13 Maggio 1986 Palermo. Uccisione di Francesco Paolo Semilia, imprenditore edile

Nel pomeriggio del 13 maggio 1986 due killer hanno massacrato a pistolettate l’imprenditore edile Francesco Paolo Semilia, 47 anni, che con il padre Antonino ed i fratelli maggiori Ottavio e Michele apparteneva al gruppo di testa dei costruttori palermitani.
Un altro imprenditore di Palermo assassinato dalla mafia delle tangenti. I Semilia hanno innalzato numerosi tra i più eleganti e vasti edifici della città in quasi 40 anni di un’attività che mai ha dato adito a dubbi ed insinuazioni.
Francesco Paolo Semilia è giunto in cantiere verso le 15,30 con la sua Renault-4 che utilizzava giornalmente. Appresso a lui due giovani su una Ritmo bianca che, scesi, gli hanno domandato: «È lei il signor Semilia?». Ottenuta la risposta affermativa, uno dei due ha estratto la pistola e ha incominciato a sparare. Schivato il primo proiettile, l’imprenditore ha tentato di fuggire, ma è stato raggiunto alle spalle da altre due pallottole. I killer gli si sono avvicinati, esplodendogli da distanza ravvicinata alla testa il colpo di grazia.
Fonte: vivi.libera.it

Gli operai del cantiere assistettero terrorizzati all’esecuzione. Non si è mai celebrato un processo.
Fonte: Quarant’anni di mafia di Saverio Lodato – Bur Rizzoli

 

 

 

Fonte LA STAMPA del 14.05.86
IMPRENDITORE ASSASSINATO DALLA MAFIA DELLE TANGENTI
di Antonio Ravidà
Due killer gli hanno sparato ieri a Palermo

PALERMO La mafia delle tangenti a Palermo ha assassinato un’altro imprenditore. Ieri pomeriggio due killer, pronti a tutto, hanno massacrato a pistolettate l’imprenditore edile Francesco Paolo Semilia, 47 anni, che con il padre Antonino ed i fratelli maggiori Ottavio e Michele apparteneva al gruppo di testa dei costruttori palermitani.

I Semilia hanno innalzato numerosi tra i più eleganti e vasti edifici della città in quasi 40 anni di un’attività che mai ha dato adito a dubbi ed insinuazioni. Gente per bene, portafoglio solido, nessun compromesso con le cosche, ben diversamente da altri costruttori edili che nel maxiprocesso in corso nell’aula bunker dell’Ucciardone ed in altre istruttorie antimafia sono accusati di aver riciclato mucchi di miliardi per conto dei boss.

Il delitto è avvenuto in uno dei cantieri edili dell’impresa, in Via Papa Sergio, tra le falde del Monte Pellegrino, il bellissimo promontorio che domina la città e Villa Igea, il più esclusivo hotel di Palermo che fu la residenza della famiglia Florio.

Francesco Paolo Semilia (ragioniere, due figli di 20 e 19 anni iscritti all’Università) è giunto in cantiere verso le 15,30 con la sua Renault-4 che utilizzava giornalmente. Appresso a lui due giovani su una Ritmo bianca che, scesi gli hanno domandato: “E’ lei il signor Semilia?”. Ottenuta la risposta affermativa, uno dei due ha estratto la pistola e ha incominciato a sparare. Schivato il primo proiettile, l’imprenditore ha tentato di fuggire, ma è stato raggiunto alle spalle da altre due pallottole. I killer gli si sono avvicinati, esplodendogli da distanza ravvicinata alla testa 11 colpo di grazia. La scena è stata fulminea, una sequenza di 30-40 secondi. La fuga degli assassini non è stata ostacolata dagli operai, colti di sorpresa ed accorsi all’esterno del palazzo in costruzione, mentre la Ritmo si allontanava con il motore al massimo. Per Francesco Paolo Semina non c’era più niente da fare. “Nessuna minaccia, niente che lasciasse presagire questa tragedia — dice Ottavio Semilia — siamo sempre stali disponibili, non abbiamo mai negato i dieci sacchi di cemento a chi ce li chiedeva. Non comprendo per quali motivi sia potuto accadere”.

Polizia e carabinieri hanno presto ricollegato il delitto Semilia ad altri due avvenuti l’anno scorso sempre in città, con le uccisioni dell’Ingegner Roberto Parisi, presidente del Palermo e vicepresidente dell’Associazione degli industriali siciliani, e dell’Ingegner Piero Patti, altri due Imprenditori che non si erano piegati al ricatto dell’anonima estorsioni, a Palermo saldamente controllata dalla mafia, che ora la rilancia vista la riduzione del traffico della droga dopo la forte stretta antimafia. E’ questo il diciottesimo delitto dell’anno a Palermo, dove si è quindi largamente al di sotto della media rispetto agii anni scorsi quando, In maggio certe volte si era già a quota 60-70 uccisi.

 

Articolo del 31 Agosto 1991 da  ricerca.repubblica.it
 LAVORARE CON LA PISTOLA ALLA TEMPIA
di Antonio Calabrò

PALERMO – “Città maledetta. E oramai quasi senza più speranza”. Si stringe nelle spalle, come se un brivido lo scuotesse a dispetto del gran caldo d’estate. E gira intorno gli occhi inquieti, come a cercare una risposta che non c’è: che fare, adesso che un altro imprenditore palermitano è stato assassinato per aver osato ribellarsi alle famiglie mafiose? Poi sbotta, con rabbia: “La tentazione è mollare tutto e andare via. Chiudere la fabbrica, prendere moglie e bambini e ricominciare daccapo. Ma altrove. Lontani da questa città, dalla sua violenza, dal nostro stesso dolore”. Poi si calma, accenna ad un sorriso: “E invece non posso proprio chiuderla, questa fabbrica. L’ha costruita mio padre. E ne dipendono i salari e la vita di più di cinquanta operai: alcuni, li conosco da quand’ero bambino. Così ancora una volta resteremo. Ma, lo confesso, la fatica è ogni volta più grande, più insopportabile”.

È pomeriggio. Periferia di Palermo. Una strada dissestata e polverosa corre tra i capannoni, in un quartiere che solo per definizione burocratica si chiama “zona industriale”. E qui, in un ufficio ingombro di carte e disegni, l’uomo confida tutta la sua angoscia d’imprenditore siciliano. Ha poco più di quarant’anni, una laurea in ingegneria e metà della vita spesa per far funzionare l’azienda, in quest’inferno meridionale in cui tenere in piedi un’impresa è un azzardo molto più rischioso che altrove. Già, il rischio. Che l’impresa sia una combinazione di rischio e innovazione lo dicono tutti i manuali di economia. Ma nessuna regola imprenditoriale prescrive che si metta in gioco la propria incolumità, come è successo due giorni fa a Libero Grassi e prima di lui ad alcuni altri industriali, costruttori, commercianti. Eccola qui, dunque, la peculiarità tutta meridionale del rischio d’ impresa: un gioco di vita e di morte, che accompagna e stravolge – a Palermo come a Catania, a Reggio Calabria come in Campania – tutti gli altri parametri del giudizio imprenditoriale: la qualità dei prodotti, il costo del denaro, l’ innovazione dei processi produttivi, le quote di mercato. E, qui, la morte.

«In queste condizioni – racconta il nostro industriale – come si fa a pensare seriamente allo sviluppo delle aziende, come si fa a lavorare bene e ad essere competitivi? A Parma, a Ravenna, ad Ancona o a Prato, non c’è nessuno che spari agli industriali, non c’è nessuno che li minacci di morte». Le voci della crisi sono tante, in queste ore a Palermo, le voci della crisi. Impossibile raccogliere una testimonianza che possa essere accompagnata da un nome e un cognome. Paura, ma soprattutto un grande sconforto. Dietro la sicurezza dell’anonimato, si raccolgono comunque molti pareri. Che dicono tre cose. La prima: in Sicilia, al di là dei “signori degli appalti”, esistono alcune buone imprese che potrebbero fare da motore dello sviluppo. La seconda: la crescita economica ha bisogno di condizioni ambientali e di una rete di rapporti che permettano alle imprese di espandersi, ma l’intreccio delle tangenti e delle minacce mafiose rischia di rendere impossibile ogni speranza di sviluppo. La terza: di imprenditori, in Sicilia, finora ne sono morti parecchi e ogni volta ci sono state solenni promesse d’intervento delle autorità e sostanziali assenze dello Stato.

Adesso, dopo l’uccisione di Libero Grassi, si ripete la medesima rappresentazione. E poi? È antica, la consuetudine siciliana con la memoria. Impossibile dimenticare. Soprattutto quando è la violenza a fare da cemento ai ricordi. E così non c’è nessuno, tra gli imprenditori palermitani, che non sappia ricostruire il lungo elenco degli industriali assassinati, dall’omicidio molto misterioso del costruttore Piero Pisa, nove anni fa, alla spettacolare esecuzione di Roberto Parisi, nel febbraio ‘ 85: era un “industriale del palazzo”, Parisi, addentro all’ intreccio tra affari e politica. Ma perché sia stato assassinato, le indagini giudiziarie non lo hanno mai accertato. Tra le tante ipotesi, una tremenda: che Parisi, pur profondo conoscitore delle logiche del potere palermitano, avesse detto di no ad una richiesta pesantissima: ritrovarsi come azionisti di maggioranza i boss mafiosi. Il suo rifiuto sarebbe stato giudicato intollerabile. E dunque punito.

Si commenta: «Già all’inizio degli anni ’80, i boss avevano cambiato strategia. Da alcuni di noi industriali non volevano più ” il pizzo” per la protezione. No. Pretendevano di diventare soci, in modo da avere una copertura legale per le loro attività illecite». Qualcuno aveva rifiutato: un piccolo industriale di Partanna, per esempio. Era morto. Così, lungo il corso degli anni ’80 scanditi dal terrore della “guerra di mafia”, moltissimi imprenditori hanno subito le imposizioni, hanno “pagato”. Talvolta con indifferenza, come se la tangente fosse una delle tante voci dell’elenco dei costi d’impresa. Più spesso con fastidio, ma con altrettanta rassegnazione. Qualcuno ha detto di no e s’è ribellato platealmente. Luigi Salatiello, per esempio: aveva rifiutato di pagare una tangente per avere “protezione” alla Keller, la sua impresa di costruzioni ferroviarie, aveva denunciato le intimidazioni e aveva portato il caso in Parlamento (era deputato della Sinistra indipendente).

Accanto ai rifiuti pubblici, non sono mancati altri rifiuti più discreti, ma altrettanto decisi. Ma stroncati dai boss. Piero Patti, imprenditore alimentare, era stato assassinato il 28 febbraio ’85 di primo mattino, in centro, mentre accompagnava a scuola le sue bambine. E Gianni Carbone, due settimane dopo, negli uffici della sua azienda di costruzioni. Ricordi, ricordi. E una diffusa, crescente paura. Ucciso Francesco Paolo Semilia. Ucciso Luigi Ranieri. Non c’era mistero, dietro quelle morti, se non sull’identità degli assassini. Allora, alla fine dell’88, davanti al cadavere di Ranieri, il presidente dei costruttori, Nello Vadalà, aveva dato un segnale che avrebbe dovuto fare riflettere: “Gli imprenditori vengono uccisi non perché siano collusi, ma perché oppongono una disperata resistenza alle infiltrazioni mafiose nell’economia legale”. Le pressioni sull’economia, interventi reali, dopo quella drammatica denuncia? Nessuno. E chi conosce le storie siciliane sa come si siano saldate vecchie e nuove alleanze tra mafia, pubblica amministrazione e imprese “discusse” e come siano contemporaneamente diventate sempre più pesanti le pressioni mafiose sull’economia siciliana.

Procede una vera e propria “normalizzazione mafiosa” che non tollera anomalie. Una riprova? L’assassinio a Catania di due dirigenti d’azienda, Alessandro Rovetta e Francesco Vecchio, il 31 ottobre d’un anno fa: avevano rifiutato di lasciare spazio, nella loro acciaieria Megara a false cooperative controllate dai clan mafiosi. Grande allarme, allora. La Megara era d’un gruppo di Brescia e s’era temuto che si scatenasse una fuga d’investimenti dal Sud. Così il governo aveva promesso interventi per “controllare il territorio”, risanare l’economia, proteggere gli imprenditori onesti. «E invece – si commenta a Palermo, in fabbrica – eccoci nuovamente di fronte al cadavere d’uno di noi». Il futuro è cupo: «Qualcuno in silenzio rinuncerà, chiuderà la fabbrica e andrà via dalla Sicilia. Qualcun altro continuerà mortificato a pagare tangenti e a tremare. Forse pochi, ancora, si opporranno, temendo il peggio. E si andrà avanti così. Come sempre. Sino al prossimo morto».

 

 

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