24 Marzo 1966 Tusa (ME) uccisione di Carmelo Battaglia, sindacalista, assessore comunale socialista
“Carmelo Battaglia era stato uno dei soci fondatori della cooperativa di Tusa (ME), nata nel 1945 per la concessione delle terre incolte. Nel 1965, i contadini e coltivatori soci di questa cooperativa, insieme a quelli soci della cooperativa di Castel di Lucio, erano riusciti ad acquistare, dalla baronessa Lipari, il feudo Foieri, di 270 ettari. Subito dopo l’immissione nel possesso del fondo, sorsero forti contrasti con il gabellotto comm. Giuseppe Russo – ex vice-sindaco DC di Sant’Agata di Militello – e con il sovrastante Biagio Amata, che avevano avuto in gestione il feudo fino ad allora. Costoro pretesero dai nuovi proprietari la cessione di una parte dell’ex-feudo, per farvi svernare i propri armenti. Fu proprio nei forti contrasti che sorsero tra la cooperativa e questi due personaggi che maturò, quasi sicuramente, il delitto Battaglia.
L’assessore socialista – che aveva difeso con fermezza i diritti dei contadini – fu ucciso all’alba del 24 marzo, proprio mentre si recava sul feudo Foieri. (“Storia del movimento antimafia siciliano – dai Fasci siciliani all’omicidio di Carmelo Battaglia” di Gabriella Scolaro)
Fonte: C.tro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”
Carmelo Battaglia
Tusa (Messina) 24 Marzo 1966
Assessore comunale socialista, faceva parte della cooperativa di pascolo “Risveglio alesino”.
Nella zona era in atto una “guerra dei pascoli” con molte vittime tra i pastori e abigeatari.
Battaglia con la sua cooperativa era riuscito ad acquistare un feudo e si batteva contro i mafiosi della zona.
Il delitto è rimasto impunito.
Tratto da: terrelibere.org
“Storia del movimento antimafia siciliano – dai Fasci siciliani all’omicidio di Carmelo Battaglia” di Gabriella Scolaro
“Carmelo Battaglia era stato uno dei soci fondatori della cooperativa di Tusa, nata nel 1945 per la concessione delle terre incolte. Nel 1965,i contadini e coltivatori soci di questa cooperativa, insieme a quelli soci della cooperativa di Castel di Lucio, erano riusciti ad acquistare, dalla baronessa Lipari, il feudo Foieri, di 270 ettari. Subito dopo l’immissione nel possesso del fondo, sorsero forti contrasti con il gabelloto comm. Giuseppe Russo – ex vice-sindaco DC di Sant’Agata di Militello – e con il sovrastante Biagio Amata, che avevano avuto in gestione il feudo fino ad allora. Costoro pretesero dai nuovi proprietari la cessione di una parte dell’ex-feudo, per farvi svernare i propri armenti. Fu proprio nei forti contrasti che sorsero tra la cooperativa e questi due personaggi che maturò, quasi sicuramente, il delitto Battaglia.
L’assessore socialista – che aveva difeso con fermezza i diritti dei contadini – fu ucciso all’alba del 24 marzo, proprio mentre si recava sul feudo Foieri. Gli assassini non si limitarono a sparargli addosso. Vollero che il messaggio mafioso di quella esecuzione fosse chiaro a tutti. Così, sistemarono il cadavere in posizione accovacciata, con le mani dietro la schiena e la faccia appoggiata su di una grossa pietra. Il giornalista Felice Chilanti scrisse:
“uno ha sparato, altri hanno compiuto la bieca operazione mafiosa di chinare, in atto di sottomissione, un uomo che in vita non si era arreso (in M. Ovazza, 1993, p. 19).”
Articolo dell’Unità del 25.03.1966
Un assessore socialista ucciso a colpi di lupara
di Giorgio Frasca Polara
Il compagno Carmine Battaglia stava recandosi al lavoro quando è stato assassinato – Inconfondibile firma della mafia – Politici i moventi del delitto – La vittima al centro di aspre lotte contadine nel comune amministrato dalle sinistre
Palermo, 24
Un nuovo crimine è stato confermato in Sicilia: il comp. Carmine Battaglia di 43 anni, assessore socialista a Tusa – un piccolo comune di montagna in provincia di Messina, amministrato dalle forze di sinistra – è stato assassinato all’alba di oggi con due colpi di fucile calibro 12 caricato a lupara mentre si recava al lavoro nei campi. Gli assassini non sono stati ancora identificati: tuttavia il delitto è maturato in un clima di tante e tali intimidazioni anticontadine, passate e recenti, da recare ben chiara la firma della mafia che, giusto nella zona di Tusa (e cioè al di fuori della sua tradizionale area di influenza) ha forti radici e consistenti interessi.
Il delitto è stato compiuto poco dopo le 4 del mattino in contrada Santa Caterina, a tre chilometri e mezzo dal paese, Carmine Battaglia stava percorrendo una impervia “trazzera” quando sono partite due fucilate che lo hanno raggiunto in pieno petto. Il cadavere martoriato dalla rosa dei micidiali pallettoni della lupara, è stato scoperto soltanto quattro ore più tardi da un gruppo di contadini che percorreva la stessa strada. Da Tusa sono accorsi i carabinieri della locale stazione: identificato l’ucciso nell’assessore Battaglia, i militi hanno trasmesso un preoccupato allarme alla tenenza di Santo Stefano Camastra e poi alla legione di Messina da dove è giunto nella tarda mattinata il colonnello De Franco che ha assunto il comando delle indagini. Per tutta la mattinata, però, si è invano atteso che le indagini imboccassero una pista precisa, ed in particolare quella del movente politico, che viene indicata come la più consistente da tutta l’opinione pubblica e che stasera viene ripresa persino dalla insospettabile stampa di destra.
Ed è proprio questa sconcertante cautela “ufficiale” – che non solo in questo, ma in decine di crimini di analoga natura che sono costati al movimento contadino siciliano uno spaventoso tributo di sangue – che ha regalato sempre agli assassini un buon margine di vantaggio, talora addirittura la sicurezza dell’impunità. Eppure, come si è detto, il nuovo crimine è maturato in un clima che non può lasciare adito a dubbi di sorta.
A Tusa – un paesino nascosto tra i monti Nebrodi, a mille metri di altezza, economia silvo-pastorale poverissima, poco più di cinquemila anime – la maggioranza degli elettori con le amministrative dell’inverno ’64, aveva sottratto il comnune alla DC e alle destre, affidandone la gestione a uno schieramento unitario che comprendeva i comunisti (tre assessori), i socialisti (due assessori) e i democristiani dissidenti di sinistra (il sindaco e un assessore.
Sull’onda di questo successo – che aveva spezzato una lunga e soffocante ipoteca delle forze conservatrici della zona – era nato e si era sviluppato a Tusa un movimento organizzato dei contadini che aveva portato, l’anno scorso, alla costituzione di una cooperativa democratica. Questa cooperativa – di cui era dirigente, con altri, il compagno Battaglia – aveva condotto insieme a una consorella del vicino centro di Castewl di Lucio una forte iniziativa che aveva portato a un primo e consistente successo: l’assunzione in gestione diretta del feudo Foieri, 270 ettari di terra, adatto alle trasformazioni progettate dagli 80 cooperatori.
Il passaggio della terra ai contadini aveva provocato una serie di gravi scontri tra i partecipanti alle due cooperative e il gabbellotto della feudataria, baronessa Lipari: di tali intimidazioni le cooperative avevano interessato, denunciandole energicamente, polizia e carabinieri. Ma nessuno intervenne, sicché i mafiosi avevano potuto portare avanti, indisturbati, l’offensiva anticontadina, non esitando tre mesi fa a organizzare persino una sparatoria che aveva il preciso senso di un “avvertimento”.
Se questa vicenda della cooperativa non bastasse, il compagno Battaglia giocava un ruolo diretto, personale, in affari pubblici che potevano interessare la mafia.
Come assessore al Patrimonio, egli aveva infatti una specifica competenza nell’attuale taglio di bosco, nelle selve del demanio comunale, un settore di tradizionale forte interesse per l’intermediazione parassitaria. Risulta che il compagno Battaglia stesse proprio per indire la tradizionale gara di appalto per il taglio.
C’è quanto basta, insomma, per comprendere da che parte sia potuta venire, all’alba, la scarica che ha ucciso ancora una amministratore popolare siciliano. Che dunque proprio questa direzione debbano orientarsi subito le indagini, lo sostine questa sera, a Palermo, persino un foglio di estrema destra che, pressato dalla evidenza dei fatti è costretto ad ammettere a tutte lettere che, la spartizione di feudi e di proprietà comunali turba un equilibrio istaurato da anni e da gabellotti e “personaggi autorevoli” provocando il loro risentimento per il fatto che vengano meno illeciti introiti.
Il clima, insomma, è lo stesso che la coscineza contadina siciliana conosce molto bene ormai da venti anni: quello stesso clima che segnò la morte del compagno Placido Rizzotto a Corleone, del compagno Accursio Miraglia a Sciacca, del compagno Paolono Bongiorno, del compagno Salvatore Carnevale a Sciara, e degli altri 60 dirigenti popolari capolega e contadini trucidati dalla mafia nel dopoguerra. Un clima che, purtroppo, e malgrado la Commissione parlamentare antimafia e le talora vistose operazioni di polizia, non è stato diradato.
A Tusa, frattanto, sono giunti numerosi dirigenti provinciali del partito socialista, del partito comunista, del movimento cooperativo, della CGIL e dell’Alleanza per testimoniare, con la loro presenza, della decisa volontà di non tollerare una ennesima archiviazione per delitto “ad opera di ignoti”.
Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 12 novembre 1969
L’antimafia apre un’inchiesta sull’assassinio del sindacalista
Carmelo Battaglia: un “delitto politico e mafioso”
di Igor Man
La vittima (socialista) aveva organizzato una cooperativa di pastori, che andava contro gli interessi della malavita – I presunti assassini sono stati prosciolti – Il sindaco, il procuratore della Repubblica e il comandante dei carabinieri di Mistretta interrogati a lungo da due delegati della Commissione parlamentare.
Palermo, 11 novembre. La Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia mette a nudo vecchie ferite che la giustizia non è riuscita a cicatrizzare; ripropone alla magistratura e all’opinione pubblica l’assassinio del sindacalista siciliano Carmelo Battaglia, ucciso a colpi di lupara all’alba del 24 marzo 1966, su di una trazzera a pochi chilometri da Tusa, sui monti Nebrodi.
Sedici omicidi
Due delegati dell’Antimafia: un consigliere di Corte d’appello, un colonnello dei carabinieri, piombano una settimana fa a Mistretta, dov’è un tribunale; durante ventiquattr’ore interrogano il sindaco, il comandante dei carabinieri e quel procuratore della Repubblica, Gullotti, che ha appena depositato la sentenza di proscioglimento in istruttoria dei maggiori indiziati dell’assassinio di Battaglia.
Questa nuova inchiesta dell’Antimafia ha una lunga gestazione. Tutto, verosimilmente, comincia il 28 maggio scorso, allorché cinque deputati (due del pci, uno della dc, del psi, del psiup) rivolgono una interrogazione al ministro di Grazia e Giustizia sollecitando un’indagine del Consiglio Superiore della Magistratura sull’operato del presidente della Corte d’appello di Messina, Rossi (al tempo dell’assassinio di Battaglia procuratore generale presso la stessa Corte d’appello) e del procuratore della Repubblica di Mistretta. A muovere i deputati non è solo la sentenza di proscioglimento (la terza sul caso Battaglia, emessa nel, maggio 1969), ma anche, se non soprattutto, quanto ha detto sul «caso», il 27 febbraio, davanti all’Antimafia, il capo della polizia, prefetto Angelo Vicari.
Ho potuto leggere uno stralcio del testo stenografico di quella seduta. È un documento che colloca in una prospettiva inquietante il proscioglimento dei denunciati per l’uccisione di Battaglia e la catena di delitti, tutti rimasti impuniti, consumati nel giro di 16 anni fra Tusa, Mistretta e Castel di Lucio, dal 1953 fino a pochi mesi fa quando venne ucciso il pastore Pietro Corpora. Sedici omicidi, quattro tentati omicidi, un numero incalcolabile di altri reati dall’abigeato al ricatto, all’estorsione.
Seduta dell’Antimafia – 27 febbraio 1969:
Perché, domanda l’on. Tuccari al capo della polizia, non è stato preso alcun provvedimento contro il comm. Giuseppe Russo di Sant’Agata di Militello, considerato la chiave per arrivare ai responsabili dell’assassinio di Carmelo Battaglia? Russo aveva precedenti che avrebbero consentito l’adozione di misure preventive. Ma, delitto Battaglia a parte, conclude l’on. Tuccari, come mai nessun questore propose il Russo per il confino?
Vicari: Probabilmente lei saprà, che questo omicidio (del Battaglia, n.d.r.) è stato seguito dal procuratore generale Rossi al quale inviai il questore di Messina, pregandolo di non aver riguardi per nessuno e di ordinare il massimo numero di arresti. Ma quando il magistrato dice ” si fermi ” non c’è niente da fare.
Tuccari: «Perché il questore non ha avanzato lui la proposta di soggiorno obbligato?».
Vicari: Il magistrato di Messina, il procuratore generale Rossi, e il procuratore della Repubblica di Mistretta hanno detto di non fare niente…
Cosa accadrà?
Il 2 giugno 1969 il Consiglio superiore della Magistratura decide di mettere sotto in chiesta i due magistrati, con procedura d’urgenza e con la conseguente sospensione delle pratiche per onorificenze e promozioni. In fine di settembre il dott. Rossi va a riposo per raggiunti limiti di età, e non sembra che sia stato promosso al grado superiore. Il dott. Gullotti continua a svolgere il suo alto ufficio, impegnandosi nella stesura della sentenza che proscioglie i maggiori indiziati dell’omicidio Battaglia: insufficienza di prove per Giuseppe Miceli; scagionamento completo («per non aver commesso il fatto») per Giovanni Franco, insufficienza di prove per Antonia Scìra, accusata di favoreggiamento.
Cosa accadrà adesso che l’Antimafia si è mossa? Quanto tempo ci vorrà perché sia fatta luce, se mai sarà possibile, su questo «delitto di tipo politico e mafioso»? (le parole fra virgolette, pronunciate a Montecitorio, sono dell’on. Taviani). I pastori dei Nebrodi, ì siciliani mostrano di tenere nel dovuto conto l’iniziativa dell’Antimafia; dubitano tuttavia che si possa venire a capo di qualcosa. È convinzione generale che il sicario che uccise Battaglia non verrà mai scoperto, ma concorde e diffusa è la speranza che quest’ultima inchiesta dell’Antimafia serva finalmente a smantellare l’establishment mafioso che tiene in soggezione i pastori dei Nebrodi.
Mafia dei pascoli
In questo solitario ritaglio della Sicilia depressa, geograficamente fuori del tradizionale «triangolo mafioso», esiste e resiste una «cosca» antica. È una sorta di «zona franca» della quale, come scrive Roberto Chini nel suo Rapporto sull’Antimafia (un libro coraggioso e documentatissimo che uscirà il mese prossimo), ci si è occupati di meno, per non dir mai o quasi, da quando, nel dicembre 1962, è stata costituita l’Antimafia. Un vasto territorio che tocca tre province fra le Madonie e i Nebrodi, una grande conca che racchiude boschi, avari prati e vecchi feudi, in un declivio che scende dalle vette fino al mare, dove «vive, imperversa e si riproduce la mafia dei pascoli». Dopo essersi occupata della mafia del cemento armato, della mafia della scuola, dei mercati, delle banche, della mafia degli uffici amministrativi, la Commissione parlamentare d’inchiesta affronta oggi la «mafia verde», ignorata dai più, misteriosamente riuscita a sopravvivere alle retate, alle indagini, all’Antimafia che ha addirittura sfidato assassinando Carmelo Battaglia.
Nel volgere di circa vent’anni. dal ’46-47 al marzo del 1966, la mafia ha ucciso impunemente una cinquantina tra sindacalisti, organizzatori contadini e dirigenti politici siciliani. Da Li Puma a Miraglia, da Almerico a Rizzotto, a Carnevale, a Montaperto, a Battaglia. L’ultima vittima politica della mafia è appunto Carmelo Battaglia, il suo assassinio è emblematico: assessore socialista di Tusa, Battaglia aveva organizzato una cooperativa di pastori per acquistare, al giusto prezzo, con dolorosi sacrifici e coi contributi di legge, il feudo Foieri, 270 ettari di buon pascolo, scavalcando così i mammasantissima che avrebbero voluto pagare il feudo, di proprietà d’una nobile decaduta, meno di un terzo del suo effettivo valore.
Per la prima volta nella storia della mafia verde, un contadino ha osato ribellarsi ai pezzi da novanta, mostra di non temerli. È una «rottura» che minaccia di compromettere prestigio e potere dei mafiosi. Ed essi lo condannano a morte. Contrariamente a quanto si crede, il mafioso non è un coraggioso ma un vigliacco, uccide all’agguato, certo dell’impunità che gli viene da una rete di alibi precostituiti.
Alle prime luci dell’alba del 24 marzo 1966, una scarica di lupara, sparata di lontano, colpisce alle spalle Carmelo Battaglia mentre s’avvia per i pascoli della cooperativa. Un’altra scarica, sempre alle spalle, lo colpisce da distanza più ravvicinata. Poi il «colpo di grazia», in pieno petto. Non è finita, il sicario deve rispettare fino in fondo il rituale mafioso: rialza il cadavere, lo trascina sul bordo della trazzera, lo costringe in ginocchio con la bocca poggiata su di un masso.
Su di un’altra roccia posa il cappotto di Battaglia, si lava le mani in un rigagnolo, sparisce. Quarant’anni prima avevano ammazzato il padre di Battaglia abbandonandone il cadavere con una pietra in bocca; c’è una pietra anche per la bocca del figliò. Il senso è fin troppo chiaro: non si parla, guai a chi parla. E nessuno ha parlato in questi tre anni a Tusa: l’assassino, i mandanti non hanno ancora un volto. Riuscirà ora l’Antimafia, sulla spinta dell’emozione provocata dalla sentenza di proscioglimento, a togliere la pietra della paura. dalle bocche dei pastori?
Articolo da La Sicilia del 27.11.2007
Una “strage” lunga 22 anni
di Dino Paternostro
Dal dopoguerra a metà degli Anni 60 fu una vera e propria «mattanza» di dirigenti del movimento contadino. Uno degli ultimi omicidi fu quello dell’assessore socialista Carmelo Battaglia, ucciso a Tusa il 24 marzo del 1966
Dalla metà degli anni ’40 fino alla metà degli anni ’60, furono consumati in Sicilia una serie di delitti in sequenza ai danni del movimento contadino e dei suoi dirigenti. Delitti “firmati” dalla mafia, dagli agrari e da certa politica complice, guardati benevolmente (e qualche volta incoraggiati) da servizi segreti stranieri.
La gran parte di questi delitti ebbe come «teatro» le zone del feudo della provincia di Palermo: il Corleonese, il Partinicese e le Madonie. Si consumò a Portella della Ginestra (tra Piana e S. Giuseppe) la strage del 1° Maggio ’47; Epifanio Li Puma fu assassinato a Patralia il 2 marzo, Placido Rizzotto a Corleone il 10 marzo e Calogero Cangelosi a Camporeale il 1° aprile di quel terribile 1948.
Una «lunga strage», durata oltre vent’anni, il cui ultimo capitolo fu scritto il 24 marzo 1966, a Tusa (Messina), dove venne assassinato Carmelo Battaglia, dirigente sindacale e assessore al patrimonio della giunta di sinistra che amministrava il comune. L’omicidio Battaglia, che avvenne a tre anni dall’insediamento della Commissione parlamentare antimafia, svelò l’esistenza di organizzazioni mafiose anche in una zona ritenuta, fino ad allora, immune da questa forma di criminalità organizzata: la provincia “babba” di Messina. Ma era davvero tale quel lembo occidentale della provincia, confinante con le province di Palermo ed Enna, e comprendente buona parte della catena dei Nebrodi?
Se si tiene conto che già da tempo si erano verificati gravi fenomeni delittuosi tipici delle zone di mafia, quali estorsioni, abigeati, danneggiamenti ed attentati, bisognerebbe dire di no. «Negli ultimi dieci anni (1956-66), si erano registrati ben 12 omicidi, tutti consumati in un territorio compreso tra i comuni di Mistretta, Tusa, Pettineo e Castel di Lucio, che fu soprannominato il “triangolo della morte”. Dietro questi delitti vi era la “mafia dei pascoli” e le lotte scatenate al suo interno per il controllo dell’economia allevatoria dei Nebrodi. E l’assassinio di Carmelo Battaglia, rappresentò, quindi, il 13° anello di una lunga catena di sangue. Ma, a differenza delle altre vittime, il sindacalista era stato assassinato perché si era apertamente, e legalmente, ribellato all’ordine costituito, promuovendo, nel suo paese, un movimento organizzato di contadini e pastori», scrive Gabriella Scolaro (Il movimento antimafia siciliano dai Fasci dei lavoratori all’omicidio di Carmelo Battaglia, Ed. terrelibere.org, Aprile 2007).
Carmelo Battaglia era stato tra i soci fondatori della cooperativa agricola «Risveglio Alesino» di Tusa, costituita nel 1945 per partecipare alle lotte per la terra. Nel 1965, i soci di questa cooperativa e quelli della cooperativa «S. Placido » di Castel di Lucio acquistarono il feudo «Foieri» della baronessa Lipari, esteso 270 ettari. Si dovettero scontrare, però, con il gabelloto Giuseppe Russo, ex vice-sindaco Dc di Sant’Agata di Militello, e col suo sovrastante Biagio Amata, che da tempo gestivano quel feudo e non volevano rassegnarsi all’idea di doverlo lasciare. Pretesero, quindi, che ne fosse ceduta a loro almeno una parte per farvi pascolare i propri animali. «Fu proprio nei forti contrasti che sorsero tra la cooperativa “Risveglio Alesino” e questi due personaggi che maturò, quasi sicuramente, il delitto Battaglia», spiega Scolaro. L’assessore socialista – che aveva difeso con fermezza i diritti dei contadini – fu ucciso all’alba del 24 marzo, proprio mentre si recava sul feudo «Foieri». «Gli assassini – racconta ancora Scolaro – non si limitarono a sparargli addosso. Vollero che il messaggio mafioso di quella esecuzione fosse chiaro a tutti. Così, sistemarono il cadavere in posizione accovacciata, con le mani dietro la schiena e la faccia appoggiata su di una grossa pietra». «Uno ha sparato, altri hanno compiuto la bieca operazione mafiosa di far chinare, in atto di sottomissione, un uomo che in vita non si era arreso», scrisse il giornalista Felice Chilanti sul giornale «L’Ora» di Palermo del 25 marzo 1965. «Il delitto – secondo Mario Ovazza – ha chiaro il segno dell’odio secolare contro chi è fermo nel perseguimento di pertinaci obiettivi di giustizia e di rigenerazione sociale; della sanguinaria imprecazione contro colui che partecipa più attivamente alla rivolta organizzata dalle masse contro lo sfruttamento e il privilegio…».
Fonte: ricerca.repubblica.it
Articolo del 22 marzo 2008
Battaglia, l’ ultimo delitto nel cammino dei diritti
di Tano Gullo
Gli sparano in una trazzera come a Salvatore Carnevale. Mentre si reca a dorso di cavallo nei suoi pascoli del feudo “Foieri” di Tusa. Gli aguzzini non si accontentano di freddare Carmelo Battaglia, sindacalista e socialista, ma inscenano un macabro rituale simbolico per ribadire che lì comandano loro e chi non china la testa la perde. È il 24 marzo del 1966 e quello è l’ ultimo delitto di un rosario di morte iniziato il 6 agosto del 1944 con l’assassinio di Andrea Raja a Casteldaccia.
In quei drammatici ventidue anni restano nella polvere cinquantatré martiri – sindacalisti, comunisti, socialisti e i caduti della prima strage di Stato a Portella della Ginestra il 1° maggio del 1947 – colpevoli soltanto di credere in una Sicilia liberata dai mafiosi e dai latifondisti, dai picciotti e dai campieri. Colpevoli di occupare terre incolte per farne campi; di scioperare nei cantieri edili per chiedere paghe da poterci campare la famiglia; di lottare nelle aie per una equa spartizione del grano con i padroni che se ne fregano della legge; di combattere i “caporali” che all’alba decidono chi deve avviarsi all’antu e chi no. Colpevoli di volere fare uscire la Sicilia da quell’eterno medioevo in cui la tengono inchiodata i potenti proprietari agrari e i politici al loro servizio.
Con la forza del braccio armato della mafia. Quel giorno di primavera i sicari «vollero che il messaggio mafioso di quella esecuzione fosse chiaro a tutti – scrive Gabriella Solaro nel libro “Il movimento antimafia siciliano dai Fasci dei lavoratori all’ omicidio di Carmelo Battaglia”, edizioni terrelibere. org – Così sistemarono il cadavere in posizione accovacciata, con le mani dietro la schiena e la faccia appoggiata sopra una pietra». «Uno ha sparato – racconta Felice Chilanti su “L’Ora” – altri hanno compiuto la bieca operazione mafiosa, di far chinare in atto di sottomissione, un uomo che in vita non si era arreso».
È un osso duro Carmelo Battaglia, un capopopolo tosto, di quelli che aggregano, di quelli che passano dall’occupazione delle terre alla gestione del Comune, rimanendo sempre dalla stessa parte. Quando lo uccidono a Tusa è assessore socialista al Patrimonio. È stato lui nel 1945 a fondare la cooperativa di pascolo “Il riscatto Alesino”. Insieme ai soci di un’altra cooperativa “San Placido”, comprano il feudo “Foieri” dalla baronessa Lipari, 270 ettari di terra che fanno gola a tanti, a cominciare dai gabelloti, fino ad allora padroni incontrastati. Ora i pastori organizzati hanno dove portare il bestiame. Possono pensare all’avvenire, a fare impresa per smerciare latte, caci e ricotte. Una Sicilia nuova a portata di mano.
«Probabilmente il delitto maturò in quel contesto – dice Giuseppe Cipriani ex sindaco di Corleone ed ex deputato Ds all’ Ars – Erano gli ultimi sussulti di quel blocco del latifondo che aveva soggiogato la Sicilia. Se si fosse voluto, non sarebbe stato difficile scoprire gli assassini e i mandanti, ma in quegli anni la legge era cieca e la bilancia dei tribunali pendeva da una sola parte. Basti dire che nessuna di quelle 53 vittime ha avuto giustizia, nessuno ha pagato. E quando sono stati individuati dei colpevoli i giudici li hanno presto rimesso in libertà. Tanti i cavilli dell’impunità. C’è voluta la legge Rognoni-La Torre per dare vita a un’antimafia anche giudiziaria».
Battaglia, vittima da vivo, continua a esserlo anche da morto. Sulla scia emotiva del suo assassinio viene varata una legge che riconosce, dopo oltre un ventennio, il sacrificio dei caduti nella guerra – la parola guerra non deve spaventare perché di questo si è trattato – per il riscatto dell’Isola. Finalmente l’Assemblea regionale sdogana quelli che fino ad allora sono stati morti-fantasma per tutti, tranne che per i sindacati e per i partiti della sinistra. Ma è solo un’illusione. La legge, impugnata dal Commissario dello Stato, viene poi bocciata nel 1967 dalla Corte Costituzionale. Non spetta alla Regione concedere vitalizi: questa la motivazione. Ci vorranno altri 22 anni per vedere approvata quella legge. E qui un altro colpo di scena. Dalla lista delle vittime inspiegabilmente sparisce proprio Battaglia. Una beffa atroce. «è stata una distrazione collettiva incredibile di cui provo ancora un pungente senso di colpa – dice Cipriani, che di quella proposta di legge è primo firmatario – Abbiamo provato più volte, io e altri, a fare approvare un emendamento che includesse il sindacalista di Tusa nella lista. Finora con scarso successo. Mi auguro che la prossima Assemblea che sarà eletta ad aprile ponga un rimedio a questa ingiustizia».
È stato lungo oltre mezzo secolo e complicatissimo l’iter per addivenire a un qualche riconoscimento per le vittime del secondo risorgimento siciliano. L’urlo del sindacato inizia nel marzo del 1948 dopo la sparizione di Placido Rizzotto (il corpo verrà ritrovato in una foiba del Corleonese solo l’anno dopo). La Cgil (allora unico sindacato) convoca a Palermo la segreteria confederale che viene a presiedere il grande capo Giuseppe Di Vittorio. Che i tempi siano difficili lo dimostra il fatto che quel consesso viene disertato dalla componente Dc del sindacato, paventando già la scissione centrista che sarebbe arrivata da lì a pochi mesi. I lavori si concludono con l’appello allo Stato affinché si attivi per ritrovare il corpo di Rizzotto e per smascherare i colpevoli; con la promessa di una taglia di mezzo milione a chi indichi la pista giusta; con la richiesta di una commissione di indagine sulla mafia.
Al comizio di piazza Politeama con 20 mila persone (e nell’ora di sciopero proclamata in tutti i posti di lavoro), lo stesso coro (“Dov’è Rizzotto?”) rivolto al governo, ritenuto colluso con mafiosi e agrari. Il secondo tentativo è all’indomani dell’uccisione di Turiddu Carnevale nelle campagne di Sciara nel 1955. Si appronta un disegno di legge ad hoc, ma finisce ancora in un nulla di fatto. Poi nel 1967, dopo la morte di Battaglia, terzo tentativo e, come abbiamo già visto, terza delusione. E anno dopo anno, amarezza dopo amarezza, si arriva alla svolta del 1999. La proposta di legge viene recepita all’interno delle “Nuove norme in materia di interventi contro la mafia”.
«L’articolo 20 stabilisce il riconoscimento delle vittime e un vitalizio di 50 milioni per i familiari – dice Cipriani – Finalmente i martiri non sono più morti della sola sinistra ma dell’intera Isola. Ed è significativo il fatto che la proposta legislativa viene fatta propria dall’Antimafia siciliana al tempo presieduta da un uomo di destra, Fabio Granata. Ho ancora negli occhi l’emozione dei familiari nel vedere che i loro figli o i loro padri avevano finalmente ottenuto una qualche giustizia dopo anni di silenzio, di isolamento e di fitte dolorose nelle aule di tribunale. Dopo un tempo infinito di giri a vuoto da parte delle associazioni delle famiglie colpite “Non solo Portella” e quella intitolata ad Accursio Miraglia ucciso a Sciacca, uno spiraglio di speranza». «Quei morti hanno scritto una pagina tragica ma nel contempo esaltante della nostra storia – continua Cipriani – Sono stati loro a tenere alta l’idea di libertà e di giustizia in una Sicilia sequestrata. Non lasciamo mai più soli coloro che tengono la testa alta di fronte a boss ed estortori».
Fonte: sites.google.com
Articolo del 20 Luglio 2008 tratto da La Sicilia
CARMELO BATTAGLIA
di Dino Paternostro
Il nome di Carmelo Battaglia, tra i sindacalisti del secondo dopoguerra vittime della mafia, per un mero errore formale, è stato escluso nella prima formulazione dell’elenco approvato con la legge regionale n. 20 del 1999
«Bisogna inserire il nome di Carmelo Battaglia, ucciso il 24 marzo del 1966 a Tusa, in provincia di Messina, nell’elenco dei sindacalisti del secondo dopoguerra vittime della mafia. Battaglia, per un mero errore formale, è stato escluso nella prima formulazione dell’elenco approvato con la legge regionale n. 20 del ’99. Adesso è il momento di porre rimedio a questa ingiustizia durata troppi anni», sostengono Antonello Cracolici, presidente del gruppo PD all’Ars, Filippo Panarello, vice presidente della commissione Cultura, e Camillo Oddo, vicepresidente dell’Ars, che hanno presentato un apposito emendamento al disegno di legge sulle vittime di Mineo in discussione all’Ars, che si aggancia proprio alla legge 20 del ’99. «Si tratta di un atto dovuto – aggiungono – non solo nei confronti dei familiari, ma anche per la memoria dello stesso Battaglia e del movimento sindacale, che in Sicilia ha sacrificato troppe vite per il riconoscimento dei diritti e per contrastare ogni tipo di mafia. Paradossalmente proprio Carmelo Battaglia, ultimo dei caduti di quella drammatica stagione di lotte sindacali legate al movimento contadino, è rimasto escluso da ogni riconoscimento».
In effetti, in Sicilia, il delitto Battaglia fu l’ultimo capitolo di quella «lunga strage» dei dirigenti e dei militanti contadini, che era durata per oltre un ventennio (1944-1965). Carmelo Battaglia, dirigente sindacale e assessore al patrimonio della giunta di sinistra che amministrava il comune, venne assassinato all’alba del 24 marzo 1966, mentre si recava a dosso di mulo verso l’ex feudo «Foieri». Il delitto svelò l’esistenza di organizzazioni mafiose anche in una zona ritenuta, fino ad allora, immune da questa forma di criminalità organizzata: la provincia «babba» di Messina. Ma, se si tiene conto che proprio lì, già da tempo, si erano verificati gravi fenomeni delittuosi tipici delle zone di mafia (estorsioni, abigeati, danneggiamenti ed attentati) bisognerebbe dire che proprio «babba» quel lembo di Sicilia non era. «Negli ultimi dieci anni (1956-66), si erano registrati ben 12 omicidi, tutti consumati in un territorio compreso tra i comuni di Mistretta, Tusa, Pettineo e Castel di Lucio, che fu soprannominato il «triangolo della morte». Dietro questi delitti vi era la «mafia dei pascoli» e le lotte scatenate al suo interno per il controllo dell’economia allevatoria dei Nebrodi. E l’assassinio di Carmelo Battaglia, rappresentò, quindi, il 13° anello di una lunga catena di sangue.
Ma, a differenza delle altre vittime, il sindacalista era stato assassinato perché si era apertamente, e legalmente, ribellato all’ordine costituito, promuovendo, nel suo paese, un movimento organizzato di contadini e pastori», scrive Gabriella Scolaro (Il movimento antimafia siciliano dai Fasci dei lavoratori all’omicidio di Carmelo Battaglia, Ed. terrelibere.org, Aprile 2007). Carmelo Battaglia era stato tra i soci fondatori della cooperativa agricola «Risveglio Alesino» di Tusa, costituita nel 1945 per partecipare alle lotte per la terra. Nel 1965, i soci di questa cooperativa e quelli della cooperativa «S. Placido» di Castel di Lucio acquistarono il feudo «Foieri» della baronessa Lipari, esteso 270 ettari. Si dovettero scontrare, però, con il gabelloto Giuseppe Russo, ex vice sindaco Dc di Sant’Agata di Militello, e col suo sovrastante Biagio Amata, che da tempo gestivano quel feudo e non volevano rassegnarsi all’idea di doverlo lasciare. Pretesero, quindi, che ne fosse ceduta a loro almeno una parte per farvi pascolare i propri animali. «Fu proprio nei forti contrasti che sorsero tra la cooperativa «Risveglio Alesino» e questi due personaggi che maturò, quasi sicuramente, il delitto Battaglia», spiega Scolaro. «Gli assassini – racconta ancora Scolaro – non si limitarono a sparargli addosso. Vollero che il messaggio mafioso di quella esecuzione fosse chiaro a tutti. Così, sistemarono il cadavere in posizione accovacciata, con le mani dietro la schiena e la faccia appoggiata su di una grossa pietra». «Uno ha sparato, altri hanno compiuto la bieca operazione mafiosa di far chinare, in atto di sottomissione, un uomo che in vita non si era arreso», scrisse il giornalista Felice Chilanti sul giornale «L’Ora» di Palermo del 25 marzo 1965.
LA LEGGE DEL 1999
(d.p.) Col delitto Battaglia si concluse quella «lunga strage», quella strage al rallenty, durata bel 21 anni, nel corso della quale furono minacciati, feriti e assassinati decine e decine di dirigenti sindacali e politici, di contadini ed operai, di donne e bambini. Per tanti anni, le classi dirigenti siciliane e nazionali, per negare il concetto stesso di strage, hanno voluto far passare questi
delitti «in sequenza» come non collegati tra loro. Un inganno, un tentativo di depistaggio. Nella Sicilia di quegli anni, infatti, vi «fu una vera e propria guerriglia contro i lavoratori, nel cui corso caddero a decine non solo gli attivisti e i dirigenti sindacali, ma quegli elementi che, in qualche modo, solidarizzavano con la lotta popolare contro il feudo», denunciò la Cgil siciliana in un documento presentato alla prima Commissione antimafia nell’ottobre 1963.
Appunto, quella «lunga strage», che finalmente la Regione Siciliana, su proposta dei parlamentari dei Democratici di Sinistra, ha riconosciuto come tale, con l’approvazione della Legge n. 20 del 13 settembre del 1999. Una legge che, per la prima volta, ha riconosciuto il «filo rosso» che lega tutti i caduti innocenti per mano della mafia nel lungo dopoguerra siciliano, onorandone la memoria, con un contributo finanziario a favore dei familiari. Allora, sembrò un miracolo che l’Assemblea Regionale Siciliana avesse fatto quel passo. Ci aveva già provato (non si sa con quanta convinzione) 36 anni prima, nel 1963, ma la legge fu impugnata dal Commissario dello Stato. Poi tutto cadde nel dimenticatoio. Un’ingiustizia nei confronti di tante donne e tanti uomini che, a pugni nudi, armati solo da un’incrollabile fede nell’avvenire, avevano lottato per la libertà e la democrazia in Sicilia. Ma un’ingiustizia anche contro la Sicilia e la sua storia, dove per troppo tempo non hanno trovato posto il movimento contadino e i suoi dirigenti assassinati dalla mafia. Quella legge del 1999, in qualche modo, pose rimedio a tutto questo, ma, ironia della sorte, dimenticò di inserire nell’elenco dei caduti per mano mafiosa proprio il nome di Carmelo Battaglia.
La strage cominciò nel 1944 a Casteldaccia
Carmelo Battaglia, socialista e sindacalista della Cgil, era nato a Tusa (Me), dove aveva guidato l’occupazione delle terre. Il suo delitto chiuse una stagione di circa vent’anni, durante i quali la Sicilia ha visto cadere, tra glia altri, dirigenti e sindacalisti come Placido Rizzotto, Epifanio Li Puma, Accursio Miraglia, Salvatore Carnevale, e tanti altri che si sono battuti per questo straordinario movimento che ha visto fra i suoi protagonisti anche Pio La Torre, che nel ’49 guidò nel Corleonese le lotte contadine. Ovviamente, come allora spesso avveniva, l’omicidio Battaglia rimase impunito. E questo delitto, come tutti gli altri consumati nel corso della «lunga strage» siciliana «contro chi osava opporsi – dice Mario Ovazza – ad una condizione passiva della miseria siciliana e contribuiva a trasformarla in una carica di lotta sistematica e irrefrenabile», per tanti anni furono dimenticati dallo stesso movimento democratico. Si tratta di un lungo elenco di dirigenti e militanti politici e sindacali uccisi dalla mafia nel periodo compreso tra il 1944 ed il 1966, che invece è giusto ricordare. A cominciare da Andrea Raja, assassinato a Casteldaccia il 6 agosto 1944; Nunzio Passafiume, assassinato a Trabia il 7 giugno 1945; Agostino D’Alessandro, assassinato a Ficarazzi l’11 settembre 1945; Giuseppe Lo Cicero, assassinato a Mazzarino il 25 novembre 1945; Giuseppe Puntarello, assassinato a Ventimiglia il 5 dicembre 1945; Antonino Guarisco, assassinato a Burgio, il 7 marzo 1946; Gaetano Guarino e Marina Spinelli, assassinati a Favara il 16 maggio 1946; Pino Cammilleri, assassinato a Naro il 28 giugno 1946; Giovanni Castiglione e Girolamo Scaccia, assassinato ad Alia il 22 settembre 1946; Giuseppe Biondo, assassinato a Santa Ninfa il 2 ottobre 1946; i fratelli Giovanni, Vincenzo e Giuseppe Santangelo, assassinati a Belmonte Mezzano il 2 novembre 1946; Giovanni Severino, assassinato a Joppolo il 25.11.1946; Paolo Farina, assassinato a Comitini il 28 novembre 1946; Nicolò Azoti, ucciso a Baucina il 21 dicembre 1946; Accursio Miraglia, ucciso a Sciacca il 4 gennaio 1947; Pietro Macchiarella, ucciso a Ficarazzi il 19 febbraio 1947. E poi le vittime della strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947: Margherita Clesceri, Giorgio Cusenza, Giovanni Megna, Giovanni Grifò, Vincenza La Fata, Giuseppe Di Maggio, Filippo Di Salvo, Francesco Vicari, Castrenze Intravaia, Serafino Lascari, Vito Allotta, Vincenza Spina, Eleonora Moschetto, Giuseppa Parrino, Provvidenza Greco, Vincenzo La Rocca. E poi ancora: Michelangelo Salvia, Partinico, 8 maggio 1947; Giuseppe Intorrella, Comiso, 11 giugno 1947; Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Iacono, Partinico, 22 giugno 1947; Giuseppe Maniaci, Terrasini, 23 ottobre 1947; Calogero Caiola, S. Giuseppe Jato, 3 novembre 1947; Vito Pipitone, Marsala, 8 novembre 1947; Vincenzo Campo, Partinico 22 febbraio 1948; Epifanio Li Puma, Petralia Soprana, 2 marzo 1948; Placido Rizzotto, Corleone, 10 marzo 1948; Calogero Cangelosi, Camporeale, 2 aprile 1948; Giuseppe Intile, Caccamo, 7 agosto 1952; Salvatore Carnevale, Sciara, 16 maggio 1955; Giuseppe Spagnolo, Cattolica Eraclea, 13 agosto 1955; Pasquale Almerico, Camporeale, 25 marzo 1957; Paolo Bongiorno, Lucca Sicula, 20 settembre 1960. Infine, Carmelo Battaglia, ucciso a Tusa, per il quale adesso alcuni deputati del Pd chiedono di riparare all’esclusione del 1999.
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