12 Gennaio 1988 Palermo. Ucciso Giuseppe Insalaco, ex sindaco della città.
“Il 12 gennaio 1988 a Palermo venne ucciso Giuseppe Insalaco da numerosi colpi di pistola mentre si trovava in macchina, sotto casa sua. Giuseppe Insalaco era stato sindaco di Palermo per soli 3 mesi: dall’aprile al luglio 1984. Poi, rimase sempre più solo: continuava infatti a denunciare le indebite ingerenze di Cosa nostra nella vita politica cittadina. Il 3 ottobre del 1984, fu ascoltato dalla commissione antimafia: precisò di non essere un democristiano pentito ma di avere il dovere di parlare “dei perversi giochi che mi hanno costretto alle dimissioni dopo appena tre mesi”.
Dopo la sua morte fu trovato un memoriale in cui Insalaco accusava diversi esponenti della DC palermitana e il sistema di gestione degli appalti e del potere cittadino.
Il 17 dicembre 2001 sono stati confermati in Cassazione gli ergastoli per Domenico Ganci e Domenico Guglielmini, riconosciuti responsabili dell’omicidio di Giuseppe Insalaco.
Chi conobbe Insalaco parla di un uomo retto, che non era capace di tacere di fronte alle ingiustizie. Schierarsi contro il malaffare può costare caro. E ad Insalaco costò la vita.”
Fonte: Wikipedia
Giuseppe Insalaco (San Giuseppe Jato, 12 ottobre 1941 – Palermo, 12 gennaio 1988) è stato un politico italiano. Fu sindaco di Palermo per tre mesi dal 17 aprile al 13 luglio del 1984. Aveva denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia. Fu ascoltato dalla commissione antimafia il 3 ottobre 1984 – insieme all’allora sindaco in carica Nello Martellucci – sulle ingerenze della mafia nella politica palermitana. Iniziò dicendo:« Non sono un democristiano pentito, ma sono venuto qui per dire quello che penso della DC palermitana, degli affari, dei grandi appalti, di Ciancimino, dei perversi giochi che mi hanno costretto alle dimissioni dopo appena tre mesi ». Denunciò dunque le pressioni subite da Vito Ciancimino e dal suo entourage, che indicò come i gestori dei grandi appalti al comune di Palermo per conto della mafia, aggiungendo anche: « Mi facevano trovare ogni mattina i mandati di pagamento sulla scrivania, confusi insieme alla posta ordinaria. Speravano che non me ne accorgessi, che firmassi quelle delibere insieme alle ricevute. Ogni delibera valeva decine di miliardi ». Due settimane dopo aver fatto queste dichiarazioni, l’automobile di Insalaco fu bruciata davanti alla sua abitazione. Fu assassinato a colpi di pistola in macchina il 12 gennaio 1988. In conseguenza di ciò è stato dichiarato “Vittima della Mafia”. Dopo la sua morte fu trovato un memoriale in cui Insalaco accusava diversi esponenti della DC palermitana, e il sistema di gestione degli appalti e del potere cittadino.
Il 17 dicembre 2001 sono stati confermati in Cassazione gli ergastoli per Domenico Ganci e Domenico Guglielmini, riconosciuti responsabili dell’omicidio di Giuseppe Insalaco.
Articolo del 14 gennaio 1988 da ricerca.repubblica.it
UCCISO PER UN DOSSIER SUGLI APPALTI MAFIOSI
di Attilio Bolzoni
PALERMO Le mille ipotesi sul delitto dell’ex sindaco di Palermo portano tutte in due cassette di sicurezza, due piccole casseforti che custodiscono i segreti di una città. Grandi appalti, manovre di potentati economici, patti tra mafiosi e rispettabili imprenditori, pressioni di boss politici, tangenti. Intrecci siciliani. Giuseppe Insalaco è morto per un memoriale: dentro ci sono i nomi e le storie dei padroni di Palermo.
Un delitto, preventivo, quattro pallottole di 357 Magnum per il silenzio di un uomo che forse non aveva più nulla da perdere. I poliziotti cercano un dossier che fa tremare vecchi e nuovi personaggi di una Sicilia che non cambia, di una città che continua a vivere tra morte e misteri. L’uccisione dell’ex sindaco segue una spietata logica di mafia che comincia con due esecuzioni sullo sfondo della spartizione di colossali appalti: la manutenzione delle strade e l’illuminazione pubblica di Palermo. I protagonisti di questo affaire: Vito Ciancimino, il presidente della Palermo calcio Roberto Parisi, l’imprenditore Piero Patti.
La storia. Don Vito è in galera e improvvisamente saltano gli accordi su chi deve incassare centinaia di miliardi del Comune. Muore ammazzato Roberto Parisi, una settimana dopo tocca al suo amico Piero Patti. Qui entra in scena l’ex sindaco Insalaco. Diventa un mediatore, tenta di pilotare un fiume di denaro verso certi gruppi, in prefettura arriva un dossier, anonimo ma circostanziato, che accusa l’ ex sindaco di avere intascato tangenti. Tutti i misteri della sua morte ruotano intorno agli appalti del Comune.
Ma chi era Giuseppe Insalaco per entrare nel Gotha degli uomini che a Palermo decidono le cose importanti? Non era solo il portaborse di un ex ministro degli Interni? Alle 3,17 della notte è partita dalla questura questa nota informativa per il Viminale: Il personaggio non è nitido…. Un primo messaggio diplomatico per i superiori a Roma. Politico schierato con i vecchi gruppi della Democrazia cristiana, qualche buona amicizia tra i boss di Cosa Nostra, legato a doppio filo con i servizi segreti, grande accusatore di Vito Ciancimino. Ecco le molte facce di Peppino Insalaco. L’ ex sindaco giocava su tanti tavoli ma sempre con un obiettivo: conquistare potere. Un gioco pericoloso che nella trincea di Palermo equivale ad una condanna a morte.
Sì, l’ ex sindaco sapeva che doveva morire ammazzato. Poteva accadere qualche anno fa quando sfilò davanti all’ Antimafia, poteva accadere ieri. Il primo avvertimento l’ha ricevuto il pomeriggio del 19 ottobre 1984. Era un mercoledì e in un ufficio investigativo arrivò una lettera: Lo sapete che il dottor Insalaco è stato condannato a morte?…. L’ex sindaco era un cadavere ambulante, che continuava però a tentare operazioni spericolate. Era una mina vagante pronta ad esplodere. O pronta a vuotare il sacco. Tra qualche settimana avrebbe dovuto testimoniare in tribunale sul caso Ciancimino. Ma non doveva solo denunciare, un’altra volta, che don Vito era un uomo nelle mani dei corleonesi. Doveva confermare invece chi erano tutti quei personaggi che si muovevano intorno a Vito Ciancimino, doveva raccontare gli affari palermitani degli ultimi vent’ anni, rivelare chi si era arricchito all’ ombra del Comune o grazie ai grandi favori della regione siciliana.
Giuseppe Insalaco sapeva tutto sul comitato d’affari di questa città. L’hanno ucciso per evitare il pericolo di incontrollabili rivelazioni. Un omicidio quasi perfetto: i killer hanno lasciato una traccia. Una delle due pistole abbandonate a terra è una Smith and Wesson calibro 41, un revolver potente e poco usato dai professionisti. Un solo delitto è stato compiuto a Palermo con questa pistola: 21 giugno 1983, via Scobar. È lo stesso tipo di arma utilizzata per uccidere il giovane capitano dei carabinieri di Monreale Mario D’Aleo. Gli esperti della scientifica sono al lavoro nel loro laboratorio da diciotto ore. Il sospetto è preciso: lo stesso gruppo di mafia per due delitti lontani cinque anni.
Il sostituto procuratore della Repubblica Alberto Di Pisa è il magistrato che indaga sulla morte di Giuseppe Insalaco. È un giudice scaltro che sa di cose di mafia come pochi altri qui a Palermo. E allora, dottor Di Pisa? Abbiamo già sequestrato carte e documenti, e stiamo controllando lettere e appunti. Sì, lo sfondo è proprio quello… i grandi appalti. Il medico legale si avvicina intanto ad Angelo e Domenico Insalaco, i fratelli dell’ ex sindaco. È il crudele momento del riconoscimento. Poi Angelo Insalaco, cravatta nera, stessa corporatura robusta del fratello, sussurra poche parole: Non mi era sembrato terrorizzato ma lui, lui non mi raccontava mai nulla dei suoi affari.
Cosa stanno cercando in queste prime ore di indagine gli investigatori? La pista appalti si intreccia con la sua collaborazione mai smentita con i servizi segreti. Il legame più stretto Giuseppe Insalaco l’aveva con il prefetto Emanuele De Francesco quando era alto commissario antimafia in Sicilia. Un rapporto quasi alla luce del sole, un’attività parallela a quella di grande mediatore di affari. Il giorno dopo la sua morte corre voce di un misterioso recente viaggio dell’ex sindaco in Israele. Gli investigatori dicono di non saperne nulla, i magistrati cadono dalle nuvole. Poliziotti e giudici preferiscono concentrare l’ attenzione sulle carte già sequestrate nello studio dell’ex sindaco.
Tutti i documenti che portano sempre agli appalti sulla manutenzione delle strade e l’illuminazione pubblica di Palermo. Due appalti su cui sono cadute tante giunte comunali e in cui ricorre sempre il nome di Vito Ciancimino. Si indaga su società che riciclavano i miliardi di don Vito, su insospettabili imprenditori che gli erano troppo vicini. Avvertono gli investigatori: Insalaco denunciò Ciancimino all’Antimafia perché aveva un progetto preciso…. Era una faida tra due gruppi ancora non bene individuati?
L’ex sindaco raccontava storie di appalti alla commissione contro i crimini organizzati di palazzo San Macuto e puntava il dito contro potenti imprenditori di Palermo. Ma Giuseppe Insalaco era davvero pronto a cantare? Era lui il pentito che rivelava retroscena su appalti e imprenditori siciliani? I giudici del pool antimafia smentiscono. Dal giudice Falcone era stato ascoltato, nell’estate del 1984, un paio di giorni dopo la sua audizione a palazzo San Macuto. Smentita la notizia di un suo interrogatorio nei giorni scorsi, smentita anche l’indiscrezione su una sua imminente fuga da Palermo.
Giuseppe Insalaco stava diventando invece il personaggio-chiave del maxi-ter, il processo che schiera come primo imputato Vito Ciancimino e poi altri 250 mafiosi. Ma lui poteva parlare non soltanto sugli affari di don Vito. Scrive oggi su L’Ora Nicola Cattedra, un ex direttore del quotidiano parlemitano che aveva conosciuto Giuseppe Insalaco sui banchi del consiglio comunale: Era un ragazzo sveglio che conosceva i meandri più oscuri del suo partito.
Un omicidio politico-mafioso per chiarire chi comanda ancora in Sicilia, anche dopo Buscetta e i grandi blitz, anche dopo il maxiprocesso. Nella trincea dei reparti investigativi si lavora su impronte digitali, su perizie balistiche, su probabili tracce lasciate sui caschi abbandonati dai killer. Ma c’è tensione. Come nei corridoi di Palazzo di Giustizia, nelle stanze del Comune, nei Palazzi della Regione. A Palermo è ritornata la paura.
Articolo di La Repubblica del 15 Gennaio 1988
“IN QUESTA DC SON SOLO” COSÌ INIZIA IL SUO DIARIO
di Attilio Bolzoni
PALERMO Il rinnovamento della Dc siciliana va avanti e indietro. Ci sono forti resistenze, ci sono pressioni, ci sono manovre. Io sono deluso, amareggiato, isolato …. Eccole le prime pagine del memoriale di Giuseppe Insalaco. Un testamento politico, un diario che è una lucida analisi di un partito diviso tra il vecchio e il nuovo, tra il potere dei Lima e dei Ciancimino e lo slancio di giovani democristiani appena entrati nelle stanze del Comune di Palermo. Un dossier sugli ultimi vent’anni della Dc siciliana, migliaia di fogli scritti a mano su storie e personaggi, sugli appalti, sugli appetiti di certi gruppi imprenditoriali, sui sindaci che hanno messo le mani su Palermo e sui sindaci invece che sento sempre molto vicini alle mie idee.
Il memoriale di Giuseppe Insalaco è sulla scrivania di giudici e poliziotti. Ecco cosa scrive l’ex sindaco nel gennaio del 1985, un mese prima di essere arrestato per corruzione: Ci sono manovre politiche rivolte a stroncare la mia carriera, rivolte contro un uomo che vuole portare avanti un certo discorso …. L’ex sindaco, che da qualche mese ha denunciato gli affari di Vito Ciancimino davanti alla Antimafia, sa che qualcuno gli sta preparando una trappola, sa che sta per affondare insieme a tutti i suoi progetti. E nello studio di via Notarbartolo, una sera di inverno, prevede la sua morte politica: Ormai sono un uomo perseguitato… ho tentato di continuare l’opera cominciata da Nello Martellucci ed Elda Pucci ma ci sono troppi ostacoli, incontro ogni giorno troppo problemi. Anche loro sono perseguitati, come me, dentro il mio partito….
Giuseppe Insalaco ha riempito migliaia di fogli sulla sua Dc e sui grandi affari di Palermo, riflessioni e promemoria che adesso sono diventati il prezioso materiale di chi indaga sulla morte dell’ex sindaco. Gli uomini della Dc siciliana sfileranno, ancora una volta, davanti ai giudici per spiegare, ricostruire, precisare. Ancora una volta racconteranno le tante Dc che premono in questa Sicilia. Ascolteremo tutti i dirigenti del partito, uno per uno.
Aspettiamo solo un ordine dal magistrato, rivela un investigatore che ha appena letto i primi appunti lasciati dall’ ex sindaco. Un lavoro investigativo iniziato soltanto da poche ore ma che promette tanto: nel memoriale di Giuseppe Insalaco ci sono nomi e cognomi di amici e nemici, retroscena sulla distribuzione degli appalti miliardari, tracce che portano ai mandanti del suo omicidio. Sono tutti fogli scritti dall’estate del 1984 a pochi giorni prima dell’esecuzione. Appunti disordinati, pessima grafia, promemoria confusi con fotocopie di atti relativi alla sua disavventura giudiziaria.
Tra una montagna di appunti c’è anche un diario dalla latitanza, pensieri e stato d’ animo di un ex sindaco ricercato dalla polizia. Le carte di Giuseppe Insalaco sono tutte conservate in tre valigie e in un borsone di pelle. C’ è un pull di investigatori distaccato dalle indagini tecniche per lavorare soltanto sul testamento politico dell’ex sindaco. Insalaco non era molto ordinato, confida un poliziotto, dobbiamo sistemare tutti i documenti e selezionarli.
In un ufficio sono state trasferite altre valigie con altri documenti: raccomandazioni, lettere, segnalazioni ricevute o inviate da Peppino Insalaco ad altri uomini politici siciliani. È un vero e proprio archivio di informazioni. Tra questi documenti c’è anche la pista appalti: appunti sull’Icem, la società per l’illuminazione pubblica che aveva come presidente l’ingegnere Roberto Parisi che era anche il patron della Palermo Calcio; appunti sulla Lesca, l’impresa per la manutenzione delle strade e delle fogne di Palermo che fa capo al conte Arturo Cassina e che per 29 anni ha vinto ogni gara d’appalto indetta dal Comune.
Poi ci sono altri appunti riservatissimi. Gli investigatori su questi ultimi documenti mantengono però il massimo riserbo. Stanno indagando su una pista precisa di mafia e politica. A Palazzo di Giustizia le inchieste si incrociano. C’è un altro caso clamoroso che coinvolge uomini politici siciliani, una mezza dozzina di personaggi di primissimo piano che sarebbero stati intercettati sui fili del telefono.
È una brutta storia che comincia venticinque giorni prima delle elezioni politiche dello scorso anno. È l’ultima settimana di maggio e la sezione catturandi della squadra mobile mette sotto controllo i telefoni di alcuni boss del maxiprocesso a Cosa Nostra latitanti, dei loro parenti più stretti, dei loro amici. I boss parlano al telefono: parlano di voti, di preferenze da concentrare su alcuni candidati, parlano soprattutto di grandi appalti. Tra una frase e l’altra saltano fuori i nomi di due uomini politici della Democrazia cristiana, due ex assessori regionali. Ma ci sarebbero altri nomi coinvolti in questo affaire, deputati della Regione Siciliana appartenenti ad altri partiti. Le intercettazioni sono andate avanti per cinque mesi. Poi, improvvisamente, l’inchiesta si è arenata.
Anche questa è una storia di appalti miliardari da distribuire ma ancora non si conosce il contesto nella quale è maturata. L’indagine è top secret e non si sa su quale scrivania, a Palazzo di Giustizia, siano finite queste esplosive intercettazioni telefoniche. Il caso Insalaco sta comunque rilanciando l’indagine sui personaggi citati dai boss latitanti: gli appalti restano insomma la più importante chiave di lettura per tanti misteri palermitani.
Ma non è l’unica. In un portafoglio conservato nel cassetto della scrivania dell’ex sindaco, i poliziotti hanno trovato due documenti di riconoscimento che confermano i suoi legami con i servizi segreti. La prima tessera è stata rilasciata il 18 gennaio 1969 dal ministero degli Interni: c’ è la foto dell’ex sindaco, c’è la sua firma sotto una scritta: addetto alla segreteria del ministro. La seconda tessera, la numero 794, rilasciata nel 1972, è del ministero della Difesa. Questi documenti significano certo qualcosa, ammette un poliziotto, ma chi può dire quali erano davvero i rapporti di Insalaco con certi ambienti?
Sempre più confermata invece la sua voglia di raccontare i segreti di Palermo ai giudici. Se ieri era stata smentita la notizia di un recente interrogatorio dal giudice istruttore Giovanni Falcone, oggi arriva la conferma non di uno ma di ben cinque deposizioni davanti al magistrato. Giuseppe Insalaco stava davvero cantando, stava raccontando quell’intricatissima storia di affari e appalti che non faceva resistere nessuno sulla poltrona di sindaco di Palermo per più di poche settimane. Una collaborazione importante due volte: perché raccontava con precisione certi fatti, perché la sua testimonianza stava avendo un effetto dirompente in un ambiente avvolto da sempre nell’omertà.
Insalaco di cose ne sapeva parecchie, conosceva tutti i segreti del suo partito, di quella vecchia Dc dei Lima e dei Ciancimino decisa a non indietreggiare nemmeno un centimetro o perdere il suo spazio vitale. Conosceva il mondo di certi imprenditori. Conosceva uomini e regole mafiose. Conosceva le informazioni più riservate che circolavano nella Palermo che conta. Giuseppe Insalaco era diventato il pericolo numero uno per la mafia che comanda e che fa affari. Per questo è morto.
Articolo da L’Unità del 19 Gennaio 1988
«Gunnella mi preannunciò la mia fine politica»
di Saverio Lodato
L’ex sindaco Insalaco – Nuovi particolari emergono dai documenti rinvenuti a Palermo
Brani dell’autointervista – La vittima della mafia ricostruisce le sue disavventure giudiziarie
Filtrano nuovi particolari sul contenuto dei documenti lasciati da Insalaco nel suo «rifugio» del Papireto. Fu Aristide Gunnella, repubblicano, oggi ministro per gli Affari regionali, ad annunciare all’ex sindaco che i potentati economici dell’isola avevano decretato la sua «fine politica». Insalaco ricostruisce anche – come una macchinazione ai suoi danni – le traversie giudiziarie che lo portarono in carcere.
Palermo. Le prime pressioni hanno trovato ampia conferma: Insalaco, da vivo, era uomo scomodo, da morto fa davvero paura a molti. Il Palazzo reagisce come può alle docce fredde, alle rivelazioni clamorose, alla pubblicazione di quegli elenchi di nomi che, a giudizio dell’ex sindaco dc, contenevano la nomenklalura delle «due» Palermo. Le «due facce». Era prevedibile. E Insalaco, mettendo nero su bianco, l’aveva previsto. Come aveva previsto, dopo la sua disfatta politica, dopo la sua disfatta giudiziaria, che gliela avrebbero ancora fatta pagare.
Un’inquietante ambasciata. Un giorno, mentre il clima sui grandi appalti era diventato incandescente, Giuseppe Insalaco ricevette una strana visita, ebbe un incontro con Aristide Gunnella, repubblicano, oggi ministro per gli Affari regionali. Fu Gunnella – scrive Insalaco – ad assumersi lo scomodo ruolo di ambasciatore. Gli diede una brutta notizia: spiegò, senza molte perifrasi, che proprio i leader dei gruppi economici e imprenditoriali colpiti dalla nuova linea dell’amministrazione cittadina avevano decretato la sua «fine» politica. Insalaco rimase sconvolto. Decise quel giorno di mettere in salvo i suoi due figli, Ernesta e Luca, mandandoli via dalla Sicilia.
Un’inchiesta che veniva da lontano. l’Unità e Repubblica hanno già pubblicalo domenica una sintesi dell’intervista che Insalaco scrisse ma non fu mai pubblicata. Altri brani, finora inediti, consentono meglio di comprendere quale idea l’esponente politico si fosse fatta dell’intreccio tra episodi della sua vita personale e vicende pubbliche. Ecco, ad esempio, la ricostruzione delle sue vicissitudini giudiziarie.
«Un anonimo, importante e ben gestito, ha determinato il caso. Un’interpretazione sommaria di alcune coincidenze e di vicende personali che, viste in negativo, hanno giustificato l’iniziativa giudiziaria. Ormai la lotta politica non si realizza nel partiti o nelle sedi istituzionali – e Palermo fa testo – ma con l’istituto dell’anonimo che, se vagliato, determina quell’iniziativa giudiziaria che, specie se rivolta nel confronti del pubblico amministratore o politico, provoca comunque la sua eliminazione.
«La storia risale ai primi del 1979, l’anonimo trova spazio in coincidenza alla mia nomina a sindaco di Palermo nell’84 e alla scelta della licitazione privata, quale metodo per l’assegnazione del grandi appalti di illuminazione e manutenzione di strade o fogne. Si trattò della vendita di un terreno dell’Istituto dei sordomuti e della mia qualifica di commissario governativo dell’Istituto Questo terreno era in stato di abbandono, occupato abusivamente e non disponibile ai fini dell’istituzione e per le motivazioni di acquisto i miei predecessori pensavano di realizzare il nuovo istituto. Un obiettivo reso impossibile da destinazione prevista dal Piano regolatore, relazioni tecniche. Pertanto i precedenti amministratori iniziarono la pratica di vendita sottoposta alle autorizzazioni preventive del ministero e al parere dell’Ufficio tecnico erariale, un parere obbligatorio per legge. Comprarono certi Saccone già proprietari di altri terreni agricoli vicini. L’istituto vendette ai Saccone perché tra i vari acquirenti furono gli unici disponibili alla valutazione Ute. Tra l’altro pagarono qualcosa in più. Non vendetti a dei mafiosi perché nel ‘79 gli stessi non erano stati indiziati né sottoposti a misure, ma credo che lo furono solamente nell’82, per ciò l’Istituto non poteva saperlo, la legge Rognoni-La Torre non era ancora stata approvata.
«L a storia dei sessantasei milioni (per la quale Insalaco finì in carcere, ndr) si riferisce ad un’altra vicenda collegata ad un compromesso per due appartamenti, fatto da una mia compagna. Un compromesso che poi fu sciolto per problemi sorti con l’impresa. Questo importo, come altri che riguardavano sempre la mia compagna, finirono nel mio conto. In quel periodo era notorio, così come lei stessa ha dichiarato al magistrato, che mi occupavo del suo patrimonio. La coincidenza della lontana parentela dei Saccone con l’amministratore dell’impresa, interpretato dall’anonimo in un certo modo, ha creato la vicenda. Sono convinto che tutto potrà essere chiarito in fase di giudizio».
Dalla requisitoria sui grandi appalti. «Il conte Arturo Cassina – scrive il sostituto Paolo Giudici – era il vero padrone della Lesca ed era a conoscenza del sistema attraverso cui le riserve occulte e i fondi neri erano stati costituiti». La Lesca? «Un corpo separato dal resto del comune. I rapporti con la Lesca procedevano in uno stato di totale anarchia». l magistrato Paolo Giudici ha chiesto il rinvio a giudizio degli ex sindaci dc di Palermo Cianclmino, Marchello, Scoma, Martellucci; degli assessori dc Midolo, Bronte, dell’ex assessore comunale Murana, del conte Arturo Cassina.
Insalaco, prima di dimettersi, ricevette la visita dell’avvocato Vito Guarrasi, consulente del gruppo Cassina. Guarrasi si reca a Palazzo delle Aquile per consegnargli una memoria in cui si sostiene la necessità di riaffidare alla Lesca il servizio di manutenzione. Guarrasi – racconta Insalaco a Paolo Giudici – «conversa genericamente sulla responsabilità e le difficoltà cui potevano andare incontro gli amministratori locali dicendo di avere appreso di un esposto anonimo su cui la magistratura stava indagando. Assicurò che alla fine tutto si sarebbe chiarito». In quel momento nessuno – teoricamente – avrebbe dovuto essere a conoscenza di quell’anonimo.
Guarrasi smentisce l’incontro. Definisce Insalaco «un doppiogiochista». E perché non ci siano dubbi giura: «Non avrei mai portato in spalla la bara dell’ex sindaco». Infine Insalaco rilasciò al magistrato quest’altra dichiarazione: «Chiunque vive a Palermo sa che esistono partiti che giocano allo scavalco e che spesso sugli appalti esistono convergenze che superano le divisioni tradizionali. Su precisi interessi di potere non esistono steccati». Aveva capito molte cose.
Articolo da La Repubblica del 20 Gennaio 1988
“E IL CONTE MI DISSE PARLIAMO D’AFFARI…”
di Attilio Bolzoni
PALERMO I fogli sono 17. Sul primo, sopra l’intestazione Repubblica Italiana Assemblea regionale Siciliana, ci sono sette parole sottolineate: riservato solo in casi di fatti eccezionali. Un po’ più giù, a sinistra, Giuseppe Insalaco apre così il suo testamento: La mia storia inizia appena fatto sindaco di Palermo…. È il memoriale che spiega i suoi 95 giorni sulla poltrona di Palazzo delle Aquile, le pressioni che riceve ogni giorno per prorogare i grandi appalti alla Lesca del conte Arturo Cassina, il disorientamento quando scopre che inviano una lettera anonima e la Procura della Repubblica indaga su di lui.
Dentro questi 17 fogli ci sono tutti i nomi delle due liste ritrovate tra gli appunti dell’ex sindaco, le due facce di Palermo, due elenchi con 27 nomi: ministri, sottosegretari, alti magistrati, sindacalisti, ex sindaci di Palermo. Giuseppe Insalaco scrive come si muovono alcuni grandi imprenditori della città, come si prepara la sua eliminazione politica attraverso una inchiesta giudiziaria. Un giorno il conte Cassina parla con il sindaco Insalaco degli appalti conquistati dalla Lesca e dall’Icem per la manutenzione delle strade e dell’illuminazione pubblica. Il conte torna sull’argomento proroga dell’appalto e parla di convenienze della pubblica amministrazione. Arturo Cassina spiega che sta per licenziare cento operai della sua impresa e tenta di convincere Giuseppe Insalaco a rinnovare il contratto alla Lesca. Il sindaco risponde che non può per il clima che si è creato e gli dice anche di non insistere. Insalaco spiega che il suo orientamento è un altro e ricorda al conte Cassina che c’é in corso anche un’inchiesta del giudice Biagio Insacco sugli appalti vinti dall’ Icem.
Scrive l’ex sindaco nel suo memoriale: A risposta il Cassina mi disse di stare tranquillo, di andare avanti, che lui sulla questione aveva informato il commendatore Pajno. In quel momento appresi che era un Cavaliere del Santo Sepolcro e che lo stesso Pajno a dire del Cassina era d’accordo. E che lui (sulla questione degli appalti ndr.) sarebbe tornato alla carica. Discorso che non capii, ma risposi che le scelte amministrative non dipendono dalla magistratura ma dall’amministrazione pubblica. Era la primavera del 1984, il commendatore Pajno era il capo della procura della Repubblica di Palermo. Poco prima dell’incontro con il conte Cassina, e quando la distribuzione dei grandi appalti stava diventando un caso (In coincidenza di ciò vengo assalito da una lunga serie di anonimi, scrive Insalaco) l’ex sindaco va a Palazzo di Giustizia dal procuratore generale Ugo Viola che mi ha sempre dimostrato comprensione e dandomi certezza di un uomo di grande equilibrio.
Parla con il procuratore generale e torna subito in Comune per chiedere consigli tecnici sugli esposti anonimi al segretario generale di Palazzo delle Aquile Nicola Maggio. Poi parla anche con Luigi Gioia, deputato democristiano, capo della corrente fanfaniana in Sicilia. Gioia dimostrò subito interesse dicendomi che il dottore Carrara (uno dei sostituti procuratori che seguì l’inchiesta sugli anonimi contro Insalaco nella fase iniziale ndr.) era genero del dottor Palazzolo (è l’attuale presidente del Tribunale delle Acque ndr.), molto amico del consigliere comunale Di Stefano, e che più volte, lo stesso Palazzolo, si era rivolto al Di Stefano per patrocinare la sua aspirazione alla carica di primo presidente a Palermo. Giuseppe Di Stefano era assessore comunale all’urbanistica ma, secondo Giuseppe Insalaco, era anche tra i più forti pretendenti alla carica di sindaco.
Passano alcuni giorni ancora e Insalaco racconta che l’onorevole Gioia e l’assessore Di Stefano mi dissero che avevano parlato con lo stesso Palazzolo, il quale era intervenuto sul genero perché esaminasse la pratica con obiettività. Giuseppe Insalaco descrive tutti i momenti di quei drammatici giorni quando improvvisamente si trova inquisito per avere venduto nel 1979, come presidente dell’Istituto dei Sordomuti, un terreno ai fratelli Saccone, cittadini incensurati fino al 1982. Il 13 aprile Insalaco diventa sindaco e affronta subito il nodo dei grandi appalti di Palermo, dimostrando con parole e con i fatti di non volere più l’affidamento dei lavori ai privati senza indire l’ asta pubblica.
Scrive ancora l’ex sindaco: L’atto portato avanti mi procurò una serie di attacchi esterni, ma molti dall’interno, sia dal gruppo cianciminiano con le clamorose dimissioni di Midolo (Salvatore Midolo era assessore comunale alla Manutenzione) che dal gruppo Lima e Gioia… pur facendo parte del gruppo politico che si ispirava a Fanfani. Gli attacchi contro Giuseppe Insalaco diventano ogni giorno più duri. E su tutti i fronti. Il primo esposto anonimo arriva negli uffici della procura della Repubblica di Palermo la mattina del 15 febbraio 1984. Il 13 aprile diventa sindaco. Il 16 luglio ecco il secondo anonimo. Quella stessa mattina Insalaco entra nella stanza del sostituto procuratore Carrara. È la fine di luglio quando si dimette da sindaco. Il 3 ottobre è a Roma, a Palazzo San Macuto, a deporre davanti all’Antimafia. Quattordici giorni dopo l’avvertimento: gli bruciano l’automobile. Il 18 novembre entra alla Assemblea Regionale subentrando al segretario regionale della Dc Rosario Nicoletti, morto suicida. Il 5 febbraio del 1985 un magistrato firma un ordine di cattura contro l’ex sindaco. Il 28 marzo Insalaco si costituisce.
Un’automobile dell’ufficio istruzione si ferma sotto il palazzo di via Notarbartolo. Tre agenti lo accompagnano al primo piano del Palazzo di Giustizia a disposizione del consigliere istruttore Antonino Caponnetto e del giudice Giovanni Falcone. La libertà provvisoria arriva ad agosto. Poi vive nel terrore per ventinove mesi. Fino a quella fredda sera di una settimana fa. Racconta oggi Salvo Riela, uno dei suoi avvocati: Diceva sempre: Io sono vittima di un killeraggio politico, mi stanno uccidendo con le carte e non con le armi. Era una valutazione sbagliata. Il penalista ha incontrato i giornalisti per chiarire il giallo dell’intervista pubblicata nei giorni scorsi da Repubblica e da L’Unità, uno dei documenti sequestrati dagli investigatori in un piccolo appartamento di via Papireto.
La precisazione di Salvo Riela. Quella non era una auto-intervista ma trenta risposte ad altrettante domande inviate ad Insalaco durante la sua latitanza. L’ex sindaco rispose all’invito di due giornalisti di un settimanale ma poi i suoi legali gli consigliarono di evitare un contatto con i giornali. Secondo quanto dichiarato dall’avvocato Riela, il settimanale pubblicò poi ugualmente un’intervista all’ex sindaco che costituisce però una libera interpretazione di valutazioni espresse da Insalaco in alcuni salotti palermitani prima di darsi alla latitanza. L’avvocato Riela ha insomma confermato che quelle trenta risposte apparse su Repubblica e su L’Unità, non solo erano state scritte dall’ex sindaco, ma erano anche inedite. Intanto, la Corte dei conti ha aperto un’inchiesta sui grandi appalti di Palermo.
Articolo del 3 novembre 1989 da ricerca.repubblica.it
I MISTERI DEL DELITTO INSALACO
di Attilio Bolzoni
PALERMO Gli ultimi testimoni furono Salvo Lima e Aristide Gunnella. Entrarono nella stanza del giudice Di Pisa nei primi giorni di gennaio, una settimana dopo l’inchiesta sarebbe finita nel bunker dell’ufficio istruzione. Un dossier, una valigia piena di carte e una lettera di poche righe: l’indagine allo stato è a carico di ignoti…. Ignoti i killer, ignoti i mandanti, notissima la vita e la morte di Giuseppe Insalaco, il primo sindaco di Palermo che puntò il dito contro Vito Ciancimino e i signori degli appalti.
Quasi due anni di indagini intorno al nulla per un delitto simbolo, un omicidio che Leoluca Orlando definisce molto significativo, un episodio-chiave per decifrare la Palermo della politica e degli affari. L’inchiesta sull’uccisione di Insalaco è tornata in procura, è sulla scrivania di Giovanni Falcone. Il sindaco Orlando ha spiegato che deve essere in tutti i modi valorizzata, ha detto anche che, curiosa coincidenza, adesso sono fuori gioco i due Pm (Ayala e Di Pisa) che si occuparono per primi del caso. È un’ indagine che penetra nei misteri più fitti della città e si concentra su un cadavere eccellente che fa da spartiacque tra due Palermo, tra l’era Ciancimino e il dopo.
I killer lasciano tracce. Gli assassini dell’ex sindaco di Palermo abbandonano subito dopo il delitto una 357 Magnum e un casco. Altri due piccoli grandi indizi: un ciuffo di capelli e tracce di sterco di gallina. Per quattro lunghi mesi nei laboratori della polizia scientifica si lavora con il microscopio, poi il colpo di scena. Una mattina del novembre scorso in un cimitero di Palermo vengono riesumati tre cadaveri, i cadaveri di tre ragazzi uccisi in un mercatino rionale qualche settimana prima. Gli investigatori sospettano che due di quei tre ragazzi abbiano potuto uccidere Insalaco. Il ciuffo di capelli porta al più grande delle vittime, lo sterco di gallina porta in un pollaio accanto alla casa del più piccolo. Le ricerche della scientifica arrivano ad una conclusione: i ragazzi non c’entrano con la morte di Insalaco. Sono stati uccisi per vendetta, non per eliminare testimoni pericolosi.
È di ieri però una notizia che in qualche modo potrebbe riaprire il caso. Il killer dei tre ragazzi non è un balordo qualunque, ma un professionista (il nome è coperto dal segreto istruttorio) di una cosca potentissima. Ci sono le sue impronte sulla bottiglia piena di benzina servita per bruciare una motocicletta, la moto usata nell’agguato. L’inchiesta sui sicari di Insalaco ripartirà da zero o quest’ultima scoperta rilancerà l’ipotesi che quei tre ragazzi massacrati erano coinvolti in un grande delitto di mafia?
Il dossier di Ayala e Di Pisa. Il dossier che i sostituti procuratori hanno trasmesso all’ufficio istruzione è diviso in due parti. La prima contiene una montagna di carte, tutti i documenti sequestrati dalla polizia nell’abitazione dell’ex sindaco e in un appartamento nel quartiere Papireto sopra un negozio di antiquariato. Nella seconda parte del rapporto ci sono invece tutti gli interrogatori, gli amici e i nemici di Insalaco presi a verbale.
L’elenco è lunghissimo. Davanti a Giuseppe Ayala e Alberto Di Pisa sono sfilati i protagonisti della storia della città degli ultimi quindici anni. Grandi imprenditori, ex sindaci, assessori del Comune di Palermo e della Regione Siciliana, tutti gli uomini che sono stati testimoni dell’ascesa e della caduta di Giuseppe Insalaco nella vita pubblica.
Tra gli ultimi personaggi ascoltati l’ex segretario regionale del Pci Luigi Colaianni e l’ex capogruppo comunista a Palazzo delle Aquile Elio Sanfilippo, l’eurodeputato Salvo Lima e Aristide Gunnella, l’ex alto commissario antimafia Emanuele De Francesco, il conte Arturo Cassina, già luogotenente dei Cavalieri del Santo Sepolcro, incontrastato re dei grandi appalti di Palermo per 42 anni.
Il testamento di Insalaco. L’ex sindaco ha lasciato un diario che, pubblicato dall’Unità e da Repubblica subito dopo la sua morte, ha provocato a Palermo un vero terremoto. Un testamento che era l’atto di accusa di un sindaco ucciso a colpi di 357 Magnum. Ma prima di scrivere il suo diario Insalaco aveva raccontato la storia dei grandi appalti di Palermo in commissione antimafia, quando era ancora sindaco, quando il comitato di affari cominciò a fargli il vuoto intorno.
Prima le lettere anonime alla magistratura, poi le calunnie, infine i killer.
Cosa aveva detto Insalaco alla commissione antimafia? Aveva semplicemente descritto come funzionava il sistema di distribuzione degli appalti a Palermo, aveva fatto i nomi dei padroni della città, aveva parlato anche dei Cavalieri del Santo Sepolcro. Non di tutti però, solo dei Cavalieri di Palermo, gli amici del conte Arturo Cassina.
Il contesto. Le indagini sulla morte di Insalaco cercano qualcosa nelle migliaia di fogli scritti a mano sequestrati la notte tra il 12 e il 13 gennaio del 1988, poche ore dopo l’uccisione dell’ex sindaco. Tra le carte un diario e un’intervista mai pubblicata. Sono le memorie di un uomo braccato. Nell’intervista mai pubblicata (concessa durante la latitanza di Insalaco ad un settimanale ma poi tenuta nel cassetto) l’ex sindaco racconta la corruzione di Palermo, i suoi timori, la sua solitudine, ricorda anche la sua disavventura giudiziaria e un ordine di cattura firmato dopo una circostanziata lettera anonima del Corvo di turno.
La compravendita di un terreno di proprietà di un mafioso, 70 milioni spariti dalle casse di un istituto comunale.
Nell’intervista Insalaco dice anche questo: Ormai ho più paura dei politici che dei mafiosi.
Il diario è una lista di 27 nomi. Dodici sulla fila di sinistra del foglio, quindici su quella di destra. Da una parte ci sono i morti importanti come Dalla Chiesa, La Torre, Mattarella, Terranova e i ministri Mannino e Scalfaro.
Dall’ altra ci sono Andreotti, Lima, Mario D’Acquisto, Gunnella, Ciancimino, i Salvo, il conte Cassina, alcuni ex assessori cianciminiani del periodo d’oro.
Sono i due volti di Palermo. Il grande polverone e i depistaggi. Quando i nomi finiscono sulle prime pagine dei quotidiani scatta, dopo la trappola mortale, il linciaggio sistematico della vittima, un classico nei delitti di mafia. Insalaco era una spia del ministero degli Interni, era un amico degli amici, era pieno di debiti, forse è stato un delitto d’onore. Il suo diario? Farneticazioni di un uomo bruciato politicamente. Ipotesi appena sussurrate anche in ambienti investigativi qualificati, gli stessi che aspettano mesi e mesi prima di interrogare la compagna dell’ex sindaco. La donna, Elda Tamburello, viene ascoltata per pochi minuti la notte del delitto da un funzionario della Squadra Mobile. Poi chi indaga dimentica l’esistenza della persona che più di ogni altra era stata vicina all’ex sindaco nell’ultimo anno. Il primo vero interrogatorio lo faranno molti mesi dopo, quando sui giornali si riparla di Insalaco e di tre ragazzi massacrati in un mercatino.
Articolo del 27 Settembre 1996 da ricerca.repubblica.it
PRESO IL KILLER DEL SINDACO DI PALERMO INSALACO
PALERMO – L ordine di uccidere l’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, assassinato il 12 gennaio del 1988, “fu dato da Totò Riina”. Lo hanno affermato i pentiti Calogero Ganci, il cognato Francesco Paolo Anselmo e Antonino Galliano. Quest’ultimo, che partecipò materialmente al delitto, ha confermato le dichiarazioni di Calogero Ganci. Ad assassinare l’ex sindaco Insalaco è stato un’insospettabile, Domenico Guglielmino, arrestato ieri notte dai carabinieri di Palermo.
Alle indagini ha collaborato anche la Squadra mobile di Palermo. Guglielmino fino a qualche mese fa, cioè prima ancora delle dichiarazioni di Calogero Ganci, era uno ‘sconosciuto’. Sarebbe stato un uomo d’onore riservato che avrebbe assunto il comando del mandamento del quartiere Noce dopo l’arresto del boss Raffaele Ganci.
Resta ancora incerto il movente dell’omicidio Insalaco. Il pentito Anselmo ha sostenuto che Insalaco, vicino a Cosa nostra, sarebbe stato assassinato perché avrebbe “irritato” i mafiosi. Per l’altro pentito, Antonino Galliano, Insalaco è stato ucciso per fare “un favore a persone esterne all’organizzazione mafiosa”, aggiungendo che “non mi risultano contatti di Insalaco con Cosa nostra ad eccezione di una sua presenza all’inaugurazione di un negozio di un uomo d’onore della nostra famiglia”. Intanto il boss Raffaele Ganci, che nei giorni scorsi aveva ‘minacciato’ di rivelare nomi di giudici collusi, ieri ha fatto un veloce dietrofront.
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Telefono giallo – Palermo: assassinio di un sindaco
Puntata del 18 dicembre 1990
Una puntata dedicata all’uccisione di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo per cento giorni tra l’aprile e il luglio 1984. Scontratosi all’interno del suo stesso partito, la Democrazia Cristiana, con il gruppo di potere politico-mafioso raccolto attorno a Vito Ciancimino, fu costretto alle dimissioni e venne assassinato a colpi di pistola il 12 gennaio 1988. Gli esecutori dell’omicidio furono condannati in via definitiva solo nel 2001.
Articolo da Livesicilia.it dell’11 Gennaio 2011
Giuseppe Insalaco, la vittima invisibile
di Martina Miliani
Quel 12 gennaio 1988 via Cesareo era un groviglio di automobili. C’era Giuseppe Insalaco al centro del gomitolo. Un uomo morto, ucciso. Lui e il suo autista. Lui e il suo fare politica, da sindaco: il quotidiano “L’Ora” lo avrebbe ricordato come “scheggia impazzita che sparava dritto contro i suoi nemici e non si rassegnava a tapparsi la bocca”. Un politico immerso nella Dc, che lo aveva portato lassù, primo tra i cittadini, ma che non lo aveva reso incapace di resitere a un Vito Ciancimino sempre più pressante. Era un rinnovamento quello che cercava. Così aveva messo mano agli appalti, a quel sistema intoccabile di Palermo, come per il rinnovo degli appalti della Lesca (dal 1938, per la manutenzione di strade e fogne di proprietà dei Cassina) e della Icem (dal 1969 per l’illuminazione pubblica di proprietà dell’ingegnere Roberto Parisi). “Ogni delibera – dichiarò – valeva decine di miliardi”. Per tre mesi occupò la massima poltrona cittadina, fino al 13 luglio del 1984. Quasi quattro anni dopo uccisero lui e le sue verità, contenute nelle dichiarazioni che rilasciò all’Antimafia di Giovanni Falcone nell’ottobre del 1984. Con il giudice parlò di quegli stessi “perversi giochi” che lo avevano costretto “alle dimissioni dopo appena tre mesi”.
“Insalaco forse ha promesso di fare quello che io non ho voluto fare e poi non ha mantenuto le promesse: così lo hanno massacrato. Denunce, lettere anonime. L’hanno lasciato solo. Non ho mai visto un uomo invecchiare così in tre mesi”, disse di lui chi al Comune lo aveva preceduto, la Dc Elda Pucci. Due settimane dopo la sua deposizione qualcuno rubò e appiccò fuoco alla sua auto, poi l’arrivo di un esposto anonimo, l’accusa di corruzione, l’incarcerazione e un processo che non si concluse mai. Furono cinque colpi di pistola a fermargli al vita quel 12 gennaio. Un delitto per il quale solo nel 2001, la Cassazione individuò nei due mafiosi Domenico Ganci e Domenico Guglielmini i responsabili.
Ma c’è chi ancora cerca altri mandanti, chi non riesce ad inquadrare quest’omicidio nella sola matrice mafiosa. Tra coloro che ricordano Giuseppe Insalaco, nei primi giorni dopo la sua morte, c’è chi non lo fa con grandi encomi. Di lui si disse che “era in corso a Palermo un frettoloso processo di beatificazione”, parola dell’avvocato Vito Guarrasi; mentre “inquietante protagonista di quella zona grigia dove mafia e politica vanno a braccetto”, fu la definizione del presidente della Regione Rino Nicolosi. Dopo la sua morte venne ritrovata una raccolta di memorie. Le righe che scrisse svelavano intrecci poltico-affaristico-mafiosi. Troppo tardi, però. Lui era già morto una, due, cento volte. E mai nessuna istituzione si preoccupò più di riaccendere il suo ricordo
PALERMO COMMEMORA INSALACO, I FIGLI: DIMENTICATO PER 24 ANNI
Caricato il 13 gen 2012
Palermo (TMNews) – Era il 12 gennaio 1988, quando 2 killer uccisero a colpi di pistola Giuseppe Insalaco, ex sindaco di Palermo negli anni ’80. La sua morte fu decretata dalle cosche per le sue denunce di connivenze tra mafia e politica e delle continue quanto inutili pressioni subite dagli uomini di Vito Ciancimino per la gestione dei grandi appalti del Comune. Un uomo onesto, ennesima vittima della mafia di cui però la città sembra essersi dimenticata, come denunciano i figli Ernesta e Luca.Ventiquattro anni dopo il suo sacrificio, per la prima volta, una cerimonia pubblica al Comune di Palermo ha ricordato la figura di Insalaco, eroe che non smise mai di lottare per la giustizia. Una commemorazione che, tuttavia, rende solo parzialmente giustizia ai tanti anni di dimenticanza. Dopo la morte di Insalaco fu trovato un memoriale in cui il politico accusava diversi esponenti palermitani della Democrazia Cristiana di allora di connivenza con la mafia. Per il suo omicidio furono condannati all’ergastolo Domenico Ganci e Domenico Guglielmini, riconosciuti responsabili dell’assassinio.
L’Ombra di un Ricordo
di Sergio Ruffino
video-documentario de “L’Ombra di un Ricordo”, evento per la commemorazione della figura dell’ex sindaco dc Giuseppe Insalaco, ucciso dalla mafia il 12 gennaio 1988, organizzato dalla famiglia Insalaco con la collaborazione con l’associazione Endass Ttm. Interventi di Francesca Grisafi, Riccardo Arena, Nicola Ravidà, Elio Sanfilippo e Luca Insalaco.
Riprese e montaggio di Sergio Ruffino – anno 2012 – Palermo.
Articolo del 12 Gennaio 2013 da livesicilia.it
Nel ricordo di Insalaco A 25 anni dalla morte
di Carlo Passarello
Anniversario dell’uccisione dell’ex sindaco di Palermo. Nessuna commemorazione ufficiale, ma amici e familiari appendono un gonfalone con la foto del politico ucciso nell’88 dalla mafia.
PALERMO – Un passante a passeggio fra via Cesareo e via Leopardi, a pochi metri da villa Sperlinga, in un frizzante pomeriggio di gennaio osserva sei persone intorno ad un palo della luce. Stanno appendendo un piccolo gonfalone, giusto sotto gli annunci immobiliari. “Giuseppe Insalaco. Sindaco di Palermo”, e in primo piano una foto in bianco e nero. Il passante sospetta possa trattarsi di campagna elettorale, ma la moglie lo rassicura: “Il sindaco lo abbiamo eletto da poco”.
Giuseppe Insalaco è stato sindaco di Palermo per tre poco più di tre mesi: dall’aprile all’agosto dell’84. È stato anche deputato, assessore e consigliere del ministro Franco Restivo. La sua storia non è molto nota a coloro i quali non sono stati suoi coetanei. La sua morte invece è stata derubricata sbrigativamente come omicidio di mafia. Se un coppia di passanti però passeggia fra via Cesareo e via Leopardi non trova nemmeno una targa che ricordi come la sera del 12 gennaio 1988 Insalaco venne ucciso mentre guidava la sua auto.
Ricorre oggi il venticinquennale dalla morte del sindaco democristiano che restò a Palazzo delle Aquile meno di cento giorni. Un quarto di secolo, in cui le istituzioni non lo hanno celebrato. “Lo scorso anno venne l’assessore Grisafi, ma siamo stati noi ad organizzare la commemorazione”, dice il figlio Luca. A ricordare l’ex sindaco ucciso dai killer Domenico Ganci e Domenico Guglielmini ci sono i due figlie ed un pugno di amici, fra cui l’ex assessore regionale Alessandro Aricò. La commemorazione nasce su Facebook, grazie all’impegno di Sergio Ruffino.
“Apprezzo questa manifestazione d’affetto – dice Luca Insalaco –, anche se qualora fosse dipeso da me non avrei tenuto nessuna commemorazione. L’augurio è di trovare qui il prossimo anno almeno una targa”. La sorella Ernesta è più schiva, tiene per le mani i figli e dopo la breve commemorazione si allontana. “All’inizio avevo chiesto l’intitolazione di una piazza, di una via, ora chiedo una targa. Il prossimo anno magari mi ridurrò a chiedere un etichetta”, afferma amaramente Luca Insalaco, che all’epoca dell’omicidio aveva 11 anni.
“Non voglio fare una guerra, perché non credo sia giusto speculare sulla memoria di mio padre. Ai miei figli racconterò cosa ha fatto mio padre. Una sentenza ha riconosciuto che sono la mia famiglia è vittima di mafia, l’impressione è però che la città non voglia ricordare”.
Articolo del 14 aprile 2013 da siciliainformazioni.com
Elda Tamburello, ultima testimone dei segreti di Palermo
L’atroce fine di Elda Tamburello, la compagna di Giuseppe Insalaco – inspiegabile suicidio di una donna che ha dedicato alla salute della mente la sua vita – non ha senso. E se proprio gliene dobbiamo dare uno, allo stato dei fatti, è che essa ci costringe a ripensare ad uno dei crimini senza colpevoli della tremenda storia di Palermo mafiosa. Quando l’ex sindaco di Palermo venne ucciso, la cronaca sentenziò che s’era portato nella tomba i segreti più inquietanti dei colletti bianchi. Insalaco lavorava per il Ministero degli Interni, stava con due piedi in una staffa. Niente di più pericoloso nel capoluogo dell’Isola.
Con la morte della compagna di Elda Tamburello, morte violenta come quella del suo compagno, quel poco di verità rimasto in vita se n’è andato per sempre? Non so rispondere a questa domanda. Conoscere la risposta potrebbe spiegare le ragioni del terribile gesto? Non credo.
La vita della psicologa, comunque sia, è legata a quella dell’ex sindaco. Non solo affettivamente. E’ perciò utile che riferisca ciò che scrissi ne “Il mistero del Corvo”, l’inchiesta sul caso Di Pisa (processato ed assolto per le lettere anonime del Palazzo dei veleni, come era stato battezzato il Palazzo di giustizia di Palermo). Ogni volta che chiedevo di Alberto Di Pisa nel corso della mia indagine affiorava Giuseppe Insalaco. Mi domandai perciò se gli infortuni capitati al magistrato fossero collegati all’ex sindaco di Palermo assassinato dalla mafia? Il memoriale di Giuseppe Insalaco, per cominciare. Fu spedito alle redazioni di due quotidiani mentre Alberto Di Pisa stava per esaminarlo. Il sospetto sul pm bruciò l’inchiesta. E poi il carteggio sugli appalti del comune di Palermo. Un’appendice alle indagini sull’assassinio di Insalaco e alle sue denunce. Ebbene, Alberto Di Pisa legge su due quotidiani che il sequestro dei documenti al comune di Palermo è stato già effettuato. Invece non è vero: i carabinieri andranno al comune 24 ore dopo. Altra inchiesta bruciata.
Poi le opinioni di un avvocato, cui domando di Alberto Di Pisa e mi risponde ricordando la latitanza protetta di Giuseppe Insalaco. Non credo alla diabolica concatenazione delle coincidenze. Mi persuasi che Insalaco avrebbe salvato la vita se non fosse entrato nel Parlamento siciliano. La lettera anonima all’autorità giudiziaria che diede il via all’indagine contro di lui e provocò il mandato di cattura, le lettere anonime destinate allo stesso Insalaco ingiungendogli di tacere avevano un filo conduttore ed una logica. Insalaco latitante, corrotto, delegittimato non avrebbe potuto nuocere.
La sorte si sarebbe presentata con il volto benevolo – l’ingresso nell’Assemblea regionale siciliana – per tendergli un’imboscata. Conclusa la latitanza, divenuto deputato regionale, Insalaco era diventato una persona credibile e quindi pericoloso. Ebbe lo stesso destino Leonardo Vitale: finché fu pazzo lo lasciarono vivere, quando divenne credibile lo ammazzarono. Il pm Di Pisa indagava sull’assassinio dell’ex sindaco di Palermo, Giuseppe Insalaco, e stava completando la requisitoria per la richiesta di rinvio a giudizio di Vito Ciancimino, altro sindaco di Palermo negli anni Sessanta, quando venne spogliato delle sue inchieste.
Divenuto da poco deputato regionale, pochi mesi prima dell’agguato, Insalaco aveva preso a frequentare Palazzo dei Normanni. Lo incontrai più volte: conversazioni casuali e frettolose, che pure mi permisero di percepire la sua smania di “giustizia” e il bisogno di condividere con altri la vicenda giudiziaria che stava vivendo. Insalaco aveva fatto nomi, raccontato episodi alla Commissione antimafia, a poliziotti e magistrati. Le sue verità lo esponevano al pericolo.
Per ciò che mi riguarda, proprio in quei giorni, avevo scritto che la struttura organizzativa dei partiti a Palermo mi pareva adatta ad ospitare le ragioni delle cosche mafiose, piuttosto che la volontà degli iscritti, suscitando apprensioni. Insalaco si informò sulla sorte toccata alle mie opinioni, messe nero su bianco, e ricevette risposte distratte e laconiche. Quando l’hanno ammazzato – una morte che più d’uno disse di avere previsto – riprovai il mio comportamento e considerai la pochezza di quelle mie denunce, che avevano ricevuto gli apprezzamenti di Insalaco, e le sue verità, raccontate a magistrati e commissari antimafia.
Credetti che egli avesse voluto rivelarmi qualcosa e ogni volta avesse deciso di lasciar perdere a causa del mio disinteresse, una fuga dalle responsabilità che il sapere avrebbe comportato. Mi rimproverai di non averlo incoraggiato. Insalaco accusava di mafiosità Vito Ciancimino e gli amici che nella Democrazia cristiana gli avevano permesso di dettar legge quando queste accuse erano imprudenti, ma era a sua volta accusato di aver ricevuto regali da due mafiosi: la vendita di un terreno comunale in cambio di una tangente di 66 milioni.
Se avesse avuto l’intenzione di raccontarmi qualcosa di importante, o voluto soltanto sfogarsi, non lo so, e non lo saprò mai: a molti anni dalla sua morte, il ricordo ha contorni sfuocati e le ragioni di quella amabile attenzione verso le mie audaci esternazioni sui partiti inquinati dalle cosche rimangono oscure.
Non sono affatto sicuro che avesse rivelazioni da farmi. Suppongo piuttosto che la morte atroce abbia contribuito a farmelo credere. Sono certo, questo sì, di avere cercato Alberto Di Pisa per parlare con il magistrato cui era stato affidato il compito di indagare sugli assassini di Insalaco. Di Pisa mi era noto attraverso scarne notizie di cronaca. Le quotidiane polemiche e l’esagerato protagonismo dei magistrati, soprattutto quel loro darsi da fare per entrare nel pool antimafia o per non uscirne, m’inducevano a supporre che sulla bilancia i rischi pesassero quanto i privilegi.
Invece che subirne il carisma, perciò, sentivo nei confronti della categoria un ingiusto pregiudizio. A mia parziale giustificazione ricordo che era il tempo in cui Enzo Tortora veniva messo in croce. Di Pisa disapprovava le scelte dei colleghi napoletani, seppure pacatamente, con mezze parole. “Abbiamo emesso a Palermo migliaia di mandati di cattura: un solo caso di omonimia”, ricordò. “A Napoli, dove ci si è basati sulle dichiarazioni dei pentiti, e solo su quelle, cento persone sono finite in galera per errore”. A Palermo, precisò, c’erano altri problemi “Nel mio lavoro l’imprevedibile è arrivare di mattina in ufficio per lavorare sull’assassinio di Giuseppe Insalaco e dovere invece aprire un’inchiesta per la fuga di notizie riservate: un’indagine dentro l’altra”.
La città marcia. Racconto siciliano di potere e mafia di Bianca Stancanelli
Marsilio Editore, 2016
La Palermo degli anni Ottanta, in una Sicilia trasformata nella sede della più grande base di missili nucleari della Nato in Europa, era un crocevia di affari e intrighi tra politici, imprenditori, burocrati e mafiosi. Mai come in quella stagione Cosa Nostra ha fatto politica, impugnando le armi per soffocare nel sangue e nel terrore ogni volontà di cambiamento. Sotto i suoi colpi, il 12 gennaio 1988, cadde Giuseppe Insalaco, un democristiano che aveva bruciato le tappe di una fortunata carriera nel partito di Salvo Lima e Vito Ciancimino, fino a diventare sindaco. Giuseppe Insalaco, nei suoi 101 giorni alla guida del Municipio si era ribellato ai suoi padrini, sfidando a sorpresa i padroni degli appalti. Disarcionato da un’inchiesta giudiziaria, espulso dalla politica, aveva cominciato a raccontare i segreti dei rapporti tra mafia e potere. Giuseppe Insalaco fu fermato con quattro colpi di pistola. Ricostruire la sua storia, fin qui offuscata da una potente ‘damnatio memoriae’, è tanto più necessario nel momento in cui al Quirinale siede un siciliano come Sergio Mattarella che dalla ferocia di quegli anni è stato colpito in prima persona, con l’assassinio del fratello Piersanti, il presidente della Regione che sognava una Sicilia “con le carte in regola”.
Fonte: antimafiaduemila.com
Articolo del 13 gennaio 2017
Giuseppe Insalaco: il sindaco dei cento giorni ucciso dallo Stato-mafia
di Giorgio Bongiovanni
Giovanni Falcone in un indimenticabile convegno alle soglie degli anni Novanta affermò:
“Gli omicidi Insalaco e Parisi (imprenditore ucciso il 23 febbraio ’85, ndr) costituiscono l’eloquente conferma che gli antichi ibridi connubi fra la criminalita’ mafiosa e occulti centri di potere costituiscono tuttora nodi irrisolti con la conseguenza che, fino a quando non sarà fatta piena luce su moventi e mandanti dei nuovi come dei vecchi omicidi eccellenti, non si potranno fare molti passi avanti”.
Parole che diventano pietre davanti al fior fiore delle autorità presenti, ma che hanno ragione d’essere all’indomani dell’eliminazione di Peppuccio Insalaco, il sindaco dei cento giorni nato e cresciuto tra le fila della Democrazia cristiana, scaricato dallo stesso partito quando dimostrò di voler rappresentare un movimento di rinnovamento in casa Dc. E che cinque volte andò dallo stesso Falcone per riempire altrettanti verbali. Tornando col pensiero agli scritti di Insalaco trovati post mortem che fecero tremare Palermo – un articolato dossier su mafia e politica e, poco dopo, il suo diario – si suppone che il sindaco ucciso il 12 gennaio 1988 avesse a disposizione una notevole quantità di materiale di interesse per il giudice Falcone.
Giuseppe Insalaco, figlio di carabiniere ma pupillo dell’allora ministro degli Interni Francesco Restivo – una volta diventato sindaco decise di fare a modo suo: alla prima occasione – che si presentò con l’anniversario dell’omicidio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo – si presentò sul luogo dell’eccidio con tanto di fascia tricolore. Ed era solo l’inizio. Fece tappezzare la città con manifesti dell’amministrazione comunale, denunciando l’escalation sanguinaria mafiosa, in cui per la prima volta compariva la parola mafia. Poco dopo, il 5 maggio 1984, eccolo a Roma in occasione di una manifestazione contro la mafia e la Camorra. Il suo progetto, appena sedutosi sulla poltrona da primo cittadino, era quello di cambiare le cose tra le fila della Democrazia cristiana. Senza però che quest’ultima, che risentiva fortemente del peso del corleonese Vito Ciancimino e relativi sostenitori, fosse intenzionata a farlo. Così l’ascesa di Peppuccio, raccontata da Saverio Lodato nel suo “Quarant’anni di mafia”, divenne un’inesorabile caduta libera. Quindi denunciò, in un’intervista rilasciata a Saverio Lodato:
“Ci sono gruppi economici e affaristici (…) i cui interessi spesso coincidono con quelli della pubblica amministrazione. Per il loro peso e i loro intrecci riescono spesso a condizionare scelte che in situazioni normali dovrebbero essere di competenza della classe politica”.
Prima di essere ucciso, il sindaco dei cento giorni lasciò in eredità alla sua città una marea di carte, documentazioni e materiale scottante pubblicato da Saverio Lodato per L’Unità e Attilio Bolzoni per La Repubblica, che fece gran scalpore nella Palermo bene. Insalaco accusava duramente, in quel carteggio, noti personaggi come l’eurodeputato Salvo Lima, i finanzieri Nino e Ignazio Salvo, gli “esattori” di Cosa nostra, Bruno Contrada, insalaco giuseppe omicidiofunzionario del Sisde, lo stesso Vito Ciancimino. Su su fino a Giulio Andreotti. Nel testo di un’intervista a Insalaco mai pubblicato prima della morte quest’ultimo, alla domanda “quali sono gli uomini del potere occulto, chi comanda a Palermo”, rispondeva: “Non c’è un potere occulto. Parlarne è un comodo equivoco; è un potere alla luce del sole esercitato in modo visivo. Un potere che bisognerebbe vedere come viene esercitato, le sue connivenze, le sue colleganze”.
Nel diario poi rinvenuto scrisse di Aristide Gunnella, repubblicano e ministro per gli Affari regionali, dei giudici Salvatore Palazzolo e Carmelo Carrara a suo parere coinvolti nelle sue disavventure giudiziarie (Insalaco fu accusato di aver intascato una tangente e poi di violazione della legge sulle armi), quindi indicò in Arturo Cassina, signore degli appalti comunali e cavaliere del Santo Sepolcro, il volto che si celava dietro la “congiura contro di lui”. Descrisse in tempi ancora non sospetti un legame a doppio filo tra la mafia e la politica degli anni ’80, capace di inserirsi nel controllo della cosa pubblica. Tirò in ballo personaggi che, anni dopo, avrebbero trovato posto nelle inchieste su quei patti e accordi degli anni ’90 che presero il nome di “trattativa Stato-mafia”, consumata pochi anni dopo l’omicidio politico di Insalaco, i cui registi sappiamo chi sono.
Ma quel memoriale del rampollo della Dc che poi si rivoltò alle sue logiche di potere costituì un ideale tassello che Falcone raccolse per cominciare a parlare pubblicamente di “ibridi connubi”, di “gioco grande”, e di quelle “menti raffinatissime” che il giudice descrisse all’indomani del fallito attentato all’Addaura.
Insalaco, nelle cui memorie resta una dura denuncia contro quel mondo in cui nacque, salvo esserne poi rimasto vittima, può essere considerato il primo vero Pentito di Stato nel momento in cui si presenta davanti a Falcone e inizia a squarciare il velo che celava il gioco in atto tra mafia, pezzi di Stato, imprenditoria e alta finanza. Forse l’unico che finora può definirsi tale. Certamente, uno di cui ci sarebbe bisogno oggi: qualcuno che descriva con occhio “interno” al mondo delle istituzioni degli scheletri nell’armadio e del marcio ereditato da decenni di convivenza con la mafia.
Fonte: interno.gov.it
Nota del 12 gennaio 2018
Testimonianze di coraggio, Giuseppe Insalaco il sindaco che alzò il velo su Palermo
“Il sindaco dei 100 giorni” fu ucciso il 12 gennaio 1988. Fu eliminato perchè tentò di cambiare l’amministrazione comunale svelandone i rapporti con la mafia
Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo dal 17 aprile al 13 luglio del 1984, fu assassinato il 12 gennaio 1988. Mentre si trovava imbottigliato nel traffico con la sua automobile, fu avvicinato da due ragazzi su una vespa che spararono cinque colpi di pistola, quattro dei quali andarono a segno.
Da sindaco cercò subito il rinnovamento nella politica e decise di fare a modo suo: alla prima occasione (l’anniversario dell’omicidio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo) si presentò sul luogo dell’eccidio con la fascia tricolore e fece tappezzare la città con manifesti dell’amministrazione comunale, denunciando l’escalation sanguinaria, in cui per la prima volta compariva la parola “mafia”. Poco dopo, il 5 maggio 1984, andò a Roma per una manifestazione contro la mafia e la camorra.
In municipio il nuovo sindaco ci tenne subito a far capire che per gli appalti l’aria era cambiata, non firmando i mandati di pagamento per l’impresa Lesca che da sempre si occupava della manutenzione di strade e fogne in città, così come per l’Icem che curava l’illuminazione pubblica.
Depose davanti alla commissione antimafia e davanti al giudice Falcone, raccontando le collusioni mafiose al comune e le mille pressioni a cui era sottoposto. Due settimane dopo la sua deposizione qualcuno rubò e appiccò fuoco alla sua auto, poi fu oggetto di un esposto anonimo con l’accusa di corruzione e per questo arrestato. Non si diede per vinto neanche quando fu costretto a dimettersi perchè attaccato personalmente.
Prima di essere ucciso, “il sindaco dei cento giorni” lasciò in eredità una ricca documentazione e materiale scottante, poi pubblicato su giornali nazionali. In quel carteggio, Insalaco accusava duramente noti personaggi e diversi esponenti della DC palermitana, il sistema di gestione degli appalti e del potere cittadino.
I suoi assassini, Nino Galliano e Domenico Guglielmini, insieme a Domenico Ganci furono identificati e condannati quali componenti del commando. Lo Stato ha onorato il suo sacrificio con il riconoscimento concesso a favore dei suoi familiari, costituitisi parte civile nel processo, dal Comitato di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso di cui alla legge n. 512/99.
30 anni fa l’omicidio dell’ex sindaco Giuseppe Insalaco
TrmWeb Sicilia, 12 gennaio 2018
30 anni fa la mafia uccideva a Palermo l’ex sindaco democristiano Giuseppe Insalaco; un figura (la sua), ancora in ombra e che andrebbe riscoperta.
Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 4 gennaio 2019
La città marcia
di Bianca Stancanelli
C’era una volta il mito del “terzo livello”, formula seducente per indicare una sorta di direttorio sovraordinato alla mafia militare e capace di dirigerne le strategie. Il nuovo millennio l’ha sepolto negli archivi, giudicandolo inservibile per decifrare le dinamiche criminali.
C’è adesso, più concreta e temibile, la “zona grigia”, tenebroso territorio di ombre in cui convergono le relazioni di potere, le alleanze e le complicità che danno alla mafia la sua capacità di resistenza e la sua forza. Evocata in inchieste e processi, dalla sentenza sulla trattativa Stato-mafia alla vischiosa ragnatela di alleanze tessuta da Antonello Montante, dai depistaggi nelle indagini sul delitto Borsellino alla rete di complicità che proteggono la latitanza di Matteo Messina Denaro, la “zona grigia” si rivela tuttora largamente impenetrabile. Per oltrepassarne la frontiera, il magistrato Nino Di Matteo ha auspicato l’ingresso sulla scena giudiziaria di “un pentito di Stato” – che, forse, per la quantità e la qualità dei segreti che dovrebbe rivelare, potrebbe assimilarsi a un kamikaze.
Eppure, nella lunga storia di Cosa nostra siciliana, c’è almeno un’occasione in cui un personaggio di quel genere si è manifestato ed è stato abbattuto a colpi di pistola. È successo trent’anni fa, a Palermo, quando Giuseppe Insalaco, democristiano, sindaco della città per cento giorni, nemico giurato di Vito Ciancimino, in attesa di essere processato per truffa, cominciò a dire che avrebbe utilizzato il palcoscenico giudiziario per raccontare tutto ciò che sapeva – ed era molto – sui rapporti tra la mafia e la politica. Quattro colpi di pistola, il 12 gennaio 1988, misero fine a quel progetto temerario. E che il trentesimo anniversario di quel delitto (“un delitto che non può che essere stato deciso a livelli altissimi”, commentò a caldo Paolo Borsellino) sia scivolato via sotto silenzio, dice più dell’imbarazzo che dell’oblio che tuttora circonda le vicende dell’unico sindaco di Palermo ucciso nel Novecento.
Per forzare quell’imbarazzo, e scongiurare l’oblio, ho voluto ricostruire la storia di Giuseppe Insalaco in un libro, La città marcia, pubblicato da Marsilio nel febbraio 2016. Qualcosa si è mosso: nell’ottobre di quell’anno, il sindaco Leoluca Orlando ha finalmente inaugurato una targa-ricordo nel luogo dell’assassinio e, nella primavera 2017, il Comune di San Giuseppe Jato, paese natale di Insalaco, lo ha ricordato come vittima di mafia in una lapide innalzata in una piazza centrale. Di più, si è riconosciuto che, pur nella sua ambiguità di politico allevato nella Dc più compromessa, Insalaco aveva combattuto, da sindaco, una spericolata battaglia per spezzare il vecchio monopolio degli appalti e aprire la strada al rinnovamento e che per questo la politica l’aveva espulso e la mafia condannato a morte, in un’esecuzione che Riina scelse di affidare alla famiglia di mafia più fidata, i Ganci del quartiere della Noce.
Ambientata negli ultimi anni della guerra fredda, in una Sicilia in cui la Nato insediava la sua più grande base missilistica europea, mentre il potere dei corleonesi toccava il culmine, la storia di Insalaco ha ancora una sua profonda attualità. Perché il groviglio di intese e di interessi che finì per stritolarlo è la perfetta rappresentazione della zona grigia: un’imprenditoria famelica a caccia di appalti pubblici, una politica corrotta e complice, una burocrazia compiacente, apparati dello Stato dai comportamenti opachi. Tanto che Giovanni Falcone scrisse di intravvedere, sullo sfondo del delitto Insalaco, «gli antichi, ibridi connubi tra criminalità mafiosa e occulti centri di potere».
Per questo, forse, trent’anni dopo, quel sindaco assassinato è ancora così scomodo da ricordare.
Leggere anche:
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Articolo del 11 gennaio 2022
Il sindaco Giuseppe Insalaco e la città marcia
di Attilio Bolzoni e Francesco Trotta
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Articolo del 11 gennaio 2022
L’uomo che osa sfidare il potere di Palermo
Dal libro “La città marcia” di Bianca Stancanelli
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