I grandi delitti che hanno cambiato la storia d’Italia di Bruno De Stefano

I grandi delitti che hanno cambiato la storia d’Italia
Gli eroi civili e gli uomini dello stato uccisi da mafia, camorra e terrorismo

di Bruno De Stefano

Newton Compton Editori,  2019

Negli ultimi cinquant’anni mafia, camorra e criminalità comune hanno compiuto una mattanza che non ha eguali in nessuna parte del mondo: l’Italia è il Paese con il maggior numero di vittime che appartengono alla società civile, al mondo delle professioni, alla Chiesa, alle forze dell’ordine e alle istituzioni. Il lungo elenco dei “delitti eccellenti” comprende politici, magistrati, giornalisti, docenti universitari, avvocati, poliziotti, carabinieri, parroci. Uomini che hanno scelto di mettere l’amore per la giustizia e la verità al primo posto: una scelta che è costata loro la vita. Ma l’orrore per queste esecuzioni ha scosso l’opinione pubblica al punto da far diventare queste vittime dei simboli della lotta contro le ingiustizie, un monito eterno a non dimenticare che l’indifferenza uccide. Questo libro fa luce sui delitti che hanno spesso messo in pericolo le istituzioni e talvolta cambiato in modo profondo il percorso della storia del nostro Paese.

Politici, magistrati, preti e giornalisti: uomini della società civile e delle istituzioni barbaramente assassinati

Alcuni tra i casi presenti nel libro:
Pietro Scaglione
Luigi Calabresi
Francesco Coco
Fulvio Croce
Carlo Casalegno
Michele Reina
Boris Giorgio Giuliano
Cesare Terranova
Piersanti Mattarella
Vittorio Bachelet
Walter Tobagi
Gaetano Costa
Emanuele Basile
Marcello Torre
Giuseppe Salvia
Raffaele Delcogliano
Pio La Torre
Antonio Ammaturo
Carlo Alberto Dalla Chiesa
Mario D’Aleo
Rocco Chinnici
Pippo Fava
Ninni Cassarà
Roberto Ruffilli

 

 

 

Fonte: lavocedellevoci.it
Articolo del 4 dicembre 2019

DELITTI & MISTERI / 24 GIALLI CHE HANNO CAMBIATO L’ITALIA

I buchi neri del nostro Paese. I misteri che ne caratterizzano la drammatica storia. I tanti gialli che si sono tradotti in casi mai risolti, con una giustizia calpestata ed una memoria di quelle vittime spesso oltraggiata due volte.

La Voce ne scrive da anni e anni. Una rubrica, “Misteri”, è dedicata a queste tragiche vicende tutte italiane. Per la nostra testata hanno scritto a lungo figure del calibro di Ferdinando Imposimato, il magistrato coraggio che ha indagato su terrorismo e connection politico mafiose; e Sandro Provvisionato, il fondatore di Misteri d’Italia.

Ora, su alcuni di questi casi, esce un imperdibile volume: I grandi delitti che hanno cambiato la storia d’Italia – Gli eroi civili e gli uomini dello Stato uccisi da mafia, camorra e terrorismo. Scritto da un giornalista investigativo di razza, Bruno De Stefano, già autore libri cult lungo questo filone, ed edito dalla coraggiosa New Compton che, va rammentato, ha già pubblicato sette anni fa “La Repubblica delle stragi impunite” (novembre 2012) e poi “I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia” dedicato al caso Moro (maggio 2013), firmati dallo stesso Imposimato.

Un libro che esplora, quello di Bruno De Stefano, nel profondo passato, ricostruendo con dovizia di dettagli (anche inediti) casi noti e meno noti, e tutti in grado di gettare squarci di luce su quel torbido passato, facendo avvertire al lettore nel profondo il clima storico e politico di quegli anni.

Un’opera meritoria, di grande coraggio civile. Un libro che tutti dovrebbero leggere, soprattutto i ragazzi nelle scuole: capire il passato per interpretare meglio il presente, come osservava spesso – rammentando la lezione di Tucidide – Ferdinando Imposimato, un maestro per tutti.

Riportiamo un passaggio dell’introduzione di De Stefano che ci illustra il percorso del suo lavoro.

«L’Italia è meravigliosa e ci sono tante ragioni per andarne orgogliosi. Ma c’è un dato che ci rende un Paese tragicamente unico: abbiamo l’infelice primato dei cosiddetti delitti eccellenti. Infatti siamo l’unica nazione al mondo (ad eccezione di alcune aree del Centro e Sud America) in cui sono stati ammazzati senatori, deputati, prefetti, magistrati, poliziotti, carabinieri, funzionari dello Stato, docenti universitari, sindaci, assessori, scrittori, giornalisti, avvocati. Nella quasi totalità dei casi si tratta di persone perbene la cui esistenza si è conclusa nel marmo dell’obitorio perché, nonostante le minacce e le pressioni, hanno tenuto la schiena dritta. È una strategia al rallentatore che porta una doppia firma: quella delle mafie e quella del terrorismo. Una mattanza che ha conosciuto il suo picco tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, quando il Paese è stato stretto nella soffocante tenaglia della violenza mafiosa e dal delirio terroristico»

Continua De Stefano:«Questo libro ricostruisce un pezzo della nostra storia (inevitabilmente solo in parte, altrimenti sarebbe venuta fuori un’enciclopedia) attraverso le biografie dei personaggi noti e meno noti, quasi tutti legati dall’impegno nel rendere l’Italia un posto migliore, e tutti accomunati da un doloroso destino. Molti di loro avevano la certezza che prima o poi sarebbero stati assassinati. Altri, invece, avevano messo in conto la possibilità di non uscirne vivi. Altri ancora pensavano di non essere in pericolo, perché in fondo stavano semplicemente facendo il loro dovere. In alcuni casi si tratta di vicende intrise di solitudine che hanno avuto come protagonisti servitori dello Stato, abbandonati da quello stesso Stato che invece di proteggerli li ha mandati al macello”.»

Ed in conclusione: «Siamo proprio sicuri che dietro la maggior parte di questi delitti ci siano solo le mafie e il terrorismo? Oppure mafie e terroristi hanno fatto talvolta solo da braccio armato per conti di altri poteri? Nelle pagine di questo libro c’è spazio anche per quattro vittime che non sono ascrivibili alla categoria degli eroi civili: l’eurodeputato Salvo Lima, il parroco don Peppino Romano, l’esattore Ignazio Salvo e il numero due della Nuova Camorra Organizzata, Vincenzo Casillo. Quattro ‘delitti eccellenti’ che si sono trascinati appresso un grumo di misteri inconfessabili e di trame oscure che portano dritto ai palazzi del potere”.»

Di seguito tutti i personaggi al centro del libro-inchiesta. E poi – integralmente – il capitolo dedicato al caso Dalla Chiesa. Nei prossimi giorni altre puntate dedicate ai gialli, nella sezione ‘Misteri’.

Pietro Scaglione, Luigi Calabresi, Fulvio Croce, Carlo Casalegno, Michele Reina, Boris Giorgio Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Vittorio Bachelet, Walter Tobagi, Gaetano Costa, Emanuele Basile, Marcello Torre, Giuseppe Salvio, Raffaele Delcogliano, Pio La Torre, Antonio Ammaturo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Vincenzo Casillo, Rocco Chinnici, Pippo Fava, Ninni Cassarà, Don Peppino Romano.

 

 

 

Carlo Alberto Dalla Chiesa
prefetto di Palermo

DI BRUNO DE STEFANO

Solo, privo di quei necessari poteri che aveva più volte invocato per provare a piegare la resistenza della mafia, violenta e arrogante come mai prima di allora.

Lui ci aveva creduto davvero, fino alla fine. Non importava che la discesa in Sicilia fosse stata improvvisa, che gli avessero sbrigativamente consegnato il cerino acceso della lotta a Cosa Nostra promettendogli che lo avrebbero sostenuto in ogni modo.

Nell’estate del 1982 Carlo Alberto Dalla Chiesa era rimasto solo, anche se sperava che dopo l’afa agostana da Roma qualcuno mantenesse la parola e gli fornisse i mezzi necessari per combattere al meglio contro un nemico dalle radici secolari e assai meglio organizzato dello Stato.

Dalla Chiesa ci aveva creduto. Ma crederci non era bastato. La sera del 3 settembre lo ammazzarono in via Carini, a Palermo, mentre era in auto con la moglie Emanuela Setti Carraro; pochi istanti prima i boia di Cosa Nostra avevano gravemente ferito Domenico Russo, l’agente che faceva da scorta e che morirà pochi giorni dopo. Quella di Dalla Chiesa è – per usare un’espressione certamente non nuova – una storia tipicamente italiana, una vicenda nella quale si mescolano – fino a confondersi – i gesti di eroismo e la codardia, il coraggio e le mascalzonate, la verità e le bugie, le sfide a viso aperto e le oscure manovre di palazzo.

Una storia costellata da inquietanti zone d’ombra che alla fine hanno consegnato alla storia un movente monco che non spiega fino in fondo chi e perché ha voluto uccidere un pluridecorato generale dei carabinieri che tre mesi prima era stato nominato prefetto di Palermo con la esplicita missione di combattere la mafia.

Sulla matrice del delitto non ci sono dubbi: è stata Cosa Nostra a eliminarlo. Ma dell’uscita di scena del generale ne giovarono in parecchi; sicuramente in tanti a Palermo, ma probabilmente qualcuno che non se ne dispiacque stava pure a Roma o in qualche altro palazzo del potere. Del resto, nel corso della sua lunga carriera, di nemici quel carabiniere piemontese ne aveva collezionato tanti: un corposo battaglione composto da mafiosi, terroristi, uomini delle istituzioni collusi con i boss e imprenditori dalla doppia morale. In tanti lo detestavano e qualche mai sopita inimicizia, come sosterrà in diverse occasioni il figlio Nando, aveva dovuto patirla pure nel suo stesso ambiente, dove parallelamente ai successi del generale sul fronte della lotta al terrorismo era cresciuto un sottobosco di invidie professionali. Tant’è che aveva accettato di fare il prefetto di Palermo perché lo stavano progressivamente emarginando, e c’era mancato tanto così che andasse in pensione per togliere il disturbo.

Certamente le simpatie nei suoi confronti si erano ulteriormente affievolite quando nei suoi quasi cento giorni da prefetto di Palermo aveva messo da parte ogni prudenza e sia nelle occasioni pubbliche sia nelle conversazioni riservate aveva annunciato che non avrebbe guardato in faccia a nessuno, intendendo così dire che non avrebbe avuto alcun riguardo nei confronti dei politici in affari coi capi delle cosche. E non aveva perso occasione per reclamare quei poteri di coordinamento nella lotta alla mafia che gli erano stati solennemente promessi. Non aveva alcuna voglia di fare lo sceriffo, piuttosto si rendeva conto che non avrebbe potuto contrastare Cosa Nostra disponendo dello stesso margine di azione di un suo omologo di Aosta o di Perugia.

Le sollecitazioni non avevano prodotto granché, al punto che poche ore prima della sua morte aveva scritto una lettera al ministro dell’Interno Virginio Rognoni affinché desse finalmente seguito agli impegni presi.

Sempre restando sul “tipicamente italiano”, la storia di Dalla Chiesa sul piano processuale si è conclusa positivamente: mandanti ed esecutori del delitto sono stati arrestati e condannati con sentenze definitive. In teoria, quindi, ci sarebbe poco da recriminare. Ma se il caso giudiziario è chiuso, la partita con la verità è rimasta ancora aperta.

***

Il suo punto di riferimento è il padre Romano: un carabiniere tutto d’un pezzo, arrivato in cima alla scala gerarchica con i gradi di vice comandante dell’Arma. Autoritario ma anche autorevole; ecco cos’è il babbo per il giovane Carlo Alberto, nato a Saluzzo (Cuneo) nel 1920. Quando si tratta di scegliere cosa farà da grande, non ha alcun dubbio, seguirà le orme del genitore. Ha solo 22 anni quando in piena seconda guerra mondiale combatte in Montenegro. L’anno successivo comanda la stazione di San Benedetto del Tronto e l’8 settembre decide di partecipare alla resistenza partigiana. Alla fine del conflitto viene spedito prima a Roma, in una comoda caserma dei Parioli; e poi a Casoria, nel Napoletano. Intanto sposa Dora Fabbo, figlia di un ufficiale dei carabinieri conosciuta a Firenze. Dall’unione con la Fabbo nasceranno Rita, Nando e Simona. Ha già i gradi di capitano quando i vertici dell’Arma gli affidano un compito che segnerà la sua vita professionale: nel 1949 la nuova destinazione è Corleone, piccolo centro della provincia di Palermo. Il compito è impegnativo: sarà alla guida del Gruppo squadriglie con l’obiettivo di combattere il banditismo.

Ma da quelle parti non imperversano solo i banditi. Nel giro di qualche anno ci sono stati almeno una settantina di casi di lupara bianca, ovvero di persone scomparse nel nulla, probabilmente vittime di una guerra tra bande mafiose. Perché il vero problema in quell’area è proprio la mafia, il cui capo assoluto è il medico Michele Navarra, un uomo potentissimo come testimonia il soprannome che gli hanno affibbiato: “Padre Nostro”. Dalla Chiesa è un uomo d’azione e allora si mette a indagare su Navarra e sui suoi scagnozzi, tra i quali ce n’è uno particolarmente spietato, si chiama Luciano Liggio, noto come “Chicco di fuoco”. Indagando sulla scomparsa del sindacalista Placido Rizzotto, arriva sulle tracce di Liggio, tra i principali sospettati dell’omicidio del sindacalista. Durante la permanenza in Sicilia dimostra di possedere delle enormi qualità da investigatore, ha saputo ottenere dei buoni risultati nonostante la enorme diffidenza nei confronti dello Stato.

Anche quando non indossa la divisa pensa e agisce come un militare. Intransigente lo è anche in famiglia. I tre figli, Rita, Nando e Simona li alleva utilizzando un pugno di ferro che però spesso si trasforma in un guanto di velluto. Dirà Nando:

«Era severo. E molto affettuoso. Vede, io sono nato in caserma. Si era tenuti a un rigore doppio. Papà ha insegnato, a me e alle mie sorelle Rita e Simona, l’abitudine all’obbedienza. Al rispetto per i genitori e per ogni istituzione. Se tornavo da scuola e raccontavo che il maestro mi aveva punito con uno schiaffo lui era capace di darmene un altro. Certo non si metteva a fare il sindacalista o l’avvocato del figlio come fanno oggi.»

È inflessibile, il generale. Lo sa bene il figlio che nella notte di Capodanno, quando lui ha 17 anni, rientra a casa alle 02:40 e trova un biglietto-ramanzina del babbo con su scritto: «Sono le 2.30 e non sei rientrato».
È severamente vietato anche giocare a carte, mentre a comprare i vestiti ci si va una volta ogni tanto perché vanno bene quelli già utilizzati dai figli di parenti o amici.

La severità è un tratto fondamentale della personalità del carabiniere piemontese, ma è anche l’effetto inevitabile di un problema di sicurezza che in casa si è sempre avvertito. Anche da ragazzini, i figli devono fare i conti con la necessità di non avere orari fissi, di non percorrere mai le stesse strade, di non partecipare a tutte le feste organizzate dai coetanei. Nando, ad esempio, gioca a pallone ma non può mai raggiungere gli amici per le partite organizzate di sera.
Pure le frequentazioni devono essere selezionate per evitare di fare conoscenza con adolescenti dalle parentele equivoche.

Un’attenzione particolare la dedica a Nando, ma solo perché il suo rampollo è impegnato politicamente in quelle file della sinistra parlamentare che non nutre alcuna simpatia per l’Arma e in particolare per quel carabiniere impegnato sul fronte della lotta al terrorismo. Rispetta le idee del figlio, gli lascia una grande libertà ma non vuole che finisca nei guai, ed è per questo che un giorno gli mostra il Codice penale e gli dice: «Nando, questi sono reati. Non devi commetterli».

Dopo l’esperienza siciliana, ne colleziona altre in giro per il Nord, tra Firenze, Como e Milano. Approda a Roma nel 1963, quando è da poco tenente colonnello, e dopo un breve passaggio a Torino viene rispedito a Palermo nel 1966: sarà il comandante della Legione carabinieri.
Nella sua seconda esperienza sull’isola mette a frutto il bagaglio di conoscenze accumulato molti anni prima, utile per affrontare nel migliore dei modi l’enorme mole di lavoro. Mentre lo Stato dà la sensazione di arrancare – alcuni importanti processi si chiudono con decine e decine di assoluzioni per insufficienza di prove – Cosa Nostra comincia a sparare con una frequenza impressionante. E nell’elenco dei morti ammazzati non ci sono solo boss o picciotti ma pure giornalisti, come quel Mauro De Mauro – cronista de «L’Ora di Palermo» – rapito la sera del 16 settembre del 1970 e mai più ritrovato. Come se non bastasse il 5 maggio del 1971 i mafiosi alzano il livello dello scontro e uccidono il procuratore capo Pietro Scaglione e il suo autista Antonino Lo Russo. Dalla Chiesa è ovviamente interessato alla bassa manovalanza della mafia, ma è tra i pochi che comprende l’importanza di recidere il legame che salda l’ala criminale a quella dei cosiddetti colletti bianchi. Nel 1971, ad esempio, firma un coraggioso rapporto – inviato alla Commissione parlamentare antimafia – nel quale scrive che gli esattori Nino e Ignazio Salvo «beneficiano di larghe tolleranze sui tempi di versamento dei capitali riscossi, con ovvio conseguente profitto di rilevanti interessi».

Nel 1973 viene promosso a generale di brigata per poi andare a comandare la regione militare del Nord-ovest che ha competenza su Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria. Sono anni assai tormentati perché esplode un’altra emergenza, il terrorismo. Ma è proprio su questo fronte che Dalla Chiesa dà il meglio, forse anche perché nella lotta ai terroristi ha alle spalle tutte le strutture dello Stato. Mette su un nucleo specializzato, una squadra di investigatori abili e affidabili che riesce ad assestare colpi durissimi. Il più brillante e importante è senz’altro la cattura di Renato Curcio e Alberto Franceschini, fondatori delle Brigate Rosse, avvenuta a Pinerolo (Torino) nel 1974. Pur di raggiungere gli obiettivi, non esita a utilizzare tecniche investigative non proprio tradizionali, come ad esempio l’impiego di infiltrati. Sui metodi non sempre ortodossi si chiude un occhio, perché in gioco c’è una partita che lo Stato non vuole assolutamente perdere; e quel carabiniere è l’uomo adatto per debellare un fenomeno che altrimenti rischia di minare le fondamenta delle istituzioni. Tranne qualche voce critica da sinistra – c’è chi è spaventato dall’idea che un militare disponga di poteri speciali – tutto il Paese confida nell’ufficiale piemontese. Il quale continua a mietere successi con arresti e perquisizioni che danno frutti insperati; dopo la cattura di due big come Lauro Azzolini e Nadia Mantovani, nel loro covo di via Montenevoso a Milano, saltano fuori documenti importanti relativi al caso Moro, compreso un memoriale scritto dal politico rapito e assassinato nel 1978.

Le gioie professionali vengono duramente smorzate da un lutto che lascerà una ferita mai rimarginata. Il 19 febbraio del 1978 un infarto stronca la vita della moglie Dora: non era solo la madre dei suoi tre figli, ma la compagna silenziosa e comprensiva che aveva rappresentato un punto fermo della sua esistenza. La donna non aveva mai nascosto le sue preoccupazioni per i rischi che correva il marito, ma non gli aveva mai chiesto di rinunciare all’altro amore della sua vita, l’Arma.

Con il lutto nel cuore, e qualche senso di colpa forse mai svanito, riprende la lotta al terrorismo con maggior vigore e con il pieno sostegno del governo: il 30 agosto del 1978 il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, d’intesa con il ministro dell’Interno Virginio Rognoni e il ministro della Difesa Attilio Ruffini, stabilisce che dalla Chiesa venga «posto a disposizione per la durata di un anno, per l’espletamento ai fini della lotta contro il terrorismo, delle funzioni di coordinamento e cooperazione tra le forze di polizia e gli agenti dei servizi informativi».

Per mettere in ginocchio i terroristi, alla nuova struttura coordinata dal generale vengono assegnati 180 carabinieri, cinquanta poliziotti, otto assistenti sociali e ispettrici; pistole e fucili, macchine tedesche potenti e veloci. Inoltre ogni mese potrà spendere dieci milioni di lire senza dover rendere conto a nessuno. I mezzi non sono l’unica cosa importante, come dirà uno dei componenti del Nucleo antiterrorismo, Domenico Di Petrillo, in quegli anni capitano dei carabinieri:

«Partimmo quasi da zero. Anzi, proprio da zero. Non sapevamo da dove iniziare, tante erano le indagini da avviare. Fu fondamentale, nemmeno a dirlo, il metodo del nostro generale. L’uso della testa, analisi, la conoscenza: inquadrammo il fenomeno e i soggetti da monitorare, decidemmo un piano d‘azione, stabilimmo le priorità, e seguimmo quel piano in modo organico e perentorio. Un passo dopo l’altro.»

L’attività del Nucleo antiterrorismo è intensa e implacabile. Dalla Chiesa conferma di essere un investigatore dalle grandi capacità e i colpi inferti al nemico sono tantissimi. Nel febbraio del 1980 i suoi uomini arrestano Patrizio Peci, uno dei principali componenti della colonna torinese delle Brigate Rosse. Il generale viene autorizzato dal giudice Giancarlo Caselli, con l’avallo del procuratore capo Bruno Caccia e del capo dell’ufficio istruzione Mario Carassi, ad avere dei colloqui in carcere con Peci. Al secondo incontro, avvenuto poco meno di un mese dopo la cattura, Peci si dichiara disponibile a collaborare: sarà il primo pentito delle Brigate Rosse e le sue dichiarazioni consentiranno la progressiva demolizione dell’organizzazione. La sequela di successi viene bruscamente interrotta da quel che accade la sera del 28 marzo, in via Fracchia a Genova: gli uomini di Dalla Chiesa fanno irruzione in un covo indicato da Peci e ingaggiano un conflitto a fuoco uccidendo quattro presunti brigatisti; un carabiniere viene ferito al volto. L’episodio riaccende le polemiche – mai sopite – sul margine di azione concesso al generale: al netto degli innegabili risultati nel contrasto al terrorismo, c’è chi vede nel sangue scorso in via Fracchia la prova che i “poteri speciali” possano provocare danni irreparabili.

In quella guerra dichiarata alle Br il rischio di lasciarci la pelle è altissimo. Dalla Chiesa non è considerato soltanto un nemico particolarmente ostile, ma pure un simbolo da abbattere. La colonna torinese delle Brigate Rosse, ad esempio, lo ha inserito in una lista di obiettivi di alto profilo che comprende Gianni Agnelli e il magistrato Giancarlo Caselli. La condanna a morte è stata emessa nel 1976, come racconterà il pentito Peci:

«Avevamo cercato di stenderlo a Torino nel 1976. Si sapeva che ogni settimana dalla Chiesa andava a una riunione dei Lions e quella sembrava l’occasione giusta. Un nostro nucleo si è appostato per tre settimane e non l’ha mai visto; alla quarta uno dei nostri vide arrivare il generale e si avvicinò fino a due o tre metri per sparare, poi si accorse che non era lui e tornò indietro. Dopodiché era troppo pericoloso per riprovarci, ma all’idea non avevamo rinunciato.»

Dal faticoso tunnel della lotta al terrorismo, il petto di Carlo Alberto Dalla Chiesa esce pieno di medaglie. I risultati conseguiti hanno zittito quanti temevano che potesse diventare un militare troppo potente e troppo ambizioso e quindi pericoloso. Il generale è invece un uomo al servizio dell’Arma e quindi dello Stato, niente di più. Quando coltiva la legittima ambizione di guidare la prestigiosa Divisione Pastrengo di Milano si trova davanti un muro eretto da colleghi e superiori. È un incarico al quale tiene moltissimo e al quale è convinto di poter aspirare in virtù di una carriera scintillante. Rispetto a tanti ha alle spalle una storia professionale che dovrebbe spianargli la strada, ma qualcuno prova a frenarlo; solo alla fine, vincendo resistenze che non immaginava di dover incontrare, ottiene il comando della Pastrengo.

All’inizio del 1981 sul suo prestigio piomba un macigno che rischia di schiacciarlo. Nel mese di marzo vengono resi pubblici gli elenchi della P2, la loggia massonica deviata guidata da Licio Gelli; dalle indagini salta fuori che il generale aveva presentato la domanda di iscrizione il 28 ottobre del 1976, anche se l’iscrizione non era mai stata formalizzata. Una tesi confermata pure da un vicecomandante dell’Arma, Francesco Picchiotti, pure lui componente della P2. La P2 è considerata eversiva (tant’è che sarà sciolta nel 1982), e volerne farne parte non è una cosa di cui andare orgogliosi. Il 12 maggio, a Milano, viene interrogato dai giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colombo e dal Pm Guido Viola, titolari dell’inchiesta sulla P2.

Nell’incontro con i magistrati, il generale parte da lontano, ovvero da quando il suo Nucleo investigativo era stato sciolto proprio mentre si apprestava a indagare sui rapporti tra l’eversione di estrema destra collegata alla massoneria. Secondo quanto riferisce ai giudici milanesi a spingerlo a firmare «fu l’intuizione che quello poteva essere il mezzo con cui chiarire a me stesso e conoscere chi, al di là del generale Picchiotti, fosse nell’ambito della massoneria e in particolare nella loggia P2, il quale mi poteva direttamente ricollegare alle indagini che a me direttamente premevano».

Dunque, il generale spiega che aderendo alla P2 voleva solo capire chi si era messo di traverso sulle indagini destra-massoneria. E per rafforzare questa tesi fa riferimento al fatto che la sua adesione fosse guardata con sospetto; tant’è che solo nel 1979 Gelli aveva deciso di contattarlo per capire meglio le sue intenzioni. Ai magistrati spiega nell’interrogatorio del 12 maggio 1981:

«Soltanto negli ultimi mesi del 1979 mi furono rappresentati da parte dell’onorevole Carenini dei desideri da parte del signor Gelli Licio di conoscermi: desideri che a lungo respinsi fino a quando come minimo posi la condizione che l’incontro avesse luogo in pubblico e con la presenza dello stesso parlamentare e di un sacerdote che nell’occasione io indicai nel monsignor Ernesto Pisoni di Milano. Una volta concordato, detto sacerdote fu impedito nel venire a Roma e l’incontro quindi ebbe luogo nell’albergo Excelsior di Roma solo in presenza del detto parlamentare. Nell’occasione si parlò di una mia eventuale destinazione alla divisione di Milano per la quale avevo espresso da qualche tempo il mio desiderio, non soddisfatto per esigenze che il Governo ritenne prevalenti nell’interesse del servizio antiterrorismo. Nella circostanza vi fu un accenno da parte mia su qualche resistenza che avevo colto sulla piazza di Milano circa la mia eventuale destinazione, resistenza che per altro non poteva certo porsi a livello di un Governo qualora lo avesse ritenuto opportuno.»

Quando viene tirato in ballo, i contorni della vicenda non sono chiarissimi e in attesa che la nebbia si diradi c’è chi vuole approfittarne per liberarsi di lui una volta e per sempre. Qualcuno esercita delle pressioni affinché venga buttato fuori dall’Arma, ma a sua difesa si schierano i politici che negli anni precedenti ne hanno ripetutamente apprezzato la professionalità.

Archiviati con qualche affanno i veleni della P2, alla fine del 1981 va a Roma per compiere l’ultimo balzo: diventa vicecomandante generale, lo stesso incarico che aveva ricoperto il padre quasi trent’anni prima. Ha 61 anni e ancora un certo vigore, ma nella sua nuova destinazione romana non trova né stimoli né la fiducia dei suoi colleghi. Essere approdato ai vertici dell’Arma è senz’altro il coronamento di una attività in prima linea ma è un incarico che somiglia a un guscio vuoto. A Roma tutto il credito accumulato in anni e anni di onoratissima carriera sembra come azzerato. Lui sperava di poter mettere a disposizione il suo bagaglio di esperienze, ma nessuno è obbligato a tenerlo al corrente dell’attività operativa. In sostanza è finito ai margini, privo di qualsiasi potere decisionale e destinato a girarsi i pollici fino all’arrivo della pensione. Lui si sente ingiustamente messo da parte, come fosse ferraglia vecchia.

La vita professionale di Carlo Alberto Dalla Chiesa è stata sempre intensa e totalizzante. Sul piano affettivo, invece, la scomparsa della moglie è un trauma dal quale non si è mai completamente ristabilito. Ed è proprio per questo rapporto così speciale con la sua Dora, mai interrotto, che vive momenti di profondo turbamento quando, in maniera del tutto inaspettata, in lui si riaccende la fiamma del sentimento. La donna che lo ha stanato si chiama Emanuela Setti Carraro, è una crocerossina e appartiene alla buona borghesia milanese. È colta, piena di interessi, ha una personalità forte: facile innamorarsene. Ed è anche molto graziosa, al punto che il giudice Alfonso Giordano scriverà che la bellezza «risaltava persino sul tavolo anatomico».

La passione è sbocciata nel maggio del 1980 durante una cena a casa Setti Carraro, poi si sono cercati e il legame si è via via fatto più coinvolgente. Ma lungo la strada che collega l’animo vigoroso del pluridecorato carabiniere al cuore della crocerossina c’è un ostacolo che appare oggettivamente insormontabile: lei ha trent’anni in meno. Un abisso anagrafico che suscita molti dubbi pure nel generale: “Soffriva Dalla Chiesa, mentre l’amore cominciava a nascere. Tentò di soffocare il sentimento per non offendere la moglie e la sua memoria. Il generale ne parlò con i figli, che lo aiutarono a superare ogni esitazione. Avevano partecipato all’immane dolore di quell’uomo, alle molteplici sofferenze, ai sensi di colpa per l’infarto che aveva ucciso la loro mamma”.

Un giorno il generale rompe gli indugi e si presenta a casa Setti Carraro per chiedere la mano di Emanuela. Fino ad allora ha affrontato senza esitazione criminali d’ogni specie, mafiosi, terroristi, assassini e ladri ma non ha mai sudato quanto nelle due ore e mezzo di colloquio con i genitori della ragazza che intende portare all’altare. Centocinquanta minuti di conversazione che lo hanno visto impegnato nel tortuoso tentativo di spiegare perché vuole Emanuela a ogni costo nonostante la differenza di età, di esperienze affettive, di abitudini quotidiane. A un certo punto, dopo l’ennesima obiezione, dice alla madre della sua futura moglie: «Lei si potrà vantare di aver fatto il più lungo interrogatorio, e il primo, al generale Dalla Chiesa».

L’imbarazzo è ancora nell’aria quando nella stanza entra proprio Emanuela. La ragazza dimostra di essere risoluta e dopo aver ammesso che tutti i dubbi sono legittimi, si siede sulle ginocchia del generale e annuncia: «Al posto vostro forse anch’io direi le stesse cose. Però Carlo Alberto io lo sposo lo stesso».

Come detto, a Roma il generale si sente un pesce fuor d’acqua. L’orgoglio gli suggerisce di non mollare, ma la tentazione di togliere il disturbo andandosene in pensione, è forte. Poi, però, si presenta l’occasione di poter tornare in pista. Il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e il ministro dell’Interno Virginio Rognoni hanno intenzione di richiamarlo in azione. Il 2 marzo del 1982 ha un incontro riservato con il capo di gabinetto di Spadolini il quale gli parla di un paio di incarichi che il governo vorrebbe affidargli: uno riguarda la direzione degli istituti di pena, l’altro la prefettura di Palermo e la guida di una struttura antimafia a essa collegata.

Qualche giorno dopo gli arriva la conferma che la sua destinazione sarà Palermo. Il 16 marzo l’argomento viene affrontato nel corso di una cena a casa del ministro delle Finanze Rino Formica, alla quale partecipa anche il deputato Salvo Andò. Tra una pietanza e l’altra, i due esponenti politici – entrambi del Partito socialista – gli prospettano la direzione di un Alto commissariato che si occupi di mafia e camorra; ma è una soluzione che non lo convince perché – come scriverà nei dialoghi immaginari con la moglie contenuti in un diario-agenda – si finirebbe col creare una specie di ministero producendo molto fumo e la dispersione di energie.

A fine marzo, nonostante abbia più d’una perplessità, decide di accettare. Scriverà nel diario:

«Ma riflessioni e meditazioni distaccate mi hanno fatto decidere per il sì, anche perché il lavoro, la lotta, le difficoltà mi esaltano fino a drogarmi e, nello stesso tempo, l’incarico attuale è talmente privo di contenuti che avrei ugualmente lasciato l’Arma entro questo periodo, così come avevo anticipato a molti. […]
Stamattina ho così detto di sì al Ministro degli Interni, anche se ho dovuto porre qualche condizione che mi appariva necessaria, quale quella di capire che il fenomeno della mafia non può essere considerato ancorato alla Provincia di Palermo.»

Dalla Chiesa ha le idee chiare su quel che vuole fare a Palermo. Sa, però, che quelle idee non coincidono esattamente con la volontà del potere politico, spesso colpevolmente distratto nell’affrontare una piaga secolare come la mafia. Ed è proprio per sollecitare il Palazzo a garantirgli i poteri necessari per una efficace opera di contrasto alle cosche, che il 2 aprile scrive una lettera al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini:

Gentilissimo Professore, faccio seguito ad un nostro recente colloquio e, se pur mi spiaccia sottrarle tempo, mi corre l’obbligo – a titolo di collaborazione e prima che il tutto venga travolto dai fatti – di sottolineare alla Sua cortese attenzione che: – la eventuale nomina a Prefetto, benché la designazione non possa che onorare, non potrebbe restare da sola a convincermi a lasciare l’attuale carica; – la eventuale nomina a Prefetto di Palermo, non può e non deve avere come “implicita” la lotta alla mafia, giacché si darebbe la sensazione di non sapere che cosa sia (e cosa si intenda) l’espressione “mafia”; – si darebbe la certezza che non è nelle più serie intenzioni la dichiarata volontà di contenere e combattere il fenomeno in tutte le sue molte manifestazioni (“delinquenza organizzata” è troppo poco!); – si dimostrerebbe che i “messaggi” già fatti pervenire a qualche organo di stampa da parte della “famiglia politica” più inquinata del luogo hanno fatto presa là dove si voleva. Lungi dal voler stimolare leggi o poteri “eccezionali”, è necessario ed onesto che chi si è dedicato alla lotta di un “fenomeno” di tali dimensioni, non solo abbia il conforto di una stampa non sempre autorizzata o credibile e talvolta estremamente sensibile a mutamenti di rotta, ma goda di un appoggio e di un ossigeno “dichiarato” e “codificato”: – “dichiarato” perché la sua immagine in terra di “prestigio” si presenti con uno “smalto” idoneo a competere con detto prestigio; – “codificato” giacché, nel tempo, l’esperienza (una macerata esperienza) vuole che ogni promessa si dimentichi, che ogni garanzia (“si farà”, “si procederà”, ecc.) si logori e tutto venga soffocato e compresso non appena si andranno a toccare determinati interessi. Poiché, è certo che la volontà dell’on. Presidente non è condizionata da valutazioni men che trasparenti, ma è altrettanto certo che personalmente sono destinato a subire operazioni di sottile o brutale resistenza locali, quando non di rigetto da parte dei mafiosi “palazzi” e poiché, da persona responsabile, non intendo in alcun modo deludere le aspettative del sig. Ministro dell’Interno e dello stesso Governo presieduto da un esponente che ammiro e che voglio servire fino in fondo, vorrei pregarLa di spendere – in questa importantissima fase, non solo della mia vita di “fedele allo Stato” – il contributo più qualificato e convinto, perché l’iniziativa non abbia a togliere a questa nuova prestazione né la componente di un’adesione serena, né il crisma del sano entusiasmo di sempre: quello più responsabile. Con ogni e più viva considerazione. Suo gen. Dalla Chiesa.

Agli inizi di aprile la nomina a prefetto di Palermo è cosa fatta. Auguri, congratulazioni, pacche sulle spalle. E qualche incontro importante, a partire da quello con Giulio Andreotti, più volte ministro e presidente del Consiglio, la cui corrente in Sicilia è rappresentata da qualche personaggio chiacchierato. Scrive ancora il generale nel suo diario il 6 aprile:

«Poi, ieri, anche l’on. Andreotti mi ha chiesto di andare e naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia, si è manifestato per via indiretta interessato al problema. Sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori. Sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno, anche se mi ha voluto ricordare il suo lontano intervento per chiarire la posizione di Messeri a Partinico, lo ha condotto e lo conduce ad errori di valutazione di uomini e di circostanze. Il fatto di raccontarmi che, intorno al fatto Sindona, un certo Inzerillo, morto in America, è giunto in Italia in una bara e con biglietto da 10 dollari in bocca, depone nel senso. Prevale ancora il folclore e non se ne comprendono i “messaggi”!»

Andreotti negherà, in più sedi, che quel colloquio con dalla Chiesa sia mai avvenuto. Non c’è motivo di dubitare della versione del sette volte presidente del Consiglio; resta però da capire perché il generale avesse “raccontato” una storia inventata in un diario e poi proprio negli immaginari dialoghi con la ex moglie, sempre caratterizzati da una profonda sincerità a tratti persino tenera e ingenua.

Quando diventa ufficiale la nomina del generale a prefetto di Palermo, i mafiosi vanno in fibrillazione. Secondo quanto riferito dal pentito Calogero Ganci, dentro Cosa Nostra c’è chi non ha dubbi: dalla Chiesa deve essere assassinato.

Nel corso delle riunioni si era anche parlato dei motivi dell’omicidio. In particolare, rammentava, che subito dopo la designazione del gen. Dalla Chiesa a Prefetto di Palermo in Cosa Nostra si era diffusa una grande preoccupazione, temendosi che il nuovo Prefetto avrebbe posto seri problemi all’organizzazione, così come aveva fatto contro il terrorismo. Inoltre, si erano diffuse, all’interno dell’organizzazione, voci secondo le quali il Dalla Chiesa per sconfiggere il terrorismo aveva adoperato metodi molto duri ed addirittura illeciti (sostanzialmente, torturando le persone in carcere per farle parlare) e che per organizzare il contrasto a Cosa Nostra aveva richiesto il conferimento di poteri straordinari. Quindi, anche se l’omicidio del Dalla Chiesa era stato operativamente discusso circa venti giorni prima dell’eccidio, era dal momento del suo arrivo a Palermo che si parlava della sua morte, trattandosi di una persona considerata come un nemico da abbattere sin da subito.

Il generale è galvanizzato e inquieto al tempo stesso. Nel suo animo si agitano sentimenti che oscillano tra la voglia di misurarsi con una nuova sfida e il grumo di dubbi che riguardano la conoscenza della mafia da parte di chi ha voluto spedirlo in Sicilia. Scrive ancora nel diario segreto:

«Poi sono stato dal capo di gabinetto del M.I. e dal Capo Polizia, ambedue entusiasti di avermi a collega e mi hanno così incoraggiato a sperare di non trovare impedimenti nel mio lavoro. Certo è tutto un mondo nuovo, tutta una burocrazia particolare, per entrare nella quale occorrerà tempo ed accortezza. Ma soprattutto c’è tanta attesa nel mio lavoro, laddove ben pochi sanno o hanno capito cosa si intende per mafia. Siamo al limite che scoprire gli autori di un omicidio significa “mafia sconfitta”! Vedremo come andrà a finire. Certamente non demorderò senza, peraltro, voler fare né il don Chisciotte, né il presuntuoso. È una grossa responsabilità.»

Alle comprensibili e inevitabili tensioni alla vigilia di un delicato incarico, si aggiunge un evento che accelera la sua discesa a Palermo: il 30 aprile nel capoluogo siciliano la mafia uccide il segretario regionale del PCI, Pio La Torre e il suo autista Rosario Di Salvo. Un duplice delitto firmato da Cosa Nostra, della quale La Torre era uno storico e implacabile avversario fin dagli anni della gioventù. Dalla Chiesa aveva conosciuto La Torre molti anni prima, quando con i gradi di capitano comandava la compagnia di Corleone e La Torre era un giovane e combattivo sindacalista. Durante un comizio, La Torre aveva visto Dalla Chiesa attraversare la piazza ed era subito sceso dal palco per andargli a stringere la mano davanti a tutti: un gesto di apprezzamento nei confronti di un carabiniere che aveva tenacemente combattuto contro la cosca di personaggi come Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano.

L’assassinio del segretario regionale del PCI e del suo autista rappresentano uno choc fortissimo. Il governo lo obbliga a fare i bagagli in fretta perché con il suo immediato sbarco a Palermo lo Stato vuole dare una “risposta” ai mafiosi. Il 30 aprile, nel dialogo immaginario con la sua ex moglie, dimostra di aver ben compreso le insidie dello scenario palermitano e della solitudine che lo attende:

«Purtroppo, tesoro mio, come spesso è accaduto, ogni cosa è saltata, le circostanze mi hanno travolto ed il tuo Carlo, dalla pioggerellina che cadeva su Pastrengo è stato catapultato, d’improvviso, dapprima a Roma, presso il Presidente del Consiglio e quindi a Palermo per assumervi, nello stesso pomeriggio, l’incarico di Prefetto. Ti rendi conto, cocca mia, cosa è accaduto in me, dentro di me e quali reazioni ne sono scaturite in un’atmosfera surriscaldata da un evento gravissimo: l’uccisione, in piena Palermo, del Segretario Regionale del P.C.I., Pio La Torre? L’Italia è stata scossa dall’episodio, specie alla vigilia del Congresso di una D.C. che su Palermo con l’espressione peggiore del suo attivismo mafioso, oltre che di potere politico. Ed io che sono certamente il depositario più informato di tutte vicende di un passato non lontano, mi trovo ad essere richiesto di un compito davvero improbo e, perché no, anche pericoloso. Promesse, garanzie, sostegni, sono tutte cose che lasciano e lasceranno il tempo che trovano. La verità è che in poche ore (5-6) sono stato catapultato da una cerimonia a me cara, che avrebbe dovuto costituire un sigillo alla mia lunga carriera nell’Arma, in un ambiente infido, ricco di un mistero e di una lotta che possono anche esaltarmi, ma senza nessuno intorno, e senza l’aiuto di una persona amica, senza il conforto di avere alle spalle una famiglia come era già stato all’epoca della lotta al terrorismo, quando con me era tutta l’Arma. Mi sono trovato d’un tratto in… casa d’altri ed in ambiente che da un lato attende dal tuo Carlo i miracoli e dall’altro che va maledicendo la mia destinazione ed il mio arrivo.»

Dalle pagine del diario emerge dunque un Dalla Chiesa consapevole di essersi infilato in una situazione difficile da gestire, dove l’ambiguità rischia di prendere il sopravvento sulla chiarezza. Ma non è tutto, perché nel dialogo immaginario con la ex moglie, il generale mette nero su bianco la certezza di essere mandato allo sbaraglio. Dalle sue parole si deduce che non si fida completamente di chi ha voluto spedirlo nella parte più a sud del Paese senza il sostegno necessario. Lo Stato, scrive, vuole utilizzare la sua storia e il suo prestigio in maniera strumentale ed è poco interessato a sconfiggere sul serio Cosa Nostra:

«Mi sono trovato cioè al centro di una pubblica opinione che, ad ampio raggio, mi ha dato l’ossigeno della sua stima e di uno Stato che affida la tranquillità della sua esistenza non già alla volontà di combattere e debellare la mafia ed una politica mafiosa, ma all’uso ed allo sfruttamento del mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti; che poi la mia opera possa divenire utile, tutto è lasciato al mio entusiasmo di sempre, pronti a buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati o compressi, pronti a lasciarmi solo nelle responsabilità che, indubbiamente, deriveranno anche nei pericoli fisici che dovrò affrontare.

«Sì, tesoro mio, questa volta è una valutazione realistica e non derivante da timori assurdi. Ricordi quando ci raggiunse in Prata la notizia dell’uccisione del T. Col. Russo? … Oggi non sono certo colto né da panico, né da terrore, come già si sono fatti cogliere Tateo e Panero sui quali davvero contavo e non solo ai fini di “spalle coperte”. Ma sono perfettamente consapevole che sarebbe suicidio il mio qualora non affrontassi il nuovo compito, non tanto con scorta e staffetta, ma con l’intelligenza del caso e con un po’ di fantasia. Così come sono tuttavia certo che la mia Doretta mi proteggerà, affinché possa fare ancora un po’ di bene per questa collettività davvero e da troppi tradita.»

Al neo prefetto, quindi, non sfugge assolutamente una lampante verità: nonostante la lettera inviata a Spadolini agli inizi di aprile, non ha avuto alcuna garanzia sui poteri che dovrebbero consentirgli di affrontare con efficacia un impegno così gravoso come la lotta a Cosa Nostra. E in Sicilia la situazione è davvero pesante; prima di Pio La Torre e dell’autista Di Salvo, sono stati assassinati altri rappresentanti dello Stato: il capo della Squadra mobile Boris Giuliano, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il capitano della compagnia dei carabinieri di Monreale Emanuele Basile; hanno ammazzato pure due boss del calibro di Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo.

Il generale ha abbastanza pelo sullo stomaco per aver immaginato che la sua presenza a Palermo non è sgradita solo ai mafiosi. Lo intuisce fin da quando atterra all’aeroporto di Punta Raisi: per un’ora non va nessuno a prenderlo, poi si fa portare in prefettura col taxi. Seppur mascherata da una formale accondiscendenza, sono in tanti a guardarlo con sospetto perché sanno che si è messo in testa di fare un sacco di cose che in Sicilia non si sono mai viste. I politici non lo amano affatto, ne è consapevole. In attesa che vengano messi nero su bianco i poteri “speciali”, allestisce una squadra di collaboratori che dovrà dargli una mano:

Riallacciò rapporti con carabinieri, vecchi appuntati e marescialli fidati per assegnare loro gli incarichi più delicati. Prese contatti per circondarsi di alcuni uomini, ufficiali e sottufficiali, dell’epoca dell’antiterrorismo. Voleva ricostruirsi intorno un nucleo di sicurezza. Ma non tanto sul piano della scorta fisica, quanto della fidatezza, della raccolta e del filtraggio delle informazioni. Si era accorto, tra l’altro, che gli era stata aperta della corrispondenza personale.

Non è mai stato un tipo da scrivania, il prefetto. Conosce bene il territorio palermitano e sa perfettamente che lo Stato deve ispirare fiducia ai cittadini; ed è per questo che incontra gli operai delle fabbriche, gli studenti. Il 7 giugno, ad esempio, va a far visita a una scuola elementare di Partinico, dove gli insegnanti hanno organizzato una manifestazione dal tema “Per le strade della libertà”. Lui ha parlato di legalità agli scolari e al termine dell’incontro gli hanno regalato un elaborato sull’assassinio del professor Vittorio Bachelet, assassinato dalle Brigate Rosse. Una settimana dopo ha inviato una lettera alla direttrice della scuola, scrivendole:

«Le sono infinitamente grato per l’elaborato e per gli indirizzi morali che se ne sono tratti. Ma le sono ancora più grato di avermi estemporaneamente concesso un tuffo in un mondo stupendo fatto di trasparenze, di favole, di sogni, di armonie entro il quale l’amore degli insegnanti è stato travasato con animo generoso e dal quale si è voluto attingere per dire ai più grandi che sono e restano i responsabili di quanto non è stato e non sarà realizzato perché la vita intorno possa essere più serena. E, grazie, infine, di avermi concesso di trovarmi quasi ignoto in mezzo a tanti genitori felici.»

Se la gente lo acclama, Cosa Nostra continua a non manifestare alcun timore. Il 16 giugno, lungo la circumvallazione di Palermo, i killer entrano in azione per uccidere il boss catanese Alfio Ferlito, intercettato mentre i carabinieri lo stanno trasferendo al carcere di Trapani. Nell’imboscata oltre a Ferlito, perdono la vita pure tre carabinieri e l’autista.

Mentre nutre ogni giorno la speranza che da Roma arrivino buone notizie sui poteri che ha richiesto, si dà un gran da fare. Un mese dopo il suo sbarco in Sicilia chiede al suo omologo di Catania, in via del tutto riservata, informazioni su alcune delle già importanti imprese catanesi che – stranamente – hanno ottenuto appalti a nove cifre pure a Palermo. Il carteggio che riceve dal collega contiene notizie interessanti, ma stranamente non ci sono elementi che sono da tempo di dominio pubblico circa il rapporto tra il boss Nitto Santapaola, rivale di Ferlito, e alcuni cavalieri del lavoro catanesi. È un Dalla Chiesa nervoso, quello delle prime settimane palermitane. Cerca di contattare alcuni politici nella speranza che possano spingere il governo e il ministro dell’Interno a fornirgli ciò che ha richiesto. L’inquietudine e la sensazione di isolamento sono potenti, e allora avverte la necessità di circondarsi di persone a cui vuole bene. Ed ecco che torna a Milano dove è rimasta la sua Emanuela. A Milano s’incontra con il generale Niccolò Bozzo, al quale lo lega un’antica amicizia. In un’audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi, Bozzo racconterà che il prefetto era piuttosto soddisfatto perché da un’indagine della Guardia di Finanza erano saltati fuori legami sempre più intensi tra la mafia palermitana e quella catanese:

«Quello che le posso dire è che la penultima volta che ho visto Dalla Chiesa – l’ultima è stata quando ha preso il traghetto da Genova per Palermo dopo il matrimonio – egli era euforico. Siamo alla fine di giugno o ai primi di luglio 1982. Prima di sposare Emanuela Setti Carraro, egli aveva ancora un appartamentino presso il Comando divisione, dove prestavo servizio come capo dell’ufficio criminalità; quindi, quando veniva a trovare la futura moglie, in media un paio di volte al mese, passava sempre dagli uffici e la domenica mattina stava un po’ lì con noi. Quella volta era euforico perché aveva con sé un rapporto, che tirò fuori dalla borsa di pelle nera che portava sempre con sé, al quale attribuiva un’enorme importanza; ma si trattava di lotta alla mafia, non al terrorismo. Il rapporto era di un reparto della Guardia di Finanza e riguardava l’attività dei cosiddetti “cavalieri di Catania” su Palermo. Egli fece vedere questo rapporto al Capo di stato maggiore e anch’io lo ebbi in mano: in quel rapporto c’era la prova che la mafia era tutta un’unica cosa, che Palermo e Catania rispondevano ad un unico vertice, altrimenti – fra l’altro – quelli di Palermo non avrebbero consentito a quelli di Catania di andare a lavorare nella loro città. […] Io gli ho dato un’occhiata, non l’ho letto tutto, ma secondo lui era la prova della sua convinzione; era presente anche il Capo di stato maggiore che però adesso è morto.»

Il prefetto prova a uscire dalla solitudine nella quale è stato risucchiato, ma non ci riesce. L’amarezza di quei giorni viene stemperata soltanto dal matrimonio con Emanuela Setti Carraro, celebrato in gran segreto il 12 luglio in una chiesetta del Trentino. Alla gioia per aver impalmato la crocerossina segue un periodo da incubo. Agli inizi di agosto a Palermo la mafia torna a sparare, in soli tre giorni si contano otto morti. Si rende conto di essere da solo e allora cerca di scuotere il silenzio del governo con una intervista a Giorgio Bocca, inviato di La Repubblica. Ed è lo stesso Bocca che quando arriva in prefettura si rende conto di come quel pluridecorato generale sia stato completamente abbandonato:

«All’ingresso di Villa Whitaker non ci sono i carabinieri delle caserme Moscova o Cernaia, ci sono dei poliziotti che fumano e che leggono i giornali. Dovrei vedere il generale dalla Chiesa  dico, e mi aspetto che mi mettano a mani alzate contro il muro. Invece continuano a leggere il giornale e l’altro fa appena un gesto col capo verso la villa. Per le scale non c’è anima viva, al primo piano mi aspetta un vecchio segretario. Il generale, ora prefetto, lo trovo in un corridoio mentre esce da una porticina, una toilette. Fuori un vento caldo fruscia tra i palmizi, e mi chiedo cosa ci facciamo lì noi due, che commedia cerchiamo di recitare mentre già si tesse la rete dei grandi padrini mafiosi che fra qualche giorno lo uccideranno.»

Pubblicata il 10 agosto, l’intervista è tutt’altro che conciliante. Pur conservando toni pacati da uomo di Stato qual è, il generale manifesta apertamente la sua delusione e dopo aver lamentato il ritardo del governo nell’assegnargli i poteri promessi da Spadolini il 2 aprile, spiega a Bocca:

«Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza. Mio padre al tempo di Mori comandava i carabinieri di Agrigento. Mori poteva servirsi di lui ad Agrigento e di altri a Trapani a Enna o anche Messina, dove occorresse. Chiunque pensasse di combattere la mafia nel “pascolo” palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo. […] Ho idee chiare, ma capirà che non è il caso di parlarne in pubblico. Le dico solo che le ho già, e da tempo, convenientemente illustrate nella sede competente. Spero che si concretizzino al più presto. […] Sono di certo nella storia italiana il primo generale dei carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell’interesse dello Stato.»

Poi, lanciando un messaggio a Roma, aggiunge:

«Ma sì, e con un certo ottimismo, sempre che venga al più presto definito il carattere della specifica investitura con la quale mi hanno fatto partire. Io, badi, non dico di vincere, di debellare, ma di contenere. Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla Mafia il suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati.»

Nell’intervista trapela una certa delusione: il governo gli aveva assicurato il coordinamento della lotta alla mafia, ma finora da Roma nessuno s’è fatto vivo. A Bocca che gli chiede: «Se non ottiene l’investitura formale che farà? Rinuncerà alla missione?», il prefetto risponde: «Vedremo a settembre. Sono venuto qui per dirigere la lotta alla Mafia, non per discutere di competenze e di precedenze. Ma non mi faccia dire di più».

Le parole utilizzate nel corso della conversazione con il giornalista sono scelte con cura. Contengono la speranza di scuotere la freddezza di quanti lo hanno spedito fin laggiù lasciandolo a combattere con una spada di latta contro un nemico che dispone di un arsenale sterminato. Che stia soffrendo parecchio perché sente di essere lasciato solo, lo sostiene pure Giorgio Bocca che anni dopo riferirà ai magistrati:

«Durante il nostro colloquio ebbi la netta sensazione che si sentisse isolato e molto inquieto per le continue intimidazioni di natura mafiosa che riceveva, anche da parte di esponenti politici locali. Nel corso dell’intervista, parlò telefonicamente con persone a me ignote, ma che credo fossero autorità locali; notai che il prefetto si lamentava con esse che, dietro ad un ossequio formale, non vi fosse una reale volontà di collaborare con lui… Egli, in realtà, si mostrava deluso di Spadolini e Rognoni i quali ancora, nonostante le promesse, non gli avevano dato i necessari poteri per una seria lotta alla mafia. […] Dalla Chiesa mi prospettò, come unico sistema per contenere il fenomeno mafioso, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica, in modo da creare una coscienza collettiva antimafia. Mi confidò, altresì, le sue riserve nei confronti della classe politica e burocratica siciliana, da lui ritenute in gran parte coinvolte nel fenomeno.»

Il mese di agosto non è rovente solo per le temperature. L’11 viene assassinato Paolo Giaccone, un’altra vittima scivolata nel dimenticatoio: è un medico e docente universitario, la mafia lo uccide perché non ha ceduto alle minacce per taroccare una perizia dattiloscopica con la quale, come poi accadde, un killer sarebbe stato condannato all’ergastolo.

Attorno a Dalla Chiesa il clima si è fatto pesante e lui si sente sempre più in difficoltà. Anche la moglie non è serena. I genitori le consigliano di tornare al nord per qualche giorno, ma lei non se la sente di lasciare da solo il suo Carlo. Dirà la madre Antonietta:

«Negli ultimi giorni Emanuela ci chiamava spesso da Palermo. E io, come tutte le madri quando sono noiose, insistevo: tesoro vieni qui, torna a trovarci. Inventavo mille scuse, che stavo poco bene e altre cose così. E lei mi diceva: ma mamma, non capisci che l’hanno lasciato solo, che io devo restare con lui, tenergli la mano. Qualunque cosa succeda. Ricordo che l’ha detto tre giorni prima di mancare: qualunque cosa succeda. […] Non era una sciocchina. Carlo Alberto diceva molte cose a Emanuela. Emanuela sapeva molte cose. Da Palermo mi raccontava: le telefonate, gli avvertimenti. […] Il generale le riferiva di questi episodi, che a me sembravano incredibili. Lui trovava spesso sulla sua scrivania, o nel cassetto, biglietti con ripetuto questo avvertimento. Qualcuno manovrava, ed era in grado di arrivare così vicino a lui. Emanuela aveva un suo centralino telefonico, che usava solo lei, che era riservatissimo. Eppure tre giorni prima di morire, anche lei ha ricevuto una telefonata non certo bella. Lei, io credo, pensava di più a queste cose: stava a casa, aveva più tempo per pensare.»

Dalla Chiesa oramai non ha più dubbi: lo hanno lasciato solo. La sensazione di isolamento la avverte in maniera inequivocabile durante le vacanze a Prata, nell’Avellinese, che trascorre insieme ai figli. Sono giorni tutt’altro che sereni, come riferirà il figlio Nando ai giudici di Palermo, raccontando la tensione di quel periodo e il convincimento che dietro certe resistenze ci fossero esponenti di primissimo piano della dc:

«Nonostante le assicurazioni, mio padre, ad un certo punto, si accorse che le promesse del Governo non erano state mantenute, per cui cercò in tutti i modi di ottenere quei poteri di coordinamento necessari per impostare una seria lotta alla mafia; cercò, all’uopo, di contattare tutti gli esponenti politici di rilievo, ottenendo solo assicurazioni non seguite dalla concessione dei poteri. Mio padre, in proposito, mi espresse il suo convincimento che gli esponenti locali della D.C. facevano pressioni perché non venissero concessi quei poteri indispensabili per la lotta alla mafia. Mi disse, in particolare, che fieri oppositori alla concessione di tali poteri erano gli andreottiani, i fanfaniani e parte della sinistra D.C. Soggiunse che tale opposizione era dovuta al fatto che “vi erano dentro fino al collo”, ma non ricordo se si riferisse a tutte le predette correnti della D.C. o solo ad alcune. Fra gli esponenti politici che, ad avviso di mio padre, erano maggiormente compromessi con la mafia, egli mi fece i nomi di Ciancimino e di Salvo Lima; del resto, tale suo convincimento egli lo aveva già espresso alla Commissione Antimafia. Mi disse che, della sinistra D.C. il più freddo nei suoi confronti era il ministro Marcora. Mi risulta, per aver assistito ad una conversazione fra mio padre ed il suo amico di Prata, mio padre stesso intendeva assicurare la D.C. e, per essa, il suo segretario politico De Mita, col quale avrebbe voluto incontrarsi, ma che qui doveva togliere, in Sicilia, le persone maggiormente compromesse, così consentendogli di svolgere una efficace lotta alla mafia. Questo suo amico, il geom. Meluccio di Prata, contattò un senatore D.C., eletto nella circoscrizione di Avellino, per procurare a mio padre un incontro con De Mita, ma il senatore, che in quel periodo era in vacanza in Sardegna, rispose che il partito riteneva mio padre “un cavallo di Craxi”; […] si convinse, pertanto, che mio padre non era un uomo del PSI, ma un servitore dello Stato. Soggiunse che avrebbe cercato di combinare un incontro fra mio padre e De Mita, poi non si fece più sentire. Ciò avvenne verso ferragosto e mio padre, pur di andar via da Prata (verso il 24 agosto 1982), a mia domanda rispose che De Mita, pur essendo in villeggiatura nei pressi, non si era fatto sentire e mi sembrò piuttosto preoccupato.»

Anche la figlia Rita sottolineerà la solitudine del generale: «Ricordo quell’estate che eravamo nella nostra casa di campagna, mio padre continuava a chiamare dei politici. Mi ricordo che chiamava Rognoni, chiamava Spadolini, tutte persone che gli avevano chiesto di andare a Palermo. Chiamava De Mita, che non era nemmeno a quindici chilometri da noi. Nessuno gli rispondeva. Mio padre è stato un uomo lasciato totalmente solo».

Che il prefetto di Palermo sia oramai vulnerabile lo sanno bene i mafiosi che, come sempre, si dimostrano più veloci dello Stato: mentre Dalla Chiesa resta in attesa di notizie da Roma, Cosa Nostra organizza la sua esecuzione. E invece dei poteri che gli avevano promesso, arrivano i killer. Quando l’idea di abbattere il prefetto comincia a prendere forma, c’è chi pensa di ucciderlo all’altezza di via Libertà, mentre percorre il tratto che separa la prefettura dalla sua residenza di Villa Pajno. L’auto con a bordo il generale, secondo il piano omicida, deve essere bloccata con un camion mentre transita nella corsia preferenziale. Il progetto però presenta alcuni problemi organizzativi e viene accantonato.

Gli ultimi giorni sono particolarmente febbrili. Si sente sempre più solo e accerchiato, come rivelerà il figlio Nando:

«Trascorremmo insieme due settimane nella nostra casa di campagna. Si sentiva a rischio, non protetto. Arrivò da Napoli a Palermo in nave e non c’era nessuno ad attenderlo, lo fecero sbarcare all’alba totalmente solo. Mi parlò dei suoi avversari, mi fece il discorso sugli andreottiani che c’erano “dentro fino al collo”. Sembrava un leone in gabbia, cercava appoggi e sostegni al telefono, gli sbattevano in faccia porte che, all’epoca della lotta al terrorismo, si erano sempre aperte subito. Se ne ha traccia anche nella sua ultima intervista, a Giorgio Bocca. Non era la normale solitudine dell’uomo di legge con la sua coscienza. Era isolamento, uno struggente isolamento.»

Nonostante la consapevolezza di essere esposto a gravi rischi, Dalla Chiesa non immagina che Cosa Nostra possa decidere di colpirlo. Il generale Niccolò Bozzo riferirà alla Commissione stragi:

«Alle nostre raccomandazioni: “Signor generale, faccia attenzione”, eccetera, lui rispondeva: “Tu non puoi capire. Qui è lotta alla mafia, e tu non l’hai mai fatta. La mafia rispetta chi la combatte a viso aperto, come mi ha rispettato la prima volta che sono stato in Sicilia nel 1948-1949; così quando sono stato sette anni a Palermo, andavo in giro da solo”. Mi ha detto: “Io andavo per le campagne da solo con l’autista di notte, per il corleonese”, eccetera. Lui era convinto che lo rispettassero, perché era sì l’avversario ma l’avversario leale.»

Ma il prefetto commette un clamoroso errore di valutazione: la mafia non è più quella del 1948 né quella degli anni Sessanta. La condanna a morte è stata oramai emessa e l’agguato scatta la sera del 3 settembre del 1982.

Le prime vedette della mafia erano posizionate all’esterno della Prefettura, per comunicare via radio l’uscita del generale: due persone a bordo di una moto Honda 900. Il commando si era mosso per le diciannove e aveva scelto come luogo di attesa piazza Nascè. I killer sulla Honda arrivarono, avvisarono un’altra coppia di motociclisti su una Suzuki 750, che a loro volta diedero la notizia agli occupanti delle due macchine in arrivo. Quando passò la A112 guidata da Emanuela, sulla quale viaggiava il generale, e a seguire l’Alfetta 2000 dell’agente di scorta Domenico Russo, una Bmw 520, rubata in città a gennaio e con targa falsa, si accodò. La Bmw superò la A112 affiancandola. Uno dei killer – il finestrino abbassato, le spalle rivolte al cruscotto – fece fuoco con il kalashnikov. Nel frattempo, da una delle moto erano partiti i colpi contro Russo.

Dopo la sventagliata di mitra, uno dei killer scende dalla moto e spara i colpi di grazia sul prefetto e sulla moglie. Russo invece è gravemente ferito alla testa. I primi soccorritori lo trasportano all’ospedale Villa Sofia, dove viene sottoposto a un intervento chirurgico assai complicato che servirà a poco: l’agente morirà alle 10:20 del 15 settembre.

Siamo ancora in estate, e all’ora dell’agguato in genere ci sono un sacco di persone che prendono un po’ di fresco sul balcone. Dunque, gli inquirenti dovrebbero poter contare su un discreto numero di testimoni. Invece solo in cinque si fanno avanti, ma il loro contributo è assai modesto.

È la prima volta che Cosa Nostra uccide un nemico coinvolgendo anche la moglie; poi una seconda volta accadrà nella strage di Capaci quando insieme a Giovanni Falcone e a tre agenti della scorta, morirà anche Francesca Morvillo.

Il giorno dopo sul luogo dell’agguato qualcuno attacca un foglio con su scritto a stampatello: «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti». Nella camera ardente allestita a Palermo arriva anche Rita Dalla Chiesa, una dei tre figli del prefetto, giornalista e conduttrice televisiva. Rita, che evidentemente non ritiene estraneo il mondo politico alla tragedia che l’ha colpita, strappa la corona di fiori della Regione Siciliana posta sulla bara del padre:

«Sulla bara non c’era il tricolore, non c’era il berretto da generale […] Io ricordo di aver preso questa corona della Regione Siciliana, di averla sollevata e buttata fuori dalla stanza. E poi chiesi a un capitano dei carabinieri di andare in prefettura per prendere la sciarpa di papà, il tricolore, il berretto da generale perché mio padre rimane il generale Dalla Chiesa. […] Probabilmente si era messo contro alcuni potenti. Io ho amato e amo profondamente mio padre perché è un uomo che non si è mai nascosto dietro a un dito. Correttezza e lealtà erano le sue doti principali.»

Il giorno dei funerali (che si svolgono nella chiesa Santa Maria delle Grazie a Milano) va in scena un film già visto e rivisto e che, purtroppo, si rivedrà tante altre volte. In tanti si stracciano le vesti, fiumi di lacrime mescolate all’ipocrisia e – in alcuni casi – al cinismo. In chiesa la gente insulta i politici, gli unici a salvarsi dall’ira della folla sono il presidente della Repubblica Sandro Pertini, il segretario del PCI Enrico Berlinguer e il segretario della Cgil Luciano Lama. Il presidente del Consiglio Spadolini dichiara ai giornali:

«Dimostreremo che la democrazia è più forte di qualsiasi organizzazione criminale, per quante vaste siano le protezioni e le coperture di chi essa gode. Molte bande terroristiche sono state sgominate in questi anni nel momento in cui più violento e tracotante si era fatto il loro attacco al cuore dello Stato. Anche il nuovo intreccio sarà neutralizzato.»

Ma qualcosa di grave accade anche nei giorni successivi: la cassaforte nella quale Dalla Chiesa custodiva carteggi importanti, viene trovata inspiegabilmente vuota. E a chi conosceva bene il prefetto, viene in mente una frase ripetuta in almeno un paio di occasioni alla moglie Emanuela: «Se mi succede qualcosa, tu sai dove trovare i documenti». Ecco come il giornalista Salvo Palazzolo ricostruisce la vicenda della cassaforte:

Più o meno in quel frangente della sera, qualcuno bussa al cancello di villa Pajno, in via Libertà. È un ex appuntato dei carabinieri in pensione, Pasquale Termini, che Dalla Chiesa aveva voluto come fidato factotum. Il piantone apre subito. Qualche minuto dopo arriva l’ex economo, Francesco Bubbeo: chiede di prendere dei teli bianchi per coprire i cadaveri. Il piantone fa entrare anche Bubbeo, accompagnato da un agente: forse non sa che quell’uomo non è più l’economo, perché è stato trasferito da qualche settimana da altro incarico, per ordine diretto del prefetto. Nella ricostruzione dei giudici del maxi processo c’è un orario, le due di notte. Passa qualche ora, e spunta un’auto blu davanti al cancello di villa Pajno. Dentro ci sono alcuni funzionari di polizia inviati dalla procura. Mostrano subito il mandato. E anche loro si avviano di fretta verso la palazzina. Guardano sulla scrivania del prefetto, notano che in camera da letto c’è una cassaforte chiusa. Ma non riescono a trovare la chiave. Per giorni la cercano. In casa e in prefettura. La trovano sei giorni dopo, cosa davvero curiosa, in quel secretaire della camera da letto dove tutti l’avevano sempre cercata. Ma nella cassaforte non c’è nulla. Anzi, una cosa c’è. Una scatola verde, vuota. Non si trovano più le carte del prefetto che voleva fare sul serio contro la mafia e le sue complicità eccellenti.

E non è tutto. Agli investigatori il fratello del generale, Romeo, riferisce che Carlo Alberto si stava occupando di un traffico internazionale di armi nel quale erano coinvolte importanti aziende italiane. Ma né in prefettura né a Villa Pajno verranno trovati documenti che riguardano questa vicenda. E i vertici dell’Arma sosterranno di non saperne nulla.

Nel frattempo la lotta alla mafia diventa un massacro. A novembre ammazzano il poliziotto Calogero Zucchetto, nel luglio successivo un’autobomba uccide il consigliere istruttore Rocco Chinnici, due carabinieri della scorta e il portiere dello stabile in cui abitava il magistrato.

Di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della sua tragica fine, insieme a quella della moglie e dell’agente Domenico Russo, si torna a parlare solo nel corso del maxi processo di Palermo, istruito dal pool antimafia. Nell’ordinanza-sentenza “Abbate + 706” ci sono dei passaggi con i quali si prova a fare luce sulle ragioni per cui Cosa Nostra avesse deciso di eliminare il prefetto nonostante non fosse ancora nelle condizioni di nuocere seriamente agli interessi dei mafiosi e di chi li proteggeva:

Persistono delle zone d’ombra sia nelle modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia (praticamente solo e senza mezzi) a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia nella consistenza di specifici interessi, anche all’interno delle istituzioni, volti all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale. […] È certo che Carlo Alberto Dalla Chiesa è stato catapultato in “terra di Sicilia” nelle condizioni meno idonee per apparire l’espressione di una effettiva e corale volontà statuale di porre fine al fenomeno mafioso, di talché Cosa Nostra ha ritenuto di poterlo colpire impunemente perché impersonava soltanto sé stesso e non già, come avrebbe dovuto essere, l’autorità dello Stato. Dalla Chiesa era perfettamente consapevole di essere stato destinato in Sicilia nelle peggiori condizioni per potere assolvere il compito affidatogli, ma ciò non lo aveva indotto a tirarsi indietro. Così egli si esprimeva in quegli immaginari colloqui con la sua defunta prima moglie, che quasi giornalmente annotava in un diario: il diario agenda del 1981 riempita dal prefetto fino alla data della sua destinazione a Palermo, è stato consegnato dal figlio Ferdinando Dalla Chiesa a questo Ufficio che, in considerazione del carattere prevalentemente intimo delle annotazioni, ha provveduto a restituirlo ai familiari dopo averne estratto copia delle parti rilevanti ai fini delle indagini.

Una spiegazione all’imboscata del 3 settembre del 1982 l’ha data la corte di Assise di Palermo, presieduta dal giudice Alfonso Giordano, che per la prima volta, nel dicembre del 1987, ha mandato all’ergastolo centinaia tra boss e picciotti di Cosa Nostra:

Con il massacro di via Carini la criminalità organizzata ha dimostrato di volere e sapere alzare lo sguardo verso traguardi che le erano stati fino allora preclusi. Certamente per il funesto, endemico, e tragico retaggio del terrorismo, in una tracotante frenesia criminale, essa affermava col delitto Dalla Chiesa che non era consentito a nessuno opporsi alle sue mire egemoniche e che tutto in Sicilia doveva essere ad essa subordinato. La venuta di Dalla Chiesa, preceduta da un clamoroso battage giornalistico, suonava da un lato minaccia, dall’altro, facendo leva sulla figura quasi leggendaria di chi aveva saputo combattere il terrorismo, costituiva per la mafia un gravissimo pericolo, ove egli fosse riuscito a costituire come da ogni parte si auspicava e come appariva a tutta prima ben possibile un punto di riferimento delle coscienze libere ed oneste, un incoraggiamento concreto ed efficiente a vivere e a lavorare serenamente, rifiutando i condizionamenti di losche trame predatrici.

Come già detto all’inizio, il caso dalla Chiesa non può considerarsi chiuso nonostante l’esito di inchieste e processi. E a questo proposito il figlio Nando scriverà:

«La verità è che il generale-prefetto Dalla Chiesa è per questo Paese un nervo scoperto. Lo è per la sua fine. Lo è per quanto ha fatto in vita. Contro il terrorismo ha messo a prova durissima la cultura e l’identità della sinistra, le sue incrostazioni ideologiche, i suoi pregiudizi. […] Ma il generale-prefetto ha messo in discussione anche la cultura e le convinzioni dell’Italia ex democristiana e moderata. Obbediente al potere delle istituzioni, ha ossequiosamente detto alla Commissione antimafia quali fossero già nei primissimi anni Settanta i rapporti tra mafia e Dc, tra mafia e forze di governo. […] E poi ha detto con i suoi comportamenti che un conto è servire le istituzioni, un conto è servire i partiti.»

Per Rita dalla Chiesa non ci sono dubbi sulla matrice dell’agguato: non è stata solo Cosa Nostra: «Io posso perdonare la mano che ha ucciso mio padre. Non posso perdonare chi ha detto a questi ragazzi “andate e ammazzate Dalla Chiesa”. Io sono stata una delle prime a credere in una commistione tra Stato, politica e mafia».