13 Febbraio 1975 Comerio (VA) Tullio De Micheli, industriale, rapito, un pentito ha raccontato che era morto accidentalmente, soffocato.
Tullio De Micheli, titolare di una fonderia a Mornago, rapito mentre in auto ritornava alla sua abitazione di Comerio. Seguirono tre telefonate di richiesta di danaro poi silenzio. Un pentito ha raccontato che era morto accidentalmente, soffocato.
Articolo del 18 dicembre 1994 da archiviostorico.corriere.it
Sequestro De Micheli, due rinvii a giudizio dopo vent’ anni.
di Anna Maria Gandini
VARESE . Tredici febbraio 1975 sedici maggio 1995. A vent’anni dal sequestro senza ritorno dell’industriale di Comerio Tullio De Micheli, sarà celebrato finalmente il processo a carico di due delle persone ritenute responsabili del tragico episodio: Giuseppe Milan, 63 anni, di Cadrezzate, e Domenico Comincio, 50 anni, di Castaneo (Messina), per i quali il gip Ottavio D’Agostino ha chiesto ieri, fissando la data appunto al 16 maggio, il rinvio a giudizio al termine dell’udienza preliminare che ha visto entrambi gli imputati in aula: il primo in stato di detenzione, il secondo a piede libero. Nonostante i due continuino a respingere ogni accusa, l’ inchiesta . riaperta l’ anno scorso dal procuratore capo della Repubblica di Varese Giovanni Pierantozzi . sta facendo il suo corso. Il gip D’Agostino ha respinto anche la richiesta di remissione in liberta’ del Milan che, come si ricorderà, venne arrestato il 23 dicembre 1993 mentre si trovava nella sua abitazione di via Rimembranze a Cadrezzate in regime di semilibertà. Stava infatti scontando una condanna per un altro sequestro: quello della giovane Cristina Mazzotti, rapita nel luglio del ’75. Le manette ai polsi di Comincio sono scattate invece il mese scorso, il giorno 16, ma dopo neppure un mese di detenzione il siciliano è stato scarcerato su decisione del Tribunale della libertà che non ha ritenuto sufficientemente attendibili le dichiarazioni di un pentito, lo stesso, pare, che ha permesso di riaprire le indagini sul caso dell’ industriale titolare di una fonderia a Mornago dopo quasi vent’anni. A sua volta inquisito per altri rapimenti, il pentito ha cominciato a vuotare il sacco, fornendo particolari indicazioni, chiamando così in causa il Comincio. Molto probabilmente anche all’ arresto del Milan si era arrivati grazie alle confidenze dello stesso uomo. L’ industriale De Micheli quella gelida sera di febbraio di vent’anni orsono stava rientrando nella sua abitazione di Comerio dalla ditta di Mornago, dove, particolare da non sottovalutare, era stato per un po’ di tempo suo dipendente Giuseppe Milan. Percorreva la Nord Lacuale a bordo della sua Peugeot quando in località Oltrona al Lago si vide sbarrare la strada da una Mini rossa. In breve venne circondato da alcune persone (quattro o cinque) che, spaccato il finestrino della vettura, lo caricarono su un’altra macchina. Seguirono tre telefonate di richiesta di danaro ai familiari di De Micheli: tre miliardi. Poi silenzio. E l’imprenditore non tornò mai a casa, come un altro ostaggio, il giovane diciassettenne Emanuele Riboli, di Buguggiate, figlio del titolare di una carrozzeria del paese, rapito qualche mese prima, il 14 ottobre 1974, mentre rincasava dai corsi serali. Il pentito che ha permesso di riaprire le indagini aveva raccontato di aver saputo che De Micheli era morto accidentalmente, soffocato.
Articolo di Varese News del 10/06/2008
Grigo: “Diamo la caccia ai sequestratori di De Micheli”
Dopo la svolta sul sequestro Mazzotti, in procura si fa il punto sull’indagine riaperta un anno fa. Scavi in corso.
Sequestro di persona e omicidio volontario aggravato, la procura di Varese continua a indagare sul sequestro e la morte di Tullio De Micheli, l’industriale di Comerio sequestrato nel 1975 a mai tornato a casa. Il geo radar utilizzato nei mesi scorsi, ha indicato un punto di un prato a Rescaldina, di proprietà di un convento, dove ci sarebbero stati dei sommovimenti di terra. Le ricerche sono proseguite in queste settimane. Finora nessun risultato, ma gli inquirenti non mollano. Intanto, dalle cronache giudiziarie c’è un altro elemento nuovo che viene tenuto d’occhio in procura: l’arresto di Demetrio Latella, ex boss legato al clan Epaminonda che avrebbe ammesso, dopo 34 anni, di aver fatto da autista nel sequestro di Cristina Mazzotti, la figlia di un industriale Eupilio (Como) rapita e tenuta segregata a Galliate Novarese. La ragazza morì durante la detenzione in un’angusta cella, ricavata sottoterra in una cascina di Galliate, a causa di una iniezione fatale di sedativi fattale per tenerla buona. Il corpo fu gettato, poi, in una discarica poco distante, e per quella vicenda vi furono otto ergastoli. Ma, quella morte e quel sequestro si intrecciano con altri episodi accaduti durante il terribile periodo dei sequestri di persona (“Il medioevo dei sequestri” li definì il cronista Gianni Spartà) ai danni di industriali del nord che negli anni Settanta gettarono nel panico buona parte del paese. I personaggi implicati in quella vicenda, in qualche modo, sono sembrati spesso intrecciarsi con il caso De Micheli e quello di Emanuele Riboli, figlio di un altro industriale di Buguggiate preso a mai tornato a casa. Ora, il passato ritorna. L’arresto dell’ex gangster Latella da parte dell’antimafia di Torino per il caso Mazzotti, secondo il procuratore capo di Varese Maurizio Grigo – che ordinò la riapertura delle indagini su De Micheli – dimostrerebbe due cose: primo, che a distanza di anni si possono ancora ottenere risultati investigativi. Secondo, che se è vero che Latella ha fatto ammissioni, esistono dei margini, grazie alla legge sui collaboratori di giustizia, per far parlare qualcuno.
«Noi stiamo cercando il corpo di De Micheli, anche perché siamo molto dubbiosi sul fatto che l’uomo morì, come detto da alcune testimonianze, perché ingoiò per sbaglio la dentiera. Vogliamo invece fare luce su che cosa accadde veramente, e su quali siano le vere responsabilità – spiega il procuratore capo – l’inchiesta che abbiamo riaperto l’anno scorso non può prescindere da questo». In questi mesi sono stati ascoltati diversi testimoni e collaboratori, alcuni incontrati personalmente dal procuratore capo. Per certi versi, è come cercare in una vecchia libreria cercando di cavarne qualcosa dalla polvere del tempo. Ma il successo dell’inchiesta di Torino, forse è un segnale: «E’ una bella notizia, che ci dà coraggio, il nostro lavoro continua».
Articolo dell’8 marzo 2012 da laprovinciadivarese.it
37 anni fa il sequestro De Micheli
“Il dolore è ancora cocente”
di Mario Chiodetti
VARESE «Ricordare mio padre Tullio dopo trentasette anni dal suo rapimento non cambia certo la situazione, né diminuisce un dolore che è ancora cocente». Giacomina De Micheli, 76 anni, ne aveva 40 quando il 13 febbraio 1975 suo padre, piccolo industriale titolare di una fonderia a Mornago con 17 operai, venne rapito sulla salita che da Oltrona al Lago porta a Comerio, mentre a bordo della sua Peugeot stava ritornando a casa.
Da quel giorno di lui non si seppe più nulla, il corpo non è mai stato ritrovato, nonostante l’allora procuratore capo di Varese, Maurizio Grigo, anni dopo avesse riaperto le indagini sulla base della confessione di un pentito, che indicò l’area tra Cerro Maggiore e Canegrate come il presunto luogo di sepoltura di De Micheli, probabilmente morto soffocato dalla sua dentiera durante un maltrattamento.
«Le uniche persone che dobbiamo ringraziare sono Grigo e Giovanni Pierantozzi, che riaprì l’inchiesta nel 1993 per poi processare Giuseppe Milan, basista ed ex operaio di mio padre, e Domenico Comincio, accusati di far parte della banda che sequestrò papà», ricorda Giacomina De Micheli, che all’epoca dei fatti lavorava come farmacista a Gemonio ed era legatissima al padre. «All’inizio lui, che era arrivato a Milano da Genova, città d’origine della famiglia, dove il nonno possedeva una piccola officina meccanica di precisione, entrò in società con Giovanni Borghi, ma presto vendette la sua quota e rilevò la fonderia di uno zio, a Mornago. Si era benestanti, ma non ricchi. A Comerio c’erano diverse famiglie più abbienti della nostra. Ma evidentemente il Milan aveva supposto ricchezze che non c’erano».
La richiesta dei rapitori fu di tre miliardi, una cifra esorbitante per quegli anni. «La nostra famiglia subì uno tsunami, andò in pezzi. Mia madre non volle più vivere, mio fratello Giorgio quasi impazzì, la ditta velocemente fu chiusa, solo dopo cinque anni dal rapimento arrivò la notifica di morte presunta per mio padre. Per fortuna io avevo due figli e la consolazione di mio marito. La cosa più squallida fu il comportamento dello Stato: vista la richiesta di riscatto dei rapitori, la Finanza compì diversi sopralluoghi in ditta presumendo l’esistenza di chissà quali beni nascosti. Subimmo di tutto, dallo sciacallaggio alle calunnie».
Tullio De Micheli aveva subito, l’anno precedente, un tentativo di rapimento, ma la polizia non fece nulla per proteggerlo. «Nei primi giorni del sequestro, il capo della polizia di Varese insinuò addirittura che papà si fosse allontanato di sua spontanea volontà e io lo affrontai violentemente. Mio padre era legatissimo alla sua famiglia e non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Era lui a tenerci tutti uniti, aveva una forza straordinaria», dice Giacomina De Micheli. Come di Emanuele Riboli, il ragazzo di Buguggiate rapito a 17 anni il 14 ottobre 1974 mentre ritornava a casa dopo aver frequentato la scuola serale, anche di De Micheli non si parlò più per anni, fino allo sforzo, purtroppo vano, del pm Grigo di restituire alla famiglia almeno i resti. E fino a oggi, quando si torna a parlare di confino dopo la decisione del tribunale di Palermo di autorizzare la sorveglianza speciale di Salvatore Riina, terzogenito del boss Totò Riina, nella città di Padova. Polemico il gruppo della Lega al Senato, che ha presentato una mozione in cui si impegna il Governo a «rendere vincolate il parere degli amministratori locali nei casi di trasferimento di esponenti mafiosi e di loro familiari in località diverse da quelle di residenza».
«Di mio papà ho ricordi bellissimi, che mi aiutano a vivere. Mi sembra ancora di vederlo nel terrazzo della sua casa discutere con mio figlio della Juventus, della quale erano entrambi tifosissimi. Era un uomo dedito al lavoro e alla famiglia, le sue passioni erano il calcio e la vela. Ora leggo che vorrebbero riportare al Nord in soggiorno obbligato addirittura il figlio di Totò Riina e sono sconcertata. Questa gente, una volta insediata, non si mette certo a coltivare l’orto».
Fonte: lanotiziagiornale.it
Articolo del 4 settembre 2013
Lo Stato sbaglia e non paga. Beffati i parenti della vittima.
di Clemente Pistilli
Lo Stato non è stato in grado di proteggerlo, non ha svolto un lavoro adeguato per salvarlo dai suoi rapitori e alla fine ha lottato per dodici anni con i suoi familiari per non riconoscere loro un centesimo di risarcimento. Questa la storia che emerge dalla recente sentenza di Cassazione su Tullio De Micheli, una delle pagine nere della stagione dei sequestri che ha fatto tremare piccoli e grandi imprenditori lombardi, un provvedimento che mette la parola fine alla battaglia della figlia dell’industriale del varesotto, intenzionata a vedersi riconoscere dai Ministeri dell’Interno e della Difesa il danno per la “negligente gestione delle indagini”. Niente da fare: tra un cavillo giuridico e l’altro è stato dichiarato tutto prescritto.
Il sequestro De Micheli
Il rapimento del piccolo industriale della provincia di Varese è uno di quelli finiti male, con la vittima che non ha mai fatto ritorno a casa e il doppio dolore per i familiari derivante dal fatto che non è mai stato neppure trovato il cadavere, per avere magari una tomba su cui piangere. Era l’ormai lontano 13 febbraio 1975 quando, sulla salita che da Oltrona al Lago porta a Comerio, il titolare della “Fonderia ghisa mornaghese” si vide sbarrare la strada da una Mini rossa. De Micheli, 61 anni, era alla guida di una Peugeot 200 e non fece neppure in tempo a reagire. Uno dei malviventi – sembra fossero tre o quattro – ruppe un finestrino dell’utilitaria con un martello e l’industriale venne caricato su un’altra auto. Alla famiglia arrivarono tre telefonate. I banditi chiesero un riscatto di tre miliardi. Una cifra enorme per i De Micheli, che gestivano un’azienda che dava lavoro a 17 operai e aveva un fatturato di circa 300 milioni di lire l’anno. Dopo due settimane il silenzio e di De Micheli non si sa più nulla. Alla metà degli anni novanta arrivò però la svolta. Gli inquirenti avevano da tempo sgominato il cosiddetto clan Epaminonda, gli “indiani” del catanese Angelo Epaminonda, detto “Il Tebano”, che dalla Sicilia si era trasferito a Milano e aveva alla fine preso il posto del più noto Francis Turatello. Epaminonda fu il primo pentito di mafia a Milano e anche alcuni dei suoi iniziarono a parlare. Vennero ricostruiti diversi episodi criminali e giunsero agli investigatori notizie anche sul rapimento di De Micheli. La Procura di Varese utilizzò persino i geo radar alla ricerca del corpo, ma invano. Vennero però processati un siciliano e un uomo di Cadrezzate, quest’ultimo ex operaio della “Fonderia ghisa mornaghese”, che avrebbero avuto un ruolo di primo piano nel sequestro.
La scoperta choc
I familiari del 61enne avevano capito da tempo che qualcosa nelle indagini non era andata per il verso giusto. Avevano chiesto che venisse riaperta l’inchiesta sulla scomparsa dell’industriale, che già il 24 gennaio 1974, a Mornago, dove aveva sede la sua azienda, aveva subito un tentativo di sequestro. La conferma a enormi lacune investigative ai familiari del titolare della fonderia arrivò però appunto da quel processo aperto a venti anni di distanza dai fatti. Emerse infatti una testimonianza resa ai carabinieri, a poche ore di distanza dal sequestro, da un teste che alle ore 19 del 13 febbraio 1975 aveva visto nella zona sfrecciare una Fiat 126, con alla guida proprio l’ex operaio poi condannato per il rapimento. Si parlò del fatto che, mentre veniva maltrattato, De Micheli sarebbe morto soffocato, ingoiando accidentalmente la dentiera.I familiari presentarono una richiesta di risarcimento danni ai Ministeri dell’Interno e della difesa, ma la domanda è stata rigettata dal Tribunale di Milano, dalla Corte d’Appello di Milano e ora dalla Cassazione. Indagini gestite in maniera negligente o no, conferme arrivate a decenni di distanza dai fatti o meno, per i giudici il caso è ormai prescritto. Unica concessione della Suprema Corte la compensazione delle spese di giudizio, vista la “particolarità della questione dibattuta”.
Fonte: ilgiornale.it
Articolo del 10 novembre 2014
Lo Stato si è arreso, Giuseppina no. A 80 anni spera ancora di trovare almeno i resti
di Giovanni Terzi
Tullio De Micheli era titolare di una piccola fonderia con diciassette operai a Mornago (Varese). Un uomo mite, abitudinario e preciso dalla vita tranquilla: una moglie due figli e i nipotini che adorava. Il 13 febbraio 1975 tutto cambiò. Quella sera il sessantenne era atteso per festeggiare in famiglia il compleanno di Gianni, marito della figlia Giacomina; lo aspettavano per le sette. Ma alla porta della casa di via della Stazione quella sera Tullio De Micheli non arrivò mai. Il campanello suonò alle 19.15, ma dall’altra parte della porta c’erano i carabinieri che comunicarono la notizia che pochi minuti prima la Peugeot 200 dell’imprenditore era stata trovata a poche centinaia di metri sulla salita che da Oltrona al Lago porta a Comerio. Era stata abbandonata in mezzo alla strada con la portiera aperta ed un finestrino rotto. Si poteva pensare a un sequestro, non era la prima volta che qualcuno aveva cercato di rapire De Micheli.
Esattamente un anno prima alcuni banditi ci avevano provato. Fallendo. Lui aveva naturalmente sporto denuncia raccontando come uno di quei tizi assomigliasse a un suo ex operaio, tale Giuseppe Milan, un tipo violento e prepotente, licenziato proprio per le sue intemperanze. Furono quelli anni terribili per la provincia di Varese che divenne epicentro di una serie di drammatici fatti di cronaca legati ai sequestri di persona: il primo fu il giovane Emanuele Riboli, poi Cristina Mazzotti e per finire il 17 febbraio del 1989 Andrea Cortelezzi.
Nessuno di loro fece più ritorno a casa.
Se da una parte la denuncia di De Micheli venne sottovalutata, la medesima notizia fu in realtà amplificata dai mass media che involontariamente lo fecero apparire come un industriale di primissimo piano. «Niente di più falso», racconta Giacomina figlia oggi ottantenne dell’industriale sparito.
«Eravamo benestanti ma non miliardari e il sensazionalismo dei giornali certo non ci aiutò. Anzi peggiorò le cose».
Giacomina De Micheli ha gli occhi che si bagnano dalla commozione e parla del rapimento del padre ancor oggi, come l’evento che ha sconvolto per sempre la vita della sua famiglia.
I rapitori chiesero tre miliardi di riscatto, una cifra abnorme che non era nelle possibilità della famiglia. I sequestratori telefonarono più volte dalla cabina telefonica di Piazza Monte Grappa di Varese per mettersi in contatto con i familiari finché questi ultimi chiesero una prova che il padre fosse ancora vivo. Era il 25 febbraio, da quel giorno calò il silenzio. Da 40 anni nessuna notizia di Tullio De Micheli. nemmeno il suo corpo è stato mai trovato.
Indagini svolte con leggerezza e superficialità; riscontri mai accertati e una disattenzione sospetta Alle falle investigative si accompagnarono atteggiamenti quasi estorsivi da parte dello Stato che, vista la richiesta di riscatto, fece, con la Finanza, una serie di accertamenti fiscali presupponendo l’esistenza di chissà quale patrimonio. tanto che lo Stato chiese il pagamento delle tasse benché la ditta stesse ormai fallendo. La moglie di Tullio De Micheli impazzì di dolore, arrivando a invidiare le amiche che potevano andare al cimitero a pregare sulle tombe dei loro defunti.
Il nipotino più grande dell’imprenditore diceva: «Mi hanno rubato il nonno». Giacomina, la figlia maggiore, invece ha combattuto questo dolore senza fine con al fianco il marito, Gianni Bianchi. Lui è venuto a mancare pochi mesi fa. «I due uomini della mia vita se ne sono andati via troppo presto», racconta la donna, che fino al 2001 è stata per due mandati sindaco, amato ed apprezzato, di Comerio.
La latitanza delle Istituzioni e la leggerezza delle indagini trovarono la loro massima espressione quando nel 1995 per il rapimento del De Micheli fu condannato a diciannove anni di carcere quel Giuseppe Milan che era stato già accusato dall’imprenditore il tentato rapimento di un anno prima. Ma quella condanna non bastò a far luce su cosa fosse veramente accaduto. E soprattutto a permettere di ritrovare i resti della vittima. Giacomina, però non s’arrende. Lo considera il suo ultimo «mandato».
Fonte: urbanpost.it
Articolo del 13 febbraio 2017
Vittime dimenticate: rapimento e morte di Tullio De Micheli, senza verità dopo 42 anni
di Andrea Monaci
A 42 anni di distanza non si sa ancora nulla di certo sulla fine di Tullio De Micheli, l’imprenditore di Comerio (Varese) rapito la sera del 13 febbraio 1975. Nonostante anni di indagini, testimonianze, le rivelazioni di un pentito che hanno poi portato finalmente ad un processo, non sono mai state chiarite del tutto le circostanze della sparizione e della morte dell’imprenditore, il cui cadavere non è mai stato ritrovato.
Il caso Tullio De Micheli è anche uno dei simboli della lentezza del sistema giudiziario nel nostro paese e delle enormi ingiustizie che ne conseguono. Quando nel 1994, a diciannove anni dal sequestro, fu istruito un processo a carico di due dei presunti rapitori, la famiglia dell’industriale formulò tramite i suoi legali una richiesta di risarcimento danni ai Ministeri dell’Interno e della difesa denunciando la negligenza nelle indagini svolte nell’immediatezza del crimine. Ma la domanda fu rigettata dal Tribunale di Milano, dalla Corte d’Appello di Milano e infine, nel 2013, dalla Cassazione. Al di là di come furono gestite le indagini e della condanna a diciannove anni di carcere comminata ad uno dei sequestratori, per i giudici il caso era ormai prescritto. Unica concessione della Suprema Corte fu la compensazione delle spese di giudizio, vista la “particolarità della questione dibattuta”, si legge nella sentenza.
La stagione dei sequestri di persona
Il rapimento di Tullio De Micheli è tra gli apripista di un periodo buio della storia d’Italia, quella stagione dei sequestri di persona che di lì a qualche anno avrebbe garantito l’accumulazione primaria di capitali prima ad alcune cosche di Cosa Nostra siciliana, quindi alla ‘ndrangheta calabrese che ne fece in seguito una vera e propria “industria”.
Solo qualche mese prima, il 14 ottobre 1974, sempre in provincia di Varese, fu rapito il figlio del titolare di una carrozzeria a Buguggiate, Emanuele Riboli di soli diciassette anni. Anche lui non fece più ritorno a casa e anche per lui ci saranno vent’anni di indagini a vuoto per poi non arrivare a una sentenza contro i suoi aguzzini, assolti nel 1999.
Poi arrivarono i sequestri di Cristina Mazzotta, anche questo conclusosi tragicamente, e decine di altri in tutto il nord Italia a danno di familiari di imprenditori, commercianti, professionisti più o meno facoltosi.
Giustizia per i tanti, troppi Tullio De Micheli
Anni difficili da dimenticare, per la violenza che emerge dai racconti di chi è riuscito a sopravvivere, come Cesare Casella rapito a Pavia il 18 gennaio 1988 tenuto prigioniero in Calabria sull’Aspromonte per oltre 370 giorni, liberato dietro il pagamento di un riscatto di un miliardo di lire. Per chiederne la liberazione, sua madre arrivò ad incatenarsi sulle piazze dei paesini della Locride, implorando la solidarietà delle mamme calabresi.
E le vittime, troppe, morte anche per le conseguenze dei drammi vissuti. Come Alessandra Sgarella, rapita dalla ‘ndrangheta calabrese l’11 dicembre 1997, tenuta prima nascosta in un box a Buccinasco, a due passi da Milano, e poi trasferita in Aspromonte. Si ammalò di tumore ma fece in tempo a vedere il proprio carceriere finire in manette. Il destino volle che Alessandra morisse il giorno dopo l’arresto di Francesco Perre, che sta scontando 28 anni di carcere per il suo sequestro.
La famiglia di Tullio De Micheli non ha mai smesso di chiedere giustizia anche se la sentenza della Cassazione del 2013 ha messo una pietra tombale su questo desiderio di verità. Molti altri nostri concittadini si trovano nella stessa condizione, vittime due volte: di efferati criminali e dell’inadeguatezza del nostro sistema giudiziario. In “Vittime Dimenticate” racconteremo le loro storie.