Le Vittime che commemoriamo, mese: MAGGIO

Le vittime della Strage Portella della Ginestra

1 Maggio 1947 La Strage di Portella della Ginestra (Palermo). 11 morti e una trentina di feriti a cui aggiungiamo 4 morti avvenute successivamente a causa delle ferite.
Era una bella giornata il 1° di maggio del 1947 a Portella della Ginestra, nell’entroterra palermitano, tra Piana degli Albanesi e San Giuseppe Jato. Ma soprattutto un giorno di festa. Circa duemila lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, in prevalenza contadini, si riunirono nella vallata per manifestare contro il latifondismo, a favore dell’occupazione delle terre incolte e per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l’Assemblea Regionale Siciliana. Si tornava a festeggiare la festa dei lavoratori, dopo che era spostata al 21 aprile durante il regime fascista. Erano in attesa di ascoltare un comizio sindacale e, soprattutto, passare una giornata in allegria con pranzo finale all’aria aperta. Improvvisamente dal monte Pelavet partirono sulla folla in festa numerose raffiche di mitra che lasciarono sul terreno, secondo le fonti ufficiali, 11 morti, Margherita Clesceri (47 anni), Giorgio Cusenza (42 anni), Giovanni Megna (18 anni), Francesco Vicari (22 anni), Vito Allotta (19 anni), Serafino Lascari (15 anni), Filippo Di Salvo (48 anni), Giuseppe Di Maggio (13 anni), Castrense Intravaia (18 anni), Giovanni Grifò (12 anni), Vincenza La Fata (8 anni) e 27 feriti, di cui alcuni morirono in seguito per le ferite riportate:
Vincenza Spina (69 anni),
Vincenzo La Rocca, padre di Cristina, una bimba di 9 anni ferita nella strage di Portella della Ginestra. Secondo le fonti, morì giorni dopo la strage, stremato dalla fatica per aver trasportato a piedi la figlioletta ferita fino all’ospedale di San Cipirello.
Vita Dorangricchia (23 anni), morì nove mesi dopo, il 31 gennaio 1948, a causa delle ferite riportate.
Provvidenza Greco  morì nel 1951 a causa delle ferite riportate.
La strage di Portella della Ginestra era stata compiuta. La CGIL proclamò lo sciopero generale, accusando i latifondisti siciliani di voler “soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori”. Solo quattro mesi dopo si seppe che a sparare materialmente erano stati gli uomini del bandito separatista Salvatore Giuliano. Il rapporto dei carabinieri sulla strage faceva chiaramente riferimento a “elementi reazionari in combutta con i mafiosi locali”.

 

Emanuele Busellini

1 maggio 1947 Monreale (PA). Emanuele Busellini, campiere di 39 anni, fu ucciso dalla banda Giuliano di ritorno dall’avvenuta Strage di Portella della Ginestra.
Emanuele Busellini aveva 39 anni quando il 1° maggio del 1947 venne ucciso dalla banda di Salvatore Giuliano e gettato in una foiba. Quel giorno ebbe la sventura di imbattersi nel gruppo di fuoco che poco prima aveva sparato sulla folla di contadini radunati a Portella della Ginestra. I banditi in fuga passarono da contrada “Presto”, dove si trovava Busellini, che era campiere per conto dei piccoli proprietari del feudo Strasatto. “Giuliano, ben conoscendo la sua correttezza morale e civile, decise di sopprimerlo per eliminare un testimone scomodo”, racconta Francesco Petrotta nel libro “Salvatore Giuliano, uomo d’onore”.
Fonte: cittanuove-corleone.net

 

Alfredo Sorbara

1 Maggio 1984 Giffone (RC). Sequestrato Alfredo Sorbara, 35 anni, ruspista, fratello del sindaco del paese
Erano le 14 del primo maggio del 1984 quando Alfredo Sorbara, 35 anni, di Giffone, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria ai piedi dell’Aspromonte, venne sequestrato mentre si trovata in compagnia dì un amico, che nell’occasione venne “risparmiato”.
Subito gli inquirenti iniziarano le ricerche dopo che l’amico di Sorbara era riuscito a scendere in paese. Tuttavia, il corpo non fu mai ritrovato e sembra essere calato il buio sulla vicenda con i familiari della vittima che non hanno avuto più notizie.

 

1 maggio 1985 Mammola (RC). Annunziata Ferraro, 16 anni, resta uccisa in una strage che coinvolse altre persone.
Annunziata Ferraro, Mammola (RC).
Non vogliono lasciare testimoni i killer che hanno ammazzato a colpi di fucile a canne mozze Annunziata. Così il 1° maggio 1985 a Mammola si compie una vera e propria strage. E nell’attentato in cui cade il pregiudicato Salvatore Ferraro vengono uccisi anche il contadino Pasquale Sorbara e la giovane Annunziata Ferraro, di solo 16 anni. Secondo gli inquirenti, dietro la strage c’è la famiglia Sorbara, che ha subito in precedenza un rapimento, per cui era stata arrestata Rosa Mercuri, cognata dello stesso Salvatore Ferraro.
Fonte: Sdisonorate.pdf

Pasquale Auriemma


1 Maggio 1992 Strage di Acerra (NA). Cinque morti, tra cui una donna incinta e un ragazzino di 15 anni, Pasquale Auriemma, che era lì perché ospite della famiglia. Vittime innocenti di una vendetta trasversale.
Pasquale Auriemma è ospite in casa di Vincenzo Crimaldi che malauguratamente ha una parentela con  il capo-zona dell’omonimo clan e che è obiettivo di una vendetta trasversale.
Due killer a volto scoperto, fanno irruzione nella modesta abitazione di campagna di  Vincenzo Crimaldi e a colpi di pistole e mitragliette massacrano l’uomo, la moglie Emma Basile, il figlio Silvio e la figlia Livia incinta al quinto mese di gravidanza.
A cadere sotto i colpi dei killer anche il giovane innocente Pasquale Auriemma, 15 anni.
A ventiquattro ore dall’accaduto viene fermato Clemente Canfora, cognato del latitante Mario Di Paolo, capo-clan ideatore dell’eccidio. Responsabile dell’accaduto anche Luigi Villanova, poi ucciso.
Pasquale Auriemma è riconosciuto vittima innocente della criminalità organizzata dal Ministero dell’Interno. (Fond. Pol.i.s.)

 

Pietro Maleno Malenotti

 

3 maggio 1976 Pomarance (PI). Rapito Pietro Maleno Malenotti, 63 anni, produttore cinematografico. Il suo corpo non è stato mai ritrovato
Pietro Maleno Malenotti, produttore cinematografico («La donna più bella del mondo» con Gina Lollobrigida. «La grande strada azzurra» con Yves Montand e Simon Signoret), il 3 maggio del 1976 è a cena nella sua villa di Pomarance, in provincia di Pisa, quando viene rapito da banditi armati. La sua auto «Ford Capri GT 1700» intestata alla moglie verrà ritrovata nell’autostrada del sole nei pressi del casello di Firenze sud. I familiari pagheranno un riscatto, ma il produttore non ha fatto ritorno a casa.
Fonte: archivio.unita.news

 

Gennaro Musella

3 Maggio 1982 Reggio Calabria. Gennaro Musella, stimato professionista, ucciso dilaniato dall’esplosione della sua autovettura.
Ingegnere salernitano, Gennaro Musella aveva trasferito in Calabria la sua azienda perché impegnato in lavori di opere marittime. Era un professionista stimato, un uomo semplice.
Viene ucciso a Reggio Calabria il 3 maggio 1982, dilaniato dall’esplosione della sua autovettura. Da allora la sua famiglia cerca giustizia.
L’ombra della Sicilia “senza sole” si affaccia anche sul delitto Musella che fu inquadrato nell’assegnazione dell’appalto per il porto di Bagnara Calabra, le cui gare furono vinte prima e dopo, dai famosi “cavalieri del lavoro” di Catania, Costanzo e Graci.
I carabinieri del nucleo operativo di Reggio Calabria, in un rapporto all’autorità giudiziaria, denunciarono per quell’appalto un’associazione tra la ‘ndrangheta calabrese e la mafia catanese, rispettivamente guidate dai boss Paolo de Stefano e Nitto Santapaola; nell’elenco comparivano anche nomi di imprenditori, politici e funzionari del genio civile di Reggio Calabria. Al delitto Musella lo Stato non ha mai dato una risposta. Il caso fu archiviato nel 1988 contro ignoti per essere riaperto poi dalla DDA nel 1993. L’inchiesta malgrado portata a termine dal procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Salvatore Boemi unitamente alla criminalpol, non ha avuto alcun seguito, non essendo mai stato celebrato un processo. La giustizia rimane sepolta da strati di polvere tra le carte ingiallite di un vecchio fascicolo, mentre le imprese mafiose continuano a giudicarsi gli appalti, le tangenti sono sempre in rigore così come l’alleanza tra mafia e ‘ndrangheta.
E’ stato riconosciuto vittima innocente della ‘ndrangheta solo nel 2009. Si conclude quindi con una vittoria la battaglia che da anni combatte sua figlia, Adriana Musella, impegnata ad animare il movimento antimafia Riferimenti – che ha avuto come presidente un uomo prestigioso come il giudice Antonino Caponnetto – che ogni anno organizza la manifestazione “La Gerbera gialla” per gli studenti di tutta Italia. A Gennaro Musella la città di Reggio Calabria ha dedicato recentemente una strada. (Stop ‘ndrangheta.it)

 

Matteo Toffanin

3 maggio 1992 Padova. Matteo Toffanin, 23 anni, vittima di uno scambio di persona.
Padova. Matteo Toffanin aveva riaccompagnato a casa la sua fidanzata Cristina, dopo una giornata al mare con gli amici a Jesolo. Si stavano scambiando forse gli ultimi saluti affettuosi nell’auto che Matteo aveva chiesto in prestito allo zio quella stessa mattina, una Mercedes 190 E di coloro bianca. All’improvviso “due o più individui armati di pistola e fucile” si avvicinarono a piedi ed esplosero più colpi d’arma da fuoco: Matteo morì sul colpo, mentre Cristina sopravvisse all’agguato. Il bersaglio dei killer non era Matteo, bensì il sig. Bonaldo Marino, che abitava di fronte casa di Cristina e possedeva una Mercedes dello stesso modello e colore di quella che guidava quel giorno Matteo Toffanin, e non solo perché tre numeri finali della targa corrispondevano a quelli dell’auto di Bonaldo. All’esito delle indagini è emerso che Bonaldo Marino, pregiudicato (legato alla Mafia del Brenta), era il vero destinatario dell’agguato del 3 maggio 1992.
Fonte: vivi.libera.it

 

3 Maggio 2005 Napoli. Ucciso Emilio Albanese, pensionato vittima di una rapina.
È stato avvicinato da due rapinatori sotto casa, in una zona affollatissima del centro cittadino, ed è stato ucciso con un colpo alla testa: così è morto  nel capoluogo campano Emilio Albanese, ingegnere in pensione di 69 anni, padre della compagna di Jacopo Fo e dunque consuocero di Dario Fo. Il premio Nobel ha commentato la vicenda con emozione: “È stata una tragedia, lo hanno ucciso”, ha detto. Tutto è successo  intorno alle 10,30 del 3 maggio 2005. L’uomo aveva appena ritirato una notevole somma (circa 3.300 euro) dalla sede Bnl di via Toledo, e stava rientrando nella sua abitazione di via Santa Maria di Costantinopoli, quando è stato raggiunto da due sconosciuti, nell’androne del civico 89. I malviventi l’hanno colpito per impossessarsi dei soldi, per poi fuggire a bordo di un motorino. (Fondazione Pol.i.s.)

 

Pasquale Polverino

4 Maggio 1977 Napoli. Pasquale Polverino, 23 anni, cameriere, viene ucciso durante una rapina nel ristorante in cui prestava servizio.
Pasquale Polverino  è morto il 4 maggio 1977 a Napoli, durante una rapina.
Pasquale era cameriere presso il ristorante “La Taverna del Ghiotto” al Corso Vittorio Emanuele (oggi non esiste più). In tre entrarono nel ristorante per rapinare i clienti e il proprietario. A seguito della reazione di alcuni clienti partirono dei colpi e uno di questi colpì a morte Polverino.
Dopo 15 giorni gli esecutori furono arrestati.
Polverino lasciò la moglie e 2 figli in tenera età. (Fondazione Pol.i.s.)

 

Emanuele Basile

4 Maggio 1980 Monreale (PA) Ucciso il Capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, impegnato in indagini sulla mafia della zona, soprattutto attraverso accertamenti bancari.
Emanuele Basile, 30 anni, capitano dei Carabinieri, sposato e padre di una bimba di quattro anni fu ucciso dalla mafia il 4 maggio del 1980 mentre passeggiava con la moglie e la sua piccola tra le braccia.
Si era impegnato in indagini sulla mafia della zona, soprattutto attraverso accertamenti bancari. Subito dopo l’omicidio furono arrestati i mafiosi Armando Bonanno, Giuseppe Madonia, figlio del capomafia Francesco, e Vincenzo Puccio, che dichiararono di trovarsi nelle campagne di Monreale per un appuntamento galante. Prima assolti, poi condannati all’ergastolo, dopo vari annullamenti da parte della Cassazione, la sentenza definitiva arrivò dopo nove anni dal delitto. Nel frattempo sia Puccio che Bonanno furono uccisi.

 

4 Maggio 1985 Taurianova (RC). Ucciso Antonino Vicari, giovane imprenditore di 30 anni. Vittima del racket.
Antonino Vicari, 30 anni, sposato con due figli, onesto cittadino di Taurianova, grosso centro della Piana di Gioia Tauro, aveva da poco costituito con i fratelli una ditta per la vendita di materiale edilizio. Era il risultato di tantissimi sacrifici, di un lavoro duro di molti anni. Dapprima i fratelli Vicari avevano infatti aperto un negozio, poi, fuori paese, costruito un capannone-deposito di articoli sanitari. Ma la tranquillità era finita presto. Erano iniziate le richieste estorsive e, subito dopo i dinieghi, gli atti intimidatori.
Gli avevano rubato un autocarro carico di materiale edile, avevano esploso colpi di pistola contro il suo negozio. Ma lui ed i suoi fratelli non si erano piegati. Avevano anzi deciso di smascherare la banda del «pizzo», montando la guardia al capannone nelle ore notturne.
La notte del 4 maggio 1985, verso mezzanotte Antonino e Vincenzo Vicari erano di guardia, forse hanno sentito qualcosa, hanno visto muoversi qualcuno. Antonino Vicari non ha avuto il tempo di capire: una scarica di lupara al volto e al torace ha stroncato la sua vita.
Fonte: L’Unità del 5 maggio 1985

 

5 Maggio 1921 Piana dei Greci (PA). Uccisi Giuseppe e Vito Cassarà, militanti socialisti
Giuseppe e Vito Cassarà,erano due fratelli che svolgevano l’attività di dirigenti socialisti nella Piana degli Albanesi. Il 5 maggio 1921 vennero uccisi dalla criminalità locale.

 

Cosimo Cristina

5 Maggio 1960 Termini Imerese (PA). Scompare Cosimo Cristina. Venne ritrovato cadavere due giorni dopo. Il suo delitto rimase impunito e archiviato come “suicidio”.
Gli atti processuali parlano di suicidio. La storia di Cosimo Cristina invece è quella di un giornalista attento, scrupoloso e coraggioso, ucciso dalla mafia in una Sicilia immobile e silenziosa. Cronista e corrispondente di numerosi quotidiani come L’Ora, ma anche testate nazionali come Il Giorno di Milano, l’agenzia Ansa, Il Messaggero di Roma e Il Gazzettino di Venezia, Cristina muore il 5 maggio del 1960 a soli 24 anni. Il suo corpo viene trovato dilaniato con il cranio sfondato sui binari ferroviari di Terme Imerese, a pochi chilometri dal capoluogo siciliano.
Cosimo Cristina raccontò la mafia in anni in cui nessuno osava nemmeno nominarla. Non era ancora stata istituita la prima Commissione parlamentare antimafia del dopoguerra quando egli scriveva di quel sistema di poteri, collusioni, privilegi che governava l’isola e le città sovrastate dalle Madonie. Lo faceva con il piglio dell’intellettuale, lo slancio che hanno i giovani sotto i trent’anni e la professionalità di un giornalista d’esperienza, nonostante la giovane età.

 

Pietro Scaglione e Antonio Lo Russo

5 Maggio 1971 Palermo. Ucciso in un agguato il magistrato Pietro Scaglione e il suo autista Antonio Lo Russo.
Pietro Scaglione (Palermo, 2 marzo 1906 – Palermo, 5 maggio 1971) è stato un magistrato italiano.
Fu assassinato in via dei Cipressi a Palermo il 5 maggio 1971 mentre era a bordo di una Fiat 1300 nera insieme al suo autista Antonio Lo Russo. Scaglione era stato da poco destinato a Procuratore Generale di Lecce. L’assassinio del procuratore della repubblica di Palermo, Pietro Scaglione, 65 anni, si può considerare il primo omicidio eccellente compiuto in Sicilia dopo quello di Emanuele Notabartolo del 1893. Il magistrato era uscito dal cimitero dove era andato a pregare sulla tomba della moglie Concettina Abate. Furono usate le classiche tecniche di delegittimazione dell’ucciso: cioè che fosse colluso, che insabbiasse le inchieste , invece era vero tutto il contrario. Fu Tommaso Buscetta a chiarire le motivazioni dell’omicidio (Leonardo Vitale, primo pentito di mafia non fu mai creduto). Colui che decise l’omicidio fu Luciano Liggio che eseguì l’omicidio insieme a Totò Riina. Il potere mafioso era passato in mano al gruppo dei corleonesi. (Wikipedia)

 

Pasquale Feliciello

5 Maggio 1990 Casalnuovo (NA). Resta ucciso per errore Pasquale Feliciello, 50 anni.
Pasquale Feliciello, 50 anni, padre di nove figli, impiegato presso la ASL di Napoli, rimase ucciso il 5 Maggio del 1990 fuori di un circolo ricreativo di Casalnuovo, dove risiedeva, perché si trovava nelle vicinanze di un pregiudicato contro cui era diretto il raid criminale.
I figli, che avevano perso la mamma due anni prima, hanno dovuto subire le dicerie infamanti del paese, la perquisizione dei carabinieri in casa, alla ricerca di armi, il telefono sotto controllo.
C’è voluto del tempo ma alla fine la famiglia ha avuto giustizia: Pasquale Feliciello è stato dichiarato vittima innocente della camorra.

 

6 Maggio 1986 Messina. Viene ucciso Nino D’Uva, 61 anni avvocato penalista, uno dei difensori nel maxiprocesso di Messina. Condannato a morte perché la sua difesa ritenuta troppo blanda e, forse, per essersi rifiutato di difendere un boss calabrese.
Nino D’Uva era uno degli avvocati penalisti più in vista di Messina. Ben 13 imputati al Maxiprocesso lo avevano scelto come avvocato difensore. Il 6 maggio 1986 al terzo piano di Palazzo D’Alcontres, in via San Giacomo, viene ucciso da un killer che, anni dopo, una serie di pentiti dichiareranno essere Placido Calogero, un ragazzo di 19 anni.
“La tesi dell’esecuzione è quella di sempre, sussurrata e mai fino ad allora provata: un segnale inequivocabile e devastante soprattutto agli avvocati, che i clan giudicavano troppo poco impegnati, “molli” al maxiprocesso del 1986. E’ il primo eclatante atto della “strategia del terrore” decisa proprio dalle gabbie di Gazzi dal padrino Costa per influenzare tutto e tutti, giudici e avvocati, mutuando le parallele strategie di Cosa nostra palermitana di quegli anni.
Passa quasi un anno e alla prima spiegazione tutta messinese si salda un’altra causale altrettanto credibile, quella calabrese. Il 15 giugno 1994 il gip di Catania Antonino Ferrara firma un’ordinanza di custodia cautelare per il capo bastone della ’ndrangheta Natale Iamonte, che all’epoca ha 67 anni, l’ex macellaio di Melito Porto Salvo che è diventato ricco iniziando a fare soldi con gli appalti pubblici destinati allo sviluppo della Calabria. […] In questo caso a parlare è un altro pentito storico, il calabrese Pasquale Barreca, che racconta all’allora sostituto della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Verzera, messinese, di avere appreso tutto da un nipote del vecchio capomafia mentre erano insieme in cella. L’ordine Iamonte lo ha dato dalla sua cella, dopo aver subito una condanna a 7 anni come capo della ’ndrina di Melito Porto Salvo davanti al tribunale di Reggio Calabria presieduto dal giudice Agostino Cordova. S’era fatto l’idea che le cose sarebbero andate diversamente perché in quel processo uno dei magistrati impegnati era Melchiorre Briguglio, il genero dell’avvocato D’Uva, e i suoi parenti erano “scesi” a Messina per parlare con il penalista chiedendogli di assumere la difesa, un’offerta respinta al mittente. Da quel momento insieme a Costa e Barreca dell’esecuzione parlano in tanti, ma l’impianto della due causali pur con alcuni distinguo, soprattutto di Costa, regge.

 

Maria Chindamo

6 maggio 2016 Montalto di Limbadi (VV). Scompare Maria Chindamo (44 anni), forse punita per aver lasciato il marito, morto suicida un anno esatto prima.
Maria Chindamo è scomparsa misteriosamente la mattina del 6 maggio 2016. Vedova, madre di 3 figli e imprenditrice, la 44enne di Laureana di Borrello (Reggio Calabria) quella mattina aveva un appuntamento di lavoro (di cui pochissime persone erano a conoscenza) con un operaio presso la sua azienda agricola che ha sede in località Montalto di Limbadi (Vibo Valentia). Di fronte all’ingresso della proprietà, poco dopo le 7, appena scesa dall’auto qualcuno l’ha brutalmente aggredita, ferita e portata via. Fatta sparire chissà dove. L’aggressore e i suoi presunti complici hanno agito in pieno giorno, senza temere niente. Il 6 maggio di un anno prima moriva suicida il marito di Maria, colpito da grave depressione perché lei lo aveva lasciato ed era decisa a ricostruirsi una vita accanto ad un altro uomo. Non una coincidenza: secondo gli inquirenti i due fatti sarebbero strettamente connessi e qualcuno avrebbe deciso di ‘dare una lezione’ alla donna, uccidendola. (Fonte: urbanpost.it )

 

7 maggio 1879 Bolognetta (PA). Assassinato Giorgio Verdura, ex sindaco del paese
L’ex-brigadiere Giorgio Verdura con decreto del 31 maggio 1877, fu nominato sindaco del Comune di Santa Maria dell’Ogliastro, oggi Bolognetta (Palermo) per il triennio 1876 -78. A partire dal 24 luglio 1878, il sindaco invia alle autorità del mandamento, della provincia e del circondario una circostanziata denuncia contro il notaio Vincenzo, classe 1836, e i fratelli Antonino e Rosario Benanti, i fratelli Giovanni e Giuseppe Monachelli, il medico Antonino Calivà, tutti appartenenti al cosiddetto “partito Benanti”. La coraggiosa denuncia del sindaco contraddice la presunta generale omertà dei siciliani, segnalata qualche anno prima dalla celebre inchiesta degli aristocratici toscani Franchetti e Sonnino, secondo cui nell’isola “nessuno denunzia, nessuno porta testimonianza, nemmen l’offeso”. Verdura viene accusato di essere un calunniatore fino a essere rimosso dal suo ruolo di sindaco. Il 7 maggio, sul far del giorno, si reca a Palermo a piedi con un gruppo di compaesani forse al seguito dei carrettieri che partono all’alba in gruppo. Nel corso del cammino, l’ex sindaco si distanzia dalla comitiva di circa trecento metri. All’improvviso, da un campo coltivato a frumento vengono sparati i proiettili di un fucile, che lo colpiscono. (Fonte: vivi.libera.it )

 

7 Maggio 1991 Porto Empedocle (AG). Resta ucciso Antonino Iacolino, titolare di una bar, insieme ad un uomo di Cosa nostra.
7 Maggio 1991 Porto Empedocle (AG). Resta ucciso Antonino Iacolino, 40 anni, titolare di una bar. Lo freddarono i colpi di pistola che avrebbero dovuto raggiungere Salvatore Albanese, un uomo di mafia.
Iacolino era in compagnia di Albanese per averlo rivisto dopo un lungo periodo di assenza dovuto a un provvedimento giudiziario. Lo aveva incontrato e stava scambiando poche chiacchiere, i soliti convenevoli. Solo la fortuna ha voluto che non si contassero altre vittime. I due killer non risparmiarono piombo e nella fretta di portare a termine l’azione di morte colpirono anche una donna rimasta ferita a un piede.

 

8 Maggio 1947 Partinico (PA) Uccisione di Michelangelo Salvia, dirigente della Camera del Lavoro.
Michelangelo Salvia, nato il 9 aprile 1913, fu assassinato l’8 maggio 1947, a una settimana della strage di Portella.
Sulla sua tomba leggiamo:

barbaramente ucciso da una mano sopraffattrice
per chiudere la bocca
portatrice di verità insopprimibile
su tutti gli uomini che soffrono
I buoni e onesti cittadini lo ricordano
fulgido esempio di onesto lavoratore
Cosa abbiamo raccolto?

“Michelangelo Salvia fu ucciso con dei colpi di arma da fuoco sparatigli in bocca perché Michelangelo non aveva peli sulla lingua. La gente parlava , lo stato era omertoso e depistava …”  (Giuseppe Casarrubea)

 

8 Maggio 1982 Porto Empedocle (AG). Giuseppe Lala, Domenico Vecchio e Antonio Valenti uccisi sul posto di lavoro
“Era accaduto che i Traina avevano aperto uno stabilimento di frantumazione di inerti a Cattolica, sul fiume Verdura. Questa ingerenza infastidì Pietro Marotta, uomo d’onore di Ribera, proprietario di un analogo impianto e cugino di Carmelo Colletti (figli di fratello e sorella) che decise di intervenire inviando sul posto il gruppo raffadalese di Lauria. I killer si appostarono dietro un silos carico di cemento in polvere e spararono non appena videro arrivare i tre malcapitati: morirono sul colpo e senza scampo per essersi trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Dopo un giorno di lavoro stavano facendo rientro a casa, invece li raggiunse una scarica di fuoco e pallettoni. Lala, Vecchio e Valenti, come tutte le vittime innocenti di mafia, sono stati poi uccisi dal silenzio e dimenticati. Per i loro familiari è stato un doppio dramma: difficile superare il dolore della perdita, ma molto più ardua sarà stata l’impresa di doversi confrontare con un clima di sospetti investigativi che hanno immerso nel grigiore la strage e le sue vittime. Un contesto che ha posto sullo stesso piano “lupi e agnelli”, e per lunghi anni alle famiglie delle vittime innocenti è mancato anche il sostegno dello Stato: sia morale che economico. Il figlio di Lala è dovuto emigrare in Germania per trovare lavoro, lo stesso ha fatto il primogenito di Domenico Vecchio che, quando il suo petto venne attraversato dal piombo infuocato sparato dai killer, stava andando a casa dalla moglie incinta. Quel piccolo in grembo non ha mai conosciuto padre, né lo Stato lo ha fatto sentire meno solo. Soltanto vent’anni dopo gli è stato offerto un lavoro, le pratiche sono in corso di espletamento. Una mano tesa, finalmente! Tutto grazie agli arresti dell’operazione Akragas ed alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Grazie a loro le acque dei sospetti si sono definitivamente divise e per le mogli ed i figli di Lala,Vecchio e Valenti è arrivata finalmente la giustizia.”  Tratto da: “Mister Settecasi, boss dei due mondi, Genealogia mafiosa fino ai nostri giorni” –  Centro Pasolini Libri on.line

 

Mariangela Anzalone e Giuseppe Biccheri

8 Maggio 1998 Oppido Mamertina (RC) restano uccisi Mariangela Anzalone 9 anni e il nonno Giuseppe Biccheri, 50 anni. Una famiglia distrutta perché si trovava a passare per caso dal luogo di un agguato.
Una famiglia distrutta solo per una terribile coincidenza.
Mariangela Ansalone (9 anni) e il nonno Giuseppe Biccheri (54 anni) restarono Uccisi ad Oppido Mamertina l’8 maggio 1998 perché passavano casualmente in automobile davanti ad un negozio dove si era appena consumato un duplice omicidio legato alla faida che in quegli anni stava insanguinando il paesino aspromontano e, a quel momento contava già 50 morti.
Giuseppe, insieme alla moglie, stava riaccomopagnando a casa la figlia e i suoi due nipotini, quando i killer, uscendo dal negozio videro l’auto, simile a quella di un famigliare dei due appena uccisi, e scaricarono contro di essa le loro armi. Nonno Bicchieri e Maria Angela rimasero uccisi sul colpo, la moglie Annunziata, la figlia Franca e l’altro bambino, Giuseppe di otto anni, ridotti in fin di vita.

 

Peppino Impastato

9 Maggio 1978 Cinisi (PA). Peppino Impastato è stato ucciso, dilaniato da una bomba piazzata sulla ferrovia Palermo-Trapani.
Giuseppe Impastato, meglio noto come Peppino, è stato un giornalista, attivista e poeta italiano, noto per le sue denunce contro le attività mafiose a seguito delle quali fu assassinato, vittima di un attentato il 9 maggio 1978.
Peppino Impastato nacque a Cinisi, in provincia di Palermo, il 5 gennaio 1948, da una famiglia mafiosa.[…] Ancora ragazzo rompe con il padre, che lo caccia di casa, ed avvia un’attività politico-culturale antimafiosa. Nel 1965 fonda il giornalino L’idea socialista e aderisce al PSIUP. Dal 1968 in poi, partecipa, con ruolo di dirigente, alle attività dei gruppi comunisti. Conduce le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo, in territorio di Cinisi, degli edili e dei disoccupati.
Nel 1976 costituisce il gruppo Musica e cultura, che svolge attività culturali (cineforum, musica, teatro, dibattiti, ecc.); nel 1976 fonda Radio Aut, radio libera autofinanziata, con cui denuncia i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, in primo luogo del capomafia Gaetano Badalamenti (spesso chiamato “Tano Seduto” da Peppino), che avevano un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga, attraverso il controllo dell’aeroporto. Il programma più seguito era Onda pazza, trasmissione satirica con cui sbeffeggiava mafiosi e politici.
Nel 1978 si candida nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali. Viene assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, nel corso della campagna elettorale; col suo cadavere venne inscenato un attentato, atto a distruggerne anche l’immagine, in cui la stessa vittima apparisse come attentatore suicida, ponendo una carica di tritolo sotto il suo corpo adagiato sui binari della ferrovia. Pochi giorni dopo, gli elettori di Cinisi votano il suo nome, riuscendo ad eleggerlo, simbolicamente, al Consiglio comunale. […]
La matrice mafiosa del delitto viene individuata grazie all’attività del fratello Giovanni e della madre Felicia Impastato (1916 – 2004), che rompono pubblicamente con la parentela mafiosa e grazie anche ai compagni di militanza e del Centro siciliano di documentazione di Palermo, fondato a Palermo nel 1977 da Umberto Santino e dalla moglie Anna Puglisi e dal 1980 intitolato proprio a Giuseppe Impastato. Sulla base della documentazione raccolta e delle denunce presentate viene quindi riaperta l’inchiesta giudiziaria. […]. Il 5 marzo 2001 la Corte d’assise ha riconosciuto Vito Palazzolo colpevole e lo ha condannato a trent’anni di reclusione. L’11 aprile 2002 Gaetano Badalamenti è stato condannato all’ergastolo. (Tratto da Wikipedia)

 

9 maggio 1987 Aosta. È morto suicida Giovanni Selis, 50 anni, pretore di Aosta; non si era mai ripreso da un attentato di cui era stato vittima.
Giovanni Selis era pretore ad Aosta e stava indagando sul Casinò di Saint Vincent quando un’autobomba distrusse la sua 500, lasciandolo miracolosamente incolume. Giovanni Selis indicò ai magistrati di Milano come possibile movente dell’attentato ai suoi danni, proprio le indagini sulla casa da gioco, e in particolare sull’ambiente dei prestasoldi e il rapporto tra questi e l’Ufficio Fidi. Si uccise alcuni anni dopo, impiccandosi nella sua cantina. Soffriva di un forte esaurimento nervoso, non si era mai ripreso dall’attentato. Era il 9 maggio 1987.

 

Giovanni Bonsignore

9 Maggio 1990 Palermo. Ucciso Giovanni Bonsignore dirigente superiore della Regione Siciliana. Si era opposto alla concessione di un finanziamento “illegittimo” chiesto da un consorzio agroalimentare.
Giovanni Bonsignore fu dirigente superiore dell’assessorato regionale della cooperazione, del commercio e pesca della Regione Siciliana. Il funzionario pagò con la vita la sua intransigenza e il profondo rigore applicato quotidianamente al suo lavoro. Non si era mai voluto piegare a direttive che contrastavano con la legge e per questo era stato trasferito ad un altro ramo dell’amministrazione. Da dirigente dell’assessorato alla Cooperazione aveva ostacolato la creazione del consorzio agroalimentare , un organismo costato miliardi, recuperati da capitoli di bilanci che egli sosteneva fossero destinati ad altre spese. Aveva preparato una relazione molto dettagliata nella quale sosteneva che secondo le leggi regionali e statali in vigore, il finanziamento predisposto dalla Regione Siciliana di circa 38 miliardi era illegittimo. Fu assassinato il 9 maggio 1990 alle 8.30 a Palermo in Via Alessio Di Giovanni, appena uscito di casa dopo aver acquistato un quotidiano. Qualche anno dopo la sua morte furono confermate le sue accuse, sia i fatti di cronaca giudiziaria sia il fatto che la Regione Siciliana avrebbe cambiato nel 1993 la normativa riguardante i finanziamenti che egli criticava con l’autorevolezza di giurista preparato e rigoroso. Nel 1991 fu insignito della medaglia d’oro al valore civile alla memoria. (Wikipedia)

12 maggio 1980 Salerno. Giuseppe Antoniello, 52 anni, guardia giurata, viene ucciso durante un turno di guardia da dei rapinatori.
Giuseppe Antoniello, guardia giurata di 52 anni, sposato e con 5 figli, fu ucciso il 12 maggio 1980 mentre era di guardia presso una industria tessile di Salerno.

 

13 Maggio 1986 Palermo. Uccisione di Francesco Paolo Semilia, 47 anni, imprenditore edile
Nel pomeriggio del 13 maggio 1986 due killer hanno massacrato a pistolettate l’imprenditore edile Francesco Paolo Semilia, 47 anni, che con il padre Antonino ed i fratelli maggiori Ottavio e Michele apparteneva al gruppo di testa dei costruttori palermitani.
Un altro imprenditore di Palermo assassinato dalla mafia delle tangenti. I Semilia hanno innalzato numerosi tra i più eleganti e vasti edifici della città in quasi 40 anni di un’attività che mai ha dato adito a dubbi ed insinuazioni.
Francesco Paolo Semilia è giunto in cantiere verso le 15,30 con la sua Renault-4 che utilizzava giornalmente. Appresso a lui due giovani su una Ritmo bianca che, scesi, gli hanno domandato: «È lei il signor Semilia?». Ottenuta la risposta affermativa, uno dei due ha estratto la pistola e ha incominciato a sparare. Schivato il primo proiettile, l’imprenditore ha tentato di fuggire, ma è stato raggiunto alle spalle da altre due pallottole. I killer gli si sono avvicinati, esplodendogli da distanza ravvicinata alla testa il colpo di grazia.
Fonte: vivi.libera.it
Gli operai del cantiere assistettero terrorizzati all’esecuzione. Non si è mai celebrato un processo.
Fonte: Quarant’anni di mafia di Saverio Lodato – Bur Rizzoli

 

14 Maggio 1993 Vibo Valentia Uccisione del commerciante Nicola Remondino
Nicola Remondino, 30 anni, proprietario di un bar, ucciso la sera del 14 maggio 1993 nella frazione Porto Salvo di Vibo Valentia, paga con la vita alcuni screzi con giovani del paese. Ha finito di lavorare nel suo bar, sistema tutto, esce, abbassa la serranda. Proprio in quel momento una persona lo sorprende alle spalle e gli spara due colpi di fucile caricato a pallini.

 

15 Maggio 1985 Verona. Si è suicidato Marco Padovani, 28 anni. Era stato rapito il 13 Dicembre del 1982 e tenuto segregato, al buio, fino al 23 Maggio del 1983, in una grotta sull’Aspromonte. Suicidio per mafia.
Marco Padovani aveva 26 anni, quando il 13 Dicembre del 1982 era stato rapito da un commando a Brendola (VI), davanti all’industria di laterizi del padre, e portato in Calabria, tenuto in prigionia in una grotta sull’Aspromonte, sensa poter parlare con qualcuno o vedere la luce, se non quella di un flash per una foto poi fatta recapitare ai genitori. Era stato liberato il 23 Maggio dell’anno successivo. Aveva cercato di riprendere a vivere ma non ce l’ha fatta. A pochi giorni dall’anniversario della sua liberazione, il 15 Maggio 1985, si è tolto la vita lasciando questo messaggio: “Non credevo che l’esaurimento nervoso fosse una bestia così brutta. Vado a cercare la pace in un altro mondo, vado a Bardolino: un posto che come nessun altro mi ha dato pace”

 

Lorenzo Panepinto

16 Maggio 1911 Santo Stefano Quisquina (AG). Uccisione di Lorenzo Panepinto, insegnante, dirigente del movimento contadino e del Partito socialista. Ucciso dalla mafia per la sua attività politica contro lo sfruttamento dei braccianti e dei contadini.
Lorenzo Panepinto nato a Santo Stefano Quisquina, comune siciliano in provincia di Agrigento, il 4 gennaio 1865 da Federico ed Angela Susinno, fu un maestro elementare ed un artista: una sua grande passione, infatti, era la pittura; l’altra era la politica. La cominciò a praticare dal 1889: in tale anno fu eletto consigliere comunale nel gruppo dei democratici mazziniani, mettendo in minoranza il gruppo fino ad allora predominante dei liberal-moderati. Questi ultimi reagirono con veemenza, facendo sciogliere il consiglio comunale ed insediando il regio commissario Roncourt: tuttavia egli, nonostante la condotta partigiana, non riuscì ad impedire una seconda sconfitta dei conservatori nelle elezioni svoltesi nel mese di agosto 1890. Il governo del marchese Antonio di Rudinì commissariò nuovamente il comune e Lorenzo Panepinto si dimise per protesta, dedicandosi solamente all’insegnamento e alla pittura.
Successivamente si sposò e si trasferì a Napoli; al ritorno in Sicilia (1893), notò lo stato di subbuglio causato dal movimento dei Fasci siciliani. Decise pertanto di fondare il Fascio di Santo Stefano Quisquina, sciolto dopo appena pochi mesi dal governo del riberese Francesco Crispi, che represse tutti i Fasci dell’isola. Negli stessi anni aderisce al Partito Socialista Italiano. In seguito fu licenziato dal comune dal posto di maestro elementare per rappresaglia politica: non si scoraggiò, continuò i suoi studi pedagogici e di metologia didattica e pubblicò due volumi nel 1897. All’inizio del XX secolo, alla ripresa degli scioperi agricoli, Panepinto si affiancò ad alcuni dirigenti, come Bernardino Verro di Corleone e Nicola Alongi di Prizzi, insieme ai quali progettò un cambiamento di strategia politica, puntando a dare ai contadini gli strumenti delle cooperative agricole e delle Casse Agrarie, per emarginare i gabelloti dei feudi. Nel 1907 si trasferì in America, ma ritornò nuovamente al suo paese appena un anno dopo. Il 16 maggio 1911 venne assassinato a Santo Stefano Quisquina, proprio davanti l’ingresso di casa sua, con due colpi di fucile al petto.
La sua fu una figura paradigmatica dei sindacalismo agrario per tutti i comuni dell’area dei monti Sicani. (Wikipedia)

 

16 maggio 1920 Bolognetta (PA). Assassinato Castrense Ferreri, arciprete del paese, testimone di un omicidio.
L’arciprete di Bolognetta Castrenze Ferreri, fu gravemente ferito intorno alle ore 23 del 16 maggio, mentre se ne stava seduto davanti la porta della sua abitazione. Morì a seguito delle ferite poche ore dopo, non prima di aver riconosciuto il suo assassino e denunciatolo.
Secondo la ricostruzione del quotidiano Sicilia Nuova, Serafino Di Peri, pregiudicato per vari reati contro la persona, già consigliere comunale, fratello dell’ex-sindaco Michelangelo Di Peri, capo della cosca che dominava Bolognetta, «per avere la supremazia e comandare la organizzazione del proprio paese faceva uccidere la sera del 20 dicembre 1919 il proprio compare Benigno Michelangelo», e di conseguenza nei mesi successivi anche i «testimoni incomodi» Castrense Ferreri e il sagrestano Rosario Di Pisa che avrebbero assistito a quell’omicidio. (Fonte: vivi.libera.it )

 

Gaetano Guarino

16 Maggio 1946 Favara (AG). Uccisione del sindaco socialista Gaetano Guarino
Gaetano Guarino (Favara, 16 gennaio 1902 – Favara, 16 maggio 1946) è stato un politico italiano, vittima della Mafia. Nato a Favara (AG)  in una famiglia povera (la madre era casalinga ed il padre ebanista), studiò a Palermo e dopo aver ottenuto nel capoluogo siciliano la maturità classica si laureò nel 1928 in farmacia presso la locale università. Negli anni universitari cominciò a scrivere articoli per L’Avanti!, quotidiano socialista allora clandestino. Dal 1928 al 1930 lavorò come tirocinante a Burgio, dove conobbe la sua futura moglie. Nel corso degli anni trenta tornò a Favara, suo paese natale, dove acquistò una farmacia esercitando di conseguenza la professione di farmacista: in questi anni Guarino chiese ed ottenne regolarmente la tessera del Partito Nazionale Fascista, anche se probabilmente lo fece solo per poter proseguire la sua attività. Nel 1943, dopo lo sbarco in Sicilia degli americani, si iscrisse al Partito Socialista Italiano e divenne segretario comunale del PSI a Favara. Il 2 ottobre del 1944, su proposta del prefetto di Agrigento, Guarino venne nominato sindaco del suo paese ma si dimise dall’incarico il 15 settembre del 1945 dopo che tre assessori della Democrazia Cristiana si dimisero dall’incarico.
Guarino lottò contro i grandi proprietari terrieri che sfruttavano la locale manodopera e divenne la voce dell’umile gente che chiedeva l’attuazione delle leggi Gullo-Segni che destinavano alle cooperative i terreni incolti appartenenti ai latifondi: costituì anche una cooperativa agricola, che probabilmente si ispirava alla “Madre Terra” di Accursio Miraglia, ed i “baroni” del latifondocominciarono a remargli contro.
Il 10 marzo del 1946 si svolsero le elezioni comunali a Favara e Guarino, sostenuto oltre che dai socialisti anche dal Partito Comunista Italiano e dal Partito d’Azione, vinse le consultazioni con il 59% dei voti e fu eletto sindaco; ma la Mafia delle terre non gli perdonò le sue scelte popolari e dopo appena 65 giorni di sindacatura fu ucciso con un colpo di lupara alla nuca.
Non mancarono ipotesi alternative (e spesso fantasiose) sul suo omicidio ma esse furono promosse da politici e dirigenti corrotti dalla Mafia o collusi con essa: anche L’Avanti!, che sulle prime aveva accusato dell’assassinio i neofascisti, dovette fare marcia indietro. I responsabili del suo omicidio, seppur facilmente intuibili, non furono mai arrestati (né quelli materiali, né i mandanti): per protesta la vedova di Guarino ed il figlio andarono a vivere a Parigi, rifiutandosi sempre di tornare a Favara. (Wikipedia)

 

Salvatore Carnevale

16 Maggio 1955 a Sciara (PA) Assassinio del sindacalista Salvatore Carnevale
Salvatore “Turi” Carnevale (Galati Mamertino, 23 settembre 1923 – Sciara, 16 maggio 1955) è stato un sindacalista italiano.
Bracciante e sindacalista socialista di Sciara (PA) a 31 anni venne assassinato il 16 maggio 1955 all’alba mentre si recava a lavorare in una cava di pietra gestita dall’impresa Lambertini. I killer lo uccisero mentre percorreva la mulattiera di contrada Cozze secche.
Carnevale aveva dato molto fastidio ai proprietari terrieri per difendere i diritti dei braccianti agricoli: era infatti molto attivo politicamente nel sindacato e nel movimento contadino. Nel 1951 aveva fondato la sezione del Partito Socialista Italiano di Sciara ed aveva organizzato la Camera del lavoro. Nel 1952 aveva rivendicato per i contadini la ripartizione dei prodotti agricoli ed era riuscito ad accordarsi con la principessa Notabartolo. Nell’ottobre 1951 aveva organizzato i contadini nell’occupazione simbolica delle terre di contrada Giardinaccio della principessa. Carnevale per questo fu arrestato e uscito dal carcere si trasferì per due anni a Montevarchi in Toscana, dove scoprì una cultura dei diritti dei lavoratori più forte e radicata.Nell’agosto 1954 tornò in Sicilia, dove cercò di trasferire nella lotta contadina le sue esperienze settentrionali. Fu nominato segretario della Lega dei lavoratori edili di Sciara. Tre giorni prima di essere assassinato era riuscito ad ottenere le paghe arretrate dei suoi compagni e il rispetto della giornata lavorativa di otto ore.
Del suo omicidio vennero accusati Giorgio Panzeca, Antonio Mangiafridda e Luigi Tardibuono, il soprastante della principessa Notarbartolo. Alla fine del processo di 1° grado svoltosi a Santa Maria Capua Vetere nel 1960 i tre imputati vennero condannati all’ergastolo. Nel collegio di difesa compariva anche Giovanni Leone, futuro presidente della Repubblica. La parte civile comprendeva l’avvocato Nino Sorgi (che molte volte difese il quotidiano L’Ora da querele di politici collusi con la mafia). In appello e in Cassazione il verdetto fu ribaltato e i tre imputati furono assolti. (Wikipedia)

 

Domenico Noviello

16 Maggio 2008 Castelvolturo (CE). Ucciso Domenico Noviello, titolare di un’autoscuola. Denunciò alla giustizia i “cassieri” del racket.
Con la sua denuncia aveva fatto arrestare una banda di estorsori facenti capo al clan dei Casalesi, per questo è stato freddato da due killer armati di pistola. La vittima, Domenico Noviello, di 65 anni, incensurato e titolare di una autoscuola, in località “Baia Verde” è stato ucciso a Castelvolturno, nel Casertano.
Gli investigatori hanno ricostruito la modalità dell’omidicio: due sicari hanno raggiunto e affiancato la “Panda” sulla quale viaggiava Noviello e hanno aperto il fuoco con pistole di grosso calibro. L’uomo è riuscito a fermare l’auto e ha tentato di fuggire a piedi, ma i killer lo hanno raggiunto scaricandogli contro almeno una ventina di proiettili.
Le modalità dell’agguato confermano l’ipotesi di un nuovo gesto dimostrativo dell’organizzazione criminale dei Casalesi.
Nel 2001 Noviello aveva osato sfidare il clan Bidognetti, denunciando un tentativo di estorsione e contribuendo a far arrestare con la sua testimonianza cinque affiliati all’organizzazione camorristica, tra i quali il pregiudicato Pasquale Morrone e i fratelli Alessandro e Francesco Cirillo.
Per tre anni aveva vissuto sotto scorta.
A Domenico Noviello è dedicato il bene confiscato alla camorra a San Cipriano d’Aversa che oggi ospita un gruppo di convivenza di persone con disabilità psico-fisica, soci della cooperativa Agropoli e del ristorante della Nuova Cucina Organizzata.
È dedicata a Domenico un’associazione antiracket del litorale domizio, voluta fortemente da dieci commecianti che hanno denunciato il pizzo. All’inaugurazione dell’associazione anche il sottosegretario del Ministero dell’Interno Antonio Mantovano.
Nel mese di giugno 2012 sono state emesse 10 ordinanze di custodia cautelare nei confronti del clan dei camorristi che ha ucciso Noviello. (Fondazione Pol.i.s.)

 

Maurizio Estate

17 Maggio 1993 Napoli. Maurizio Estate, 23 anni, ucciso per aver sventato uno scippo nell’autolavaggio dove lavorava.
Il 17 maggio 1993 Maurizio Estate, un giovane di 23 anni, viene ucciso al largo Ventriera a Chiaia, dove lavorava nell’autolavaggio che gestiva con il padre.
Due giovani giunti a bordo di una vespa tentano di strappare l’orologio ad un cliente che ha appena portato la propria auto all’autolavaggio.
Il padre di Maurizio si accorge dell’accaduto ed inizia a gridare e il ragazzo, sentendo le urla, interviene inseguendo i malviventi e costringendoli alla fuga.
Mezz’ora dopo si presenta in quel luogo un giovane con il viso coperto da passamontagna che inizia a sparare a raffica, colpendo al petto Maurizio, morto tra le braccia dei genitori.
Il presunto assassino, un giovane 17enne dei Quartieri Spagnoli, avrebbe utilizzato una pistola giocattolo modificata in grado di sparare proiettili. (Fondazione Pol.i.s.)

 

17 Maggio 1995 Torre Annunziata (NA). Il commerciante Andrea Marchese, 49 anni, resta ucciso durante una rapina.
Il 17 maggio 1995 Andrea Marchese, 49 anni, resta ucciso durante una rapina nel suo deposito di arredi per bagno, a Torre Annunziata (NA), in via Roma; un’impresa considerata tra le più fiorenti del settore nella provincia napoletana.
Due persone, col volto coperto da calzamaglie, irruppero nel centro all’ingrosso semideserto; uno dei malviventi gli puntò contro una pistola semiautomatica 7,65 e gli chiese di aprire la cassaforte. Andrea Marchese, secondo la ricostruzione della polizia, si sarebbe alzato per mostrare che nel forziere non c’era una lira, ma il gesto repentino gli è costato la vita. Il rapinatore armato gli esplose contro tre colpi ferendolo mortalmente al volto e alla tempia.

 

18 Gennaio 1946 – Strage di San Cataldo – Rimasero uccisi nel conflitto a fuoco quattro uomini dell’esercito italiano: il cap. maggiore Angelo Lombardo e i fanti Vitangelo Cinquepalmi, Imerio Piccini, e Vittorio Epifani.
Strage di San Cataldo. Il 18 gennaio 1946 in un agguato organizzato presso contrada Donnastura – San Cataldo (PA), uomini della banda Giuliano attaccarono con armi pesanti un automezzo sul quale viaggiavano soldati e carabinieri. Rimasero uccisi nel conflitto a fuoco quattro uomini dell’esercito italiano: il cap. maggiore Angelo Lombardo e i fanti Vitangelo Cinquepalmi, Imerio Piccini, e Vittorio Epifani. Rimasero feriti il caporalmaggiore Giuseppe Vizzini, il vice brigadiere dei carabinieri Mario Franceschi e i fanti Piccoli e Vannutti.

 

 

Domenico Barranco

18 Maggio 1955 Cattolica Eraclea (Ag). Ucciso Domenico Barranco, Carabiniere di 32 anni, mentre cercava di fermare degli estorsori.
Il 18 maggio 1955 a Cattolica Eraclea, un conflitto a fuoco tra una pattuglia di carabinieri e due pregiudicati latitanti si concluse con la morte di Domenico Barranco, carabiniere di 32 anni, e di un bandito. Domenico Barranco, insieme ad un collega, stavano svolgendo un servizio di appostamento per sventare un tentativo di estorsione ai danni di  un possidente cattolicese che aveva ricevuto una lettera minatoria con la quale gli veniva imposto di recarsi, quel giorno alle 21:30, con un plico contenente una consistente somma di denaro alla periferia del paese, in contrada San Silvestro, dove avrebbe incontrato un uomo al quale doveva consegnare i soldi. Lo avrebbe riconosciuto perché il bandito avrebbe condotto una capra con un nastro nero legato al collo. La vittima della tentata estorsione denunciò il fatto ai carabinieri, che predisposero così un servizio di appostamento nella località convenuta. L’incarico fu affidato al nucleo di Favara che inviò due carabinieri, Domenico Barranco, 32 anni, di Cefalù e un altro, entrambi in borghese; i colleghi della stazione locale si appostarono nelle vicinanze. All’ora stabilita comparvero due uomini uno dei quali recava al laccio una capra con un nastro al collo. I due carabinieri lo stavano già arrestando, ma il malvivente estrasse una pistola e sparò due colpi contro Domenico Barranco uccidendolo sul colpo. Il bandito tentò la fuga, ma fu raggiunto dai colpi sparati dagli altri carabinieri; il suo complice riuscì a dileguarsi facendo perdere le proprie tracce. (Tratto da comunicalo.it )

 

Fernando Caristena

18 maggio 1990 Gioia Tauro (RC). Ucciso Ferdinando Caristena, 33 anni, noto commerciante, perché ritenuto omosessuale.
Ferdinando Caristena, noto commerciante di 33 anni, di Gioia Tauro, fu ucciso senza pietà da due sicari, il 18 maggio 1990, in uno dei retro bottega dei suoi esercizi. La colpa? Intrattenere una presunta relazione con un esponente di una famiglia di ‘Ndrangheta.
“Ferdinando Caristena non solo era colpevole di aver avuto una presunta tresca col cognato del boss ma, secondo le risultanze processuali, aveva in contemporanea anche una relazione con la sorella di lui, che si era innamorata follemente al punto che tra i due si parlava di un possibile matrimonio. Un triangolo esplosivo ed inaccettabile per il mondo della ‘ndrangheta. Allora come oggi, l’omosessualità per i clan era tabù. Solo l’idea che un gay potesse avere rapporti con certe famiglie suscitava scandalo. Caristena, in più aveva convissuto con un uomo che poi morì per alcune complicanze, risultando positivo all’HIV. Per tale ragione, si diffuse la voce in città che lui fosse gay. Per i clan solo l’idea che un omosessuale potesse introdursi in una famiglia di ‘ndrangheta non era accettabile. Per Caristena non ci fu nessuna pietà. (Tratto da gay.it)

 

18 Maggio 1990 Napoli. Ucciso Nunzio Pandolfi, bambino di due anni, mentre era in braccio al padre vero obiettivo dell’agguato.
Il 18 maggio 1990, nel Rione Sanità di Napoli, si consuma il terribile omicidio di Pandolfi Nunzio, di solo 2 anni.
Il bambino è in braccio al padre, Gennaro Pandolfi, anni 29, quando i killer fanno irruzione nella loro abitazione uccidendolo con colpi di arma da fuoco alla testa.
L’obiettivo dell’agguato è Luigi Giuliano, boss di Forcella che pure resta ucciso.
Il padre di Nunzio, Gennaro, secondo le indagini è autista dei Giuliano e la sua uccisione sarebbe stata necessaria per pareggiare i conti nella faida con i superboss di Secondigliano.
Il 9 giugno 2009 l’ultima sentenza per la V Corte di Assise di Napoli che condanna all’ergastolo Luigi Giuda, nel ruolo di organizzatore e Giuseppe Mallardo, nel ruolo di mandante dell’omicidio del piccolo Nunzio.
Per questo episodio sono stati già condannati all’ergastolo gli esecutori materiali del delitto. (Fondazione Pol.i.s.)

 

 

Pompea Argentiero – Lucia Altavilla – Donata Lombardi

19 maggio 1980 Grottaglie (TA). Pompea Argentiero, 16 anni, Lucia Altavilla, 17 anni, e Donata Lombardi, 23 anni, muoiono in un incidente stradale; erano in 16 su un furgone omologato per 9 posti.
Il 19 maggio 1980 tre giovani donne di Ceglie Messapica (BR) vengono coinvolte in un tragico incidente stradale sulla superstrada Taranto – Brindisi, nei pressi di Grottaglie (TA). Muoiono Pompea Argentiero (16 anni), Lucia Altavilla (17 anni) e Donata Lombardi (23 anni), braccianti reclutate per la raccolta delle fragole al di fuori del Collocamento tramite il caporale. Viaggiavano su un Ford Transit da 9 posti dove erano stipate – forse in 16 o più – sedute le une sulle gambe delle altre. Lo schianto le coglie nella loro fragile insicurezza.

 

20 Maggio 1914 A Piana dei Greci (PA) vengono assassinati Mariano Barbato, dirigente socialista, ed il cognato Giorgio Pecoraro.
Il 20 maggio 1914 a Piana dei Greci (l’attuale Piana degli Albanesi) un gruppo di criminali a volto scoperto spararono su Mariano Barbato e Giorgio Pecoraro. Le due vittime erano contadini e militanti del Partito socialista. In particolare, Mariano Barbato era cugino di Nicola Barbato, noto politico socialista siciliano, conosciuto in tutt’Italia. Il duplice delitto destò grande impressione a Piana, anche perché erano alle porte le elezioni amministrative, che i socialisti si apprestavano a vincere. Sembrò, quindi, un “messaggio” ai futuri vincitori e al loro leader politico, Nicola Barbato. (Liberanet.org)

 

Roberto Rizzi

20 maggio 1987 Torino. Ucciso Roberto Rizzi, impiegato di 31 anni, per uno scambio di persona
Uno scambio di persona. Una vittima innocente. Questa è la storia di Roberto Rizzi che, nel 1987, aveva solo 31 anni, una moglie, un lavoro da impiegato. Una vita come tanti, lontana dal crimine. Raggiunto a bruciapelo da due colpi di pistola, in un bar di via Pollenzo a Torino, da un killer, per tanto tempo sconosciuto. Vincenzo Pavia, ex collaboratore di giustizia e grande accusatore del cognato Domenico Belfiore, mandante del delitto di Bruno Caccia, ammette di aver assassinato per errore Roberto Rizzi: il suo obiettivo era Francesco di Gennaro, uomo legato al crimine organizzato della Torino degli anni ’80.
Fonte: vivi.libera.it

 

21 Maggio 1971 Delianuova (RC) Ferito gravemente, durante un tentativo di rapimento l’imprenditore Domenico Ietto morirà in ospedale dopo 52 giorni.
E’ il 21 maggio del ’71 e l’imprenditore edile viaggia in auto in compagnia del fratello Emilio. Ietto ha già subito qualche settimana prima un tentativo di sequestro e ha preso precauzioni: nel cruscotto dell’auto tiene una pistola. Quando i quattro banditi lo bloccano al bivio Brandano, all’altezza di Delianuova, compie il gesto fatale. E’ una provocazione quella pistola impugnata dal bersaglio, già sfuggito una volta alla banda. Lo feriscono gravemente. Morirà dopo qualche mese in una clinica romana. Saranno indagati uomini del clan Raso di Cittanova.(“Dimenticati – Vittime della ‘ndrangheta” di Danilo Chirico e Alessio Magro pag. 87)

 

21 Maggio 1991 Napoli. Ferito a morte il comandante di marina in pensione Vincenzo Ummarino, durante una sparatoria tra clan rivali.
La supremazia criminale nei Quartieri Spagnoli è stata da sempre del clan Mariano, che ha dovuto contrastare non solo la scissione interna degli ex luogotenenti Antonio Ranieri e Salvatore Cardillo, ma anche ingaggiare lotte  contro la famiglia Di Biase e altre formazioni più piccole, tutte interessate a mettere le mani sul business del malaffare nella zona di Chiaia.
Il clan ha sempre goduto di alleanze e appoggi strategici, come quelli offerti dai Giuliano di Forcella e dai Licciardi-Contini di Secondigliano, che ne hanno rafforzato l’autorità e garantito, spesso, la sopravvivenza.
Poco si sa invece a proposito del patto che ha legato i Mariano alla famiglia Malventi di Fuorigrotta, un patto siglato – secondo le parole del pentito Pasquale Frajese – sul cadavere del boss Giovanni Di Costanzo e dei suoi tre guardaspalle, ammazzati nel dicembre del 1989, per fare un favore ai nuovi alleati, per i quali Di Costanzo rappresentava un ostacolo.
Questa assurda storia di camorra dei Quartieri Spagnoli è indissolubilmente legata alla strage del Venerdì Santo del 29 marzo 1991, quando un commando appartenente alla frangia “ribelle” uccide tre affiliati ai Mariano e ne ferisce cinque. Il giorno dopo arriva la risposta dei “Picuozzi”, a Porta Nolana, dove i killer inviati da Ciro Mariano cercano di ammazzare tre scissionisti sparando tra la folla. Nel tentativo di sventare l’agguato, viene gravemente ferito il poliziotto Salvatore D’Addario, che morirà due giorni dopo in ospedale.
A lui, si aggiunge un’altra vittima innocente della guerra dei vicoli: il comandante di marina in pensione Vincenzo Ummarino, ucciso per errore durante una sparatoria. (Fondazione Pol.i.s.)

 

22 maggio 1945 Centuripe (EN). Assassinato Raffaele Miceli, 42 anni, direttore di una miniera. Vittima del racket delle estorsioni.
Raffaele Miceli era ingegnere minerario, direttore responsabile della miniera Marmora Gualtieri, una delle più importanti e avanzate del bacino zolfifero del nisseno. Dieci giorni prima dell’assassinio, il 12 maggio 1945, alle dieci del mattino, l’ingegner Miceli si era recato alla stazione dei carabinieri e aveva riferito di essere stato sottoposto a minacciosa richiesta ricattatoria di 500.000 lire. Dal momento che lui era solo il direttore e non il proprietario della miniera, Miceli non disponeva di una simile somma e dichiarava che, in ogni caso, anche avendoli, non avrebbe mai e poi mai ceduto al ricatto. Fu ucciso platealmente il 21 maggio del 1945 nella piazza di Centuripe (EN) per essersi rifiutato di pagare il pizzo.
Fonte: vivi.libera.it

 

Vincenzo Leto

22 maggio 1956 Campofiorito (PA). Assassinato Vincenzo Leto, contadino e militante politico.
Vincenzo Leto – 22 maggio 1956 – Campofiorito (PA)
da “Osservatorio per la Legalità e la Sicurezza”
53 anni, ex consigliere comunale di Campofiorito (PA), già presidente della locale cooperativa agricola, militante comunista. Passa la serata ad ascolatre i comizi del sindaco uscente capolista della DC alle imminenti elezioni municipali, della baronessa Maria Antonietta Lasagna e del candidato di sinistra che si alternano nella piazza gremita del paese.
Alle 11:00 si allontana per rincasare, in contrada Conte Ranieri, nei pressi della stazione ferroviaria: a 800 metri dall’abitazione, dove lo aspettano la moglie e i 2 figli, i sicari aprono il fuoco da dietro un muretto. Raggiunto da 2 colpi di lupara alle gambe, si accascia. Gli assassini gli sparano altre 2 fucilate al viso.
Le modalità fanno escludere la rapina: gli troveranno in tasca 40.000 lire frutto della vendita di un carico di fave. Esclusa la vendetta personale.
Fratello del segretario di Sezione, un artigiano capolista del PCI alle amministrative, in una zona dove i grandi proprietari e i mafiosi hanno impedito la distribuzione delle terre ai contadini poveri, è ucciso con le stesse forme efferate usate 9 mesi prima con Salvatore Carnevale e Giuseppe Spagnolo. Il delitto rimarrà impunito.
Fonte: Io Non Dimentico 2 – Vittime di Cosa Nostra

 

Mario Ceretto

23 Maggio 1975 Courgné (TO). Rapito Mario Ceretto, impresario edile. Sarà trovato morto cinque giorni più tardi con la testa spaccata a pietrate.
Per la giustizia italiana non esiste ancora un responsabile per il rapimento e l’omicidio dell’imprenditore Mario Ceretto, sequestrato il 23 maggio ’75 a Cuorgnè e ritrovato morto cinque giorni dopo, nelle campagne vicine a Orbassano, nel Torinese. Contitolare di due fornaci per laterizi, di un’industria di materiali per l’arredamento, come dello storico negozio di famiglia, all’epoca Mario Ceretto non è solo un noto imprenditore della zona, ma soprattutto uno dei maggiori esponenti politici di Cuorgnè, paesino della Val di Susa (Torino), dove da tempo le ’ndrine hanno iniziato un’opera di progressiva colonizzazione. Nella zona, da almeno un decennio hanno messo radici gli Ursino e i Mazzaferro, che direttamente, o grazie a luogotenenti come Rocco Lo Presti, hanno progressivamente monopolizzato il settore dell’edilizia e cementificato le valli. Ed è sempre nell’orbita dei clan della Jonica che si muove Giovanni Iaria, arrivato giovanissimo da Condofuri e diventato in breve uno dei maggiori imprenditori edili della zona. Un personaggio che a Mario Ceretto, uomo chiave del Partito liberale, non piace e che non vuole come candidato nella sua lista civica “Indipendenti cuorgnatesi”.
Il no non va giù a Iaria. Secondo Giovanni Cageggi, unico imputato reo confesso per il rapimento e l’omicidio
di Ceretto, sarebbe stato Iaria il mandante di quel sequestro finito male.
Un’accusa corroborata dalla testimonianza della moglie dell’imprenditore che al processo ricorderà come, all’indomani del rapimento, Iaria si fosse presentato da lei offrendosi di acquistare alcune quote della società del marito, ricevendo in cambio un secco no. Ma contro il rampante imprenditore di Condofuri, gli indizi non diventeranno mai prove. Per l’omicidio Ceretto vengono imputati, assieme ad altri, Giovanni Cageggi, il boss Rocco Lo Presti e altri personaggi dal cognome noto della Locride come Cosimo Ruga. Il processo di primo grado
si conclude nel 1978 con cinque condanne e dodici assoluzioni, fra cui quella di Lo Presti, che verrà però riconosciuto colpevole e condannato a 26 anni di reclusione in Appello. Una sentenza cassata dalla Corte di Cassazione per irregolarità, con rinvio degli atti alla Corte d’appello di Genova. Nel 1982 i giudici genovesi assolveranno tutti per insufficienza di prove. (Corriere della Calabria)

 

Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani

23 Maggio 1992 Strage di Capaci. Morirono il giudice Giovanni Falcone, il giudice Francesca Morvillo, moglie di Falcone, e gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani
La Strage di Capaci è l’attentato mafioso in cui il 23 maggio 1992, sull’autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci e a pochi chilometri da Palermo, persero la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. All’attentato sono sopravvissuti: Paolo Capuzzo, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e Giuseppe Costanza.
L’uccisione di Giovanni Falcone venne decisa nel corso di alcune riunioni della “Commissione” regionale e provinciale di Cosa Nostra, avvenute tra il settembre-dicembre 1991 e presiedute dal boss Salvatore Riina, nelle quali vennero individuati anche altri obiettivi da colpire; nello stesso periodo, avvenne anche un’altra riunione nei pressi di Castelvetrano (a cui parteciparono Salvatore Riina, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Mariano Agate, Salvatore Biondino e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano), in cui vennero organizzati gli attentati contro il giudice Falcone, l’allora ministro Claudio Martelli e il presentatore televisivo Maurizio Costanzo. In seguito alla sentenza della Cassazione che confermava gli ergastoli del Maxiprocesso (30 gennaio 1992), la “Commissione” di Cosa Nostra decise di dare inizio agli attentati: per queste ragioni, nel febbraio 1992 venne inviato a Roma un gruppo di fuoco, composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani (Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Lorenzo Tinnirello, Cristofaro Cannella, Francesco Geraci), che avrebbero dovuto uccidere Falcone, il ministro Martelli o in alternativa Costanzo, facendo uso di kalashnikov, fucili e revolver; qualche tempo dopo però Riina fece tornare il gruppo di fuoco perché voleva che l’attentato a Falcone fosse eseguito in Sicilia adoperando l’esplosivo.
Nei mesi successivi, i boss Salvatore Biondino, Raffaele Ganci e Salvatore Cancemi (rispettivamente capimandamento di San Lorenzo, della Noce e di Porta Nuova) compirono alcuni appostamenti presso l’autostrada A29, nella zona di Capaci, per individuare un luogo adatto per la realizzazione dell’attentato e per gli appostamenti. I 400 kg di tritolo utilizzati nell’attentato vennero confezionati da Pietro Rampulla (capo della Famiglia di Mistretta), il quale curò personalmente con speciali skateboard la collocazione dei fustini pieni di esplosivo in un cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada, nel tratto dello svincolo di Capaci, insieme ai mafiosi Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Gioè, Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera; Rampulla procurò anche il telecomando per azionare l’esplosivo, inviandolo a Giovanni Brusca, che lo nascose tra due balle di paglia in un camion che trasportava una cavalla a Palermo.
Nella settimana che precedette l’attentato, Raffaele Ganci e il nipote Antonino Galliano seguirono tutti i movimenti del poliziotto Antonio Montinaro, il caposcorta di Falcone, che guidava le blindate. Il 23 maggio Ganci seguì l’uscita dalla caserma “Lungaro” delle Fiat Croma blindate che dovevano prelevare Falcone all’aeroporto di Punta Raisi e telefonò a Giovan Battista Ferrante e Salvatore Biondo (mafiosi di San Lorenzo), i quali si trovavano già all’aeroporto per vedere atterrare Falcone da Roma ed avvertirono telefonicamente Giovanni Brusca e Antonino Gioè, che si trovavano appostati sulle colline sopra Capaci. In seguito Gioacchino La Barbera si spostò con la sua auto in una strada parallela alla corsia dell’autostrada A29 e seguì il corteo blindato dall’aeroporto di Punta Raisi fino allo svincolo di Capaci, mantenendosi in contatto telefonico con Brusca e Gioé. Tre, quattro secondi dopo la fine della loro telefonata, Brusca azionò il telecomando che provocò l’esplosione: la prima blindata del corteo, la Fiat Croma marrone, venne investita in pieno dall’esplosione e sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi a più di cento metri di distanza, uccidendo sul colpo gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, che furono orrendamente mutilati dall’impatto; la seconda auto, la Fiat Croma bianca guidata da Falcone, si schiantò contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio, proiettando violentemente Falcone e la moglie, che non indossavano le cinture di sicurezza, contro il parabrezza; rimasero illesi invece altri quattro componenti del gruppo al seguito del magistrato: l’autista giudiziario Giuseppe Costanza (seduto nei sedili posteriori della Fiat Croma bianca guidata dal giudice) e gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, che sedevano nella terza blindata del corteo.
La strage di Capaci, festeggiata dai mafiosi nel carcere dell’Ucciardone, provocò una reazione di sdegno nell’opinione pubblica. Secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, l’attentato di Capaci fu eseguito per danneggiare il senatore Giulio Andreotti: infatti la strage avvenne nei giorni in cui il Parlamento era riunito in seduta comune per l’elezione del presidente della Repubblica ed Andreotti era considerato uno dei candidati più accreditati per la carica ma l’attentato orientò la scelta dei parlamentari verso Oscar Luigi Scalfaro, che venne eletto il 25 maggio (due giorni dopo la strage).
Segue…   it.wikipedia.org

 

23 maggio 1997 Castelforte (LT). Giustiziato Andrea Di Marco, 30 anni, meccanico.
Andrea Di Marco, 30 anni, meccanico di Castelforte (LT) giustiziato il 23 maggio del 1997 e rinvenuto quasi un anno dopo all’interno di un’auto inabissata nel fiume Garigliano.
Nome inserito nella lista: vivi.libera.it

23 Maggio 1998 Gela (CL) ucciso Orazio Sciascio, commerciante di 67 anni, in un tentativo di rapina
Orazio Sciascio aveva 67 anni, e si trovava nel suo negozio di generi alimentari a Gela quel 23 maggio del 1998, quando si è ribellato a un tentativo di rapina ed è stato ucciso con un colpo di fucile calibro 12. (Liberanet.org)

 

Rodolfo Buscemi e Matteo Rizzuto

24 Maggio 1982 a Palermo Rodolfo Buscemi e il cognato Matteo Rizzuto, appena 18 anni, uccisi e fatti sparire in mare. Rodolfo stava indagando sulla morte del Fratello Salvatore, ucciso nell’Aprile del 1976.
“… Suo fratello Salvatore disoccupato, con quattro figli piccoli, il più grande otto il più piccolo 4, carattere litigioso, negli anni settanta aveva iniziato a vendere sigarette di contrabbando senza aver chiesto il permesso ai boss. Nemmeno a quelli del quartiere di S. Erasmo dove abitava. Più volte gli avevano fatto perdere il carico come avviso, ma lui nulla. Anche perché a pugni era bravo e li faceva scappare. Una sera di aprile del ’76, verso le otto di sera, Salvatore e Giuseppe un fratello più piccolo, si trovavano in compagnia di loro parenti, in una bettola del quartiere, mentre stavano per andarsene, entrarono due uomini incappucciati armati. Salvatore colpito a morte cadde subito a terra, ma non bastava, uno dei due si avvicinò e gli sparò due colpi di lupara alla gola e al mento. La scena che ebbe davanti Giuseppe fu terribile. Il volto di suo fratello era totalmente sfigurato, la pancia squarciata, budella di fuori. Anche lui era ferito, fu portato all’ospedale. Una pallottola aveva perforato l’osso del bacino e gli si era posata sugli intestini. Subito dopo l’assassinio, un altro fratello, Rodolfo, deciso a scoprire gli assassini di Salvatore, si trasferisce nel quartiere di S. Erasmo e comincia a fare indagini e raccogliere prove. Scopre o si convince che il mandante dell’omicidio del fratello era Filippo Marchese boss del quartiere di S. Erasmo.Il mafioso Vincenzo Sinagra futuro pentito, gli intima di smetterla, inoltre, forse lui stesso era implicato in piccole attività poco lecite e comunque non autorizzate da chi comandava nel quartiere, un mese dopo l’avvertimento da parte di Sinagra, Rodolfo e il cognato Matteo, di soli 18 anni, furono intrappolati con una falsa offerta di lavoro e scomparvero nel nulla.Non rimasero tracce. Dopo qualche anno, il superpentito Sinagra raccontò che erano stati portati nella camera della morte, torturati e uccisi. Buttati in fondo al mare perché l’acido in cui avrebbero dovuto sciogliere il suo cadavere non era buono…” (Graziella Proto)

 

Domenico Archinà

24 Maggio 1991 Siderno (RC). Uccisione di Domenico Archinà, industriale dell’olio e proprietario di una emittente televisiva.
A Siderno, uno dei più grossi centri della Locride, Domenico Archinà, 45 anni, viene ucciso a colpi di pistola il 24 maggio 1991, accanto all’azienda di cui è proprietario. Un commando ha affiancato la sua Mercedes fulminandolo. Domenico Archinà, importante industriale dell’olio di oliva, possedeva anche una televisione privata, non aveva precedenti né, secondo gli investigatori, era mai stato «chiacchierato» per rapporti di ‘ndragnheta. La sua morte sarebbe in qualche modo «simbolica». I killer lo avrebbero preso di mira per assestare un colpo al clan dei Commiso, il cui capo ha sposato una lontanissima parente di Archinà. «Una parentela tanto lontana da non essere neanche rilevabile sul plano del diritto civile», spiegano in Procura. Ma una «colpa» sufficiente per la sua condanna a morte. I Commiso sono il clan vincente di Sidemo. Contro di loro sono in guerra i Costa, ormai decimati sul piano militare. Nella faida che li contrappone, in poco più di tre anni si sono accumulati una quarantina di cadaveri. La morte di Archinà – dicono gli inquirenti – potrebbe essere una sfida per stanare i Commiso e per incutere terrore ai loro amici e fiancheggiatori, una scelta strategica per isolarli. (Tratto da l’Unità del 26 maggio 1991)

 

Francesco Tramonte e Pasquale Cristiano

24 Maggio 1991 Lamezia Terme (CZ) Uccisi sul lavoro i netturbini Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte. “L’obiettivo era lanciare un segnale per dire che i rifiuti a Lamezia Terme sono una cosa seria e se una cosa è seria la deve gestire la ‘ndrangheta”
Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte, rispettivamente 39 e 28 anni, dipendenti comunali, vennero trucidati a colpi di kalashnikov all’alba del 24 maggio 1991, in zona Sambiase (Lamezia Terme). Stavano lavorando a bordo di un autocarro per la raccolta e il trasporto dei rifiuti solidi urbani; per Pasquale era la prima volta, era esonerato per motivi di salute, ma fu chiamato quella notte per sostituire un collega assente, ed accettò volentieri perché il compagno era il suo amico Francesco.
“L’obiettivo era lanciare un segnale per dire che i rifiuti a Lamezia Terme sono una cosa seria e se una cosa è seria la deve gestire la ‘ndrangheta”

 

Giovanni Simonetti

24 Maggio 1994 Gioiosa Jonica (RC). Ucciso Giovanni Simonetti, avvocato civilista/penalista.
Giovanni Simonetti,  era un avvocato, sia civilista che penalista, molto bravo nel suo lavoro, dedicava alla sua professione la maggior parte del suo tempo. Era un uomo dai grandi principi, molto forte, onesto e legatissimo alla famiglia, era giusto e molto umano.  Anche in famiglia manteneva fede a tutti i suoi valori ed a tutte le sue caratteristiche, arricchite da un enorme e profondo affetto che riusciva a trasmettere in un modo tutto suo. Il 24.05.1994 a Gioiosa Jonica (RC) gli hanno sparato sotto casa, davanti alla porta del suo studio, hanno bussato, lui ha aperto la porta e …. aveva solo 50 anni tante cose da fare e tanto da dare, tanta gente da aiutare con la sua professione.  Non si sa chi e non si sa perchè.  (Ilcannocchiale.it)

 

Gianluca Congiusta

24 Maggio 2005 Siderno (RC): Assassinato il giovane commerciante Gianluca Congiusta
Aveva sconfitto un male che sembrava incurabile. E’ stato ucciso dalla ‘ndrangheta. Gianluca Congiusta era nato a Siderno nella Locride il 19 dicembre del 1973. Una famiglia normale quella di papà Mario e mamma Donatella, gente onesta e perbene che da generazioni si occupa di commercio. Frequenta con ottimi risultati l’Istituto tecnico per il turismo. Durante l’ultimo anno delle scuole superiori viene colpito da una grave malattia: linfoma non hodking, un tumore. Aveva solo 17 anni. Combatte la sua battaglia e la vince. Le cure a Bologna durano un anno, poi Gianluca rientra a Siderno e recupera l’anno scolastico perso. Si diploma e fa uno stage a Roma presso un importante operatore turistico. Non conclude invece gli studi universitari (s’era iscritto in Economia e commercio) perché decide di dedicarsi al lavoro. Gestisce infatti alcuni negozi di telefonia a Siderno. Un mestiere difficile, quello del commerciante. Gianluca viene ucciso a Siderno il 24 maggio 2005. Dopo tre anni, il 7 marzo 2008, si è aperto in Corte d’Assise a Locri il processo contro la cosca Costa di Siderno, con la costituzione di parte civile, tra gli altri, della Regione Calabria, della Provincia di Reggio Calabria, dell’Associazione dei Comuni della Locride, di Confindustria Calabria. Per i giudici di primo grado il colpevole è Tommaso Costa.
La famiglia di Gianluca ha scelto di ribellarsi al dolore. Il sacrificio di Gianluca non è stato inutile. Prima il padre Mario poi la sorella Roberta sono diventati pungolo costante della società civile calabrese. Sul sito www.gianlucacongiusta.org sono contenute notizie sul processo e sui principali fatti di ‘ndrangheta della Locride. Soprattutto è presente l’elenco – sempre aggiornatissimo – dei morti ammazzati della Locride. A Gianluca Congiusta è dedicato il libro di Paola Bottero Ius Sanguinis. (Stopn’drangheta.it)

 

Bernardo Salvato Foto da Fondazione Pol.i.s.

24 maggio 2007 Frattaminore (NA). Uccisi, in un agguato camorristico, Bernardo Salvato, gestore di un bar e Vincenzo Castiello, imprenditore e candidato sindaco.
Il 24 maggio 2007 Bernardo Salvato, 44 anni, viene ucciso all’interno del suo bar a Frattaminore. Rimane vittima anche un cliente del bar, Vincenzo Castiello, 59 anni, imprenditore locale candidato sindaco, fratello di uno dei carabinieri che aveva preso parte all’arresto di Di Lauro.
L’agguato appare subito di stampo camorristico.
Bernardo Salvato era incensurato, gestiva da poco il bar e lavorava nei mercati.
Il presidente del Coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti della criminalità Alfredo Avella, negli ultimi 5 anni, ha consegnato delle borse di studio in favore delle vittime innocenti della criminalità, tra questi Giuseppe, Maria Pia, Francesco e Pasquale, figli di Bernardo. L’iniziativa è stata sostenuta dalla Fondazione Polis.
Fonte: fondazionepolis.regione.campania.it

 

 

Daniele Discrede

24 maggio 2014 Palermo. Daniele Discrede, commerciante di 42 anni, viene ucciso, dopo la chiusura, davanti al suo supermercato. Testimone la figlia di otto anni. Vittima probabilmente di una rapina.
Daniele Discrede, commerciante di 42 anni, viene ucciso la sera del 24 maggio del 2014 davanti alla figlia di otto anni, dopo la chiusura del supermercato di cui era diventato socio; precedentemente ne era proprietario ma, per debiti, ne aveva ceduto le quote ad altri due soci.
Da un video di sorveglianza si vede il commerciante che arriva a bordo della moto. Vede la figlia, in ostaggio dei rapinatori e si scaglia contro uno di loro. Il bandito spara. Lui cade a terra. Nel frattempo arriva un altro rapinatore armato. Daniele per proteggere la figlia alza un braccio. Ha il tempo di raccontare ai poliziotti che il commando era composto da tre persone e che si sono portati via 4.500 euro. Da allora la famiglia non ha smesso di chiedere giustizia ma gli assassini non sono stati ancora individuati.

 

Bruno Ielo Francobollo 2020

25 maggio 2017 Reggio Calabria. Assassinato Bruno Ielo, 66 anni, tabaccaio, ex carabiniere. Volevano che chiudesse l’attività.
Bruno Ielo, 66 anni, tabaccaio, è stato ucciso con un colpo di pistola alla testa la sera del 25 maggio 2017, esploso da un killer da distanza ravvicinata, mentre rientrava a casa con lo scooter sulla strada Nazionale per Catona.
Bruno Ielo venne ucciso per strada su mandato di un esponente della ‘ndrangheta reggina in modo plateale con una pistola abbandonata accanto al cadavere, perché non si era voluto piegare al diktat della cosca di chiudere la tabaccheria che da circa un anno aveva aperto a Gallico, facendo concorrenza a quella del mandante dell’omicidio, elemento di spicco della famiglia Tegano. Il delitto con la sua efferatezza e connotazione simbolica doveva riaffermare di fronte a tutta la comunità la perdurante operatività della cosca, pronta a reprimere chiunque osasse metterne in discussione la sua potenza criminale e il dominio sul territorio. (Fonte: quotidianodelsud.it )

 

Michele Germano

26 maggio 1977 Cittanova (RC). Assassinato Michele Germanò, macellaio. Testimone.
Michele Germanò fu ucciso a Cittanova (RC) il 26 maggio 1977.
Come di solito era andato in campagna, alla periferia di Cittanova dove aveva la stalla con degli animali che lui stesso allevava, visto che di professione faceva il macellaio. Al ritorno, qualcuno che conosceva, blocca il camion, lo fanno scendere e lo portano in un luogo lontano dove gli sparano un colpo al cuore, uno alla gola e uno alla testa. Sono gli anni della faida e Michele Germanò aveva testimoniato davanti al Tribunale di Palmi riguardo a una lite avvenuta nella sua macelleria tra la madre dei Facchineri e quella degli Albanese.
Fonte: vivi.libera.it

 

Petru Birladeanu

26 Maggio 2009 Napoli Quartiere Montesanto. Petru Birladeanu, ucciso da proiettili vaganti durante una sparatoria tra camorristi.
Il giorno 26 maggio 2009 Petru Birladeanu è ucciso in una sparatoria presso la stazione della Cumana di Montesanto tra i vicoli della Pignasecca, rione popolare di Napoli.
Otto persone in sella alle proprie moto sparano all’impazzata ferendo anche un 14enne poi ricoverato al Vecchio Pellegrini.
Birladeanu era un musicista di fisarmonica rom conosciuto nella zona, una persona gentile che si guadagnava da vivere portando la sua arte sui vagoni della Cumana accompagnato sempre dalla sua compagna.
La sua morte si inserisce nell’ambito delle azioni dimostrative per l’affermazione del predominio dei clan della zona, da un lato i Marino-Elia-Lepre, dall’altra i Ricci-Sarno.
Dopo aver seguito diverse piste, gli agenti della Squadra mobile di Napoli, diretti da Vittorio Pisani, hanno fermato Marco Marino, ex boss dei Quartieri Spagnoli.
Nel mese di marzo 21012 si è concluso il processo contro gli assassini di Petru. Condannati a 30 anni di reclusione Mario Ricci e Salvatore e Maurizio Forte, con il riconoscimento dell’articolo 7 della legge antimafia del 1991 che prevede l’aggravante per aver agito per agevolare il clan di riferimento.
I giudici hanno previsto il pagamento di una provvisionale a favore delle parti civili costituitesi, la famiglia Birladeanu e la famiglia Pirone. La famiglia Pirone è stata coinvolta perché il ragazzo, figlio unico, allora minorenne, rimase ferito durante la sparatoria.
Contro gli imputati si sono schierati anche la Regione Campania e il Comune di Napoli. (Fondazione Pol.i.s.)

 

27 Maggio 1944 Ragabulto (EN) ucciso Santi Milisenna, segretario della federazione comunista
Santi Milisenna era il segretario della federazione comunista di Enna. Venne ucciso il 27 maggio 1944, a Regalbuto (Enna), durante un tumulto per un raduno separatista. (Liberanet.org)

27 Maggio 1993 Firenze. Strage Via dei Georgofili, Galleria degli Uffizi. Un’autobomba provoca la morte di cinque persone: Angela Fiume, il marito Fabrizio Nencioni, le Figlie Elisabetta di 8 anni e Caterina, di 50 giorni, e lo studente Dino Capolicchio.
Il 27 maggio 1993, pochi minuti dopo l’una del mattino, a Firenze, in via dei Georgofili, si verificò una terribile esplosione, che sconvolse il centro storico della città. L’esplosione distrusse la Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili. Sotto le sue macerie morirono la custode dell’Accademia, Angelamaria Fiume in Nencioni, e i componenti della sua famiglia. Si incendiò inoltre un edificio di via dei Georgofili e tra le fiamme morì Dario Capolicchio. Trentotto persone rimasero ferite. Subirono gravi danni numerosi edifici della zona, la Chiesa di S. Stefano e Cecilia e il complesso artistico monumentale della Galleria degli Uffizi. Dipinti di grande valore furono distrutti mentre il 25% delle opere presenti in Galleria subì danni. A determinare l’esplosione fu una miscela ad alto potenziale collocata all’interno di una vettura.
I processi hanno accertato che i mandanti e gli autori materiali della strage erano esponenti della mafia e che ad ispirarla era stata l’avvenuta formale deliberazione di «una sorta di stato di guerra contro l’Italia» da attuarsi utilizzando una precisa strategia di tipo terroristico ed eversivo, che andava oltre i consueti metodi e le consuete finalità delle varie forme di criminalità organizzata. Con essa si intendeva «costringere lo Stato Italiano praticamente alla resa davanti alla criminalità mafiosa». Le sentenze hanno ricordato che – dopo i fatti del 1992, che avevano determinato la morte dei magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e delle persone addette alla loro tutela – lo Stato aveva reagito elaborando normative penitenziarie di rigore a carico degli esponenti di mafia (il noto art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario) e normative di favore per quegli esponenti della criminalità organizzata che decidevano di collaborare con gli organi di polizia o giudiziari. Si trattò, come si legge nelle sentenze, di una svolta nell’atteggiamento statale, che servì a intaccare la «presunzione di onnipotenza e di libertà» dei capi di mafia. Da qui, la scelta di tentare di “ammorbidire” lo Stato minacciando i suoi organi che «perseverando nella linea dura intrapresa avrebbero provocato al Paese lutti e distruzioni a non finire».
A indurre negli esponenti della mafia l’idea di ricorrere alle nuove forme di attentato contro il patrimonio artistico, fu un trafficante di opere d’arte. Spiegò ai capi di mafia che «ucciso un giudice questi viene sostituito, ucciso un poliziotto avviene la stessa cosa, ma distrutta la torre di Pisa veniva distrutta una cosa insostituibile con incalcolabili danni per lo Stato». Fu in questa ottica e seguendo le medesime modalità esecutive, che la mafia fece seguire alla strage di via dei Georgofili, quella al Padiglione di Arte Contemporanea di via Palestro a Milano, il 27 luglio 1993, e, il giorno successivo, 28 luglio, a distanza di cinque minuti tra loro, gli attentati ai danni della Basilica di San Giovanni e della chiesa di San Giorgio a Velabro a Roma. A differenza della strage di via dei Georgofili e di quella di via Palestro, questi ultimi due attentati non provocarono morti, ma il ferimento di oltre venti persone e il danneggiamento di edifici e luoghi di culto. (Foto delle vittime e nota da:  memoria.san.beniculturali.it)

Antonio D’Agostino

27 Maggio 2003 Sant’Ilario dello Ionio (RC). Antonio D’Agostino, 59 anni, gestore di un distributore di carburanti. Viene ucciso perché ampliando la propria attività avrebbe fatto concorrenza ai clan.
Antonio D’Agostino, di 59 anni, titolare di un distributore di carburante a Sant’Ilario dello Ionio (RC), fu ucciso la sera del 27 maggio 2003, poco prima della chiusura del suo distributore, da una persona che gli sparò contro sei colpi di pistola, fuggendo poi a bordo di una automobile condotta da un complice. Da quanto è emerso dalle indagini condotte dal Commissariato di Siderno della Polizia di Stato, diretto da Rocco Romeo, avrebbero commesso l’omicidio per favorire gli interessi della cosca D’Agostino, cui l’ucciso era estraneo. Il gruppo criminale avrebbe inteso così punire il gestore del distributore di carburante che voleva ampliare il suo impianto e realizzare anche un’attività commerciale, contrastando in tal modo gli interessi della cosca.

 

Salvatore Mineo

29 maggio 1920 San Giuseppe Jato (PA). Assassinato Salvatore Mineo, 51 anni; era alla guida della Camera del Lavoro e del fronte democratico-riformista.
Salvatore Mineo era nato il 19 dicembre 1868 da un borgese, Giovanni Mineo, e da Maria Cavallaro. Cresciuto in una famiglia per l’epoca “benestante” divenne nel 1913 esattore comunale. In quello stesso anno, segnato dall’irruzione delle masse nella vita politica locale e nazionale con l’estensione del suffragio, iniziava il suo percorso di impegno diretto per la causa comune. Guidando il fronte democratico-riformista e la Camera del Lavoro, si affermò ben presto come il capo dell’opposizione all’amministrazione in carica: dal 1914 infatti era iniziata la lunga gestione mafiosa della casa comunale, con la sindacatura di Antonino Puleio che egli sprezzantemente chiamava “Ninu u latru”. Sfruttando l’emergenza dello stato di guerra gli “uomini del disonore” misero in piedi, nell’arco di pochi anni, un sistema di potere perfetto: un coacervo di violenza, illeciti di ogni specie, affarismo spregiudicato che si reggeva sull’uso della forza criminale, sul controllo di ogni fonte di ricchezza (a partire dal monopolio sulle campagne, dove mafiosi erano tutti gli affittuari e i campieri) e sull’omertà imposta grazie alle “alte complicità” nelle sfere istituzionali.
Mineo non ebbe paura e disse ciò che era sotto gli occhi di tutti: accusò pubblicamente Puleio e i suoi sodali, li denunciò agli organi di polizia e ai rappresentanti del Governo (tanto da far scattare nel dopoguerra un’inchiesta prefettizia presto bloccata dai protettori dei mafiosi) incoraggiò anche gli altri a fare lo stesso. Inoltre, attraverso una cooperativa, spinse i contadini a unirsi per chiedere le terre in affitto, come intanto stavano facendo i popolari guidati da padre Giulio Virga, i socialisti del dott. Nicolò Belli e i combattenti rientrati dalle trincee della Grande Guerra. Puleo, Santo Termini, Vincenzo Troia e gli altri mafiosi non potevano accettare questi continui attacchi. Dovevano punire una simile “tracotanza”, zittire questa voce libera. E lo fecero ordinando a due sicari provenienti da Borgetto di ucciderlo mentre stava conversando in piazza.
Era il 29 maggio del 1920. Tutti a San Giuseppe Jato compresero subito il messaggio e rimasero in silenzio. Solo quando l’associazione criminale venne sgominata – in seguito agli arresti comandati nel 1926 dal prefetto Mori – alcuni di essi raccontarono senza più freni ai giudici il solitario sacrificio di un umile eroe.
Fonte: vivi.libera.it

 

Simonetta Lamberti

 

29 Maggio 1982 Cava dei Tirreni. Simonetta Lamberti aveva 11 anni. E’ stata uccisa da un killer della camorra nel corso di un attentato il cui obiettivo era il padre, il giudice Alfonso Lamberti, procuratore di Sala Consilina.
Simonetta Lamberti è stata uccisa all’età di 11 anni, da un killer della camorra nel corso di un attentato, il cui obiettivo era il padre, il giudice Alfonso Lamberti, procuratore di Sala Consilina, con il quale stava rincasando a Cava de’ Tirreni.
L’uccisione è avvenuta per pura casualità, una coincidenza sinistra: uno dei proiettili indirizzati al padre rimbalza sulla testa della piccola, uccidendola.
Simonetta Lamberti è ricordata come la prima di una serie di bambini vittime innocenti, uccisi per caso o per particolare crudeltà durante le guerre di camorra degli anni ’80.
A Simonetta è stato subito intitolato un monumento eretto in suo onore a Cava, monumento in seguito rimosso a causa dei lavori per alcune opere pubbliche e che solo dopo circa dieci anni è stato ripristinato.
A Simonetta Lamberti è intitolato lo stadio di Cava de’ Tirreni e sono state dedicate diverse iniziative. (Fondazione Pol.i.s.)

 

Francesco Prestia Lamberti

29 maggio 2017 Mileto (CZ). Francesco Prestia Lamberti, ragazzo di 15 anni, assassinato da un coetaneo, apparentemente per motivi di gelosia.
Francesco Prestia Lamberti è morto il 29 maggio 2017, a Mileto (CZ), a soli 15 anni, ammazzato con due colpi di pistola da un coetaneo, appartenente ad una nota famiglia malavitosa locale. Motivo dell’omicidio, così come indicato nella sentenza dei giudici del tribunale dei minori, riguardo la condanna a 14 anni di reclusione nei confronti del 15enne, reoconfesso dell’omicidio, sarebbe da attribuirsi a «gelosia e anzi dal vero e proprio senso del possesso che l’accusato nutriva nei confronti di una ragazza, tanto da non tollerare che altri si sentissero o provassero interesse per lei, nonostante loro due non fossero più fidanzati».

 

Bivona (AG) 30 Maggio 1994 Ucciso Ignazio Panepinto, titolare di un impianto di calcestruzzo. 19 Settembre 1994 Uccisi Calogero Panepinto, fratello di Ignazio, e Francesco Maniscalco, operaio di 42 anni, presente all’agguato.
Ignazio Panepinto era un imprenditore,  fu ucciso a Bivona (AG) il 30 maggio del 1994. Gestiva una cava e un impianto per la frantumazione delle pietre. Probabilmente si era rifiutato di sottostare alle richieste della mafia, che imponeva un monopolio delle forniture per i lavori nella zona. Il 19 settembre sarà ucciso anche il fratello Calogero e un operaio, Francesco Maniscalco, che in quel momento era con lui.

 

Alberto Calascione

31 maggio 1973 Venezia. Alberto Calascione, finanziere mare di 25 anni, restò ucciso in un agguato sul Canal Grande.
Alberto Calascione, finanziere mare di 25 anni, la notte del 31 maggio 1973 era in pattuglia sul Canal Grande di Venezia. Mentre attraversava con i suoi colleghi il Ponte dell’Accademia a bordo del natante di servizio, alcuni individui lanciarono dal ponte una lastra di travertino. Il suo collega Vincenzo Di Stefano restò ferito gravemente, mentre il comandante Carmine Scarano rimase illeso e fu il primo a chiamare i soccorsi. Per Alberto non ci fu nulla da fare, morirà all’arrivo in ospedale. L’uomo che lanciò la lastra era un contrabbandiere a cui la Finanza aveva sequestrato il motoscafo e voleva vendicarsi.
Fonte: vivi.libera.it

 

 

 

 

e tutti gli altri di cui non conosciamo i nomi.

“Si usa portare un fiore sulla tomba dei propri defunti, ma a volte quella lastra ci fa sentire ancora più grande il dolore,
a volte non ci sono tombe su cui piangere, tante altre non ci sono più lacrime da versare.
 
 
Ricordiamo. Chi abbiamo amato non svanirà nel nulla, vivrà finché non svanirà l’ultimo pensiero dentro di noi.”
 
Rosanna
 
 
 
 
 

Marco Padovani aveva 26 anni, quando il 13 Dicembre del 1982 era stato rapito da un commando a Brendola (VI), davanti all’industria di laterizi del padre, e portato in Calabria, tenuto in prigionia in una grotta sull’Aspromonte, sensa poter parlare con qualcuno o vedere la luce, se non quella di un flash per una foto poi fatta recapitare ai genitori. Era stato liberato il 23 Maggio dell’anno successivo. Aveva cercato di riprendere a vivere ma non ce l’ha fatta. A pochi giorni dall’anniversario della sua liberazione, il 15 Maggio 1985, si è tolto la vita lasciando questo messaggio: “Non credevo che l’esaurimento nervoso fosse una bestia così brutta. Vado a cercare la pace in un altro mondo, vado a Bardolino: un posto che come nessun altro mi ha dato pace”

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