6 Agosto 1985 Palermo. Uccisi il commissario Antonino (Ninni) Cassarà e Roberto Antiochia, agente che gli stava facendo volontariamente da scorta.

Foto da cadutipolizia.it

Antonino (Ninni) Cassarà fu ucciso insieme al collega Roberto Antiochia il 6 Agosto 1985 in un agguato mafioso in viale Croce Rossa a Palermo. Ninni Cassarà era il vicedirigente della Squadra mobile di Palermo ed era riconosciuto come uno dei migliori investigatori della Polizia del capoluogo siciliano. Aveva guidato insieme ai colleghi americani l’operazione denominata “Pizza Connection” che aveva portato all’arresto di decine di mafiosi tra Italia e Stati Uniti e guidato molte operazioni contro la mafia, insieme al suo amico e stretto collaboratore Beppe Montana ( assassinato dalla mafia il 28 Luglio ), sotto il coordinamento del pool antimafia della procura di Palermo.
Intorno alle 14,30 del 6 Agosto il vicequestore Cassarà stava facendo rientro a casa, in Viale Croce Rossa a Palermo, insieme a tre collaboratori della propria sezione, uno dei quali era l’agente Roberto Antiochia, il quale, pur prossimo al trasferimento per Roma, dopo l’omicidio del commissario Montana aveva deciso di rimanere accanto al proprio dirigente. Quando l’Alfetta blindata con i quattro poliziotti entrò nel cortile del palazzo dove abitava il vicequestore Cassarà, dall’ammezzato di un edificio vicino, le cui finestre davano sul cortile interno una decina di mafiosi armati di Kalashnikov fecero fuoco. Il vicequestore Cassarà e l’agente Antiochia morirono sul colpo, falciati da decine di proiettili. Un terzo agente venne gravemente ferito. Il quarto agente, l’assistente Natale Mondo, si salvò per miracolo riparandosi sotto alla vettura.
Almeno tre degli assassini vennero eliminati dalla mafia negli anni successivi, altri vennero arrestati e condannati all’ergastolo per l’assassinio di Ninni Cassarà e Roberto Antiochia.I mandanti del delitto vennero arrestati negli anni successivi ed attualmente stanno scontando l’ergastolo. L’Assistente Natale Mondo, sfuggito alla morte insieme a Cassarà e Antiochia venne assassinato dalla mafia il 14 gennaio 1988. Il vicequestore Ninni Cassarà era sposato e padre di due figli. L’agente Roberto Antiochia avrebbe dovuto sposarsi pochi mesi dopo. Per onorarne la memoria la Scuola POL.G.A.I di Pescara è stata intitolata al suo nome. (“Da cosa nasce cosa” di Alfio Caruso, ed. Longanesi &c)
Nota da  cadutipolizia.it

 

 

Fonte: it.wikipedia.org
Antonino Cassarà, detto Ninni (Palermo, 7 maggio 1947 – Palermo, 6 agosto 1985), è stato un poliziotto italiano, vittima della mafia.

Nato il 7 maggio 1947, Commissario della Polizia di Stato nella Questura di Reggio Calabria e poi a Trapani, dove ebbe modo di conoscere Giovanni Falcone. Fu poi Vice Questore Aggiunto in forza presso la Questura di Palermo e il vice dirigente della squadra mobile. Nel 1982 andava in giro per Palermo insieme all’agente Calogero Zucchetto per indagare sui clan di Cosa nostra. In quest’occasione lui e Zucchetto riconobbero i due killer latitanti Pino Greco e Mario Prestifilippo, ma non riuscirono ad arrestarli perché questi scapparono. Tra le numerose operazioni cui prese parte, molte delle quali insieme al commissario Giuseppe Montana, la nota operazione “Pizza Connection”, in collaborazione con forze di polizia degli Stati Uniti.
Cassarà fu uno stretto collaboratore di Giovanni Falcone e del cosiddetto “pool antimafia” della Procura di Palermo e le sue indagini contribuirono all’istruzione del primo maxiprocesso alle cosche mafiose. Era sposato e padre di tre figli. Fu ucciso dalla mafia nel 1985, all’età di 38 anni.

Il 6 agosto 1985, rientrando dalla questura nella sua abitazione di via Croce Rossa (al civico 81) a Palermo a bordo di un’Alfetta e scortato da 2 agenti, scese dall’auto per arrivare al portone della sua abitazione quando un gruppo di nove uomini armati di fucile AK-47, appostati sulle finestre e sui piani dell’edificio in costruzione di fronte alla sua palazzina (al civico 77), sparò sull’alfetta. L’agente Roberto Antiochia, che era uscito dall’auto per aprire lo sportello a Cassarà, venne violentemente colpito dagli spari e morì, e Natale Mondo restò illeso (ma sarebbe stato ucciso anch’egli il 14 gennaio 1988). Cassarà, che era stato colpito dai killer quasi contemporaneamente ad Antiochia, spirò sulle scale di casa tra le braccia della moglie Laura, accorsa in lacrime dopo aver visto l’accaduto insieme alla figlia dal balcone della sua abitazione. È seppellito nel Cimitero di Sant’Orsola a Palermo.

Il 17 febbraio 1995, la terza sezione della Corte d’Assise di Palermo ha condannato all’ergastolo cinque componenti della Cupola mafiosa (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Bernardo Brusca e Francesco Madonia) come mandanti del delitto.

 

 

Fonte: it.wikipedia.org

Roberto Antiochia (Terni, 7 giugno 1962 – Palermo, 6 agosto 1985) è stato un poliziotto italiano.

Agente della Polizia di Stato, nato a Terni, entra a diciotto anni nella scuola di Polizia di Pescara e, successivamente, fu trasferito a Milano, Torino e Roma. La sua ultima destinazione, nel giugno 1983 fu quella presso la squadra Mobile di Palermo lavorò con Beppe Montana in delicate indagini sull’associazione mafiosa Cosa Nostra. Dopo l’omicidio di Montana, in ferie ma già trasferito a Roma, decise di partecipare alle indagini a fianco di Ninni Cassarà.
Il 6 agosto 1985, mentre accompagnava il Vice Questore Cassarà presso l’abitazione in via Croce Rossa a Palermo, circa 10 uomini armati di Kalashnikov  appostati nei piani del palazzo di fronte a quello del vice questore cominciarono a sparare sull’Alfetta di scorta. Antiochia, cercando di fare scudo con il suo corpo a Cassarà che era sceso dall’auto per riaggiungere il portone di casa, rimarrà ucciso dagli spari. Cassarà, rimasto ferito dagli innumerevoli spari dei mitra, riuscirà a raggiungere le scale del portone ma morirà mentre le sta salendo.

A Roberto Antiochia sono dedicati la via antistante la Questura di Terni e il commissariato di Orvieto (in Provincia di Terni), vista la sua nascita e la sua infanzia nella città umbra.
E’ ricordato ogni anno il 21 marzo nella Giornata della Memoria e dell’Impegno di Libera, la rete di associazioni contro le mafie, che in questa data legge il lungo elenco dei nomi delle vittime di mafia e fenomeni mafiosi.

 

 

 

Articolo da La Repubblica del 7 Agosto 1985
DUECENTO COLPI DI KALASHNIKOV
di Leonardo Coen

PALERMO – Scatenata, la mafia all’ attacco, come in guerra. Un commando di almeno sette killer tre dei quali armati di mitra e kalashnikov ha teso ieri pomeriggio un agguato al commissario Antonio “Ninni” Cassarà, trentotto anni, tre figli dai due ai tredici anni, uccidendolo sui gradini del portone di casa mentre rientrava alle 15,30. Duecento colpi di mitra che hanno stroncato anche la vita di uno degli agenti di scorta, il giovane Roberto Antiochia di ventitrè anni. Poteva essere un massacro: perchè Cassarà era arrivato con la sua Alfetta bianca blindata targata 728966 accompagnato da tre uomini della Squadra mobile. L’ autista, Monti, si è salvato gettandosi sotto l’ auto. Giovanni Salvatore Lercara, venticinque anni, scivolando provvidenzialmente a terra ha battuto con la fronte il primo gradino del portone, al numero 81 della via Crocerossa, ferendosi leggermente (avrà quattro punti di sutura). Siamo nel quartiere residenziale di San Lorenzo, dalle parti dello stadio della Favorita, poco distante dall’ ospedale Villa Sofia. Laura, la moglie del commissario, era affacciata alla finestra, al secondo piano. Ha assistito allucinata alla scena, ha avuto la forza di scendere le scale gridando disperata aiuto. Giù, il suo uomo, agonizzando, si trascinava sui cinque gradini dell’ ingresso, lasciandosi dietro una lunga striscia di sangue, chiamandola per nome, cercando di entrare lo stesso a casa. Ha sollevato la testa, il commissario, ha visto Laura e lei gli si è gettata addosso, un ultimo inutile e impotente abbraccio. E’ morto così questo commissario che da dieci anni lottava contro la mafia, cinque dei quali passati in prima linea proprio a Palermo. Lottava con i suoi uomini sotto choc per la drammatica morte di Salvatore Marino, lottava senza mezzi, al limite della sopportabilità: “turni massacranti, pochi aiuti eppure noi abbiamo fatto miracoli in questa guerra” hanno gridato esasperati i compagni di lavoro di Cassarà, vice di Francesco Pellegrino, il capo della Mobile allontanato dall’ incarico lunedì, dietro direttive impartite dal ministero. Negli ultimi tempi Cassarà lavorava assieme a Giuseppe Montana, il capo della sezione “catturandi” assassinato al molo di Porticello dieci giorni fa. Dopo questo delitto, aveva capito qual era il pericolo della polizia, si rischiava di restare isolati. La frontiera antimafia, una frontiera al massacro: “Senza il nostro sangue molti Soloni non avrebbero pontificato nè convegni e nè summit” aveva dichiarato polemico. Eccolo ora là, su quei cinque gradini, la testa spappolata da proiettili che perforano l’ acciaio. I killer hanno sparato da trenta metri, nascosti nella casa di fronte. Dovevano essere lì da almeno un’ ora. Ogni giorno, infatti, il commissario tornava a pranzo nell’ intervallo fra le due e le tre del pomeriggio. Ieri aveva ritardato un po’ perchè, “saltato” Pellegrino, di fatto era diventato lui l’ uomo guida della Mobile palermitana. E’ stato un agguato preparato minuziosamente. Da professionisti che hanno curato ogni particolare. Via Crocerossa è una strada lunga, stretta, a senso unico. Prima di arrivare all’ ingresso di casa del commissario si deve superare il palazzo contrassegnato dal numero 77. Al pianoterra ci sono gli uffici dipartimentali Aci 4 di Palermo. C’ è sempre via vai, dunque, su guel pianerottolo. Ed è qui che possono entrare, senza essere troppo notati, i tre killer. Si sono piazzati nelle scale di servizio dello stabile alto tredici piani, quelle cioè che danno sul cortile del complesso Castagna e che fronteggiano il palazzo numero 81, quello dove appunto abitava il commissario. I mafiosi sanno che l’ auto blindata accompagna il dirigente della Mobile fin sotto il portone. Davanti, ci sono dei grandi portafiori. Sette metri e 80 centimetri dall’ ingresso all’ auto, stabilirà più tardi la scientifica. Se sparano sull’ automobile, i killer rischiano di fallire il bersaglio. Devono perciò calcolare quanti secondi hanno a disposizione, dal momento cioè che i poliziotti scendono dall’ Alfetta al momento in cui entrano definitivamente nel palazzo. Devono dunque essere dei professionisti, i più abili del crimine. Una squadra del delitto che la mafia deve adoperare per i lavori più difficili. L’ imboscata non è un episodio isolato: deve far parte di un piano più articolato, un disegno “di potenza e di intimidazione della mafia” nei confronti di chi li sta combattendo con grande efficacia. E’ anche un momento particolare, questo che sta attraversando la Mobile palermitana. Sembra quasi che i cervelli di questo piano abbiano messo in conto anche la tensione, l’ ostilità e le polemiche che hanno colpito la Questura di Palermo, soprattutto dopo la misteriosa morte di Salvatore Marino avvenuta durante un interrogatorio quattro giorni prima. Domenica 28 luglio sono stati regolati i conti con il commissario Montana, ormai divenuto troppo pericoloso per la mafia. Poi, ad alimentare la confusione, c’ è stato l’ ambiguo funerale di Marino alla Kalsa, uno dei capisaldi della mafia tradizionale cittadina, dove si è vista gente che se la prendeva con la polizia e che chiedeva giustizia. E martedì 6 agosto, puntuale, è arrivata la vendetta mafiosa. Più che mai un’ irridente prova di forza. I killer dunque sono ben appostati. Aspettano che i complici fuori dal complesso Castagna li avvertano. Un’ auto civetta, una Fiat Ritmo 70 color aviazione con targa falsa PA 701439 è in attesa del segnale. Un’ altra auto, una Giulietta 1800 marrone scuro servirà per la prima parte della fuga. Una terza auto controlla la situazione. Cassarà arriva che sono le 15,30. Fa caldo, lo scirocco porta dall’ Africa umidità e nuvole. La sua Alfetta bianca svolta, come sempre, nel cortile, sulla destra. Imbocca lo stradino che porta al numero 81. In via Crocerossa, subito, la Ritmo avanza di qualche metro piazzandosi proprio a metà dell’ ingresso, di traverso, per impedire l’ accesso ad altre eventuali vetture. Contemporaneamente dalle finestre delle scale interne del palazzo 77 spuntano tre canne corte di mitra. Sono al secondo, al terzo, al quarto piano. L’ Alfetta ha frenato. Si spalancano le porte. Al secondo piano, ignara che di fronte a lei ci sono gli assassini della mafia che le ammazzeranno il marito, c’ è Laura Cassarà. Saluta con la mano Ninni. Forse era preoccupata del ritardo. Il commissario ricambia il saluto, scende dall’ automobile, accompagnato dall’ agente Antiochia, povero figlio, volontario in questa scorta perchè si trovava in vacanza da queste parti e si era messo a disposizione della Mobile palermitana dopo l’ uccisione di Montana. Poi, secco, improvviso il rumore: cinque lunghissimi secondi, raffiche furibonde di mitragliatrice. Vanno in frantumi i vetri dell’ entrata, sull’ intonaco spuntano cinque fori. Cadono stramazzati a terra Antiochia e il commissario, nel cortile due uomini incappucciati corrono freneticamente: evidentemente stavano lì a coprire l’ azione dei tre che hanno sparato. I killer, intanto, lasciano imperturbabili le scale da dove hanno esploso le raffiche. Escono dal numero 77, saltano dentro le auto per la fuga. Più tardi la Giulietta 1800 verrà trovata bruciata in viale Lazio. Pochi minuti dopo, un’ ambulanza arriva al pronto soccorso dell’ ospedale Villa Sofia. Non c’ è nulla da fare: Antiochia muore, anche a lui hanno spappolato il cervello. In via Crocerossa, si precipitano poco per volta tutti gli uomini dello Stato che a Palermo combattono ad “armi impari” questa lunga interminabile battaglia contro la mafia. Arrivano i colleghi di Cassarà, piangono, gridano furibondi “bastardi”, bastardi a tutti quelli che gli hanno impedito di lavorare come avrebbero potuto, bastardi a quelli che li hanno criminalizzati per l’ affare Marino. “La polizia è sola”, ce l’ hanno con la stampa, l’ esasperazione è comprensibile perchè “ci troviamo con le mani legate: da anni qui a Palermo chiediamo mezzi, chiediamo rinforzi, chiediamo nuove tecnologie. Lo Stato ha combattuto il terrorismo adeguando le proprie forze, la lotta alla mafia invece procede come dieci, vent’ anni fa. Siamo diventati carne da macello”. Sono agenti che lavorano da anni alla Mobile, conoscevano bene Cassarà. Sfogano dunque la loro rabbia e il loro dolore questi agenti mentre sfilano i magistrati del pool antimafia, Falcone, Antonio Caponnetto, “siamo in guerra e qualcuno non l’ ha capito e non lo vuol capire”. Vincenzo Paino, procuratore capo dice: “Dovete comprendere questi ragazzi vanno lasciando il sangue in mezzo alla strada, rischiano la vita giorno per giorno, qui siamo in guerra, dovete farlo capire a chi di dovere”. Arriva il sindaco Leoluca Orlando Cascio, altri magistrati e carabinieri. Noialtri non abbiamo più il coraggio di fiatare. Alle 17,30 un furgoncino nero Fiat 850 porta via la salma di Cassarà, seguita da cinque auto della Mobile. A Palermo è stato dichiarato il lutto cittadino. Oggi, alle 15,30, i funerali del commissario.

 

 

 

Articolo da La Stampa del 7 Agosto 1985
TRE ANNI NELLA NOSTRA CITTA’ POI A PALERMO LA MORTE
Commozione in questura per l’agente ucciso

Roberto Antiochia, l’agente di polizia ventitreenne ucciso a Palermo insieme con il vicecapo della Mobile Antonio Cassarà, aveva prestato i suoi primi tre anni di servizio come autista presso la Questura di Torino, nella «buoncostume» e nella «catturandi», distinguendosi, ricordano i colleghi, per il coraggio e l’instancabilità, ma anche per la disponibilità umana e il carattere estroverso. Proprio queste sue doti gli sono probabilmente costate la vita. A Palermo era stato Infatti per diversi mesi l’autista del commissario Giuseppe Montana, il dirigente della sezione catturanti assassinato dal killer della mafia il 28 luglio a Porticello, e Antiochia, che nel frattempo aveva riottenuto il trasferimento a Roma (sua seconda sede dopo Torino), aveva subito chiesto l’invio in missione speciale nella città siciliana per collaborare.
Immediatamente al lavoro, non aveva esitato a offrirsi volontario per uno dei compiti più pericolosi: far parte della scorta di uno degli uomini più impegnati ed esposti nella lotta contro la criminalità organizzata siciliana, il vicecapo della Mobile «Ninni» Cassarà, dall’altro ieri ancor più nell’occhio del ciclone dopo il provvedimento «cautelativo» che aveva colpito il suo diretto superiore, il dirigente della Mobile Francesco Pellegrino, in conseguenza della morte in Questura, in circostanze misteriose, di Salvatore Marino.
Ieri alle 15,20 stava per salire in casa di Cassarà, che l’aveva invitato a pranzo (e l’ora indica chiaramente come il lavoro del poliziotti, soprattutto nelle città più «calde», costringa spesso a Ignorare regolarità di orari e a dimenticare i momenti distensivi in famiglia): le raffiche micidiali del Kalashnikov li hanno falciati Inesorabilmente sulla soglia, insieme.
La mafia aveva voluto dare un’altra prova della propria capacità di colpire chi, come e quando preferisce, e forse anche approfittare della situazione, dello sbandamento successivo alla morte di Marino, tornando a presentarsi, all’antica, come «vendicatrice» del «torti» subiti dalla gente del popolo.
A Torino Roberto Antiochia, originarlo della provincia di Terni, era giunto nel settembre dell’82, appena uscito dalla scuola di polizia. Alto, atletico, i capelli rossi che lo distinguevano fra i tanti agenti bruni, ottimo conducente, era stato presto assegnato ai «servizi speciali», sovente incaricato di guidare le auto blindate di personaggi in vista, non solo fra gli alti gradi della polizia.
Fra coloro che lo ricordano meglio il dottor Biagio Pellegrino, ex dirigente della buoncostume da un mese delegato a dirigere il commissariato Mirafiori. Antiochia aveva collaborato a lungo con lui: ‘Quando ho saputo, sono rimasto Incredulo. Roberto era un ottimo elemento, coraggioso, fidato, Instancabile — ricorda Pellegrino —. Aveva anche uno splendido carattere, aperto, gioviale. Eravamo diventati amici. Ieri sera ho telefonato a sua madre, a Roma: piangendo, mi ha detto che il figlio aveva voluto assolutamente tornare a Palermo per prendere gli assassini di Montana. Lei aveva paura, l’aveva pregato di fare attenzione. Roberto aveva tanti amici nella polizia, mi ha ripetuto, venite tutti ai funerali, ora siete tutti miei figli».
E’ per stare vicino alla madre, vedova, che Antiochia aveva chiesto e ottenuto, dopo tre anni, il trasferimento a Roma. Poi, però, era stato mandato a Palermo: là l’incontro con il commissario Montana, anch’egli fra i più impegnati contro la criminalità organizzata. Anche con Montana, il giovane agente aveva intessuto rapporti che oltrepassano la collaborazione nel lavoro: era già ritornato a Roma, ma la notizia del suo omicidio lo ha riportato subito, generosamente, in Sicilia. Anche il suo nome verrà ora Iscritto nella ‘lapide nuova’ che il ministro Scalfaro pochi giorni fa, al funerali di Montana, temeva «con orrore» di dover vedere affissa nella Questura di Palermo.
al. rig.

 

 

 

Articolo da La Repubblica dell’8 Agosto 1985
‘DAREI LA MIA VITA PER DIFENDERE NINNI’
di Umberto Rosso

PALERMO – Un esempio, straordinario, di affetto. Roberto Antiochia, 23 anni, fulminato nell’ agguato di via Crocerossa dalla pallottola corazzata che gli ha spappolato il cervello, si era unito come “volontario” alla scorta del vice questore Cassarà. Non avrebbe dovuto essere lì, ma lontano: ad Ostia, dove fino a una decina di giorni fa si trovava in ferie. S’ era precipitato a Palermo non appena saputo dell’ omicidio del commissario Montana, con il quale aveva lavorato a lungo. Aveva chiesto di “rientrare” temporaneamente, anche se ormai era in forze alla Criminalpol di Roma; di poter collaborare al lavoro investigativo, scegliendosi uno dei posti più pericolosi: si era aggregato ai tre angeli custodi del vice capo della Mobile. Esposto in prima fila, ma da qui avrebbe potuto seguire meglio, in posizione “privilegiata” le indagini sulla morte del suo ex capo, Beppe Montana. E avrebbe protetto Cassarà. Non era solo abnegazione, fedeltà, dovere. Ma amicizia, affetto: “Darei la vita per difendere Montana e Cassarà”, aveva detto Roberto Antiochia. Questa è la sua storia. Era nato a Terni, nel giugno del ‘ 62, ultimo di tre fratelli: Raffaele, che oggi ha 32 anni, e Corrado, di 24, rappresentanti di commercio. A diciotto anni, Roberto decide di entrare in polizia, e frequenta la scuola di Piacenza. Dopo l’ addestramento, la sua prima destinazione è una sede che scotta: Palermo. Ma il giovanissimo agente non tarda ad ambientarsi, a crearsi amicizie, guadagnarsi la stima di colleghi e superiori. Entra a far parte del nucleo che scorta Ignazio D’ Antone, che guida ora Criminalpol e Squadra Mobile. Poi, eccolo nella sezione “catturandi”, a dar la caccia ai latitanti, fianco a fianco con il dirigente Beppe Montana. E anche al commissario ucciso dieci giorni fa, Roberto protegge le spalle. Alto, dinoccolato, rosso di capelli, è difficile che il giovane agente passi inosservato, con quel suo modo di portare la pistola, avvolta in una calzamaglia e infilata nella cintura dei jeans. Durante gli anni trascorsi nella trincea palermitana ha modo di imparare il mestiere: “Un mestiere infame, senza mezzi e pieno di sacrifici, in una città che neanche partecipa ai funerali dei poliziotti”, aveva detto pochi giorni fa. Ma nonostante le difficoltà lavora con passione e con metodo, impara a conoscere i segreti della mafia. Poco tempo gli rimane per stare insieme alla sua ragazza, Cristina, 22 anni. La madre, Saveria Gandolfi, 63 anni, che è rimasta a Roma dopo la morte del marito Marcello (infarto), ricama e dipinge per arrotondare le entrate. Sta però in ansia per quel figlio lontano. Così, qualche mese fa, Roberto Antiochia ottiene il trasferimento: “reparto autonomo” della Criminalpol. Ma ricorda con nostalgia gli amici lasciati alla Mobile di Palermo. Domenica 28 luglio. Roberto è in ferie, ad Ostia, quando apprende della morte di Beppe Montana. Non ci pensa due volte, prende l’ aereo che lo riporta in Sicilia: prima ai funerali a Catania, poi a Palermo. Rinuncia alle ferie, torna al fianco dei suoi colleghi, si tuffa nel lavoro investigativo: per scoprire gli assassini di Montana e per proteggere Cassarà. E pur di stargli vicino, Roberto si era arrangiato alla meglio in questi due giorni di soggiorno palermitano. “Dove andrai a dormire stanotte?”, gli chiedeva il vice capo della Mobile. E lui: “Non si preoccupi: un letto lo troverò anche stavolta”. Alle 15 e 20 di ieri l’ altro, il corpo di Roberto Antiochia era riverso accanto a quello di Ninni Cassarà: con la testa squarciata, e altre due pallottole nelle gambe.

 

 

 

Articolo da La Repubblica del l’8 Agosto 1985
ERA PREPARATO DA MESI L’ AGGUATO A CASSARÀ

PALERMO (g. c.) – Gli inquirenti non hanno dubbi. L’ attentato contro il vice dirigente della Squadra mobile Ninni Cassarà era preparato da tempo. La mafia aspettava il momento più opportuno, il clima più favorevole per decapitare la Squadra mobile. E la misteriosa morte di Salvatore Marino potrebbe essere stata un semplice detonatore. E’ questo il punto di partenza di un’ indagine che si presenta difficile e complessa mentre la città viene presidiata quasi in stato di guerra da polizia, carabinieri e Finanza (in mattinata all’ aeroporto di Punta Raisi sono arrivati i primi rinforzi inviati dal Continente) che hanno istituito posti di blocco ovunque, controllando centinaia di persone. In Questura durante la notte sono sfilate cinquanta famiglie che abitano al numero 77 di via Crocerossa da dove i killer hanno sparato i colpi di Kalashnikov che hanno ucciso il vice questore Cassarà e l’ agente Roberto Antiochia. In tutto un centinaio di persone (tra cui il portiere dello stabile) salite su due pullman e interrogate nel tentativo di arrivare al gruppo di fuoco che ha eseguito la strage. Gli inquirenti infatti ritengono che sia impossibile che nessuno abbia visto nulla. Anche se l’ azione del commando è stata fulminea. Nello stabile antistante l’ abitazione di Cassarà i killer sono entrati pochi minuti prima di mettere in azione i micidiali mitragliatori Kalashnikov. Quasi sicuramente sono stati avvertiti via radio dell’ arrivo del vice dirigente della Squadra mobile da un’ auto civetta che seguiva i movimenti del funzionario. Era questo l’ unico modo per agire con sicurezza, con pochi rischi e sapendo con certezza il momento in cui Cassarà avrebbe lasciato la caserma Cairoli. Da una settimana il vice questore aveva modificato, se pur di poco, gli orari di rientro a casa. Martedì si era soffermato alla Squadra mobile fino alle 13,20. Una giornata massacrante. La sera precedente il ministro dell’ Interno aveva annunciato lo spostamento “ad altri incarichi” del capo della Mobile Pellegrino e del responsabile della sezione antirapine Russo. Di fatto dunque era Cassarà il nuovo dirigente della caserma Cairoli. Un quarto d’ ora dopo le 15 il vice questore aveva telefonato alla moglie all’ ottavo piano di via Crocerossa 81. Una precauzione in più. Da lì Laura Cassarà poteva vedere la presenza di auto sospette ferme nella zona. Dieci minuti dopo il giovane funzionario ha varcato il cancello del complesso residenziale in cui abitava: ha appena avuto il tempo di scendere dall’ Alfetta blindata e di salutare la sua compagna. Dalle bocche dei tre Kalashnikov usati per l’ agguato sono partiti almeno 200 colpi (i periti stanno controllando adesso se siano uguali a quelli che hanno ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa). Tre hanno raggiunto in pieno Cassarà; altrettanti hanno colpito l’ agente Antiochia facendogli esplodere il cervello. Gli altri due uomini della scorta (uno è rimasto leggermente ferito ed è stato già dimesso dall’ Ospedale Villa Sofia) si sono salvati facendosi scudo con l’ alfetta blindata. Cassarà ha avuto ancora la forza di fare qualche passo, è morto fra le braccia della moglie. Secondo una ricostruzione più dettagliata il commando operativo era composto da una decina di uomini mentre altrettanti sono stati utilizzati con compiti di appoggio e copertura. “Un vero plotone. Possibile che nessuno abbia visto nulla notato qualcosa di anomalo?” Si chiedeva ieri mattina un magistrato a Palazzo di Giustizia. E’ per questo che sono sfilate negli uffici della mobile tutti gli abitanti dello stabile utilizzato dai killer come base d’ appoggio (con i loro Kalashnikov si sono affacciati dalle finestre di servizio del secondo, terzo e quarto piano e hanno fatto fuoco da lì). Sembra sia stato abbozzato un primo identikit, ma dare un volto ai dieci uomini del commando sarà difficilissimo. Due di essi col viso coperto da un cappuccio, attendevano su una Ritmo posteggiata all’ ingresso del complesso residenziale, pronti ad entrare in azione nel caso in cui Cassarà fosse riuscito a sfuggire alle sventagliate dei mitra. Non è stato necessario. L’ autopsia eseguita nell’ Istituto di medicina legale ieri mattina dai professori Marco Stassi, Paolo Procaccianti e Antonino Rizzuto, alla presenza del sostituto Dino Cerami, uno dei magistrati che segue le indagini coordinate direttamente dal procuratore Vincenzo Pajno, ha accertato che Ninni Cassarà è stato colpito da due proiettili alle spalle e da uno al gomito; l’ agente Antiochia, invece, è stato raggiunto alla testa e alle gambe. Il movente? Gli investigatori sembrano voler scandagliare tra le ultime inchieste coordinate dal vicedirigente della mobile anche se lo sfondo rimane quello di un progetto deciso da tempo per colpire uno degli investigatori più attenti e pronti ad andare fino in fondo nella lotta contro Cosa nostra.

 

 

 

 

 

Articolo del 9 Giugno 2008 da castelvetranoselinunte.it  
Ricordare Ninni Cassarà e le sue grandi azioni
di Rino Giacalone

Come ricordare un investigatore come Ninni Cassarà?

L’attuale capo della Squadra Mobile di Trapani, Giuseppe Linares, lo ha spiegato parlando a Castellammare dove a Cassarà, ucciso da un commando mafioso davanti gli occhi di moglie e figlia il 2 agosto del 1985, è stato intestato il comando della Polizia Municipale.

«C’è un solo modo per ricordare – dice Linares – ed è quello che contraddistingue il nostro lavoro ancora oggi, e cioè proseguire in continuità con ciò che ci è stato lasciato, mantenendo alta la determinazione che fu mostrata dai nostri colleghi».

Castellammare del Golfo non è un centro qualsiasi. È un bel paese, affacciato sul mare, su un golfo tra Palermo e Trapani, acque cristalline, la riserva naturale dello Zingaro, l’antico borgo di Scopello, ma anche la mafia che qui non è mai stata di passaggio. Ha le sue radici. Castellammare è il paese che ha dato i natali ai più importanti boss italo americani di Cosa Nostra, ma anche a quelli più potenti della sola storia siciliana e italiana. I nomi? Joe Bonanno per esempio, che si dice sia stato il personaggio che Mario Puzo nel suo «Padrino» chiamava don Vito Corleone, ma anche Gioacchino Calabrò l’ex lattoniere immischiato con mafia e massoneria, l’uomo delle autobombe, quella di Pizzolungo destinata il 2 aprile 1985 al giudice Carlo Palermo e quella che nel 1993 doveva scoppiare davanti allo stadio Olimpico di Roma dove di solito fermano i bus che portano gli agenti delle forze dell’ordine, ma un timer guasto non diede l’innesco, o ancora Mariano Asaro l’odotecnico il cui nome compare in molte delle indagini sui fatti più misteriori delle connessioni mafiose ma che è semrpe uscito indenne, e poi don Ciccio Domingo l’ultimo capo mafia della cosca castellammarese, soprannominato per la sua «violenza» verbale e materiale don Ciccio Tempesta, una indagine di squadra Mobile e Polizia di Castellammare fece scoprire che divideva il «bastone» del comando con la moglie Antonella Di Graziano, tutti e due sono stati condannati, e la loro condanna ha portato allo scioglimento per mafia del Comune, fatto unico nella storia politica castellammarese.

Nessuno era mai riuscito a dimostrare l’inquinamento di Cosa Nostra nella gestione amministrativa del Comune. L’indagine su don Ciccio Tempesta e sua moglie Antonella Di Graziano portò a dimostrare una serie di agganci che la cosca aveva dentro al Comune, tra politici e burocrati, anche il comandante della Polizia Municipale era a disposizione. Oggi all’ingresso di quel comando c’è la targa che ricorda Cassarà che alla squadra Mobile di Trapani aveva cominciato a lavorare attorno alla cosca castellammarese, quando facendo irruzione in un circolo «bene» della città aveva trovato professionisti, latifondisti e mafiosi, tutti attorno ai tavoli verdi. Ma a Castellammare c’è un’altra targa, è stata posta all’ingresso della nuova biblioteca multimediate che porta il nome di Barbara Rizzo Asta e dei suoi figlioletti, i gemelli Salvatore e Giuseppe, dilaniati dal tritolo mafioso di Pizzolungo. Per Castellammare è un giorno di riscatto, una sorta di perdono per risanare una frattura che si era aperta con lo Stato a seguito di quei fatti di sangue manovrati proprio da castellammaresi, a chiare lettere definiti «i peggiori cittadini». In nome dei suoi migliori figli, la commissione straordinaria ha voluto fare queste due intestazioni. «Con queste intitolazioni abbiamo voluto – ha sottolineato il prefetto Antonella De Miro, a capo della commissione straordinaria del Comune – ricordare le vittime della mafia. E’ importante la memoria per sperare in un cambiamento del nostro paese perché attraverso la memoria di questi tragici fatti è possibile motivare la cittadinanza ad una assunzione di responsabilità collettiva per un impegno corale nell’affermazione della legalità».

Come continuare a ricordare allora? L’immagine più importante di Ninni Cassarà che viene indicata dal vice questore Linares è quella che ritrae il poliziotto in una foto mentre indossa la fascia tricolore che spetta ai commissari di Polizia: «Non è la divisa che ci distingue – spiega il vice questore Giuseppe Linares – ma è quel tricolore che ci è concesso portare, la rappresentanza istituzionale affidata a noi funzionari di Ps che lavoriamo per lo Stato. Qui questa fascia l’hanno indossata “giganti” che come Cassarà hanno affrontato il crimine e conosciuto la solitudine che i collusi hanno cercato di creare attorno.

Trapani, 1980/2008.
Cassarà fu dirigente della Mobile di Trapani dal 1980 al 1984, prima di finire ucciso a Palermo il 2 agosto del 1985, quando voleva mettere le mani sui patrimoni illeciti di mafia e imprenditori collusi. Oggi il tentativo di isolare chi lotta la mafia non è finito, prosegue, non si ferma mai, i «cattivi cittadini» sono pochi ma sono ovunque, ma rispetto a quegli anni ’80 le conoscenze di Ninni Cassarà, i suoi sospetti, grazie al lavoro di chi è a lui succeduto, Giorgio Collura, Rino Germanà, il commissario di Mazara oggi questore a Forlì, che Riina e Messina Denaro volevano uccidere in quell’estate del 1992, Antonio Malafarina fino a Giuseppe Linares, sono diventati certezze processuali, ci sono le condanne, i patrimoni e gli interessi mafiosi vengono aggrediti, ci sono le confische, i boss devono stare sommersi non solo per strategia ma anche per non farsi scoprire e vedere, i complici non sono del tutto ignoti. Il 1985 fu un anno terribile per la Sicilia, disgraziato, la mafia «regnava» e uccideva.

A Castellammare era presente alla cerimonia per la duplice intestazione anche Carlo Palermo, non ebbe mai il tempo di venire qui quando era pm a Trapani, Cosa Nostra a 40 giorni dal suo arrivo a Palazzo di Giustizia cercò subito di ucciderlo, e fece la strage dilaniando Barbara Rizzo ed i suoi figlioletti. È toccato ancora agli «eredi» di Cassarà lavorare su quella strage, riaprire i facicoli, e portare i giudici ad emettere le condanne. Nel 1985 due ignoti imprenditori qualche giorno prima di quella strage vennero fermati con una cartina stradale di Pizzolungo tra le mani, erano Vincenzo Virga e Francesco Genna, anni dopo si scoprirà grazie che quelli erano il capo mafia ed il suo vice del mandamento trapanese, che non erano in giro a provare l’auto, ma che con quella cartina stavano facendo un sopralluogo per intercettare il tragitto che seguiva solitamente l’auto del giudice. Virga anche per questo è stato condannato all’ergastolo, e nel frattempo altri sospetti, stavolta quelli del giudice Palermo ai quali lui non ha avuto concesso molto tempo per meditarci su, sono diventate certezze processuali, la mafia ed i traffici di droga e di armi che passavano da questa provincia sono stati individuati, i soggetti che li gestivano sono stati condannati, sono cadute un paio di teste, e l’esistenza della mafia non è più negata. È già un risultato: sarà completo quando si otterrà anche il riconoscimento sull’esistenza dei «complici» di Cosa Nostra, quelli che non sono «punciuti» ma spesso sono più boss dei veri boss.

 

 

Articolo del 17 Maggio 2010 di giornalettismo.com 
Antieroi antimafia: Ninni Cassarà, le valigie sono pronte
Due amici, la stessa visione del mondo, due destini diversi. Chi rimane racconta chi muore.

Gli amici sono più amici se si chiamano in maniera quasi uguale. L’assonanza di sentimenti è aiutata dal suono. Antonino Cassarà e Antonio forse ci avevano pensato tante volte. In fondo erano due binari in una città seduttiva e mortale come solo Palermo sa essere specie negli anni 80. Due binari si guardano e vivono esistenze parallele, si parlano e si salutano. Procedono all’unisono, ma a volte vanno impercettibilmente in direzioni diverse, come i nomi, quasi uguali. L’affetto a volte storpia i nomi, sulla tua carta di identità c’è scritto qualcosa che lontanamente ti fa ricordare come ti chiamavi. Antonino, ma per tutti diventi Ninni.

DALLA STESSA PARTE – Per diventare amici a Palermo bisogna frequentare gli stessi ambienti. L’amicizia per un palermitano è come il clima. Se è onesta è calda, se no è torrida; loro erano amici calorosi, i torridi stavano dal lato dell’illegalità, da questo lato c’era Ninni e Antonio. Due cose devi fare a Palermo per non farti voler bene dagli “amici torridi” e criminali. Scrivere sulla e contro la mafia, indagare sulla e contro la mafia. Antonio scriveva, Ninni indagava. Uno giornalista de “l’Ora”, l’altro dirigente della sezione investigativa della Mobile. Ninni si muove bene, tanto da costituire quel nucleo di “operativi” tanto caro al pool antimafia, insieme a Calogero Zucchetto e a Giuseppe Montana e a tanti altri che purtroppo si leggono lungo le lapidi disseminate nella città come segnalibri.

PARTIRE PER ARRIVARE – Sono gli anni 80, quelli in cui la mafia regola guerre intestine ma non perde di vista chi la osserva e ne cerca i punti deboli. Gli anni in cui il giornale di Antonio pubblica una copertina con un dipinto dove si vede un uomo con la lupara. “la morte ha fatto 100”, i due zeri sono le canne. A luglio del 1985 Ninni parte per arrivare. Sta chiudendo un capitolo fondamentale per il futuro maxi processo, va a Lugano per arrivare al dunque, insieme a Falcone. Hanno i nomi, quelli grossi, e le prove, quelle vere. In Svizzera ci sono dei conti, da quelli si risale a dei nomi, Ninni fa per ricordare quello che Antonio fa di mestiere. Scrive e segna tutto. Nomi della Palermo bene, dell’economia siciliana, ma anche manovalanze e rappresentanti delle istituzioni che lui pensava calorosi, invece sono torridi. Ninni ha messo all’angolo la belva. La belva reagisce.

NON E’ UN FILM – Uccide un amico di Ninni, Giuseppe Montana.
Il poliziotto lascia il posto all’uomo che ai funerali di Beppe, esclama sconfortato accanto a Borsellino siamo cadaveri che camminano”. Ninni cammina, spesso con la pistola accanto. Se fossimo in un film la scena di adesso dovrebbe prevedere un lieto fine. Il 6 agosto del 1985 sotto gli occhi della moglie di Ninni che lo aspetta, il lieto fine non c’è. Né per Ninni, né per Roberto Antiochia. Una pioggia macabra e spettacolare di colpi di mitra dal palazzo di fronte li falcia entrambi. Se fossimo in un film l’attore si rialzerebbe. Non siamo in un film siamo nel clima dei torridi a Palermo. La scena dopo è quella di Antonio, Antonio Calabrò. Giornalista de “l’ora” ma prima di tutto in quel momento amico di Ninni. Le valigie sono pronte. Antonio se ne va. Per sempre.

IL RICORDO DELL’AMICO – Così ricorda in due righe gentilmente donatemi il giornalista e scrittore Antonio Calabrò (ora in libreria con il romanzo Cuore di Cactus – Sellerio Editore, Palermo): “di Ninni ricordo soprattutto il volto serio e compunto, mentre lavorava. E poi, d’un tratto, lo scintillio degli occhi e l’aprirsi di un sorriso. Un sorriso ironico, quasi a prendere una distanza critica dalla quotidianità di mafia e e di morte su cui, per mestiere e scelta di vita, gli toccava di indagare. E un sorriso affettuoso, per un amico, un compagno di lavoro e soprattutto per Laura e per i suoi tre figli. Abbiamo vissuto insieme anni di tragedie, durante la guerra di mafia, lui poliziotto, io giornalista de“L’Ora”. E momenti privati di grande intensità. Un suo gesto, ricordo con nettezza: invitato a cena, una delle pochissime sere in cui si poteva tirare il fiato, era arrivato a casa, aveva subito slacciato la fondina con la pistola e l’aveva posata sullo scaffale più alto della libreria. “Per non farla vedere ai bambini”, mi aveva detto, appunto con un sorriso, parlando dei miei figli. Ma soprattutto per allontanare, per un istante, il pensiero da una quotidianità di rischi e violenza. Un gesto simbolico, quella pistola lontana. Per provare a stare insieme sereni, godendo di uno scampolo d’allegria”.§

 

SCHEDA BIOGRAFICA – Ninni Cassarà è stato dirigente della sezione investigativa della squadra mobile di Palermo, investigatore molto abile, nel 1982 arriva a un passo dall’arresto del killer di punta dei Corleonesi, Pino Greco, incontrandolo per caso durante una perlustrazione insieme a Calogero Zucchetto (agente di polizia poi ucciso dalla mafia nel 1982), Cassarà contribuisce in maniera attiva e principale alla raccolta di prove durante le indagini che porteranno al maxiprocesso contro la mafia nel 1986. Stretto collaboratore di Falcone, va con lui a Lugano nel luglio 1985 per una delicata indagine sui conti correnti presenti in Svizzera riconducibili ai poteri mafiosi. Stando a quanto lui stesso dichiarerà al ritorno, sembra siano emersi collegamenti anche con nomi di politici e magistrati collusi, con prove molto pesanti. Tutto scritto su una agendina rossa. Al ritorno da Lugano, dopo l’uccisione di Giuseppe Montana altro poliziotto attivamente impegnato contro la mafia, il clima è molto pesante. Ninni Cassarà capisce di essere nel mirino e spesso non va nemmeno a dormire a casa. Il 6 agosto del 1985 avverte la moglie del suo imminente ritorno. Gli fa da scorta Roberto Antiochia, un poliziotto rientrato apposta dalle ferie per stargli accanto. All’androne di casa li investe una pioggia di fuoco, salvo il terzo agente, poi ucciso in un agguato, Natale Mondo. Un commando avvertito da un delatore, si apposta nel palazzo di fronte su più finestre. Un omicidio spettacolare quanto di sfida nella sua esecuzione, nel frattempo in questura sparisce l’agenda di Cassarà, mai più ritrovata. È medaglia d’oro al valor civile.

Un grazie particolare al Dr. Antonio Calabrò per il suo prezioso aiuto e consulenza e per le pagine di Ninni Cassarà sul libro “Cuore di Cactus”.

 

 

 

Speciale Gap Ninni Cassarà, Un Bravo Poliziotto del programma Rai Educational
Gap è stato trasmesso da Rai 3, lunedì 8 dicembre 2014 alle 12:45.

 

 

 

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antimafiaduemila.com
Articolo del 6 agosto 2020
Il valore del sacrificio nella memoria di Ninni Cassarà e Roberto Antiochia
Oggi il 35° anniversario della loro morte

 

 

palermo.repubblica.it
Articolo del 6 agosto 2021
Cassarà e l’estate più buia: quando la mafia colpì lo Stato che stava cambiando
di Roberto Leone
Il 6 agosto 1985 Palermo d’improvviso ripiombò nel clima in cui era caduto Costa.

 

 

 

 

 

 

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