4 Giugno 1976 Melicuccà (RC). Muoiono L’avvocato e possidente Alberto Capua (ex sindaco) e il suo autista Vincenzo Ranieri, in un tentativo di sequestro

Reagiscono al tentativo di rapimento e la banda li uccide. Muoiono cosi a Melicuccà il 4 giugno del 1976 l’avvocato Alberto Capua e il suo autista Vincenzo Ranieri. Un episodio che sarà chiarito solo dopo diversi anni, grazie alle dichiarazioni del superpentito Pino Scriva. Accuse che porteranno alla sbarra il gotha della ndrangheta calabrese, in quello che passerà alla storia come il processo alla “Mafia delle tre province”. Si fa luce anche su diversi sequestri di persona (Vincenzo Cannatà, Salvatore Fazzari, Francesco Napoli, Vincenzo Macrì che non è più tornato), e sull’omicidio di Giuseppe Valarioti. (Stop’ndrangheta.it)

 

 

 

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Fonte:  impronteombre.it

Il tentato rapimento dell’avvocato Capua, 73 anni, scapolo ed ex sindaco del comune di Melicuccà, è l’ennesimo sequestro finito male. Alberto Capua è un uomo in vista, giurista esperto in problemi agrari, fratello di Antonio, deputato sottosegretario di Stato all’agricoltura, e possidente terriero. Il quattro aprile del 1976 si sta dirigendo, insieme all’autista Vincenzo Ranieri, in una delle sue tenute a bordo della sua auto, quando un commando mafioso sbarra loro la strada e tenta di rapirlo. La reazione di Capua è ferma e repentina: estrae la pistola e spara un colpo contro i sequestratori che, colti di sorpresa, non esitano a scaricare sui due una valanga di colpi mortali.

 

 

 

Fonte Stop’ndrangheta.it
Alberto Capua e Vincenzo Ranieri, il doppio omicidio durante un sequestro
Reagiscono al tentativo di rapimento e la banda li uccide. Muoiono cosi a Melicuccà l’avvocato Capua e il suo autista. Un episodio che sarà chiarito solo dopo diversi anni, grazie alle dichiarazioni del superpentito Pino Scriva. Accuse che porteranno alla sbarra il gotha della ndrangheta calabrese, in quello che passerà alla storia come il processo alla “Mafia delle tre province”. Si fa luce anche su diversi sequestri di persona (Vincenzo Cannatà, Salvatore Fazzari, Francesco Napoli, Vincenzo Macrì che non è più tornato), e sull’omicidio di Giuseppe Valarioti.

Un tentativo di rapimento finito male. Muoiono così il 73enne avvocato e possidente Alberto Capua (ex sindaco di Melicuccà) e il suo autista Vincenzo Ranieri. Siamo nel ’76, è bene avviata la stagione dei primi sequestri. L’Anonima agisce a Melicuccà, in provincia di Reggio Calabria. Ma qualcosa non funziona, i bersagli provano a reagire e la banda lascia sul campo due cadaveri. Poi il silenzio. Fino alle rivelazioni dei pentiti, che indicano gli autori in Rocco e Francesco Albanese, due personaggi coinvolti in diversi fatti di sangue legati alla terribile faida di Cittanova contro i rivali Facchineri.

A parlare è “il re delle evasioni” Pino Scriva. Dà il la alla maxioperazione che sfocerà nel processone alla “Mafia delle tre province”. Tutto parte il 21 dicembre del 1983: un blitz con 124 ordini di cattura. È il gotha della ‘ndrangheta calabrese. Dai Piromalli di Gioia Tauro ai Pesce e ai Bellocco di Rosarno, e ancora i Mammoliti di Castellace di Oppido Mamertina, i Sena e i Pino di Cosenza, i Mancuso di  Vibo, gli Albanese di Cittanova, gli Avignone di Taurianova, i Muto di Cetraro.

Le rivelazioni dei collaboratori di giustizia gettano nuova luce su ben 31 omicidi, tra i quali quello di Capua e Ranieri, l’assassinio del dirigente comunista di Rosarno Giuseppe Valarioti (10 giugno 1980), la strage di Razzà del 1 aprile ’77 (nella quale persero la vita i due carabinieri Stefano Condello e Vincenzo Caruso, di 47 e 27 anni). Ma anche su alcuni sequestri in provincia di Reggio Calabria. Quello di Vincenzo Cannatà di Taurianova (1975), del possidente Salvatore Fazzari di San Giorgio Morgeto (1977), dello studente Francesco Napoli di Palmi (1975). E c’è anche il farmacista Vincenzo Macrì, rapito nel ’76 e mai più tornato. Vicende per i quali parecchi degli arrestati erano già stati inquisiti e poi prosciolti.

 

 

 

Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 5 Giugno 1976
Un possidente e l’autista uccisi perché si ribellano ai rapitori
di Liliana Madeo
Ieri, alla periferia di Seminara, in Calabria

Reggio Calabria, 4 giugno. Si è concluso con un duplice omicidio il trentanovesimo tentativo di sequestro di persona verificatosi in Calabria. Il «commando» che doveva eseguire l’operazione era composto da tre persone. L’impresa sanguinosa è stata messa in atto stamane di buon’ora, poco dopo le 6. Al suolo, crivellati di colpi, sono rimasti un personaggio molto noto nella provincia di Reggio e il suo autista.
Quest’ultimo si chiamava Vincenzo Ranieri, aveva 63 anni ed era padre di quattro figli. Il primo è l’avvocato Alberto Capua, 73 anni, scapolo, grosso proprietario terriero, esperto di problemi agrari, dal ’74 al ’75 sindaco come indipendente di destra nel comune di Melicuccà, di cui è originario, un piccolo centro sulle falde dell’Aspromonte. Un fratello, il professor Antonio Capua, è stato per numerose legislature deputato liberale e per due volte sottosegretario di Stato all’agricoltura nel periodo del centrismo; dal ’72 milita nelle liste del msi-destra nazionale ed è senatore; radiologo, è anche direttore di una grossa clinica a Roma.

Il proprietario terriero e l’autista si dirigevano, alla solita ora, verso una delle tenute della famiglia Capua. Viaggiavano a bordo di una «Peugeot 204» targata Roma. I banditi devono avergli sbarrato la strada ad un tratto. Appena i due si sono resi conto di quanto stava per succedere, c’è stata una rapida reazione. Qualche mese fa, parlando di sequestri, l’avvocato Capua aveva detto: «Non mi lascerò mai prendere vivo. Ho 73 anni e ho fatto il mio tempo. Se tenteranno di sequestrarmi, sparerò contro di loro». Stamane ha estratto fulmineamente dalla cintura l’arma che portava con sé, una «S.W.» calibro 38 corto. E ha fatto in tempo a sparare un colpo. Una raffica di proiettili lo raggiungeva al fianco destro, così da farlo morire sul colpo, accasciato sul sedile anteriore al posto dell’autista. Questi infatti aveva tentato di sottrarsi allo scontro con gli uomini armati, dandosi alla fuga. E’ stato trovato riverso davanti alla ruota anteriore dell’auto, in atto di cercare scampo: su di lui sono stati scaricati proiettili di diverse armi, fucili a canne mozze e una pistola.

L’auto, con la fiancata destra e il parabrezza forati per la sparatoria, è stata trovata più tardi. Era in località Acqua di Basilico, sulla strada che da Melicuccà conduce a Sant’Anna di Seminara. Un operaio della tenuta cui l’avvocato Capua era diretto ha fatto la macabra scoperta. Poco prima delle 7, infatti, il fattore Antonio Bruggisano, si è impensierito per il ritardo. Si è ricordato di aver udito qualche tempo prima ima serie di spari nel silenzio della campagna e ha mandato un uomo incontro all’avvocato Capua, lungo la strada che questo, molto abitudinario, avrebbe percorso. Una volta dato l’allarme, è scattata una vasta operazione, per tentare di raggiungere i malviventi. Sono stati mobilitati i carabinieri, reparti cinofili, pattuglie collegate via radio con elicotteri, uomini della polizia giudiziaria, la squadra mobile, la Criminalpol.

Nessuno ovviamente era presente alla scena. L’unica testimonianza utile viene da parte dei lavoratori di un frantoio di proprietà dei Capua. Questi attendevano davanti ai cancelli il momento di entrare nello stabilimento. Allora hanno notato una vecchia «1500» Fiat, dall’aria alquanto malandata, che ha attraversato l’abitato. A bordo c’erano tre uomini. Sia l’auto sia gli occupanti erano sconosciuti. Ogni ricerca, finora, ha dato esito negativo

Gli inquirenti si trovano davanti a un ennesimo caso di difficile soluzione. Dall’inizio del ’76 i morti ammazzati nella provincia di Reggio sono stati 75 (nel ’75, e già la cifra era parsa un record, erano stati 99). Ma sono in fase crescente anche gli indici di altre attività delittuose: gli attentati dinamitardi, gli attentati alle caserme dei carabinieri, le rapine, i danneggiamenti, le vittime delle faide di Seminara, Cittanova, Taurianova, Gioia Tauro, Castellace (più di cinquanta, fra cui donne e bambini); mentre ammontano a oltre ventimila i diffidati dalla polizia, a trecento i sorvegliati speciali, a duecento i ricercati. Il sindaco di Polistena, Girolamo Tripodi, comunista, osserva: «Il fatto più allarmante ohe emerge da questo quadro impressionante di delitti è rappresentato dall’impunità per la maggior parte dei responsabili degli atti criminali. Per pochi di essi, infatti, è stata avviata e svolta una concreta inchiesta giudiziaria con risultati positivi».

Con questa cronica lentezza della giustizia, gli inquirenti sul duplice omicidio odierno ancora una volta devono misurarsi. C’è un conto aperto con la mafia, da parte della famiglia Capua, che risale a oltre vent’anni fa. Era il ’55, quando tre banditi armati e mascherati bloccarono l’auto su cui viaggiava l’allora segretario di Stato per l’agricoltura professor Capua con la sua famiglia. I malviventi spararono. L’autista riuscì a proseguire. Si scoprì poi che l’attentato era diretto ad altra persona. Ma l’episodio non si chiuse lì, aprì anzi la via a una serie di azioni complesse.

«Saltò» il questore Pietro Sciabica. Al suo posto venne l’ispettore generale di p.s. Carmelo Marzano, che diede inizio a quella lotta contro la malavita organizzata che va sotto il nome di «operazione Aspromonte»: vennero catturati i presunti responsabili dell’aggressione, furono presi numerosi latitanti (Giuseppe Polimeni addirittura a New York), vennero inviati al soggiorno obbligato i più rino mati boss della provincia di Reggio (fra cui il famoso Mi co Tripodo), l’unico latitante che non si riuscì a catturare in Calabria, Angelo Macrì, detto «il re dell’Aspromonte», fu raggiunto in America e tra sferito in Italia, condannato all’ergastolo. E’ una vicenda che torna oggi alla ribalta e viene analizzata in tutte le sue pieghe: nessuno ignora che la mafia locale non ha mai abbandonato il progetto di vendicarsi per i «danni» subiti allora.

 

 

 

Fonte:  archiviolastampa.it
Articolo del 6 giugno 1976
Un’omertà assoluta sul duplice omicidio
L’avvocato Capua e autista
di Liliana Madeo
Un teste che vide un’auto con tre persone sospette, è tornato per dire: “Non ricordo”

Reggio Calabria, 5 giugno. Lutto cittadino oggi a Melicuccà, dove si sono svolti i funerali dell’avv. Alberto Capua e del suo autista Vincenzo Ranieri, falciati ieri all’alba a colpi di lupara lungo la strada che li conduceva verso Seminara. Le indagini per risalire ai responsabili dell’agguato mortale sono proseguite tutta la notte, con perquisizioni domiciliari ed alcuni fermi. Il risultato finora, è zero. Si allargano anzi le zone di silenzio, da parte di quanti avevano inizialmente fornito qualche indicazione utile. «C’è stato un operaio dell’avv. Capua — racconta un capitano dei carabinieri — che ieri mattina aveva notato una vecchia “1500 Fiat” passare davanti al frantoio dove lui stava per entrare. E aveva visto i tre occupanti. E aveva riferito che uno dei tre era ripiegato su di sé, come se fosse ferito. Ebbene, ieri sera è ritornato per dire che non ricordava più niente, non era sicuro di niente, insomma non voleva più entrarci con tutta la faccenda».

Tuttavia non si riparte da capo, nelle indagini. Si è scoperto che la «1500» scura di cui i malviventi si sarebbero serviti è stata rubata tempo addietro a Reggio Calabria. Non la si è ritrovata. Questo avvalora l’ipotesi che ci si trovi davanti a una banda organizzata, che dispone di un covo sicuro: forse è formata dai latitanti annidati nei boschi dell’Aspromonte ed è sempre la stessa che si ricerca, quella che avrebbe compiuto gli ultimi sequestri — quattro dall’inizio del ’76 — nella provincia di Reggio. Un ufficiale dei carabinieri, davanti a questo sospetto, commentava amaramente: «Un nostro superiore, in visita da Roma, ci diceva di recente: inviamo alcune centinaia di uomini, circondiamo l’Aspromonte e facciamo piazza pulita. Ecco, questo significa non avere neppure visto l’Aspromonte, non sapere com’è fatto topograficamente. Questo significa non sapere come noi lavoriamo, per di più con la penuria di mezzi di cui cronicamente disponiamo».

C’è poi un’altra ipotesi, sul movente dell’agguato e sul duplice omicidio finale. «L’incidente» a conclusione di una tentata estorsione. La gabella, pretesa con metodi brutali e neppure tanto segreti, è qui «una piaga sociale» come ammettevano stamane al comune di Melicuccà. Vengono chieste — e versate — tangenti per il controllo che la mafia si è assicurata nei settori dell’edilizia attraverso i subappalti, la speculazione edilizia, gli aousivismi; nella agricoltura durante la fase di raccolta e di commercializzazione dei prodotti; nelle assunzioni, non soltanto presso le aziende private, ma principalmente presso gli enti pubblici. Le cifre pretese variano. Chi rifiuta di sottostare al ricatto, sa di correre grossi rischi.

La sfiducia nei pubblici poteri è grande. Un noto imprenditore di Reggio oggi raccontava: «La questura mi ha avvisato che qualcuno della mia famiglia corre il rischio di un sequestro di persona. Da quel momento i miei sono asserragliati in casa. Io giro armato, e con la guardia del corpo. Per poco tempo ancora, però: appena ho concluso certi affari, me ne vado. Qui, nella paura, non voglio più vivere».

Nel recente convegno sulla mafia che si è tenuto a Reggio Calabria per iniziativa della Regione Calabra, è stato detto: «Non siamo di fronte ad una presunta recrudescenza della vecchia malavita organizzata, ma alla diffusione di una nuova e vera organizzazione mafiosa che è riuscita, in questi ultimi venti anni, ad inserirsi gradualmente nei settori chiave della società calabrese, fino a condizionare l’economia, certe forze politiche, molti organi della pubblica amministrazione e lo sviluppo culturale, assumendo contemporaneamente forme di violenza brutale e inaudita ferocia».

La «nuova mafia» ha scardinato vecchie regole di comportamento. La «vecchia mafia», tutti sono concordi nel riconoscerlo, non avrebbe mai fatto uno sgarbo simile all’avv. Capua. La sua è una famiglia ricca e rispettata. Lui, come consigliere comunale e sindaco poi, è stato nel comune di Melicuccà dal ’47 al ’65. Finché il fratello è stato parlamentare per il pli, è stato suo grande elettore (poi, nel ’72 il professor Antonio passò nelle liste del msi e si presentò candidato in un collegio di Roma).

 

 

 

Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 3 gennaio 1985
Mafia a Gioia Tauro 117 rinvìi a giudizio
Per 18 omicidi, sequestri, estorsioni

REGGIO CALABRIA — Il giudice istruttore del tribunale di Palmi, Ernesto Morici, ha rinviato a giudizio 117 persone accusate di avere fatto parte delle «cosche» mafiose operanti nel territorio della Piana di Gioia Tauro. Nell’ordinanza di rinvio a giudizio ai 117 imputati si contestano responsabilità in 18 omicidi avvenuti nella Piana di Gioia Tauro negli ultimi anni, in quattro sequestri di persona, ed in una lunga serie di estorsioni.

In particolare, i sequestri cui fa riferimento il dott. Morici sono quelli di Francesco Napoli, figlio dell’avv. Filippo, (rapito 11 9 maggio del 1975), dell’ex sindaco di Melicuccà, Alberto Capua (4 giugno 1976), poi assassinato insieme col suo autista, Vincenzo Ranieri; del commerciante Vincenzo Cannata (15 dicembre 1975), e dell’industriale Salvatore Fazzari (25 settembre 1977). I sequestrati, ad eccezione di Alberto Capua e del suo autista, vennero rilasciati dopo il pagamento di un riscatto di parecchie centinaia di milioni. Tra le persone rinviate a giudizio ci sono i fratelli Francesco e Rocco Albanese, di 41 e 38 anni, esponenti del «clan» mafioso implicato nella faida di Cittanova.

Gli elementi di accusa contenuti nell’ordinanza del magistrato si fondano principalmente sulle rivelazioni fatte al carabinieri e all’autorità giudiziaria dal pentito della ‘ndrangheta Pino Scriva.

 

 

 

 

 

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