrozzina rotta. Giuliano Angelini, uno dei suoi carcerieri, considerato il “cervello”, era appassionato di medicina: iniettava alla ragazza sonniferi quando c’era da sedarla ed eccitanti quando doveva parlare con i genitori. Il cocktail l’aveva ammazzata. Ai funerali parteciparono migliaia e migliaia di mamme e figlie.
Si dice che solo alla morte non c’è riparo, ma è anche vero che per alcuni investigatori le indagini finiscono solo quando ogni minimo dettaglio quadra. E questa vicenda, che somiglia al copione della serie tv americana “Cold case”, casi freddi, lo dimostra. Perché quell’impronta senza nome sul parabrezza della Mini non è mai stata dimenticata dalla polizia. L’Afis, il cervellone che cataloga e individua “al volo” le impronte, è stato interpellato varie volte. Finalmente, un giorno, si è accesa una luce gialla intermittente: l’impronta corrisponde a un uomo che ha una lunga lista di precedenti penali, rivela il computer.
I gangster lo conoscevano come Luciano, si chiama Demetrio Latella: per lui il pubblico ministero Francesco Di Maggio chiese e ottenne due ergastoli, nel 1988, al maxiprocesso Epaminonda nell’aula bunker di Milano. Latella faceva parte degli “indiani”, la pericolosa e super-armata banda del “Tebano”, ritenuta responsabile di quarantaquattro omicidi. È stato in carcere sino a due anni fa, ha ottenuto il regime della semilibertà, si è rifatto quel poco di vita che si può fare qualcuno che è stato dentro per decenni.
Alla vista dei tesserini dei detective, ha chinato la testa: “Da giovane ho avuto cinque anni di follia e sono convinto che la galera m’ha salvato la vita. Che volete che vi dica? È vero, quell’impronta è mia perché sono stato io”, ha confessato. Secondo indiscrezioni, sarebbero sotto inchiesta altri tre uomini. Uno è un altro gangster milanese, anche lui uscito da poco dalle sbarre. Si è riaperta, quindi, una complessa indagine, coordinata dal sostituto Oneglio Dodèro della Procura distrettuale antimafia di Torino.
Fretta di chiudere non c’è. Non più. Ma mentre scriviamo, altre impronte rimaste senza nome “girano” sul computer. Cristina Mazzotti, da morta, ha ridato nuova linfa al ministero dell’Interno: altri vecchi delitti, grazie al lavoro di poliziotti insistenti, potrebbero “quadrare”. E forse far riposare in pace, se non le vittime, almeno i parenti sopravvissuti.
Articolo del 14 Giugno 2012 da lastampa.it
Sequestro e omicidio Mazzotti, dopo 37 anni il caso è chiuso
Il gip di Milano ha archiviato anche la posizione del presunto autista della banda “chiamato” in causa da un’impronta digitale nel 2008
di Marco Benvenuti
Sequestro e omicidio di Cristina Mazzotti: il caso è definitivamente chiuso. Il gip di Milano, così come chiesto dallo stesso pubblico ministero, ha archiviato anche l’ultimo fascicolo quello relativo al novarese Demetrio Latella, 57 anni, accusato di aver fatto parte della banda che nell’estate del 1975 rapì la giovane comasca, figlia dell’industriale cerealicolo Helios, la segregò per alcuni giorni, per poi gettarne il cadavere in una discarica nella zona del Varallino di Galliate.
Stessa decisione anche per i calabresi Antonio Talia e Giuseppe Calabrò, esponenti del clan dei catanesi degli Epaminonda, come Latella. I tre avrebbero fermato l’auto di «Cri Cri» e poi avrebbero consegnato la ragazza ai carcerieri. Ma questo fatto era avvenuto in provincia di Como: di qui la competenza della Dda lombarda. Motivo dell’archiviazione: è passato troppo tempo e il reato, con la prevedibile concessione delle attenuanti generiche e un rito alternativo come l’abbreviato, è prescritto.
Latella, come i «complici» Talia e Calabrò, era stato indagato solo nel 2008, a distanza di 33 anni dal clamoroso fatto di cronaca di cui si occuparono tutti i media nazionali. Tutto sembrava finito negli anni 70 dopo la condanna di mandanti, telefonisti e organizzatori del sequestro, e invece no. La svolta quattro anni fa grazie ad un’impronta. Quella traccia impressa sull’auto della vittima, per anni rimasta negli uffici della Scientifica di Roma senza un volto e un nome, venne riesaminata e attribuita a una persona ben precisa: Demetrio Latella, appunto. Convocato negli uffici della Dda di Torino (inizialmente indagò l’autorità giudiziaria piemontese che poi mandò gli atti a Milano visto che il rapimento avvenne vicino casa della giovane, in provincia di Como), non negò gli addebiti. Anzi, ammise la ricostruzione fatta dagli inquirenti.
Sempre in base alle nuove indagini, con lui in auto ci sarebbero stati gli altri due calabresi. In particolare, l’uomo era al volante della vettura che si affiancò alla Mini da cui venne prelevata la diciottenne che stava rincasando dopo aver festeggiato il diploma in compagnia di due amici. Quello fu l’ultimo momento in cui la ragazza venne vista viva. Oggi Latella, difeso dall’avvocato Maurizio Antoniazzi, vive a Novara e lavora in una ditta nell’hinterland del capoluogo; ha una nuova compagna e si è rifatto una vita. Nulla a che vedere col passato. Da giovane ha già scontato 32 anni in carcere per un altro rapimento finito male: lui era il carceriere e l’ostaggio gli morì a Genova.
Articolo del 26 Giugno 2012
Fonte ilblogdibarbara.wordpress.com
L’atroce morte di Cristina Mazzotti
Si può morire a 18 anni, solo per danaro.
Si può morire senza colpa, crudelmente.
Si può morire e finire gettata in una discarica, tra carrozzine rotte e sacchi della spazzatura, come ulteriore oltraggio.
È quello che accadde a Cristina Mazzotti, rapita la sera del 26 giugno 1975 davanti al cancello della villa dei genitori a Eupilio,in provincia di Como, e ritrovata morta il primo settembre dello stesso anno, dopo un atroce e insensata prigionia fatta di stenti e soprusi, di overdose di eccitanti mescolati a tranquillanti.
Cristina era figlia di Helios Mazzotti, agiato industriale del settore cereali.
La sera del 26 giugno stava rientrando con una coppia di amici da una festa organizzata per festeggiare la sua promozione.
La Mini condotta dal giovane Carlo stava percorrendo la strada che porta a Longone al Segrino, quando venne affiancata da una Giulia e da una 125. Costretto a fermarsi, vide davanti a sé un uomo mascherato con le armi spianate, che gli intimava di scendere. Il malvivente chiese quale delle due ragazze fosse Cristina Mazzotti.
La ragazza, coraggiosamente si presentò.
Venne caricata sulla Giulia, mentre un altro bandito legava e imbavagliava i due giovani nell’auto.
La ragazza che era nell’auto, Emanuela, riuscì dopo oltre un’ora a liberarsi e a dare l’allarme e scattarono immediatamente i posti di blocco della polizia.
Ma ormai era troppo tardi.
In casa Mazzotti iniziò così lo snervante calvario dell’attesa dei rapitori.
Il padre di Cristina, Helios, già sofferente di cuore, si sentì male.
Fu il primo di uno di quegli attacchi di cuore che lo avrebbero portato di lì a poco alla tomba.
I rapitori si fecero vivi il giorno dopo chiedendo un riscatto record: 5 miliardi di lire.
Poi il silenzio. I genitori di Cristina si rivolsero con toni imploranti ai rapitori tramite i giornali, spiegando l’impossibilità di reperire una somma del genere, assolutamente fuori dalle loro possibilità economiche.
Finalmente il 15 luglio i rapitori si fecero vivi, e si dichiararono pronti alla liberazione della Mazzotti dietro pagamento di un riscatto di un miliardo di lire.
Ancora giorni di febbrile attesa, mentre l’opinione pubblica manifestava solidarietà ai Mazzotti, e mentre una diffusa campagna di stampa perorava la causa di un inasprimento delle pene verso coloro che si macchiavano del reato di sequestro di persona.
A fine luglio Helios Mazzotti, in gran segreto, si recò in un appartamento di Appiano Gentile, dove versò la somma di un miliardo e cinquanta milioni ai rapitori, ricevendo in cambio la loro assicurazione sull’immediato rilascio della ragazza.
Ma le cose erano destinate a evolversi in maniera drammatica.
Per giorni e giorni i genitori attesero la promessa liberazione, e il primo settembre avvenne la svolta.
Gianni De Simone, direttore del giornale l’Ordine, di Como, amico di famiglia dei Mazzotti, chiamò la famiglia e con tatto diede l’atroce notizia: era stata trovata Cristina, morta.
Il corpo era stato ritrovato in una discarica di Varallino, vicino Sesto Calende.
Allertati da una telefonata, i carabinieri si erano recati sul posto, e, seguendo le indicazioni che dicevano di scavare vicino una carrozzina rotta, avevano rinvenuto il corpo della ragazza.
O meglio, quello che rimaneva.
Sepolta sotto una bambola rotta, macabra ironia, giaceva la ragazza, in avanzato stato di decomposizione. Il volto era praticamente irriconoscibile, divorato da animali e sfigurato. L’autopsia rivelò che giaceva là da oltre quaranta giorni.
Emerse un particolare allucinante: non si poteva stabilire con esattezza se il corpo era stato sepolto quando la ragazza era morta. L’ipotesi agghiacciante che respirasse ancora non venne mai accantonata.
Uno della banda, Libero Ballinari, era stato già arrestato in Svizzera, mentre cercava di riciclare una parte del riscatto del sequestro. Un onesto direttore di filiale di una banca aveva denunciato il tentativo di “pulire” una novantina di milioni di lire, e aveva denunciato il tutto alla polizia svizzera.
Fu lui a dare le prime notizie sulla prigionia e sulla morte della sventurata ragazza.
Raccontò come Cristina, debilitata dalla lunga prigionia e costretta ad assumere dosi massicce prima di eccitanti, per poter parlare con i genitori e convincerli a pagare il riscatto, poi con tranquillanti per sedarne la volontà e impedirle di agitarsi, avesse alla fine avuto un malore.
I rapitori, spaventati, l’avevano così trasportata via, e la ragazza, durante il viaggio, era spirata.
Dichiarò di non sapere comunque le cause esatte della morte: adombrò il sospetto che fosse stata strangolata o uccisa con un colpo di pistola.
Fornì anche una piantina del luogo dove era stata seppellita la povera ragazza.
La polizia giunse a ricostruire il gruppo dei rapitori abbastanza velocemente.
Fra di loro c’era un gruppo eterogeneo di sbandati, gente attratta dal denaro facile, con agganci nel gruppo dell’anonima sequestri.
La banda degli assassini aveva un leader, più o meno riconosciuto: Giuliano Angelini, 39 anni.
Un passato burrascoso da squadrista e trafficante di armi, indagato per la strage di Piazza Fontana, pregiudicato con alle spalle condanne per emissione di assegni a vuoto e truffa.
Fu lui a scavare nel giardino della sua villetta la prigione della povera Cristina, un buco di due metri nella quale la ragazza visse come un topo i rimanenti giorni della sua vita.
Al suo fianco Loredana Petroncini, altro personaggio con un passato difficile.
Scappata di casa a 15 anni, sposò uno sbandato. Volgare e vistosa, venne descritta come un’amante della bella vita.
Altro componente della banda era Rosa Cristiano, ventisette anni, dura e crudele. Ex compagna di Angelini, lo accusò di aver premeditato la morte di Cristina, somministrandole dose letali di Valium.
Dichiarò inoltre che era stato lo stesso Angelini a ordinare la sepoltura del cadavere nella discarica.
Compagno della Cristiano, con la quale aveva aperto una gelateria, Luigi Gemmi, altro tipo poco raccomandabile.
Poi c’era Alberto Menzaghi, macellaio dalle mani bucate. Aveva una macelleria che lavorava, ma amava la bella vita.
Ultimo a cadere nella rete delle forze dell’ordine fu Antonino Giacobbe, personaggio di spicco dell’anonima sequestri calabrese.
Arrivò il giorno del primo processo, a Novara.
Dieci imputati, che fecero emergere un quadro allucinante della vicenda.
Cristina Mazzotti era stata tenuta prigioniera in una prigione scavata nella terra, e tirata fuori lo stretto indispensabile per sgranchirsi le gambe. Era stata trasferita poi a Galliate, nella casa della Cristiano. Qua era iniziato il tormento della somministrazione dei farmaci.
Ai rapitori serviva una Cristina sveglia, che potesse mandare messaggi drammatici alla famiglia.
Nel frattempo Helios, papà della povera Cristina, era morto a Buenos Aires, il 5 aprile del 1976, stroncato da un infarto. Il fratello di Helios, Eolo, sosterrà che era morto di dolore.
A maggio del 1977 l’accusa chiede per i rapitori 10 ergastoli, con l’approvazione incondizionata dell’opinione pubblica e della stampa, sconvolte dalle atroci rivelazioni emerse durante il processo.
L’otto maggio la sentenza: otto ergastoli e un’assoluzione, quella di Francesco Gaetani, parente di Antonino Giacobbe, scagionato grazie al provvidenziale alibi, che resse, del suo ricovero in una clinica.
Viceversa non andò bene al boss Antonino: ritenuto un mandante, si vide appioppare l’ergastolo.
Pene pesanti per il macellaio Menzaghi, per l’autista della banda, Milan, e per Sebastiano Spadaro, il telefonista: dai 23 a i 30 anni di carcere.
Una sentenza che fu accolta con soddisfazione da tutti.
La sentenza di secondo grado, viceversa, attenuò le pene, mentre quella definitiva ristabilì il tutto come deciso in primo grado.
Nel 1980 venne condannato all’ergastolo anche Libero Ballinari, colui che aveva materialmente seppellito la povera Cristina. Ebbe un processo a se stante, in quanto detenuto in un carcere di Lugano.
Durante i processi le varie personalità degli imputati vennero a galla impietosamente.
Gente gretta e meschina, affascinata unicamente dal denaro che speravano di ricavare dal sequestro.
Gente con alle spalle un passato fatto di violenza, di vite vissute ai margini della legge.
O anche gente senza valori morali di nessun genere.
Come la Cristiano, che aveva contattato un emporio per acquistare della soda caustica per far scomparire il corpo di Cristina; che nell’appartamento che aveva sopra la gelateria riceveva un po’ troppe visite, guadagnando evidentemente in maniera comoda i soldi che le servivano per truccarsi e vestirsi bene, le sue passioni.
Come Angelini, che racconterà di essere stato prima condannato a morte dall’anonima calabrese e poi graziato.
Come Menzaghi, il macellaio amante dei soldi, che probabilmente ebbe un ruolo anche nel sequestro di Tullio De Micheli, 60 anni, scomparso nel nulla dopo il sequestro.
Come Achille Gaetani, che tenterà di scaricare proprio sul Menzaghi le responsabilità del sequestro, dichiarando di non averlo ideato ma di avervi partecipato marginalmente.
Una storia squallida e vergognosa, conclusasi con la morte, inutile della ragazza.
Cristina era bella, con un sorriso radioso e lunghi capelli neri.
Aveva una vita da vivere, interrotta da una banda di sciagurati assassini in cerca di denaro facile.
Una storia triste con un epilogo triste.
Un’appendice alla storia, risalente al 1990.
La Petroncini e Angelini si sposarono in carcere.
Ottennero un permesso di dieci giorni, del quale approfittarono per dileguarsi.
La cosa destò un’ondata di accuse sulla direzione penitenziaria: si scoprì che i due assassini avevano usufruito di licenze premio per ben 21 giorni.
Riacciuffati, furono rimessi in carcere.
Paolo Benetollo
Articolo del 18 maggio 2013 da laprovinciadicomo.it
Il rapitore di Cristina Mazzotti: “Venti milioni per portarla via”
Ha fatto rumore la riapertura del dossier sul rapimento e la morte di Cristina Mazzotti. Dopo trentatré anni la polizia ha identificato il capo del gruppo di sequestratori che la sera del 26 giugno 1975 rapirono la giovane, figlia di un industriale, Cristina Mazzotti, figlia di Helios, industriale milanese con casa a Eupilio, nella Brianza comasca.
Si tratta di Demetrio Latella, 55 anni, in regime di semilibertà dal 2006, mezza vita spesa in galera. Ha confessato, indicando peraltro i nominativi dei due complici che lo seguirono e che, con lui, fermarono armi in pugno la Mini Minor su cui Cristina viaggiava con due amici, Carlo ed Emanuela.
E adesso Latella racconta come ottenne venti milioni di vecchie lire per rapire una studentessa di diciotto anni e consegnarla ai suoi carnefici. «Gente che non ho mai conosciuto. Non ho mai visto. E con cui non ho mai avuto rapporti», dice il rapitore tradito da un’impronta digitale dopo trentatré anni.
Latella non sapeva molto del colpo che doveva compiere. Las era del sequestro domandò chi fosse tra loro Cristina, la prelevò, legò gli altri due e sparì inghiottito in quel pozzo di tenebre dal quale la ragazza, che allora aveva soltanto diciotto anni, non riemerse mai più se non cadavere, dalla discarica di Varallino di Galliate, nel Novarese.
La novità rivoluzionaria è che a Latella la polizia è arrivata grazie a una minuscola impronta digitale, conservata in un angolo della memoria di un computer e che è stata a un volto, a un nome, anche grazie a una tecnologia che, nel frattempo, è cresciuta. Quella impronta fu impressa proprio da Latella sulla Mini di Cristina.
Sulle edizioni de “La Provincia” i verbali con il racconto di Latella, le testimonianze dell’epoca e alcuni particolari mai rivelati
u.montin
Articolo del 21 Giugno 2015 da ilgiornale.it
Quaranta anni fa il sequestro di Cristina Mazzotti
di Raffaello Binelli
La diciottenne morì di stenti. I genitori, ignari della triste fine della loro figlia, pagarono un riscatto di un miliardo e 50 milioni (pari a 5,5 milioni di euro di oggi). Il forte impegno nel sociale della Fondazione dedicata alla memoria di Cristina Mazzotti.
Quasi quaranta anni fa la 18enne Cristina Mazzotti fu rapita sotto gli occhi dei suoi amici. Il primo luglio 1975 quella non fu che una delle molte notizie di cronaca nera allora molto abbondanti: 59 omicidi nella sola Calabria in quell’anno, 150 in media per una decina d’anni nella provincia di Milano, ovunque rapine a mano armata, episodi di terrorismo, rivolte delle carceri e una criminalità sempre più organizzata, brutale e pericolosa.
I sequestri di persona nell’arco di vent’anni furono circa 600.
Cristina fu solo una delle tante vittime. Le vicende del suo rapimento furono però particolarmente seguite dai media d’allora e commossero l’Italia. In un certo senso, rappresentano uno spartiacque nel modo d’agire della delinquenza professionale. Fu, infatti, il primo avvenuto al Nord di cui si conosca il coinvolgimento di bande legate alla ‘ndrangheta. Cristina fu “prelevata” senza usare violenza, non si ribellò e sembrò quasi obbediente a un ordine; in realtà, la ragazza non oppose resistenza per evitare di coinvolgere gli amici presenti nella vettura in cui si trovava in quel momento, bloccata dai rapitori sulla strada per Longone al Segrino. Tornavano, verso casa, a Eupilio, nel Comasco. Ad agire una “banda mista”, composta da persone native della Lombardia, ideatrici fra l’altro del rapimento, e della Calabria vicina alle cosche. La gestione del rapimento finì ben presto in Calabria, a Lamezia Terme, nelle mani di Antonino Giacobbe, indiziato per un altro rapimento avvenuto in Calabria e per essere il mandante (poi assolto al processo) dell’omicidio di Francesco Ferlaino, uno dei primi magistrati antimafia, avvenuto due giorni dopo il rapimento di Cristina. La ragazza non fu trasferita in Calabria, come avverrà per i numerosi sequestri successivi, rimase sempre in un luogo vicino al rapimento. Un inquirente avrà modo di osservare che se invece fosse stata trasferita nelle zone impervie dell’Aspromonte, avrebbe avuto più chance di sopravvivere.
Responsabile della custodia è Giuliano Angelini, geometra, 39 anni, un pregiudicato coinvolto in un giro di tir rubati e addirittura in un traffico di armi; il suo nome era perfino emerso fra gli estremisti di destra collegati all’inchiesta sulla strage di piazza Fontana nel 1969. Comanda un gruppo di quattro o cinque uomini poco esperti. L’Angelini si diletta di medicina e alterna personalmente la somministrazione di farmaci soporiferi a eccitanti, questi secondi, per ammissione dello stesso Angelini, utilizzati soprattutto quando si trattava di dover scrivere alla famiglia, al fine di ottenere dalle lettere il massimo delle espressioni ansiose e angosciare maggiormente i genitori. Questi ultimi, effettivamente, ipotecando la casa affrettarono il pagamento del riscatto, pari a un miliardo e 50 milioni di lire (corrispondenti, oggi, in termini di potere d’acquisto a 5,5 milioni di euro – indice Istat), avvenuto tramite consegna effettuata da familiari. La ragazza è tenuta in uno spazio umido, scavato nel terreno di un garage a Castelletto Ticino, non può nemmeno alzarsi in piedi; il fisico debilitato non regge lo stress e un mese dopo il rapimento la ragazza è in fin di vita. Non è chiaro come avvenne il decesso, datato il giorno prima del pagamento del riscatto dai famigliari ignari della tragica conclusione. Prima della povera Cristina, in zona si erano già verificati altri tre rapimenti finiti tragicamente nonostante il pagamento del riscatto, ma secondo l’assassino la ragazza non aveva mai visto in volto i suoi carcerieri, per cui non c’era ragione di sopprimerla. Angelini sostenne che la morte della ragazza incorse dopo l’ultima somministrazione di valium; per gli inquirenti si affacciò l’ipotesi che fosse stata uccisa a bastonate in una discarica vicina alla prigionia, a Varallino di Galliate, dov’era stata portata probabilmente ancora in coma. E lì, in effetti, fu trovato i corpo, ma solo un mese dopo, alla fine di agosto.
Le indagini brancolarono nel buio, fino a quando uno del gruppo legato all’Angelini commise uno errore fatale. L’Angelini e i suoi complici ricevettero un compenso di “appena” 104 milioni di lire, il 10% del riscatto e meno di quanto pattuito con i calabresi. La scusa addotta dal Giacobbe fu che la ragazza era morta, una negligenza che indubbiamente complicava notevolmente le cose. Non solo: Giacobbe pretese che uno dei “custodi” si assumesse le responsabilità del rapimento, per attirare solo su di lui le indagini. Ma, appena ricevuta la somma, uno dei complici dell’Angelini, Libero Ballinari, colui che aveva portato il corpo in discarica, esperto esportatore di valuta, pensa bene di traferire subito i soldi in Svizzera per “ripulirli”. Qui avviene l’imprevisto: il dipendente della banca avverte la polizia cantonale dell’anomalo versamento di una grossa somma da parte del cliente; gli svizzeri, peraltro convinti che la ragazza fosse ancora viva, avvertono subito la polizia italiana che si mette a indagare sull’esportatore di valuta, scoprendo che è una persona nota alla famiglia Mazzotti. Gli interrogatori, i pedinamenti e le intercettazioni telefoniche portano all’Angelini e alla sua banda; una perquisizione permette di trovare oggetti appartenenti alla ragazza, tra cui un orologio Rolex, detenuti in casa dell’Angelini e della convivente. La confessione del Ballinari condurrà al luogo dove era nascosto il corpo di Cristina, al nome dei complici e dei calabresi coinvolti, ma stranamente non di chi aveva eseguito materialmente il sequestro. Si saprà molti anni dopo, solo nel 2008, che uno di questi era Demetrio Latella, detto Luciano, allora un coetaneo di Cristina, ma già pericolosissimo, legato alla banda del catanese Angelo Epaminonda. Grazie all’impronta di un dito pollice lasciato sull’auto dove si trovava la rapita e all’aiuto che l’elettronica oggi è in grado di fornire alla Polizia scientifica, si poté risalire al personaggio.
Ancora oggi, i 100 milioni di lire consegnati alla banda dell’Angelini, sono gli unici recuperati del miliardo versato. In capo a quattro anni furono comminati otto ergastoli e due condanne a molti anni di prigione. Quello che non si comprenderà mai abbastanza della vicenda è perché l’Angelini coinvolse i calabresi nel rapimento, i quali ebbero tutto sommato un ruolo marginale. Gli articoli dei giornali riferivano di voci raccolte fra gli inquirenti su un probabile “primo livello” rimasto parzialmente sconosciuto, oltre il nome di Giacobbe. Si intravvedeva, in sostanza, non solo un legame di tipo nuovo fra malavita lombarda e criminalità organizzata calabrese, ma anche, visti i trascorsi di Angelini, un collegamento con l’eversione nera, un “livello” molto alto dove servizi deviati e alcuni politici di estrema destra.
Nasce la Fondazione intitolata a Cristina
Vi fu una seconda vittima nella famiglia Mazzotti. Il padre della ragazza, Elios, sette mesi dopo la scoperta del corpo della figlia, non reggendo al dolore, morì d’infarto in Argentina, dove si trovava per lavoro. La famiglia, da sempre sensibile e attenta ai problemi sociali, dichiarò ai giornali di allora d’essere contraria alla pena di morte per i rapitori, la cui reintroduzione era invocata a gran voce dall’opinione pubblica e invece di cercare di dimenticare, all’opposto volle ricordare per sempre. Fu il padre a esprimere il desiderio di creare, per onorarne la gioventù distrutta, una Fondazione intitolata a Cristina, il cui scopo doveva essere aiutare le famiglie colpite dai sequestri di persona, oltre a dedicarsi al recupero dei giovani con problematiche sociali. In effetti, un dato colpisce del sequestro di Cristina: la giovane età di diversi fra i rapitori, compresa fra i 19 e i 25 anni. La Fondazione si prefiggeva di contrastare anche la diffusione di comportamenti antisociali, agendo come cassa di risonanza nei confronti delle istituzioni. Il quotidiano “La Provincia di Como”, in accordo con la famiglia, aprì una sottoscrizione destinata alla costituenda Fondazione Cristina Mazzotti. La partecipazione popolare fu grande: si raccolsero 100 milioni di lire (oltre 500 mila euro di oggi – indice rivalutazione Istat), ogni lettore aveva mediamente versato 10/15mila lire (dai 50 a 80 euro – Istat). Costituita il 10 ottobre del 1975, la Fondazione fu riconosciuta ente Morale nel 1982. Presidente Carla Antonia Airoldi Mazzotti, con la collaborazione attiva di Eolo Mazzotti, fratello di Elios e zio di Cristina.
Le prime attività furono indirizzate ad aiutare i giovani attraverso erogazioni finanziarie a varie scuole della provincia di Como. Si trattò, fra altre cose, di concorrere nelle spese per acquisti di apparecchiature tecnico-scientifiche, attrezzature sportive e borse di studio. Contemporaneamente, contro il rischio di possibili atteggiamenti fatalistici e di assuefazione, a sostegno dell’impegno civile contro la diffusione di comportamenti antisociali e di devianza giovanile, la Fondazione puntava decisamente sull’organizzazione di convegni e tavole rotonde con cadenza annuale, quasi sempre finalizzati a studiare la fenomenologia criminale e a sensibilizzare media e opinione pubblica. Collaborerà spesso con le Regioni Lombardia e Lazio, la Camera di Commercio di Milano, varie Università, il Centro Lombardo problemi dello stato e occasionalmente con altri enti, quali l’Organizzazione mondiale della sanità. Propone studi sugli effetti immediati e differiti dei sequestri di persona, con la viva partecipazione dei familiari e delle vittime.
Già nel 1979 la Fondazione collabora con il docente di psicologia Dan Olweus, svedese, un pioniere nell’individuare e studiare il fenomeno del bullismo nei paesi dove ha insegnato, la Norvegia e la Svezia, dopo ripetuti episodi di suicidi da parte di ragazzi vessati dai loro compagni. Per tutti gli anni 80, promuove incontri e tavole rotonde su vari temi: la criminalità in Lombardia, l’atteggiamento nei confronti dei sequestri, la criminalità organizzata a Roma, nell’area tiburtina e a Guidonia, i rapporti fra giustizia e informazione, fra stato e mafia, il coinvolgimento degli Enti locali nella lotta alla criminalità e la droga. Negli anni 90, quando i sequestri di persona sembrarono scemare, la Fondazione Cristina Mazzotti proseguirà la sua attività concentrandosi sul disagio ambientale. In particolare, nel 1995 e nel 1996 collabora con il Centro interuniversitario Roma-Napoli-Firenze-Milano per un convegno sul disagio giovanile e uno sulla protezione psico-sociale dell’adolescenza, un tema ripreso singolarmente nei convegni patrocinati gli anni successivi a Firenze e Roma.
Negli ultimi anni la Fondazione ha affrontato temi a carattere filosofico e morale, a aprtire da un convegno all’Università degli studi Federico II di Napoli, su “Nuovi media e sviluppo della mente”, cogliendo il momento di diffusione di internet soprattutto, ma anche i nuovi modelli di televisione digitale. L’incontro è fra studiosi e docenti di varie università italiane.
Il convegno sul disagio giovanile
A 40 anni dal tragico evento, la Fondazione Cristina Mazzotti, presieduta dalla madre, Carla Antonia Airoldi Mazzotti, intende riaffermare il proprio ruolo nel contesto civile per promuovere nelle nuove generazioni la fiducia che devono avere nel futuro. Vuole collaborare con chi si sente di offrire una fattiva solidarietà, per aiutare chi ha sbagliato e chi si trovi in difficoltà perché soverchiato da situazioni non sempre da imputare a loro colpa.
Ed è così che per venerdì 3 luglio 2015, a 40 anni dal sequestro di Cristina Mazzotti, la Fondazione ha promosso un meeting su questo tema: “Il disagio giovanile, famigliare, scolastico, lavorativo e personale”. Il convegno si terrà a Erba (Como), al centro congressi di Lario Fiere, a partire dalle ore 9 fino alle ore 17,30. Sono previsti interventi di don Luigi Ciotti, Carlo Smuraglia, Nando Dalla Chiesa, GianVittorio Caprara . Parteciperanno anche numerosi esponenti di associazioni operanti nel territorio, i quali parleranno del disagio giovanile in base alle loro esperienze e al loro lavoro di recupero utilizzando tutti gli strumenti disponibili, dallo sport al “fare rete”. Prevista una emozionante ricostruzione teatrale delle vicende legate al rapimento di Cristina Mazzotti, realizzata dagli studenti degli istituti De Amicis di Milano.
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Cristina Mazzotti
La sera in cui fu rapita, Cristina stava festeggiando il conseguimento della maturità con i suoi amici. Cinque anni trascorsi sui dizionari di latino e greco e tante risate sotto banco, avevano trascorso la serata tra i ricordi pronti a separarsi per intraprendere nuovi percorsi. A Cristina fu negata questa possibilità.